VITELLI, Paolo
– Nacque a Città di Castello nel 1461, terzo figlio maschio di Niccolò (v. la voce in questo Dizionario) e di Pantasilea di Giovanni Abocatelli.
Il padre fu coinvolto nei rivolgimenti politici interni a Città di Castello, posta in una zona nevralgica tra il dominio fiorentino e il territorio pontificio; cacciato da Sisto IV nel 1474, andò in esilio con la famiglia a Castiglion Fiorentino, dove il giovane Sigismondo Tizio si occupò dell’educazione di Paolo e del fratello minore Vitellozzo (v. la voce in questo Dizionario).
Tornato in patria, con l’aiuto fiorentino, nel giugno del 1482, Niccolò poté contare sull’abilità militare dei figli Giovanni, Camillo (v. la voce in questo Dizionario) e Paolo, che nel settembre 1483 si distinsero nella difesa della città dai fuorusciti, appoggiati dal papa e guidati da Lorenzo Giustini. In seguito alla pace stipulata dal padre con Sisto IV (3 maggio 1484), Paolo e i fratelli Camillo e Vitellozzo andarono in aiuto di Gentil Virginio Orsini, impegnato contro i Colonna.
Il 16 ottobre 1487 Paolo uccise a Prima Porta, presso Roma, Giustini: condannato a morte da Innocenzo VIII, la pena gli fu commutata in dieci anni di esilio da Roma. Intanto, dopo la morte del padre (6 gennaio 1486) e del primogenito Giovanni (23 giugno 1487), restò a capo della famiglia Camillo, coinvolto insieme ai fratelli negli scontri tra Baglioni e Oddi che dividevano Perugia.
In data imprecisata, Paolo sposò Girolama di Roberto Orsini, da cui ebbe almeno cinque figli: Niccolò (1496-1529), Chiappino (m. 1514), Cornelia, Giulia (m. 1532) e Beatrice, ai quali va aggiunto il figlio naturale Alessandro, futuro conte di Montone e signore dell’Amatrice.
Postisi al servizio del re di Francia Carlo VIII in occasione della sua discesa in Italia, nel novembre del 1494 Paolo e i fratelli furono nel Lazio in soccorso di Fabrizio Colonna, in guerra con Alessandro VI. Nel giugno del 1495, partiti da Città di Castello, attraversarono la Toscana per congiungersi con il sovrano che, sulla via del ritorno, a Genova, intendeva spodestare gli Adorno a favore dei Fregoso. Costretto dall’avanzata della lega antifrancese a dividere le proprie truppe, Carlo VIII fu sconfitto a Fornovo (6 luglio 1495), dove lo aveva raggiunto Camillo Vitelli. In seguito alla ritirata francese, il grosso delle truppe vitellesche, sotto il comando di Paolo e Vitellozzo, ripiegò da Savona a Chiavari e quindi a Sarzana. Dopo alcuni scontri con la popolazione locale, mosse poi verso Pisa, ribellatasi l’anno precedente al dominio di Firenze.
Dietro un compenso di 3000 ducati, Paolo aiutò inizialmente la città a difendersi dall’assalto fiorentino, per passare in seguito, d’accordo con Carlo VIII, al servizio di Firenze (rimanendo ferito nel settembre dello stesso anno). Ricevute istruzioni da Camillo, con grande rammarico dei fiorentini tornò in patria per prepararsi ad aiutare il viceré di Napoli Gilbert de Montpensier, in difficoltà di fronte alla riscossa aragonese. Nel febbraio del 1496, con il fratello Camillo e con Orsini, attraversò Umbria e Abruzzo – saccheggiando o sottomettendo Monteleone di Orvieto, L’Aquila, Teramo e Giulianuova – e il mese successivo giunse in Puglia.
Incalzato da Ferdinando II d’Aragona (Ferrandino), l’esercito francese subì gravi perdite. All’inizio di giugno, durante l’assedio di Circello, morì Camillo Vitelli. Il 20 luglio 1496 i francesi e i loro alleati italiani, assediati ad Atella e privi di vettovaglie, furono costretti alla resa. Ostaggio di Francesco Gonzaga, Paolo fu condotto prigioniero a Mantova. Rilasciato nell’aprile del 1497, si recò immediatamente a Firenze, dove il 5 maggio firmò una convenzione militare che lo impegnava, insieme a Vitellozzo, a servire la Repubblica fiorentina per un compenso annuale di 40.000 ducati (Nicasi, 1916, I, doc. 241).
Stimati, a Firenze, da uomini del prestigio di Francesco Valori, Paolo Antonio Soderini e Piero Guicciardini, i due fratelli furono ingaggiati non solo per il loro valore militare, ma anche per la collocazione strategica di Città di Castello (confinante con il dominio fiorentino su Valdichiana e Valtiberina) e per la fiducia nei loro confronti del re di Francia, che progettava una nuova spedizione in Italia.
Le trattative per assoldare Paolo e Vitellozzo nella guerra pisana si conclusero il 12 febbraio 1498, con la stipula di una condotta di due anni. La condizione posta da Paolo, il titolo di capitano generale dell’esercito fiorentino, fu soddisfatta il 21 maggio 1498 (il mese precedente erano morti Carlo VIII e, negli scontri che accompagnarono l’arresto di Girolamo Savonarola, Valori). Il 1° giugno – nell’ora indicata dall’astrologo personale di Vitelli, il medico aretino Antonio Valdambrini – si tenne in piazza della Signoria la cerimonia di consegna del bastone del comando, minuziosamente descritta nel Libro cerimoniale della Repubblica (Benzoni, 2013, pp. 244-253). In tale occasione Marcello Virgilio Adriani compose un’orazione solenne (Conti, 2018).
Per conquistare Pisa, i Vitelli misero in atto una meticolosa strategia di accerchiamento, espugnando Calcinaia, Buti e vari bastioni sui monti pisani, Vicopisano e Ripafratta. I successi indussero Firenze a sperare in una rapida conclusione della guerra. Nel novembre del 1498 i condottieri dovettero però interrompere le operazioni per spostarsi in Casentino, dove erano penetrati i veneziani, alleati di Piero de’ Medici. Paolo, afflitto fino al mese precedente dal mal francese (Sanuto, 1879, II, col. 47), riuscì a mettere alle strette le truppe nemiche, isolandole e sfinendole con la consueta strategia, prudente ma lenta. Questa cominciò a suscitare a Firenze qualche malcontento, ravvivato dalla fazione favorevole all’altro capitano fiorentino, Ranuccio da Marciano, e dall’impopolare decisione di Paolo di lasciar partire Guidobaldo da Montefeltro e Giuliano de’ Medici.
Protrattasi per l’intero inverno, la guerra casentinese si chiuse per via diplomatica nell’aprile del 1499. Ritiratosi a Città di Castello, Paolo fu richiamato dai Dieci, e a inizio giugno tornò nel Pisano. La rapida conquista di Cascina non bastò a guadagnargli la fiducia dei fiorentini, che ricevettero con disappunto la notizia della fuga di Rinieri della Sassetta (che aveva tradito Firenze per porsi al servizio di Pisa).
Il 1° agosto Paolo cinse d’assedio Pisa. Dieci giorni dopo conquistò la rocca di Stampace, ma esitò a sferrare l’attacco decisivo, dando ai pisani il tempo di riorganizzare la resistenza e ricevere rinforzi da Lucca. Persa l’occasione, e con l’esercito stremato dalla febbre, decise di togliere il campo. La sfortunata perdita di parte dell’artiglieria non fece che accentuare la delusione dei fiorentini, afflitti da una pesante crisi finanziaria, preoccupati per la campagna francese in Lombardia (che portò il 6 settembre 1499 alla conquista di Milano), allarmati dal rischio che Pisa cadesse nelle mani di Cesare Borgia o di Venezia, e dalle trame dei Medici per tornare in patria. In questo clima di paura e incertezza, che rendeva quanto mai urgente la riconquista di Pisa, si spiega il peso sempre maggiore dei sospetti nei confronti dei Vitelli.
Richiamato a Cascina, il 28 settembre Paolo fu arrestato e condotto a Firenze (mentre Vitellozzo riuscì a fuggire). Il 1° ottobre 1499 fu condannato a morte e decapitato sul ballatoio di palazzo della Signoria, di fronte a una piazza «molto piena di popolo» (Landucci, 1883, p. 202).
La rapidità e l’esito del processo fecero scalpore. Gli oratori fiorentini presso il papato e altre corti italiane, imbarazzati davanti alle richieste di chiarimento, chiesero l’immediata pubblicazione della documentazione processuale. La pubblicazione non avvenne. Del resto i fiorentini non potevano contare sulla confessione di Vitelli, pur sottoposto a tortura, né trovarono alcuna prova del suo tradimento tra le carte confiscate ai segretari Cerbone Cerboni e Corrado Tarlatini (oltre 750 dispacci datati tra giugno 1497 e settembre 1499, oggi in Archivio di Stato di Firenze, Lettere varie, passim, v. Benzoni, 2011).
Le accuse di aver giustiziato il condottiero senza un valido motivo circolarono anche presso la corte francese, ma la maggioranza dei fiorentini era convinta del tradimento di Vitelli. Niccolò Machiavelli, che scrisse di propria mano alcune missive dei Dieci in cui si davano disposizioni per l’arresto, pochi giorni dopo l’esecuzione, ribattendo a un cancelliere di Lucca, liquidò il comportamento del capitano come meritevole in ogni caso (per corruzione o per incapacità) di «infinito castigo». Machiavelli confermò la certezza del tradimento nel Decennale primo (1504-1506), mentre nel Principe, XII, non accennò alla questione, limitandosi a presentare l’esempio «seguìto poco tempo fa» del fallimento di Vitelli a Pisa come una fortuna per le istituzioni fiorentine, che in caso di vittoria avrebbero dovuto impedire che il capitano s’insignorisse della città (Lodone, 2014).
Di diverso avviso Francesco Guicciardini, che prima nelle Storie fiorentine (1508-1509) e poi, con toni più cupi, nella Storia d’Italia (1537-1540) fornì sulla vicenda un giudizio complesso, riconoscendo difetti e pregi di Vitelli (cui il padre Piero era stato legato da un rapporto di fiducia). Guicciardini riteneva comunque infondata l’accusa di tradimento, ascrivendo la mancata conquista di Pisa a un errore militare che fu fatale al condottiero per i suoi rapporti, già cattivi, con il governo e il popolo fiorentini.
Il dibattito sulla colpevolezza di Vitelli ebbe ampi riflessi nella letteratura del tempo, attestati dai componimenti di Antonio Cammelli (Tu credi, per aver morto il Vitello), Marcello Filosseno (Ferma gentil viator alquanto il passo), Antonio Pelotto (Cum caesum audisset Paulum Vitelocius acer), Serafino Aquilano (Ah morte ingorda dispietata e cruda) e da altri di autori ignoti, come il sonetto Quel fier Vitel che venne, vide e vinse attribuito all’Aquilano, forse in contrasto con la terzina pubblicata a Firenze dopo l’esecuzione di Vitelli: «Paulo son, che venni, vidi e finsi / di dar Pisa a Marzocco ed esaltarlo, / ma quel di gloria e me di fama estinsi» (Parenti, 2005, p. 306).
I ritratti su tavola del padre e dei fratelli Camillo e Vitellozzo realizzati da Luca Signorelli negli anni 1492-96, fecero parte forse di una serie che comprendeva anche Paolo, il cui ritratto risulta tuttavia perduto. Nella Pinacoteca comunale di Città di Castello si trova oggi la copia ottocentesca di un altro ritratto antico di Paolo, con il bastone di capitano generale. A Firenze, nel salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, Paolo è raffigurato nei dipinti di Vasari e allievi sulla presa di Cascina (soffitto) e della fortezza di Stampace (parete orientale): un eroe ingiustamente condannato dal governo repubblicano, ma riabilitato da Cosimo I, al cui servizio militarono figli e nipoti del condottiero tifernate. Meno realistica è l’immagine di Paolo nei due affreschi del salone di rappresentanza di palazzo Vitelli a S. Egidio (Città di Castello), raffiguranti la nomina a capitano generale e la vittoria, in Casentino, contro l’esercito veneziano, e realizzati da Prospero Fontana a partire dal 1571, su commissione di un omonimo nipote del condottiero.
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