VILLAGGIO, Paolo
VILLAGGIO, Paolo. – Nacque a Genova, in corso Galliera, in una giornata di pioggia che ingrossava il Bisagno, il 30 dicembre 1932, alle 17:12, più di quaranta minuti dopo Piero, suo fratello gemello, con il quale, nonostante biografie assai diverse e attitudini radicalmente difformi, conservò sempre una prossimità e un’intesa affettiva e intellettuale incondizionate. Il padre, Ettore, era ingegnere, la madre, Maria Faraci, insegnante di lingua tedesca.
La prima infanzia fu segnata dallo scoppio della guerra: il 2 febbraio 1941 una salva della marina inglese colpì l’area dove si trovava la sua scuola. Lo spettacolo di morte e devastazione di quel giorno e dei bombardamenti successivi rimase indelebile nella sua memoria. Però, al di là del periodo bellico, infanzia e adolescenza trascorsero all’interno di una famiglia benestante, il cui capofamiglia era un professionista molto stimato, in una città, come Genova, dove la serenità della provincia, la vicinanza del mare, i germi molteplici della cultura musicale e teatrale (che ebbero una influenza non secondaria nella formazione delle sue aspirazioni) funzionarono sia da incubatore sia da territorio d’appartenenza e origine con il quale conservò sempre un saldo legame ideale e affettivo.
Frequentò, con il fratello, il liceo Andrea D’Oria, scoprendo nelle apparenze fisiche e nella soffocante timidezza i tratti di una inadeguatezza che non sarà faticoso riscoprire proiettati nelle sue creazioni più celebri. Dopo il liceo si iscrisse a giurisprudenza ma l’incontro decisivo accadde nel 1952, con il teatro. Per la regia di Luigi Squarzina, una versione dell’Amleto con Vittorio Gassman (la prima integrale in Italia), suscitò in lui il sogno del palcoscenico, sulla spinta del quale nel 1955 entrò in una filodrammatica piuttosto nota in città, la Compagnia goliardica Mario Baistrocchi (specializzata in numeri di satira e varietà) e più o meno nello stesso periodo affiancò un amico di famiglia, che conosceva sin da ragazzino, Fabrizio De André, con la sua band, The Crazy Cowboys and the Sheriff One, in performances musicali accompagnate da parodie goliardiche che attrassero l’attenzione di un dirigente della Costa Crociere. Furono ingaggiati per diverse stagioni a bordo di crociere nel Mediterraneo e nei Caraibi, per spettacoli ai quali partecipò anche Silvio Berlusconi.
In realtà l’anno in cui la vita di Villaggio segnò un incontro decisivo fu il 1954, quando conobbe una ragazza libera e anticonformista, Maura Albites, che lo corteggiò portando a buon fine l’inizio di una relazione che le reciproche timidezze sembravano inutilmente prorogare. Villaggio non terminò mai il corso di laurea, anche se, come ha raccontato la Albites, fu sempre un lettore avido, soprattutto di letteratura e storia. Quando Maura si recò a Londra per lavorare alla pari in una famiglia e apprendere la lingua, Villaggio la seguì, facendo lavori occasionali (il cameriere, l’agricoltore) e passando molto tempo nei cineclub alla scoperta di quei classici del cinema il cui dileggio era destinato a diventare una delle sue più celebri creazioni (come nella notissima sequenza del cineforum, in Il secondo tragico Fantozzi, 1976, di Luciano Salce, in cui il ragioniere protagonista ha il coraggio di dichiarare che un classico della cinematografia sovietica è una «cagata pazzesca». Una scena che Villaggio stesso riteneva tra le sue più riuscite invenzioni). Si sposarono nel 1957 e nel 1959 nacque la figlia Elisabetta, nel 1962 il figlio Pierfrancesco (detto Piero) e benché nello stesso anno, per affrontare le spese familiari, Villaggio fosse assunto come impiegato alla Cosider (tra le più importanti industrie di impianti siderurgici in Italia), fu sempre nel 1962 che firmò il testo di due canzoni di De André destinate a diventare dei classici (Il fannullone e Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers). Nel 1966 Ivo Chiesa lo chiamò a debuttare al teatrino in piazza Tommaseo, sessanta posti, noto per una programmazione non convenzionale, e nel 1967 Maurizio Costanzo, su segnalazione di Squarzina, assistette a un suo spettacolo e la sera stessa gli propose un contratto per il suo teatro di Roma, il Sette per Otto.
I monologhi di Villaggio, nella capitale, ebbero un successo di cui è difficile ricordare i precedenti. Lo stesso a Milano, al Derby, il locale che, all’epoca, era la scena di talenti come Cochi e Renato, Enzo Jannacci, Dario Fo. Il 1967 fu l’anno in cui lasciò l’impiego (la cui esperienza diventò fondamentale per la creazione del suo personaggio più celebre, il ragionier Ugo Fantozzi) e iniziò a lavorare alla radio in programmi come Il sabato del Villaggio e Formula Uno. Ma fu con la televisione, l’anno successivo, nel programma Quelli della Domenica che il suo stile di scrittura, intrattenimento, recitazione e comicità mostrò il proprio sorprendente potenziale, soprattutto in personaggi come Giandomenico Fracchia e il professor Kranz: il primo è un concentrato di sottomissione, remissività, disagio psicomotorio incarnati nella figura di un dipendente alle prese con superiori tirannici e disumani, il secondo è una caricatura surreale di conduttore e prestigiatore isterico e sadomasochista che aggredisce il pubblico cui propone numeri di attrazione insensati e inconcludenti. Si tratta, per certi versi, di due facce della stessa medaglia che, se da una parte si prestano a una troppo esplicativa analisi freudiana (per il primo ha sempre detto di essersi ispirato al padre che con Fracchia sembra condividesse tratti di inibizione e frustrazione, per il secondo alla madre, uno spirito energico e talvolta autoritario – che insegnava il tedesco), dall’altra costituiscono anche una sorta di alfa e omega dell’escursione psicologica e narrativa del suo humour che frequentemente si basava sul chiaroscuro di umiliazione e ferocia. È la ragione per la quale Villaggio divenne straordinariamente popolare ma anche oggetto di un’avversione che affonda in una diffusa antipatia tale da alimentare in egual misura la sua notorietà: nella televisione italiana degli anni Sessanta, ispirata al decoro e all’ideale soppressione di conflitti dei salotti familiari della piccola e media borghesia, l’irruzione di un fantasista fallito dall’intonazione tedesca capace di accidentale autolesionismo e di latente aggressività nei confronti del pubblico («Zitta lei, vecchia imbecille!», disse a una popolare e anziana figurante del pubblico dello studio televisivo), ebbe l’effetto di un vero e proprio «colpo di Stato» (Arnaldi, 2018, p. 49) e di una innovazione inaudita di toni e temi del varietà televisivo che aveva ereditato la struttura a sketch del teatro leggero e della rivista. Continuò a frequentare il piccolo schermo con successo (Canzonissima, 1969; Gran varietà, 1974; Villaggio Quiz, 1975) anche dopo che nel 1971 aveva ottenuto un successo editoriale impressionante riunendo in un libro (Fantozzi, Milano 1971), i racconti delle peripezie del ragioniere omonimo, in parte pubblicati in una rubrica del settimanale L’Europeo, a partire dal 1968. Il libro, che ebbe una decina di seguiti editoriali, e che avrebbe superato il milione di copie vendute, rivitalizzava la letteratura umoristica con invenzioni psicologiche e narrative del tutto originali.
Il mondo impiegatizio reinventato in forme satiriche e paradossali, il gusto surreale e grottesco che sembra attingere da forme di estremismo kafkiano – anche se Evgenij Evtušenko parlò esplicitamente di eredità gogoliana – come dai classici dei cartoni animati, ha la sua forza in un pastiche linguistico allo stesso tempo originale e popolare dove i congiuntivi sbagliati, il gergo scientifico («salivazione azzerata», «craniata»), i neologismi («megadirettore megagalattico», «lingua felpata», «mani spugnate», «coglionazzo», «merdaccia»), la letteratura mistica (le visioni dei santi), la mimesi dell’effetto speciale cinematografico (la nuvoletta dell’impiegato), l’allusione fantastica (l’«eventistica danzante», il «consiglio dei dieci assenti», il «Gran Maestro dell’Ufficio Raccomandazioni»), l’uso ostinato dell’iperbole («orrendo», «pazzesco», «terrificante», «tragico» ecc.), da una parte rivelano risorse di scrittura e cultura che costituiscono probabilmente la fonte autentica della tastiera espressiva con la quale Villaggio sembrava governare tanti media differenti, dall’altra la popolarità della lingua ‘fantozziana’ fu tale che, non solo l’aggettivo (fantozziano) entrò a pieno diritto nei vocabolari dell’italiano, ma un numero considerevole di parole o modi di dire («come è buono lei») divennero d’uso comune nel vissuto quotidiano di chiunque.
Dopo il teatro, la radio, la televisione e l’editoria era inevitabile che arrivasse il cinema che, fino agli anni Settanta, rivestiva un ruolo egemone nel sistema dei mass media. Fantozzi diventò un film di grande successo grazie alla regia efficace e meticolosa di Luciano Salce nel 1975. In realtà Villaggio all’epoca aveva già lavorato in tredici film (alcuni di importanti autori come: Brancaleone alle crociate, 1970, di Mario Monicelli; Senza famiglia, nulla tenenti cercano affetto, 1972, di Vittorio Gassman; Non toccare la donna bianca, 1974, di Marco Ferreri; La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone, 1975, di Pupi Avati), ma fu con la trasposizione sul grande schermo del suo personaggio più popolare che iniziò una saga destinata a contare più di dieci titoli. Grazie ad essi, la comicità d’azione (il cui modello è lo slapstick, ovvero lo stile delle farse d’azione delle ‘comiche’ del muto: una specialità di Neri Parenti che acquisì il ruolo di regista per antonomasia delle disavventure di Fantozzi) divenne un importante genere di sfruttamento popolare destinato a un successo transgenerazionale anche, e soprattutto, con i numerosi passaggi televisivi. Lo prova la grande popolarità di cui godono, tutt’ora, anche le figure di contorno (la moglie Pina interpretata prima da Liù Bosisio e poi da Milena Vukotic; il ragionier Filini, che ha il volto dell’attore Gigi Reder; il megadirettore megagalattico interpretato da Paolo Paoloni; la signorina Silvani di Anna Mazzamauro). Fu un successo, come dirà il sociologo Domenico De Masi (in Sesti, 2017) che per certi versi influenzò anche le scienze sociali spingendole a una messa a fuoco del mondo degli impiegati fino al dopoguerra sottovalutato a favore del mondo del proletariato e degli operai.
Nel decennio successivo, Villaggio continuò con successo a usare televisione (dal 1985 anche sulle reti Mediaset), editoria e cinema (spesso felicemente in coppia con Renato Pozzetto e Lino Banfi), senza soluzione di continuità anche se nella sua vita si manifestarono alcune criticità che finirono per avere delle conseguenze piuttosto drammatiche. La prima fu l’accentuarsi di una tendenza bulimica per la cura della quale nessuna forma di assistenza o medicalizzazione risultò proficua, la seconda fu la tossicodipendenza del figlio Piero (iniziata alla fine degli anni Settanta) che dopo numerosi tentativi falliti di riabilitazione portò nel 1986 prima alla detenzione e poi all’affidamento del ragazzo alla comunità di San Patrignano.
Esperienza controversa che lo stesso Piero, che riuscì finalmente a liberarsi della droga, ha raccontato in un libro (Non mi sono fatto mancare niente, Milano 2016). I metodi del fondatore, Lorenzo Muccioli, implicavano la violenza, talvolta letale. La morte per percosse di uno dei giovani affidati all’istituto portò a un processo nei confronti di Muccioli durante il quale fu lo stesso Paolo Villaggio a offrire una testimonianza a favore dell’imputato.
Nel 1987 si candidò alle elezioni politiche con Democrazia proletaria (una formazione alla sinistra del Partito comunista italiano per il quale sempre disse di aver nutrito simpatie e di aver votato), sette anni dopo invece si candidò con i Radicali. Non riuscì a essere eletto in nessuna delle due occasioni, ma nel 1990, quando si erano diradate le sue prestazioni cinematografiche e la loro forza commerciale, il grande cinema, quello di Federico Fellini, che lo chiamò a interpretare insieme a Roberto Benigni il suo ultimo film (La voce della luna) sembrò quasi improvvisamente conferirgli un’autorevolezza artistica che l’immenso sfruttamento commerciale cinematografico dei decenni precedenti sembrava aver contaminato nonostante l’incandescenza dei suoi esordi teatrali e televisivi accolti con entusiasmo da intellettuali come Ennio Flaiano e Sergio Saviane. Lo testimoniarono i premi prestigiosi che iniziò a ricevere: nel 1990 il David di Donatello come miglior protagonista nel film di Fellini, nel 1992 il Leone d’oro alla carriera alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia, nel 1994 il Nastro d’argento come miglior protagonista nella Leggenda del bosco vecchio di Ermanno Olmi, nel 2000 il Pardo d’oro alla carriera al Festival internazionale di Locarno. A partire dai primi anni 2000, la sua presenza sul grande schermo si fece più rarefatta (vanno ricordate la sua interpretazione di don Abbondio nella serie televisiva Renzo e Lucia e la sua apparizione speciale in Questioni di cuore, entrambi diretti da Francesca Archibugi), dal 2002 al 2008 partecipò alla serie TV Carabinieri, mentre si intensificarono le sue apparizioni in televisione e alla radio come opinionista graffiante e provocatorio o ospite speciale, così come la sua attività editoriale che vide, tra l’altro, la pubblicazione di un vero e proprio saggio, Storia della libertà di pensiero (Milano 2008). Nel 2009 l’attore ricevette nel salone dei Corazzieri del Quirinale il David di Donatello alla carriera, nello stesso anno riprese la collaborazione con l’Unità (alla quale aveva collaborato sotto la direzione di Walter Veltroni), nel 2012 ricevette, per la sua opera letteraria, il premio Gogol′.
Tuttavia la sua salute apparve sempre più precaria a causa di una forma diabetica mal curata che finì con il compromettere la funzionalità degli arti e la deambulazione: gli ultimi anni lo videro su una sedia a rotelle, quasi sempre a fianco del figlio Piero, dal quale divenne quasi inseparabile. A quarant’anni di distanza dal primo film, tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre del 2015, tornarono nelle sale cinematografiche (in versione restaurata) i primi due film (Fantozzi e Il secondo tragico Fantozzi), ma gli incassi furono modesti, anche perché le più celebri scene dei film, molto popolari anche presso le generazioni più recenti, si trovavano, come tutt’ora, quasi tutte gratuitamente su YouTube. L’ultimo film cui partecipò, scrivendo anche i dialoghi di alcuni personaggi dei suoi film interpretati dagli attori che a essi devono una parte significativa della loro notorietà (Vukotic e Paoloni), nel quale si trova anche la sua ultima intervista (dell’aprile 2017), fu La voce di Fantozzi, di Mario Sesti, prodotto da Daniele Liburdi e Massimo Mecia: nel finale l’attore si mette a nudo come uomo (la confessione toccante della paura della morte) e come attore (le parvenze del clown feroce e disincantato), in un ultimo, coraggioso testamento visivo e personale.
Morì alle 6 di mattina del 3 luglio 2017 all’età di 84 anni presso la casa di cura privata Paideia di Roma, dov’era ricoverato dagli inizi di giugno a causa di complicazioni respiratorie dovute al diabete.
Fonti e Bibl.: S. Rossini, Quando Fantozzi sbarcò a Mosca, in L’Espresso, 7 dicembre 2011; S. Bartezzaghi, P. V., Fantozzi, rag. Ugo. La tragica e definitiva trilogia, Milano 2013; M. Sesti, P. V.: “Morire è un evento formidabile. Non abbandonatemi”, in la Repubblica, 4 luglio 2017; V. Arnaldi, Lo chiamavano Fantozzi. Vita, passioni e cinema di P. V., Roma 2018.