Paolo (secondo nome di Saulo)
(secondo nome di Saulo) Apostolo (n. Tarso in Cilicia tra il 5 e il 10 - m. Roma tra il 64 e il 67). È il massimo propagatore del messaggio cristiano nel mondo ellenistico-romano. Fonti attendibili per una ricostruzione della biografia e teologia di P. – da considerare nella loro stretta unità, essendo la sua una teologia in divenire, ossia radicata nella situazione – sono soltanto, secondo i risultati raggiunti dalla più recente ricerca storico-filologica (R. Jewett, H. Hübner, G. Lüdemann), in primo luogo le sue lettere giudicate autentiche (in ordine cronologico: 1a lettera ai Tessalonicesi; lettera ai Galati; 1a e 2a lettera ai Corinzi; lettera ai Romani; la lettera ai Filippesi e la lettera a Filemone sono invece difficilmente databili) e in secondo luogo gli Atti degli Apostoli. Infatti ulteriori lettere (lettera ai Colossesi; lettera agli Efesini; 2a lettera ai Tessalonicesi; lettere pastorali) e testi apocrifi (Atti di Paolo; Atti di Paolo e Tecla; Atti di Pietro e Paolo; 3a lettera ai Corinzi; Apocalisse di Paolo), ascritti a P., risalgono a un periodo successivo alla sua morte, quando già la sua figura e la sua opera erano prese a modello. Le fonti romane utilizzate per la ricostruzione della cronologia (Svetonio, Orosio) offrono notizie e dati non univoci.
Sulla base della lettera ai Galati si può ipotizzare che P. sperimentò agli inizi degli anni Trenta, sulla via da Gerusalemme a Damasco, l’appello divino ad annunciare il Vangelo; risiedette a Damasco, si recò in missione in Arabia (forse Giordania), tornando poi a Damasco; dopo tre anni, visitato Pietro a Gerusalemme, evangelizzò in Siria e Cilicia e partecipò intorno al 49 al sinodo di Gerusalemme sulla conversione dei pagani. Dopo l’evento di Antiochia, in cui emerse il conflitto tra lui e le autorità gerosolimitane sul problema del rapporto degli ebrei e dei pagani – una volta convertiti alla fede in Cristo – con la Legge ebraica, a partire dal 50 si recò e visse in Galatia, Macedonia, Grecia e Asia Minore al fine di fondare o rafforzare comunità cristiane (la prima lettera, ai Tessalonicesi, risalirebbe dunque al 51 ca. e l’ultima, ai Romani, sarebbe posteriore al 55). Sulla base di altri testi, tra quelli attendibili, si presume che P. sia nato a Tarso, Cilicia, tra il 5 e il 10 da una famiglia ebrea della tribù di Beniamino (Atti, 21,39; 22,3; lettera ai Romani, 11,1); abbia studiato a Gerusalemme presso la scuola farisaica di Gamaliel (Atti, 22,3); e sia stato prima della conversione persecutore di giudeo-cristiani (Atti, 9,1-19; 22,3-16; 26,9-18).
Vi è un’evoluzione nel pensiero di P.: la 1a lettera ai Tessalonicesi è incentrata sul tema della resurrezione dei morti «addormentatisi in Cristo» e della salvezza dei viventi che credono in Lui al momento della Sua venuta, annunciata come imminente (4,13-18; 5,1-11), e sulla necessità di una vita nella fede come dono divino (1,4-7), nella carità (4,1-12), e nella speranza (1,3) per piacere a Dio. Lo Spirito Santo illumina i prescelti da Dio e in tal modo concede quella fede nella Parola da cui provengono la carità, che si manifesta nel soccorso verso i membri della comunità e verso tutti (5,14-15), e la speranza di essere uniti a Cristo grazie alla Sua misericordia (5,9-10). P. riprende in questa lettera dall’Antico Testamento il tema dell’esistenza umana in quanto posta davanti a un Dio che la giudica e la riavvicina a Sé con magnanimità (Salmo 71; 73), così come la nozione della santificazione dell’uomo da parte di un Dio che gli dà il Suo Spirito di santità (Ezechiele, 36,27; 37,14). Tuttavia nella successiva lettera ai Galati si prendono decisamente le distanze dall’Antico Testamento. Polemizzando con quei missionari che, mantenendo la Legge (il termine νόμος, utilizzato in questa lettera, già nella traduzione dei Settanta rende il termine Torah), avevano loro richiesto la circoncisione per far parte della comunità cristiana, egli vi espone due concetti principali: (1) la Legge, implicando il voler essere giusti davanti a Dio attraverso azioni a essa conformi, conduce a un allontanamento da Cristo, il quale richiede solo che si creda in Lui; (2) la circoncisione implica l’ingresso nella comunità d’Israele, mentre l’ordine di salvezza inaugurato dalla passione e resurrezione di Cristo non poggia più sulla base ebraica. Da tali concetti dipendono in questa lettera una nuova soteriologia e una nuova idea della comunità dei fedeli: P. oppone alla Legge, che implica schiavitù, la fede in Cristo che implica libertà, richiamandosi ad Abramo, «che credette in Dio» (3,6, citazione da Genesi, 15,6), e all’antico Israele P. oppone la Chiesa di coloro che, una volta accolto lo Spirito divino, si attengono solo al comandamento dell’amore come «tutta la Legge» (5,14): la libertà dalla Legge per i credenti in Cristo coincide con la libertà dal peccato poiché in loro, che «hanno crocifisso la carne», la «carne», che produce il male, non contrasta più lo «Spirito» (5,16-24). Non avrebbe potuto, però, proprio la condanna della Legge in nome di una libertà frutto della fede condurre al nichilismo nella condotta nel mondo nella convinzione che il corpo fosse assolutamente privo di consistenza e significato rispetto allo Spirito? P. è costretto a precisare e sviluppare il suo pensiero antropologico e teologico proprio a causa di azioni immorali che venivano compiute dai Corinzi nel nome di Cristo: di fronte all’espressione «Tutto mi è permesso», da loro utilizzata, nella prima lettera loro rivolta si distingue tra ciò che è «permesso» e ciò che è «vantaggioso» (6,12); si considera il corpo «tempio del Santo Spirito» (6,19-20); si pongono divieti riguardo a determinate relazioni sessuali (5,2-5; 6,18) e regole e prescrizioni riguardo al matrimonio (7,2-5) – posposto alla verginità (7,32-35) –, al mangiare carne offerta in sacrificio agli idoli (10,23-30), ai costumi e al contegno di uomini e donne (11,2-16), ai diversi ruoli esistenti nella comunità (12,4-11). P. combatte la tendenza protognostica dei Corinzi esaltando il valore da un lato del corpo, dall’altro della Legge; ma egli non rinuncia a ribadire la sua tesi che solo la fede in Cristo salva e apre alla comprensione della salvezza (1,17-31). Nella 2° lettera ai Corinzi P. presenta sé stesso come apostolo di tale fede contro i suoi detrattori e avversari. La lettera ai Romani, infine, a differenza della lettera ai Galati, non giudica più la Legge in modo negativo, ma la considera, in quanto porta alla coscienza il peccato, «santa», «giusta», «buona», «spirituale» (7,7-23). Anche Israele vi viene giudicato in modo positivo come popolo in rapporto con Dio (11,1-4). La Legge rimane tuttavia sotto il segno della morte poiché attraverso di essa il peccato è solo contrastato, ma non veramente vinto (8,1-4). E Israele stesso, sostituito ormai da altri eletti che hanno accolto la grazia divina, quando tutti i popoli saranno stati guadagnati alla Parola, si salverà nella fede in Cristo (11,25-32). In questa lettera P. espone i suoi concetti della «giustizia di Dio», della «giustificazione», dell’«incarnazione» e della «rivelazione». Essa è stata considerata come il suo testamento (G. Bornkamm). Intendeva forse P. con la lettera ai Romani riallacciare il suo rapporto con i giudeo-cristiani di Gerusalemme, dai quali nel corso delle sue peregrinazioni si era radicalmente allontanato sul piano teorico e pratico, prima di ritornare in questa città, tappa necessaria di ulteriori viaggi verso Roma e la Spagna? Gli Atti degli Apostoli (21-28) raccontano che P., accusato a Gerusalemme dal Sinedrio di attentato contro la Legge, venne consegnato ai Romani e fu portato a Roma. Secondo più tarde testimonianze, egli morì martire a Roma all’epoca di Nerone tra il 64 e il 67.
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