TIEPOLO, Paolo
– Nacque a Venezia il 22 maggio 1523, figlio primogenito del patrizio Stefano Tiepolo (che fu procuratore di S. Marco) e di Cecilia Priuli.
Ebbe quattro fratelli: Benetto (1524-1587), Bernardo (1525-1607), Andrea (1528-1570) e Almorò (1533-1597). La famiglia risiedeva nella contrada dei Santi Apostoli e – come raccomandato dal padre Stefano ai figli nel suo testamento (Davis, 1962, pp. 63 s.) – conservò a lungo la tipica struttura della ‘fraterna’, formata da più fratelli coresidenti. Paolo sposò nel 1547 Angela Pasqualigo, figlia di Lorenzo, procuratore di S. Marco, ma dal matrimonio ebbe solo due figlie: Cecilia (andata sposa nel 1565 a Nicolò Sagredo, con dote di 3000 ducati) e Orsetta. Rimasto vedovo, Paolo si risposò nel 1563 con Elisabetta Delfino, fu Zuanne, e di nuovo nel 1578 con Marina Venier di Daniele; poiché anche queste nozze non gli diedero figli maschi, la continuità del casato fu assicurata dal fratello Almorò, che aveva sposato Lucietta Moro nel 1561.
La famiglia Tiepolo vantava un solido patrimonio: nella decima del 1581 dichiarò una rendita di 1041 ducati, di cui 898 da affitti in denaro o in natura, il resto da case in città e dazi. Possedeva 85 campi a Mestre, 28 a Treviso, 60 a Piove di Sacco ed era interessata alle bonifiche per i suoi 380 ‘campi incerti’ nel Polesine di Rovigo. A questi beni si aggiungeva la gestione di terre dell’abbazia della Follina (presso Ceneda), prese in enfiteusi da Stefano, che rendevano annualmente 142 ducati e che furono oggetto intorno al 1570 di un’aspra contesa giudiziaria con il cardinale Carlo Borromeo (Lowry, 1971, pp. 363-365).
Si può supporre che Tiepolo abbia avuto un’educazione umanistica. Aveva solo ventun anni quando l’editore Michele Tramezzino gli dedicò il volgarizzamento di Pietro Lauro della Historia d’Egesippo (Venezia 1544). E quando fu ambasciatore alla corte di Spagna si circondò di letterati, come il veneziano Gianmichele Bruto, che esortò a scrivere la storia di Venezia. Inoltre, nei suoi dispacci non mancano citazioni da autori latini (Cicogna, 1845, p. 28).
Una formazione umanistico-retorica era del resto utile per la carriera pubblica, i cui precoci inizi furono sicuramente favoriti dal prestigio del padre: nell’ottobre del 1549, mentre era savio agli Ordini, Paolo fu eletto ambasciatore straordinario a Mantova per le nozze del duca Francesco III Gonzaga con Caterina d’Austria. La successiva elezione ad ambasciatore in Francia nel 1553 non ebbe effetto per la sua rinuncia; ma Tiepolo fu poi eletto il 21 maggio 1554 ambasciatore ordinario presso Ferdinando, re dei Romani, fratello di Carlo V. Ricevette le sue commissioni il 19 ottobre 1554 e raggiunse la corte di Ferdinando il 17 novembre. Fu testimone dei grandi avvenimenti di quegli anni, dalla pace religiosa di Augusta del 1555 all’abdicazione dell’imperatore Carlo V. Nell’agosto del 1557 ottenne l’autorizzazione al rimpatrio.
A Venezia, il 12 ottobre lesse al Senato la sua relazione in cui delineò acutamente il diverso orientamento politico e religioso di Ferdinando e del figlio Massimiliano (il futuro Massimiliano II), ostile alla Spagna e incline a una intesa coi luterani di Germania.
La morte del padre, avvenuta in quello stesso anno, non frenò la carriera di Tiepolo, che nel novembre del 1557 fu eletto savio di Terraferma e il 6 giugno 1558 fu designato dal Senato ambasciatore ordinario al re di Spagna Filippo II, che allora si trovava nelle Fiandre. Ricevette le commissioni il 22 ottobre e raggiunse Bruxelles il 16 dicembre. Nell’autunno del 1559 seguì Filippo II in Spagna e rimase alla sua corte fino all’autunno del 1562. L’insolita durata dell’ambasceria mise a dura prova le finanze familiari, tanto che i fratelli dovettero chiedere al Senato un dono di 1000 ducati. Al ritorno Tiepolo lesse la sua relazione al Senato il 19 gennaio 1563.
Fu la prima relazione veneta sulla Spagna di Filippo II e, pur non essendo interamente libera da pregiudizi (giacché, per esempio, l’autore mostrò di condividere l’ossessione spagnola nei riguardi di maranos, moriscos ed eretici), essa anticipò molti giudizi poi accolti dagli altri ambasciatori veneti. Tiepolo segnalò i problemi politici e religiosi nelle Fiandre, il rapace fiscalismo nel Regno di Napoli, la volontà di autonomia del Regno di Aragona e la predilezione di Filippo II per i castigliani. Allo sguardo del politico veneziano non sfuggirono inoltre il processo di aristocratizzazione della società spagnola (in seguito al quale persino «l’artigiano si veste l’abito di gentiluomo e cavaliero», Le relazioni degli ambasciatori..., a cura di E. Alberi, s. 1, V, 1861, p. 17), le difficoltà delle finanze del re di Spagna, con le sue ripetute bancarotte, e la funzione politica accentratrice dell’Inquisizione spagnola, unico tribunale capace di scavalcare autonomie e privilegi locali. Il giudizio etico sulle conquiste americane fu prevalentemente negativo: certamente i conquistatori dimostrarono il loro valore, ma furono aiutati dalle divisioni e dalla debolezza militare delle popolazioni delle Americhe. Lo spopolamento delle terre americane era poi dipeso in parte dalle malattie introdotte dagli europei, come il vaiolo, «ma molti più senza comparazione perirono per i mali trattamenti de’ spagnoli» (p. 34).
Ancor prima del suo ritorno, nel settembre del 1562 era stato rieletto savio di Terraferma (carica che avrebbe ricoperto nuovamente, per un semestre, nel 1564 e nel 1565); nel 1563 fu provveditore al Sale e nell’ottobre del 1564 provveditore alle Fortezze. Nel marzo del 1565 fu nominato ambasciatore a Roma presso papa Pio IV, dopo la morte del quale continuò il suo incarico diplomatico presso il nuovo pontefice Pio V, fino all’ottobre del 1568. I difficili rapporti con la S. Sede sia in materia di inquisizione, sia per l’emanazione della bolla In Coena Domini, considerata lesiva dei diritti della sovranità veneziana, furono oggetto della relazione presentata al Senato nel marzo del 1569.
Questa scrittura politica contiene un famoso paragone tra il mondano Pio IV, «principe che attendeva al fatto suo solamente» e che «nella religione... metteva pochissima cura», e Pio V, tutto pieno di «zelo e severità... nelle cose della religione» (Le relazioni degli ambasciatori..., cit., s. 2, IV, 1857, p. 171). Esaminando i progressi della riforma della Chiesa, l’ambasciatore riconobbe che il nuovo pontefice aveva fatto molto per moralizzare, almeno nelle apparenze, lo stile di vita della corte romana, ma giudicò affrettate e troppo radicali le sue misure, con riguardo sia alla nuova disciplina degli Ordini religiosi, sia alla delicata materia dei processi del S. Uffizio, dove Pio V «non si contenta di gastigare i nuovi delitti, che va diligentemente investigando i vecchi di dieci e venti anni» (p. 172): perciò aveva fatto condannare a morte Pietro Carnesecchi, precedentemente assolto da Pio IV, e continuava a guardare con sospetto l’autorevole patriarca di Aquileia Giovanni Grimani, che pure era stato solennemente assolto dal Concilio di Trento.
Anche in materia temporale Pio V «fin da principio fu molto gagliardo ad esercitare l’autorità sua» (p. 171) e si mostrò scarsamente disponibile alle mediazioni della diplomazia; anzi l’ambasciatore non esitò ad affermare che il pontefice «non intende punto le ragioni di Stato» (p. 179). Con assoluta intransigenza il papa tendeva a riaffermare l’autorità del Papato sugli Stati europei «non solo nelle cose spirituali, ma anco nelle miste, anzi in quelle ancora che sono pure temporali, siccome nella bolla in Coena Domini si può comprendere» (p. 179). L’ambasciatore riconobbe però che, mentre Pio IV era stato sospettato di voler coltivare gli interessi temporali del proprio casato e aveva perciò suscitato inquietudine nei principi italiani, Pio V «dimostra animo quieto, e soprattutto niente ambizioso di quello d’altri, se non che veramente desidereria una lega tra’ principi cattolici, prima contro gli eretici, e poi contro gl’infedeli» (p. 180).
Rientrato a Venezia, nell’ottobre del 1568 Tiepolo fu eletto fra i consiglieri ducali. Nel 1569 fu nominato savio all’Eresia e fu chiamato a fare parte del Consiglio dei dieci. Nel 1571 fu savio di Consiglio. Queste cariche dimostrano che egli era orami entrato nell’élite di governo, di cui avrebbe continuato a fare parte negli ultimi quindici anni della sua vita. Nei rapporti con Roma poteva essere considerato un patrizio filocuriale, malgrado i severi giudizi su Pio V e la tenace difesa dei diritti familiari sull’abbazia della Follina contro gli abati commendatari Carlo Borromeo e Tolomeo Gallio. Certamente egli si rese caro al nunzio e alla S. Sede con la vigorosa difesa della adesione di Venezia alla Lega santa contro Selim II, contenuta in un discorso tenuto in Senato nell’aprile del 1571 (Nunziature di Venezia, 1972, IX, p. 491). Perciò, dopo la vittoria di Lepanto apparve logica la scelta del Senato di eleggerlo come ambasciatore straordinario a Roma con l’incarico di definire alcune questioni relative alla spartizione dell’enorme bottino e anche per preparare gli accordi fra gli alleati in vista della campagna militare dell’anno seguente. Partì per Roma il 18 novembre 1571 e rimase alla corte di Pio V fino alla morte del papa, avvenuta il 1° maggio 1572. Le vicende della guerra, della cui gestione politico-diplomatica era stato uno dei protagonisti, furono da lui narrate in un’opera storica rimasta manoscritta (Venezia, Biblioteca Marciana, Mss. It, VII.224 [= 8309], pp. 1-324: Storia della guerra di Cipro, 1569-1574).
Fermatosi a Roma per ordine del Senato, Tiepolo si unì nel giugno del 1572 all’ambasceria straordinaria di omaggio al nuovo pontefice Gregorio XIII e fu confermato nel settembre del 1572 come ambasciatore ordinario presso la S. Sede. In tale veste, nell’aprile del 1573, dovette informare il papa della pace separata sottoscritta dalla Repubblica con gli Ottomani e dovette sopportare l’ira del pontefice e di tutta la corte per una decisione che troncava le speranze romane di nuove vittorie sui Turchi. Solo tra maggio e giugno egli riuscì a placare lo sdegno di Gregorio XIII e a normalizzare le relazioni veneto-pontificie, con l’aiuto dell’ambasciatore straordinario Niccolò Da Ponte. Poté quindi trattare con successo la spinosa pratica della nomina di un coadiutore per il patriarca di Aquileia Giovanni Grimani: il prescelto, finalmente approvato dal pontefice, fu Alvise Giustinian.
Tiepolo rientrò a Venezia nell’aprile del 1576 e lesse la consueta relazione al Senato il 3 maggio.
Ribadì un giudizio sostanzialmente positivo sulla riforma morale della Curia e della città di Roma durante i pontificati di Pio V e Gregorio XIII, benché quest’ultimo tenesse accanto a sé un figlio naturale, Giacomo Boncompagni, verso cui si mostrava troppo munifico, provocando le critiche dei suoi più rigidi consiglieri spirituali. Quanto ai rapporti del Papato con le grandi monarchie, Tiepolo rilevò la netta prevalenza dell’influenza del re di Spagna Filippo II: con lui il pontefice poteva avere contrasti giurisdizionali anche aspri, ma in sostanza il Papato dipendeva dalla sua protezione, mentre il re di Francia appariva impotente per la crisi politico-religiosa del suo regno. I cattivi rapporti con l’imperatore Massimiliano II e le speranze rivolte verso il figlio Rodolfo (il futuro Rodolfo II) erano poi il segno dell’attenzione del pontefice per gli affari tedeschi, in funzione della lotta antiprotestante e della speranza di recuperare una parte di quelle terre al cattolicesimo.
La piena soddisfazione di Venezia per l’importante attività diplomatica di Tiepolo fu attestata dalla sua nomina, il 20 agosto 1576, a procuratore di S. Marco e dalla prestigiosa elezione, in dicembre, tra i riformatori dello Studio di Padova. Nel 1576 e nel 1577 Venezia fu tormentata da una gravissima pestilenza e i procuratori Marcantonio Barbaro, Giacomo Foscarini e Paolo Tiepolo furono nominati sopraprovveditori alla Sanità per fare fronte, anche con mezzi straordinari, all’epidemia.
Nel 1577 concorse alla nomina ducale, ma fu sconfitto da Sebastiano Venier; nuovamente nell’elezione del 1578 fu vicino a divenire doge, ma dovette ritirarsi di fronte alla candidatura vincente di Niccolò Da Ponte. È un esempio tipico della gerontocrazia veneziana il fatto che Tiepolo, allora cinquantacinquenne, fosse criticato dagli avversari per aver aspirato al dogato in un’età ancora troppo giovanile.
L’insuccesso elettorale non interruppe la carriera pubblica e Tiepolo continuò a essere nominato alle cariche maggiori: fu ininterrottamente rieletto nella zonta del Consiglio dei dieci dal 1577 al 1581 e fu scelto come savio di Consiglio per sei mesi ogni anno dal settembre del 1576 al dicembre del 1584. In tale veste svolse nel 1580-81 opera di mediazione nella disputa con la S. Sede per la visita apostolica a Venezia. Nel 1581 fu tra gli ambasciatori straordinari incaricati di scortare nel dominio veneto l’arciduchessa Maria, vedova dell’imperatore Massimiliano II.
Ma proprio la continua presenza nelle maggiori cariche di una ristretta cerchia di patrizi potenti, come lo stesso Tiepolo, i fratelli Soranzo (Giacomo e Giovanni), Foscarini e Barbaro, suscitò la reazione del patriziato minore, che finì con il rivolgersi contro il potente Consiglio dei dieci e la sua zonta, appropriatisi attraverso un processo secolare di un ruolo centrale nel governo veneziano. La protesta si manifestò nell’ottobre del 1582, con il rifiuto del Maggior Consiglio di eleggere tre autorevoli candidati alla zonta dei Dieci, fra cui lo stesso Tiepolo. Nei vivaci dibattiti che seguirono,Tiepolo si distinse per un vibrante discorso tenuto in Senato il 18 novembre 1582 in favore dei Dieci; ma né i suoi sforzi, né quelli degli altri membri dell’oligarchia riuscirono a impedire la riforma costituzionale che portò nel 1583 all’abolizione della zonta dei Dieci e al ripristino dell’autorità del Senato (dove peraltro Tiepolo continuò a svolgere funzioni direttive, grazie alla frequente elezione a savio di Consiglio).
Morì l’11 aprile 1585 e fu sepolto in Ss. Giovanni e Paolo, chiesa dei domenicani particolarmente legata ai fasti del suo casato.
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