Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso della sua lunga carriera Paolo Uccello segue un percorso del tutto autonomo rispetto alla linea portante della pittura fiorentina quattrocentesca. Nella sua opera infatti un uso sperimentale della scienza prospettica, che rifiuta la lucidità della teorizzazione di Leon Battista Alberti, si affianca a un immaginario figurativo debitore della cultura tardo-gotica nella quale egli si era formato.
“Eh Paulo, cotesta tua prospettiva ti fa lasciare il certo per l’incerto”: questo, secondo Giorgio Vasari, il commento dello scultore Donatello in merito agli studi prospettici sempre più elaborati che Paolo Uccello gli mostrava di continuo.
Vasari ricorda in particolare i “mazzocchi”, copricapi di forma circolare in uso nella Firenze del Quattrocento, che il pittore raffigura spesso nelle sue opere (li portano alcuni cavalieri nella Battaglia di San Romano e due figure in primo piano nell’affresco con il Diluvio e la recessione delle acque). Al Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi si conserva ancora oggi, tra i rari disegni di Paolo Uccello, un foglio in cui la struttura di uno di questi mazzocchi è indagata attraverso un reticolo prospettico di straordinaria complessità. Questi disegni, fini a se stessi e non preparatori per affreschi o dipinti, costituiscono una delle testimonianze più significative dell’ingegno “sofistico e sottile” del pittore (Vasari). Lo studio appassionato della prospettiva è un elemento che, di per sé, suggerirebbe di collocare il pittore fra i protagonisti del primo Rinascimento fiorentino.
Paolo Uccello però non abbraccia mai il naturalismo di Masaccio, espressione della nuova società borghese, rimanendo legato ad alcuni aspetti della cultura cortese, tardo-gotica, nella quale affondano le radici della sua formazione. La sua lunga parabola artistica è quindi del tutto eccentrica rispetto all’asse della pittura fiorentina quattrocentesca che da Masaccio, attraverso Filippo Lippi, arriva fino al primo Botticelli, tanto è vero che alcune delle opere tarde mostrano un ritorno quasi nostalgico a una temperie culturale più vicina al gotico internazionale di Pisanello che a Piero della Francesca.
La formazione di Paolo di Dono, noto come Paolo Uccello forse per il suo spiccato interesse per la raffigurazione degli animali, e degli uccelli in particolare, avviene nella maggiore bottega fiorentina del tempo, quella dello scultore Lorenzo Ghiberti, accanto ad altri protagonisti della scena fiorentina quali Masolino da Panicale e Donatello. Gli anni in cui il pittore è documentato nella bottega di Ghiberti (1412-1416) sono quelli in cui il maestro è impegnato nei lavori per la seconda porta bronzea del battistero, quella con scene del Nuovo Testamento. Tra il 1425 e il 1430 il pittore soggiorna a Venezia, dove lavora come mosaicista alla decorazione della basilica di San Marco. La scelta di allontanarsi da Firenze si deve probabilmente alla mancanza di commissioni di un certo prestigio; certo è che l’assenza dalla città negli anni chiave in cui Masaccio lavorava alla cappella Brancacci, e in cui muovevano i primi passi Beato Angelico e Filippo Lippi, non favorisce l’emancipazione di Paolo dalla sua formazione ghibertiana. Le Storie di Adamo ed Eva affrescate nella parete est del Chiostro Verde di Santa Maria Novella a Firenze, databili ai primi anni Trenta, sono infatti accostabili alla formella con il medesimo soggetto della Porta del Paradiso del battistero, eseguita da Ghiberti intorno al 1425. Di qualche anno successivi dovrebbero essere gli affreschi con Storie di santo Stefano nella prima cappella destra del duomo di Prato, dove, nello sfondo cittadino della Lapidazione di santo Stefano, si riconosce una precisa citazione della cupola della Sacrestia Vecchia di San Lorenzo a Firenze (1428), opera di Brunelleschi.
Al 1436 risale il Monumento a Giovanni Acuto, che il pittore dovette eseguire due volte perché la committenza era rimasta insoddisfatta della prima versione: non è possibile stabilire se a Paolo fosse stato richiesto di modificare la gamma cromatica, lo scorcio prospettico, o altro ancora. La figura del condottiero, a differenza della mensola e del sarcofago che lo sorreggono, non è vista dal basso verso l’alto per permettere una migliore leggibilità dell’immagine da parte dello spettatore. È possibile che il pittore abbia dovuto abbandonare il rigore dei suoi calcoli matematici per venire incontro alle richieste della committenza. Nell’affresco di Santa Maria del Fiore, primo monumento equestre del Rinascimento, le forme naturali del cavallo e del cavaliere sono idealmente racchiuse entro un disegno nitido, di nobile purezza, dove si indovina facilmente la passione di Paolo per il rigore geometrico.
Alla fine degli anni Trenta sono datate le tre celebri tavole con la Battaglia di San Romano (Firenze, Uffizi; Parigi, Louvre; Londra, National Gallery) dipinte con ogni probabilità per Leonardo di Bartolomeo Bartolini e passate poi, alla fine del secolo, dai suoi eredi a Lorenzo il Magnifico – che non esitò a usare la forza per assicurarsi tutto il ciclo. I dipinti illustrano, in tre momenti successivi, lo scontro tra Fiorentini e Pisani avvenuto il primo di giugno 1432 nel corso della prima fase della guerra di Lucca, che si sarebbe riaccesa nel 1437-1438, anni in cui dovrebbe datarsi la commissione dei dipinti. Le lance spezzate a terra nelle tavole di Firenze e di Parigi suggeriscono le direttrici di un’ideale prospettiva che, in modo del tutto innaturale, assoggetta la realtà alle sue regole bizzarre. Anche i cavalli, impennati o caduti a terra, sono raffigurati come volumi astratti. Quella descritta da Paolo non è una battaglia, ma un torneo cavalleresco, tanto che nel secondo piano del dipinto di Firenze c’è spazio persino per una caccia alla lepre. Gli animali, tra cui un elegante levriero, sono dipinti quasi come se si trovassero in primo piano, in spregio a un’applicazione razionale delle regole della prospettiva che li avrebbe voluti molto più piccoli: lo sperimentalismo di Paolo è infatti lontano dall’organica visione dello spazio di Piero della Francesca.
Nel 1443-1444 l’artista consegna quattro cartoni per altrettante vetrate degli oculi del tamburo di Santa Maria del Fiore: uno di questi sarebbe poi stato realizzato su cartone di Ghiberti. Poco dopo, tra il 1445 e il 1446, Paolo accetta l’invito dell’amico Donatello a recarsi a Padova, dove realizza alcuni affreschi perduti. Al suo rientro a Firenze esegue, tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta, la sua opera più significativa, la lunetta con il Diluvio e la recessione delle acque nel Chiostro Verde di Santa Maria Novella. Si tratta di un affresco straordinariamente complesso, in cui sono raffigurati due momenti successivi dell’episodio biblico, in una composizione affollata e di difficile lettura. All’intellettualistico gioco dei colori adoperati dall’artista (l’arca di Noè completamente rossa, le figure uniformemente grigie) si affiancano brani di grande naturalismo, come l’albero scosso dal vento in secondo piano. Rifiutando le regole della prospettiva albertiana, Paolo Uccello introduce qui una costruzione con due punti di fuga. Da un lato l’artista supera così l’astratta scatola prospettica con un unico punto di fuga, dall’altro orchestra una scena che, nell’ horror vacui di uno spazio gremito dai corpi di uomini e cavalli, si rivela profondamente antinaturalistica.
La principessa che compare a sinistra nel San Giorgio e il drago (Londra, National Gallery, databile al 1460-1470), per le sue proporzioni eleganti, i suoi abiti, il profilo affilato, è una tipica eroina cortese. In questo dipinto, realizzato su tela (supporto ancora raro nella pittura fiorentina del tempo), Paolo continua a utilizzare le sue straordinarie conoscenze prospettiche in un contesto antinaturalistico. Sia il drago che San Giorgio sono raffigurati nell’atto di avanzare dal fondo verso lo spettatore, e le ali del mostro, con quei tondi arditamente scorciati, sono un saggio della padronanza dell’artista delle regole della geometria; ma la grotta a sinistra sembra di cartapesta, e il tono della narrazione è intenzionalmente quello della favola.
Nel 1465, e di nuovo nel 1468-1469, il pittore è documentato a Urbino, dove dipinge la predella di una pala d’altare per la Compagnia del Corpus Domini, protetta da Battista Sforza. Il risultato non convince però la committenza, che propone a Piero della Francesca di eseguire la pala. Quest’ultima sarà infine realizzata da Giusto di Gand (il dipinto è oggi a Urbino, presso la Galleria Nazionale delle Marche). L’episodio dimostra come, ormai anziano, Paolo Uccello cerchi lavoro fuori Firenze, senza troppo successo; il rifiuto di Piero di terminare la pala d’altare urbinate sembra sancire l’inconciliabilità tra due modi diversissimi di intendere la prospettiva. Fra le ultime opere dell’artista c’è la Caccia notturna (Oxford, Ashmolean Museum), dove, all’interno di un ordine rigidamente simmetrico e artificioso scandito dai tronchi degli alberi, si dispone una miriade di figurine colorate, sempre più piccole man mano che si va verso il punto di fuga centrale, ennesimo connubio di rigore e atmosfera favolistica.