ADRIANO II, papa
Appartenne a famiglia dell'aristocrazia romana, da cui erano usciti altri due papi: Stefano IV (816-817) e Sergio II (844-847). Nell'842 cardinale prete del titolo di S. Marco, fu tra i personaggi più in vista del patriarchio romano al tempo di Gregorio IV (827-844) e tenuto in tanta considerazione che già nelle elezioni seguite alle morti di Leone IV (844) e di Benedetto III (858) si era fatto il suo nome.
Alla morte (13 nov. 867) di Nicolò I fu eletto papa, dopo una lotta violenta tra avversari e fautori del grande pontefice defunto, nella quale ebbe parte diretta anche il duca di Spoleto, Lamberto, non sappiamo se, e fino a qual punto, perseguendo ambizioni puramente personali, o in tutela degli interessi dell'imperatore Ludovico II, allora impegnato nell'Italia meridionale contro i Saraceni. La scelta di A., noto per le sue tendenze concilianti, rappresentò una soluzione di compromesso, che raccolse i suffragi unanimi delle fazioni in contrasto. Ma appunto questo suo temperamento, in aggiunta all'età già avanzata, indeboliva in partenza la posizione del nuovo papa di fronte alla pesante eredità lasciatagli dal suo predecessore.
Negli stessi circoli del Palazzo Lateranense la situazione era assai oscura, soprattutto perché vi spadroneggiavano i due capi di una delle potenti famiglie romane della fazione imperiale: Arsenio, vescovo di Orte, e suo figlio Anastasio. La prepotenza di questa famiglia non ebbe alcun riguardo, neppure delle persone del nuovo papa e di chi gli era caro, quando, durante la quaresima dell'868, il 10 marzo, un fratello di Anastasio, Eleuterio, non esitò a rapire con la forza, per farla sua, la figlia che A. aveva avuto dal matrimonio contratto prima di ricevere l'ordinazione sacerdotale e che era già fidanzata ad altro giovane, ed a rapire anche la madre di lei, Stefania. L'atto di violenza fu in tanto più grave in quanto infliggeva una umiliazione allo stesso papa, ed ebbe il suo fosco epilogo in un duplice assassinio quando il rapitore, saputo dell'imminente arrivo degli ufficiali inviati ad arrestarlo dall'imperatore, cui il papa aveva denunciato il misfatto, non esitò a trucidare le due sventurate. Eleuterio venne giustiziato e nella generale, profonda esecrazione furono coinvolti il padre ed il fratello. Arsenio dovette fuggire presso Ludovico II a Benevento, dove mori. Ma A. non aveva le qualità necessarie per trarre, dalla nuova situazione interna, gli elementi favorevoli al rafforzarsi definitivo della sua autorità personale di fronte anche ad Anastasio, al quale, dopo la propria consacrazione, aveva dimostrato molto favore riammettendolo nella comunione con gli ecclesiastici, reintegrandolo nell'ordine presbiterale, nominandolo, finalmente, bibliotecario apostolico.
Ora che da molti in Roma si rinverdivano a carico di Anastasio i ricordi meno simpatici dei suoi trascorsi, in aggiunta alle recentissime accuse di essere stato il vero istigatore dei misfatti del fratello, A., se il 12 ott. 868, in S. Prassede, rinnovò contro di lui la scomunica maggiore e l'esclusione da tutti gli uffici ecclesiastici e gli vietò di allontanarsi dalla città oltre quaranta miglia, tuttavia non solo gli lasciò aperta una via per sottrarsi a queste sanzioni, se si fosse presentato ad un sinodo per dimostrare l'insussistenza delle accuse, ma, pur non essendosi verificata, da quanto almeno si sa, una tale condizione, non tardò a riaffidargli le funzioni precedentemente ricoperte nel patriarchio e tollerò che vi tornasse a spadroneggiare come e più di prima. Evidentemente si sentiva meno forte di Anastasio che godeva la fiducia di Ludovico II. Il papa temeva un conflitto con l'imperatore, i cui messi già al momento della sua elezione avevano protestato perché dai Romani erano stati tenuti del tutto estranei agli accordi elettorali. Ludovico II aveva autorizzato la sua consacrazione, dopo che il decreto dell'elezione gli era stato trasmesso, precisando che lo faceva in considerazione della unanimità dei suffragi, e non per suggerimento dei suoi consiglieri. Ma, ciononostante, A. senza dubbio non voleva suscitare le diffidenze od urtare le suscettibilità del sovrano che aveva avuto tanta parte nell'avvento al papato di Nicolò I, e forse anche, attraverso il duca di Spoleto, Lamberto, nei contrasti accesisi alla sua morte in Roma.
Per quanto riguardava la situazione esterna, tra i problemi più complessi che A. aveva trovato ancora pendenti erano quelli dei rapporti con Bisanzio, con iprincipi slavi delle regioni danubiano-balcaniche, col regno di Lorena, e con la Chiesa e con il regno di Francia.
A Bisanzio lo stato d'animo dei circoli ufficiali nei confronti della Chiesa di Roma, che ancora nell'estate dell'867 aveva raggiunto l'acme dei propositi ostili con la sentenza d'anatema, di scomunica e di deposizione pronunciata contro Nicolò I nel concilio allora tenuto a Costantinopoli da Fozio, pareva essersi volto a ben altre idee dopo l'avvento (24 sett. 867) di Basilio I il Macedone, che si era affrettato a togliere a Fozio la dignità di patriarca per reintegrarvi (23 novembre) Ignazio e compiere, insieme con questo ultimo, i primi passi a Roma in vista di una conciliazione. Le lettere relative, indirizzate a Nicolò I, furono ricevute da A., che investì della questione un concilio convocato in S. Pietro il io giugno 869, che colpì di solenne anatema Fozio, proclamandolo riammissibile nella comunione, anche in caso di resipiscenza, soltanto con i laici; dichiarò la possibilità di amnistia per i sottoscrittori del concilio costantinopolitano dell'867, ma comminò la destituzione da ogni ufficio ecclesiastico dei fautori di Fozio, eccettuati quelli ordinati prima che egli fosse stato sostituito ad Ignazio (858), i quali avessero accettato di firmare un atto di ritrattazione. D'altra parte fu accolta la proposta di Basilio I che la Santa Sede si facesse rappresentare da propri legati al concilio che l'imperatore avrebbe riunito a Costantinopoli per dare alla controversia foziana una soluzione accettabile da tutti. Ed effettivamente tre legati apostolici, i vescovi Donato di Ostia e Stefano di Nepi, e il diacono Marino, latori delle lettere papali indirizzate a Basilio I e ad Ignazio, nelle quali erano precisate le posizioni della Chiesa di Roma, parteciparono all'VIlI concilio ecumenico (IV costantinopolitano) che nella capitale dell'impero bizantino si aperse il 5 ott. 869 e si chiuse il 28 febbr. 870, dopo aver definito e proclamato integralmente valide tutte le decisioni sinodalmente emanate da Nicolò I e da A. II tanto in difesa e per la reintegrazione a capo della Chiesa di Costantinopoli del patriarca Ignazio, quanto per la condanna e per l'espulsione dell'intruso Fozio.
Il riconoscimento orientale del supremo magistero della Chiesa di Roma in materia di fede venne espresso con una formula, come bene osservò l'Amann, ancor più clamorosa di quella consacrata negli atti del VI concilio ecumenico del 680/1. Si era detto allora che s. Pietro in persona aveva parlato nelle carte scritte da papa Agatone; ora si dichiarò che al defunto Nicolò I ed al suo successore A. si era attribuito il valore di "strumento"(organum) dello stesso Spirito Santo. Ma la vittoria non avrebbe avuto conseguenze durature. In realtà Basilio I era stato indotto a cercare un riavvicinamento con la Chiesa di Roma dalle stesse preoccupazioni politiche che in quegli anni lo inducevano a cercare un riavvicinamento anche con Ludovico II offrendogli il concorso delle forze bizantine per la lotta contro i Saraceni, sola via che rimaneva all'imperatore orientale per impedire che l'intera Italia meridionale cadesse in potere o dell'imperatore occidentale o dei musulmani. Né i circoli ufficiali di Costantinopoli erano disposti a spingersi, negli ulteriori sviluppi dei rapporti con la Chiesa di Roma, oltre certi limiti riguardo alla situazione sia interna dell'impero orientale, per evitare che le misure contro i fautori irriducibili di Fozio vi potessero provocare reazioni violente, sia esterna, dei principati slavi limitrofi o vicini, per non lasciarvi campo libero all'azione spirituale dei papi.
La questione della Chiesa bulgara fu un altro dei problemi spinosi che A. ereditò dal suo predecessore. Dall'estate dell'866 il principe Boris insisteva nel domandare a Roma l'istituzione di un patriarcato bulgaro autonomo, con a capo il vescovo di Porto, Formoso. Era richiesta inaccettabile per la Chiesa di Roma, che considerava inderogabile il divieto canonico del trasferimento di un vescovo da una ad altra sede. Rimpatriato Formoso verso la fine dell'867, Boris respinse via via tutte le designazioni di altri nomi segnalategli da A. nel corso di trattative condotte durante l'868 e l'869; ed infine, visto che non la spuntava con Roma, tornò a rivolgersi a Bisanzio. Una sua ambasceria, giunta nella capitale dell'impero orientale quando l'VIII concilio ecumenico stava per chiudersi (fu presente all'ultima seduta del 28 febbr. 870), intavolò, su invito ed alla presenza del "basileus", con Ignazio e con i legati apostolici una discussione, che il patriarca di Costantinopoli seppe abilmente sfruttare a proprio vantaggio, lasciando parlare, in vece sua, i rappresentanti degli altri patriarcati orientali, naturalmente favorevoli all'affermarsi della sua giurisdizione sulla Chiesa bulgara. Invano i legati apostolici protestarono, ed appellandosi a una lettera di A., tenuta sino allora segreta, e che rimisero allora ad Ignazio, vietarono tassativamente a quest'ultimo di mandare in terra dei Bulgari proprie missioni. Pochi mesi dopo il patriarca, a dispetto delle assicurazioni, anche allora ripetute, di mostrarsi obbediente alla Sede Apostolica, consacrava un arcivescovo, e, più tardi, diversi vescovi, destinati a formare l'ossatura della Chiesa bulgara, mentre dai domini di Boris venivano brutalmente espulsi i vescovi ed i presbiteri inviati da Roma. Erano altri atti che gettavano una luce rivelatrice sulle vere intenzioni dei circoli orientali.
A così grave affronto A. non si sentì di reagire in misura adeguata. Si limitò a deplorazioni il cui valore, al pari delle minacce ad esse aggiunte di sanzioni spirituali, venne sostanzialmente sminuito dal fatto che ebbero il carattere di rilievi in un certo senso soltanto marginali alla lettera spedita il 10 nov. 871 a Basilio I ed ai suoi figli, per prendere atto delle decisioni del concilio e per manifestare al "basileus" la gratitudine del papa.
Dello scacco inflittogli per i Bulgari da Ignazio, A. poté credere di rifarsi in una zona dove all'influenza bizantina si opponeva quella germanica, tra gli Slavi della Pannonia centrale e della Moravia. Nella Moravia l'opera di evangelizzazione era stata avviata dai fratelli Costantino e Metodio, che erano bensì greci e recatisi fra quelle genti dall'impero orientale, ma che Nicolò I e A. riuscirono ad attrarre nell'ambito romano. Con Fozio, nell'862, il re dei Moravi, Rastislav, aveva cominciato a trattare della questione religiosa, ed il patriarca di Costantinopoli gli aveva inviato i due fratelli, che, reduci dalla prima fase del loro apostolato e diretti, con un gruppo di neofiti, a Costantinopoli, dove intendevano far regolare l'ordinamento della nuova Chiesa, nell'inverno 866-7 si trovavano a Venezia, quando Nicolò I aveva saputo cogliere quel momento favorevole per invitarli a Roma. Vi giunsero dopo la sua morte. A. li accolse con grande onore; conferì l'ordine del presbiterato a Metodio (Costantino lo aveva già ricevuto) e ad alcuni dei neofiti, e del diaconato ad altri; seppe comprendere il valore dei motivi addotti dai due fratelli per propugnare la sostituzione, nei paesi abitati da Slavi, della lingua di costoro al latino.
I Romani videro allora nelle loro basiliche un fatto ben nuovo: la liturgia, celebrata dagli ospiti in slavo con l'autorizzazione del papa. A Roma si spense, il 14 febbr. 869, e fu sepolto nella basilica di S. Clemente Costantino che, prima di spirare, aveva preso il nome, sotto cui è più comunemente noto, di Cirillo. Metodio fu consacrato vescovo da A., con l'autorità metropolitana non solo per i territori dei Moravi, ma anche per quelli, ugualmente abitati da Slavi, che nell'antico impero romano avevano costituito le province della Pannonia Superior e della Pannonia Inferior. Anche il principe degli Slavi stanziati nella regione del lago Balaton, Kocel, si era infatti rivolto al papa per chiedergli l'invio di Metodio come vescovo missionario di Pannonia. La Chiesa di Roma aveva così l'occasione di riaffermarsi almeno in una parte di quella giurisdizione sull'Illirico, che le era stata sottratta più di un secolo prima dai Bizantini; ma si urtò qui con le Chiese e con il re di Baviera. Si trattava infatti di territori ormai passati sotto l'influenza tedesca, così nell'ambito ecclesiastico, perché considerati tra le zone di loro competenza dall'arcivescovo di Salisburgo e dal vescovo di Passau, come in quello politico, perché Rastislav nell'864 aveva giurato fedeltà a Ludovico il Germanico, e Kocel non poteva non risentire dell'aumentata potenza dei Moravi limitrofi. Infatti, quando Metodio ritornò fra i Moravi, alla fine dell'869 od al principio dell'870 per dare esistenza concreta all'ordinamento della Chiesa nelle regioni affidate dal papa alle sue cure pastorali, venne imprigionato dalle truppe di Ludovico il Germanico, che avevano invaso il regno di Rastislav, venuto in conflitto col re tedesco, e fu accusato di indebito esercizio dei poteri episcopali in quelle terre. Fu un grave colpo all'autorità della Chiesa di Roma e alla persona stessa di A., in quanto, a lui, sinché visse, nulla fu lasciato trapelare dell'iniquo procedimento a danno di un missionario, che il papa aveva consacrato arcivescovo di Pannonia.
Altre umiliazioni A. dovette subire nei suoi rapporti con il regno di Lorena e con la Chiesa e con il regno di Francia.
Nicolò I era morto quando il re di Lorena, Lotario II, ancora si ostinava nel voler strappare al papa l'annullamento del matrimonio con Teutperga per poter congiungersi in matrimonio con l'amante Gualdrada. Su questo punto A., se in qualche momento poté sembrare non alieno dal cedere, finì con l'esser fermo, nella sostanza, sulle posizioni prese dal suo predecessore. Quando, venuto in Italia, nell'estate dell'869, Lotario II, e raccomandatosi al fratello Ludovico II ed alla cognata Angelberga, il papa acconsentì, su invito dell'imperatore, ad incontrarsi con lui a Montecassino, qui, il 1 luglio, ammise il re a ricevere dalle sue mani la comunione solo dopo averlo solennemente ammonito che l'accostarsi all'altare avrebbe segnato la condanna di Dio, se egli era venuto meno alle intimazioni di Nicolò I e al suo divieto di avere rapporti con Gualdrada. E quando il re, che lo aveva seguito dopo il ritorno del papa a Roma, riparlò di annullamento del matrimonio, A., certo perché ben conosceva il concordare dell'episcopato oltramontano con l'atteggiamento del suo predecessore, rispose che avrebbe investito della decisione definitiva un concilio da tenersi in Roma con la partecipazione dei vescovi di Francia, Lorena e Germania. La morte che colse Lotario II nel viaggio di rimpatrio, il 7 ag. 869 a Piacenza, chiuse l'incresciosa questione; ma ne aperse una nuova assai più complessa: quella della successione nel regno di Lorena.
A. vi si lasciò coinvolgere per le pressioni di Ludovico II, che spinse il papa a gettare sulla bilancia, in favore suo, il peso dell'autorità apostolica. Ma i due vescovi che portavano le quattro lettere indirizzate in data 5 sett. 869 da A. ai grandi laici ed ai vescovi del regno dei Franchi occidentali, ad Incmaro, arcivescovo di Reims, ed ai grandi del regno di Lorena, giunsero sul posto quando già Carlo il Calvo era stato, appunto da Incmaro, unto ed incoronato re di Lorena a Metz il 9 sett.; e nessuno dei destinatari degnò il papa di una risposta. L'anno dopo A. rinnovò il tentativo d'imporre la successione di Ludovico II in forma ancor più decisa. Intimò recisamente a Carlo il Calvo di rinunciare all'usurpazione del regno di Lorena, e ad Incmaro di Reims di scomunicarlo se non lo avesse fatto; minacciò di anatema chi si fosse opposto alla sua volontà; non lesinò invece gli elogi a Ludovico il Germanico, che giudicava a torto alieno da ambizioni personali nella vertenza, e sollecitava l'episcopato del suo regno ad incoraggiarlo perché mantenesse la pace con l'imperatore. In questa circostanza il papa scrisse ben sei lettere, in data 27 giugno 870, dirette a Carlo il Calvo, agli arcivescovi, ai vescovi ed ai grandi laici del suo regno, a Incmaro, a Ludovico il Germanico, agli arcivescovi e vescovi del suo regno, e le affidò a ben quattro vescovi, uno dei quali, Wibodo di Parma, aveva le credenziali di "missus" imperiale oltre a quelle di legato papale. La missione fu inoltre rafforzata da un inviato personale di Ludovico II; ma giunse a destinazione quando già da due mesi i due re si erano accordati, col trattato di Meersen dell'8 agosto, per dividersi tra loro i domini del nipote defunto. Questa volta Carlo il Calvo ed Incmaro risposero. Che cosa abbia scritto il re, ignoriamo; ci è rimasto il testo integrale dell'ampio e motivato memoriale che l'arcivescovo spedì ad A., proclamandosi interprete dei sentimenti unanimi dei notabili del clero e del laicato raccoltisi da ogni parte della Francia attorno a lui in Reims.
Era assai duro, ed assumeva il carattere di una vera lezione impartita al papa, nella quale la distinzione gelasiana del potere temporale dal potere spirituale veniva ritorta contro il detentore della cattedra di S. Pietro per negargli ogni diritto d'intervenire, prospettando lo spauracchio di pene spirituali, in una questione che era secolare e puramente interna della Francia, per rifiutare al suo sovrano il regno di Lorena ed attribuirlo invece all'imperatore.
A. trovò Carlo il Calvo ed Incmaro ugualmente recisi nel respingere gli altri suoi tentativi d'interporre il peso dell'autorità apostolica in questioni che avevano a protagonisti il figlio stesso del re, Carlomanno, ed il nipote dell'arcivescovo di Reims, il suo omonimo vescovo di Laon. Quest'ultimo dall'868 in poi fece ripetutamente ricorso alla Santa Sede contro il re, col quale si era messo in conflitto contestando i diritti della corona su certi beni, da lui rivendicati invece alla propria Chiesa. Ripetutamente la Santa Sede prese posizione in sua difesa, con lettere di rimprovero e di minacce spirituali al re ed all'arcivescovo di Reims. Alla Santa Sede si rivolse Carlomanno, che, fuggito da Senlis, dove nella primavera dell'870 lo aveva confinato il padre per la sua cattiva condotta, spargeva il terrore, alla testa di una banda di briganti, nella Francia nord-orientale ed era stato scomunicato da quei vescovi, mentre contro i suoi satelliti procedevano i giudici secolari. E Carlo il Calvo, i suoi conti, i suoi vescovi, si videro giungere lettere della Santa Sede, in data 13 luglio 871, nelle quali si accusava il re d'infierire peggio di una belva col figlio, e s'ingiungeva tassativamente, qualunque ordine in contrario avesse emanato il re, ai vescovi di non scomunicare lo sciagurato, ai laici di non usare contro di lui le armi. La Chiesa di Roma, nei suoi rapporti con la Francia, tornava così a mettersi su di un terreno pericolosamente minato.
Il fatto è che il papa si era lasciato prendere completamente la mano da Anastasio. Le lettere che la cancelleria pontificia aveva spedito per le questioni lorenesi, del vescovo di Laon e del figlio di Carlo il Calvo, erano state tutte o quasi tutte personalmente redatte da Anastasio. L'accusa che in quella cancelleria qualcuno le aveva dettate facendone figurare autore il papa, ma senza che questi ne avesse notizia, fu chiaramente formulata nelle risposte che alle intimazioni ed alle minacce del 13 luglio Carlo il Calvo mandò a Roma, quando il concilio da lui convocato a Douzy verso la fine dell'agosto 871 condannò il vescovo di Laon alla deposizione.
La sentenza era stata pronunciata dallo stesso zio del convenuto; e dall'arcivescovo di Reims era stata redatta la risposta del sovrano, vera sfida lanciata a Roma nello stesso spirito della lezione già impartita l'anno precedente dallo stesso Incmaro: si provasse la Sede Apostolica ad annullare la sentenza di Douzy, uscita da una procedura regolarmente espletata in Francia contro un ribelle al potere regio; il re, come tutti i suoi predecessori, era signore e sovrano dei suoi vescovi e, finché fosse vissuto, non avrebbe più ridato al colpevole la sede episcopale di Laon.
Alla sfida venuta dalla Francia si ribatté da Roma con un'altra sfida, fissata nella lettera, certo anch'essa redatta da Anastasio Bibliotecario, che la cancelleria pontificia spedì, il 26 dic. 871, a Carlo il Calvo ed a coloro che avevano partecipato al concilio di Douzy: si ordinava alle parti di costituirsi, nelle persone del vescovo di Laon e di un accusatore qualificato, alla presenza del papa, che avrebbe esaminato e definita la causa insieme con l'intiero collegio sinodale della Sede Romana; in caso diverso il papa, sinché fosse vissuto, non avrebbe mai considerata valida la sentenza di deposizione pronunciata in Francia.
La sfida rimase sulla carta anche dopo la nuova replica di Carlo il Calvo.
Il memoriale, preparato in suo nome anche questa volta da Incmaro di Reims, che ribadiva la regolarità della procedura seguita a Douzy, affermava l'inammissibilità del privilegio di S. Pietro per la causa in questione, annunciava che, nel caso, il re stesso, quando ne avesse avuto licenza dall'imperatore, si sarebbe personalmente costituito accusatore in Roma di Incmaro di Laon. Il memoriale deplorava inoltre il linguaggio insultante, intimidatorio, senza precedenti, usato verso chi Dio stesso aveva fatto re; la deplorazione era però stilata in modo da risultare diretta contro la persona non del papa, ma di chi aveva scritto in suo nome.
Si ebbe allora la scena sconcertante dell'udienza papale in cui A., ricevuto dalle mani dell'inviato del re, l'arcivescovo di Tours, Actardo, il memoriale, e presane visione, dichiarò di non aver mai saputo nulla, nè del concilio di Douzy né delle lettere che il memoriale deplorava. Ed il papa affidò ad Actardo un proprio messaggio confidenziale a Carlo il Calvo, da tenersi accuratamente nascosto ad Anastasio.
In esso riconosceva che quelle lettere gli erano state falsamente attribuite od estorte, abusando delle sue debilitate condizioni fisiche, e di ciò si scusava col re; taceva di Carlomanno; per Incmaro di Laon, ne riaffermava il diritto di recarsi a Roma, ma si affrettava a precisare che qui ci si sarebbe limitati a contestargli gli atti della procedura seguita contro di lui in Francia e le relative comunicazioni alla Santa Sede; che, se avesse poi insistito nell'appellarsi, competenti a decidere in via definitiva sarebbero stati eletti giudici della stessa provincia, dove di quelle accuse era stato fatto oggetto, aggiungendo solo a titolo di semplice alternativa che il giudizio poteva essere emesso sul posto anche da legati apostolici muniti dal papa dei necessari poteri. In sostanza A. lasciava al loro destino il figlio del re ed il vescovo di Laon come aveva fatto per il regno di Lorena, e, dando causa vinta ad Incmaro di Reims, abbandonava la linea di condotta propugnata da chi dell'arcivescovo franco era stato in tutte queste faccende il vero antagonista: Anastasio Bibliotecario.
Il messaggio senza dubbio riuscì assai gradito anche perché traeva abilmente motivo da un accenno al problema della successione nell'impero a Ludovico II, in mancanza di una sua discendenza maschile, per dare a Carlo il Calvo l'annuncio che il papa era incrollabilmente deciso ad attribuire a lui, e non ad altri, la corona imperiale. Accenno ed annuncio avevano in un certo senso un valore bivalente: la Santa Sede da un lato sigillava così nel modo più lusinghiero per il re franco il suo ritorno all'amicizia per lui; dall'altro, ricordandogli che l'elemento decisivo di un problema fondamentale, che lo toccava tanto da vicino, era pur sempre costituito dall'autorità del successore di S. Pietro, mirava a risollevare il proprio prestigio dalla menomazione che in Francia aveva innegabilmente sofferta.
In realtà A. doveva prospettarsi sotto foschi colori l'avvenire della dignità imperiale da quando l'871 aveva segnato nell'Italia meridionale il repentino precipitare delle fortune di Ludovico II che, dopo aver vittoriosamente espugnato Bari (2 febbraio), si era dovuto piegare alla rivolta dei Beneventani (settembre 871). Assai probabilmente nello stesso torno di tempo del suo riavvicinamento al re dei Franchi occidentali A. acconsentì a sostenere l'imperatore umiliato con la maggior manifestazione di conforto e di appoggio, che il papa era allora in grado di dargli. Nella Pentecoste (18 maggio) dell'872, A. pose in S. Pietro una nuova corona imperiale sul capo di Ludovico II, a indicare che per l'autorità del vicario di S. Pietro l'imperatore tornava in possesso di quell'eminente insegna esteriore del suo supremo potere temporale di cui era rimasto privo se, come si può supporre, era stato costretto a lasciare la sua corona a Benevento, nel tesoro imperiale che quel principe, Adelchi, aveva fatto sua preda. Ed ancora in forza dell'autorità che gli veniva da S. Pietro, il papa pronunciò le parole che scioglievano Ludovico II dal giuramento, con cui lo aveva vincolato Adelchi di non metter più piede in Benevento, e di non prendersi mai vendetta delle offese colà recate alla sua persona ed alla sua maestà. Agli atti del papa si aggiunse, certo promossa anch'essa da lui, una manifestazione dei maggiorenti dell'aristocrazia laica romana i quali, riunitisi in solenne assemblea, dichiararono il principe di Benevento tiranno e nemico della res publica.
Sono queste le ultime notizie rimasteci per la fine del pontificato di A., che si spense fra la metà di novembre ed il 13 dicembre dello stesso anno.
Fonti e Bibl.: Biografia, redatta da persona assai vicina ad Anastasio Bibliotecario, quasi certamente da quello stesso diacono Giovanni Immonide, al quale si deve la biografia di Gregorio Magno, nel Liber Pontificalis, a cura di L. Duchesne, II, Paris 1892, pp. 173-185 (cf. Introduction, pp. VI-VII; e G. Arnaldi, Giovanni Immonide e la cultura a Roma al tempo di Giovanni VIII, in Bullett. d. Ist. stor. ital. per il M. E. e Arch. Muratoriano, LXVIII [1956], p. 49). Hadriani II papae Epistolae de rebus Franciae e ad res orientales pertinentes, in Monumenta Germ. Hist., Epistolae, V, (Karolini Aevi, III), Berolini 1925, pp. 691-765; lettere di Anastasio Bibliotecario ad A. in occasione della consegna degli atti dell'VIII concilio ecumenico e della loro versione in latino a cura di Anastasio stesso in Monumenta Germ. Hist., Epistolae, VII (Karolini Aevi, V), Berolini 1928, pp. 403-405; lettere di Carlo il Calvo e d'Incmaro, arcivescovo di Reims, ad A. per le questioni della Lorena, di Carlomanno e d'Incmaro, vescovo di Laon, in Migne, Patr. Lat., CXXV, coll. 876-896 (Caroli Calvi Epistolae, VII-IX); CXX VI, coll. 174-186, 279-648 (Hincmari Epistola XXV e Opuscula et epistolae quae spectant ad causam Hincmari Laudunensis).
- Atti dell'VIII concilio ecumenico, in J. D. Mansi, Sacror. Concil. Nova et Ampliss. Collectio, XVI, Venetiis 1771, coll. 1-515.Atti del concilio di Douzy, ibid., coll. 569-754.- Annales Bertiniani, in Scriptores rerum germanicarum in usum schol., Hannoverae 1883, pp. 90-121; Reginonis abbatis Prumiensis Chronicon, in Scriptores rerum germanicarum in usum schol., Hannoverae 1890, pp.94-104; Annales Fuldenses, in Scriptores rerum gerrnanicarum in usum schol., Hannoverae et Lipsiae 1891, pp. 67-72. - Regesti: di A. II, Ph. Jaffé-P. Ewald, Regesta Pontif. Rom., I, Lipsiae 1885, pp. 368-375; di Ludovico II, per il periodo del pontificato di A. II, J. F. Bohmer-E. Mühlbacher, Regesta Imperii, I, Innsbruck 1908, pp. 507-519; per Basilio I, sempre per il pontificato di A. II, Fr. Dölger, Regesten der Kaiserurkunden des Oströmischen Reiches von 565-1282, München u. Berlin 1924, pp. 57-62.
- Regesti dei patriarchi di Costantinopoli per lo stesso periodo: V. Grumel, Les regestes des actes du Patriarcat de Constantinople, I, 2, Bucarest 1936, pp. 90-100. Biografie in Dia. d'Hist. et de Géogr. Ecclés., I, coll. 619-624; in Dict. de Théol. Cath., I, coll. 452-457, in Encicl. Cattolica I, coll. 341-344; E. Dümmier, Geschichte des Ostfränkischen Reiches, II, Leipzig 1887, pp. 221-376; III, ibid. 1888, pp. 20, 27, 194, 330; F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medio Evo (trad. it. di R. Manzato), I, Roma 1900, pp. 813-820; L. M. Hartmann, Geschichte Italiens im Mittelalter, III, 1, Gotha 1908, pp. 270-296; L. Duchesne, Les premiers temps de l'état pontifical, Paris 1911, pp. 244-259; G. Romano-A. Solmi, Le dominazioni barbariche in Italia, Milano 1940, pp. 622-636; E. Amann, L'époque carolingienne, in Histoire de l'Eglise, VI, Paris 1947, pp. 395-412; 455-458; 483-489; P. Brezzi, Roma e l'Impero Medioevale, Bologna 1948, pp. 50, 65-70; per la cultura in questo periodo cfr. G. Arnaldi, Giovanni Immonide e la cultura a Roma al tempo di Giovanni VIII, in Bullettino dell'Ist. stor. Ital., cit. (a proposito della biografia di A.), pp. 33-89. Per la conoscenza a Roma dello pseudo-Isidoro, A. Lapotre, Adrien II et les fausses décretales, in Rev. des questions historiques, XXVII (1880) pp. 377-431. - Per i rapporti con Basilio I, A. Vogt, Basile I empereur de Byzance, Paris 1908, pp. 214-233. - Per l'VIII concilio ecumenico, J. Hefele-Leclercq, Ristoire des Conciles, IV, 1, Paris 1911, pp. 481-546. Per i rapporti con Fozio ed Ignazio, M. Jugie, Le schisme byzantin, Paris 1941, specie pp. 115-120; Fr. Dvornik, Lo scisma di Fozio. Storia e leggenda, Roma 1953, pp. 157-191.
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