ADRIANO IV, papa
Nicola Breakspear nacque tra il 1110 e il 1120 ad Abbot's Langley, non lontano dall'abbazia di St. Albany, presso Verulamio, nell'Hertfordshire. Secondo taluni, Nicola sarebbe stato figlio di un chierico povero, rivestito solo degli ordini minori, secondo altri addirittura di un prete. Da altre fonti risulterebbe che suo padre, entrato come monaco nell'abbazia di St. Albany, avrebbe abbandonato la famiglia e contribuito a impedire al figlio di essere ricevuto anch'egli nel monastero. Il giovane, povero e senza risorse, emigrò in Francia, dove a Parigi frequentò gli studi e dovette forse in quell'occasione incontrarsi per la prima volta con Giovanni di Salisbury. Dopo qualche peregrinazione nella Francia meridionale, fini coll'entrare a S. Rufo, una comunità di canonici regolari presso Avignone. Verso il 1135 fu eletto abate, ma ebbe ben presto contrasti seri con i canonici e dovette due volte recarsi a Roma presso il papa Eugenio III. Dopo la seconda venuta a Roma, il pontefice non lo lasciò più ripartire e gli conferì con il vescovato di Albano la dignità cardinalizia (av. 1150).
Nel 1152 egli ricevette l'incarico di una legazione in Norvegia ed in Svezia, dove la situazione politico-ecclesiastica era assai complicata. In Norvegia, il legato si trovò di fronte a lotte dinastiche tra i figlioli del re Harold Gille-Christ, che mal accettavano la successione di Inge sul trono di s. Olaf. In Svezia c'era una lotta accanita tra Svedesi e Goti. Dal punto di vista ecclesiastico le diocesi norvegesi e svedesi dipendevano dalla metropoli danese di Lund; in Norvegia Nicola riorganizzò le province ecclesiastiche, creando una nuova metropoli a Nidaros (Trondheim), e insieme riuscì a garantire la potenza economica della Chiesa e a introdurre l'istituzione della pace di Dio. In Svezia non riuscì a stabilire una nuova gerarchia ecclesiastica, riuscì però a creare anche qui l'istituzione della pace di Dio e il regolamento sul porto delle armi. Tanto in Norvegia che in Svezia, con il consenso dei re, introdusse la consuetudine del "danaro di S. Pietro". La legazione costituì per Nicola un successo: se ne conservò la memoria nella tradizione dei paesi scandinavi.
Il 4 dic. 1154, dopo la morte di Anastasio IV, Nicola fu eletto papa e prese il nome di Adriano. Era la prima volta che un inglese saliva al soglio pontificio e nessun altro di quella nazione avrebbe mai più avuto lo stesso destino. La situazione del papato in quel momento non si presentava certo facile. Barbarossa era sceso in Italia per la spedizione che, in seguito agli accordi di Costanza, stabiliti nel marzo del 1153 con Eugenio III, avrebbe dovuto portarlo a Roma per ricevere l'incoronazione imperiale e quindi procedere, d'accordo col papa, contro il Regno normanno, dove dal 5 apr. 1154, in seguito alla morte di Ruggero II, era stato incoronato, senza il consenso pontificio, Guglielmo I. La spedizione di Federico, che realizzava finalmente un intervento in Italia già progettato fin dai tempi di Corrado III, non era certo tale da rassicurare il pontefice, per il nuovo atteggiamento tenuto dal re dei Romani nei riguardi dei rapporti con la Chiesa e, in generale, per il concetto in cui mostrava di tenere l'autorità sovrana: Federico, ispirato dalle memorie di Carlo e di Ottone e dalla tradizione giustinianea, presentatagli dal rinnovato interesse per il diritto romano, tendeva ad esercitarla libera da ogni vincolo e da ogni soggezione, anche al di là dei patti stabiliti col papato. D'altra parte l'urto col Regno di Sicilia, che durava fino dai tempi di Innocenzo II, malgrado le momentanee condiliazioni, rendeva assai incerta la situazione a sud, mentre il movimento comunale da una parte, e la predicazione di Arnaldo da Brescia dall'altra, creavano difficoltà gravissime al papa anche nella stessa Roma.
Fin dal dicembre del 1155 il papa aveva cercato di trovare un accordo col Barbarossa, notificandogli la sua elezione a mezzo di un'ambasceria di tre cardinali, con una lettera nella quale si auspicava la pace tra il regnum e il sacerdotium. A. si rivolgeva, per favorire questa missione, a Wibaldo di Stavelot, il vecchio collaboratore di Corrado, che in tutta la sua lunga attività politica aveva cercato di favorire un accordo tra il regno e la curia. Wibaldo era anche il tecnico dei rapporti tra gli Staufer e Bisanzio; ora, nell'intricata situazione del momento, le relazioni tra Manuele Comneno e Federico Barbarossa rappresentavano un elemento di grande importanza. Secondo l'accordo di Salonicco tra Corrado III e il βασιλεύς era prevista un'azione comune dei due sovrani contro il Regno normanno; nel concordato di Costanza, Federico ed Eugenio si erano impegnati a non concludere accordi e a non cedere terre ai Greci; durante la permanenza del Barbarossa nell'Italia settentrionale si erano avute, e ancora erano in corso, ambascerie tra le due corti. Il contenuto di esse non era noto, ma questo fatto certamente obbligava il papa a tener presente anche il problema dei rapporti politico-religiosi con Bisanzio, accanto agli altri che lo toccavano da vicino. Così se la situazione cittadina romana era tanto grave da obbligarlo, proprio la domenica delle Palme del 1155, a lanciare l'interdetto contro la città, in seguito al ferimento di un cardinale - interdetto che fu tolto solo dopo che Arnaldo da Brescia venne bandito da Roma e furono sconfessate, se non abolite, le istituzioni repubblicane - il papa cercava attraverso l'arcivescovo di Benevento e il metropolita di Salonicco, Basilio di Achrida, di mantenere rapporti per l'unione delle Chiese, ma anche con sottintesi politici col βασιλεύς bizantino.
Orizzonti vasti, rapporti coi due imperi, col Regno normanno, con le monarchie europee, si aprivano alla politica di A. e nello stesso tempo cresceva l'urgenza di una difficile situazione locale, mentre l'attività del Barbarossa nell'Italia settentrionale poteva far temere pericolosi sviluppi per gli interessi del papato, anche se si ha notizia che agli inizi del 1155 venne riconfermato il patto di Costanza, che prevedeva, come condizione per la incoronazione imperiale, l'aiuto di Federico per ristabilire l'autorità del papa in Roma e la lotta contro il re di Sicilia. Certo l'importanza di questi problemi, vicini e lontani, che ormai da molti anni interessavano la Chiesa e che continueranno per più di un quarto di secolo a rappresentare la trama entro cui si svolgerà tanta vita europea, pone l'interpretazione della figura di A., come appare dalla testimonianza di varie fonti, sotto il profilo non tanto e non solo degli avvenimenti del suo non lungo pontificato, quanto nella prospettiva più ampia della lotta tra Federico e il papato e dello scisma che travagliò la Chiesa dopo la sua morte.
L'avvicinarsi di Federico, che marciava su Roma con una fretta tale che lo si sarebbe detto un nemico piuttosto che il difensore della città, come dice il biografo di A., il cardinale Bosone, nell'aprile del 1155 rappresentò per il papa una difficoltà ancor maggiore dei torbidi interni e dell'attacco al Patrimonio ad opera di Guglielmo I. Questi da Salerno, dove si trovava al principio della quaresima, non aveva voluto ricevere i legati di A., perché il pontefice nella sua lettera non lo aveva salutato come re, ma semplicemente come signore della Sicilia, nell'evidente intento di non riconoscere il titolo regio che Guglielmo, prima come associato al trono al padre, poi, durante la sua incoronazione, aveva assunto senza il riconoscimento pontificio.
Sono queste contraddizioni e incertezze della politica papale che, nell'accordo con l'impero, aveva tentato di superare l'antitesi gregoriana, la quale per altro ora minacciava di ripresentarsi più acuta che mai. Il gruppo stesso dei cardinali era diviso tra coloro che avrebbero voluto l'accordo col Barbarossa contro Guglielmo e coloro che preferivano, secondo l'antica tradizione del papato riformatore e di Gregorio VII, la conciliazione con la Sicilia e l'opposizione alle eccessive pretese di Federico. Ci furono momenti drammatici nei movimenti delle diverse ambascerie, ma finalmente avvenne un incontro tra il Barbarossa e il pontefice l'11 giugno 1155, dopo che il primo, che l'aveva rifiutato, si era deciso a prestare al pontefice il tradizionale omaggio della staffa. Anche le cerimonie, che la tradizione aveva ormai consacrate, come quella del servizio di scudiere reso dal sovrano al pontefice, venivano messe in discussione: segno indubbio di un atteggiamento estremamente deciso di Federico per tutto quello che riguardava la sua dignità e il prestigio dell'honor imperii.
Vittima dell'accordo fu Arnaldo da Brescia, che dopo la sua fuga da Roma era stato prima arrestato, poi di nuovo liberato e finalmente preso dal Barbarossa e consegnato al prefetto della città. L'esecuzione del predicatore non aveva portato la calma tra i Romani e una delegazione del senato cercò di riproporre a Federico il linguaggio che era già stato tenuto con Corrado circa il conferimento della dignità imperiale non da parte del papa, ma dal senato stesso di Roma. Federico rispose con un atteggiamento che richiamandosi ai suoi predecessori, quali Carlo e Ottone, conquistatori con la forza dell'Urbe, se era ostile alle pretese dell'idea imperiale di Roma, non era neppure del tutto tranquillizzante per la concezione curiale dell'impero. Comunque il Barbarossa fu incoronato il 18 giugno a S. Pietro secondo il cerimoniale tradizionale stabilito nell'ordo Romanus. Ma era appena terminata la cerimonia che i Romani, insorti tra Trastevere e Castel Sant'Angelo, attaccarono le forze imperiali. A. uscì di Roma insieme col nuovo imperatore, che doveva proteggerlo; il 29 giugno fu celebrata insieme dalle due supreme autorità del mondo cristiano in Tivoli la festa dei SS. Apostoli Pietro e Paolo, e Federico ebbe modo di mostrare il suo ossequio, almeno formale, agli accordi stabiliti, rifiutando la dedizione dei Tivolesi e incitandoli a rimanere fedeli al pontefice, salvi tuttavia i diritti imperiali.
Quando il Barbarossa prese congedo dal papa pochi giorni dopo, non era, però, stata adempiuta l'altra condizione del patto di Costanza: la lotta contro il re di Sicilia. Non si sa bene se per l'opposizione dei principi o per una mancata intesa con gli ambasciatori di Manuele, che in Ancona stavano raccogliendo forze e mezzi per una spedizione contro la Sicilia, Federico dovette lasciare l'Italia senza aver concluso questa parte del suo programma. A., che non era rientrato a Roma, ma che si era fermato a Civita Castellana, dove fu raggiunto dagli ambasciatori dei ribelli del Regno normanno, decise di operare da solo contro colui che aveva attaccato per primo il Patrimonio e non si era arrestato di fronte alla scomunica. Si venne a creare una coalizione tra il papa, i ribelli normanni, come Roberto di Capua, Andrea di Rupecanina, da un lato, il conte di Loritello, Roberto di Bassavilla, cugino del re e pretendente al trono, che si era unito ai Greci, 'dall'altro. Non è facile stabilire, nelle diverse testimonianze delle fonti, a chi spetta l'iniziativa di queste alleanze, ma è certo che tra l'estate del 1155 e la primavera del 1156 si assiste nell'Italia meridionale a una singolare avventura cui partecipa il pontefice romano, malcontento dei suoi rapporti con l'imperatore che aveva incoronato, alleato con le forze del βασιλεύς per un'operazione contro quel Regno normanno, che aveva tanto appoggiato l'opera dei papi riformatori. Ma l'avventura bizantina finì con una sconfitta e il papa vi fu in parte coinvolto, anche se la conclusione del concordato di Benevento (18 giugno 1156) rappresentava, almeno nella forma, un riconoscimento dell'alta sovranità pontificia sopra il Regno normanno. In realtà il trattato e il concordato concedevano a Guglielmo tutti i diritti fino ad allora contestati e, dal punto di vista ecclesiastico, confermavano i diritti di legazia in Sicilia della corona siciliana e un notevole controllo anche nei territori continentali. In sostanza, venivano riconosciuti con un atto solenne a Guglielmo diritti e prerogative in materia di vita ecclesiastica che erano contestati a Federico.
Il concordato di Benevento, certo di immediata importanza politica, divenne anche il pretesto per l'inizio di una lunga polemica con l'impero e con gli interpreti ufficiali della diplomazia imperiale che, dal 1156, aveva trovato un elemento di punta nella persona di Rainaldo di Dassel. Secondo la lettera del patto di Costanza, accettato anche da Federico, era possibile al papa di regolare da solo i rapporti con la Sicilia, mentre Federico avrebbe dovuto chiedere il consenso del papa per ogni accordo coi Normanni; d'altra parte il Barbarossa non aveva adempiuto in questo settore gli obblighi assunti. Tuttavia, nella propaganda imperiale, si vide in questo accordo un atto di ostilità, la rottura della pace tra regno e sacerdozio e quasi una colpa di lesa maestà. È una polemica sottile di interpretazioni giuridiche, ma è anche un tentativo di stabilire su nuove basi i rapporti tra sovrano e Chiesa, cui il lontano esempio bizantino e il più prossimo normanno dava nuovo vigore. La polemica esplose in un episodio famoso, nell'ottobre del 1157, alla dieta di Besançon.
Federico che, dopo il divorzio dalla prima moglie, aveva sposato con un matrimonio non ttoppo accetto alla coscienza cristiana, se non alla forma della legge canonica, Beatrice di Borgogna, stava celebrando il trionfo della sua nuova politica che dava pieno vigore alla potenza dell'imperium nei tre regni di Germania, d'Italia e di Borgogna, quando una legazione papale composta dal cardinale Rolando, cancelliere della Chiesa romana, il futuro Alessandro III, e da Bernardo del titolo di S. Clemente, venne a presentare una fiera protesta per l'arresto da parte di alcuni feudatari di un legato pontificio, l'arcivescovo Erskil di Lund. Il documento non solo rimproverava all'imperatore il cattivo uso della spada materiale che la Provvidenza gli aveva affidato, per aver garantito con la sua negligenza impunità ai sacrileghi, ma ricordava anche, quasi a confermare la perfetta esecuzione da parte del papa degli accordi stabiliti, con la coronazione imperiale, che se l'imperatore avesse compito il suo dovere a sua volta, avrebbe potuto ottenere ancora "maiora beneficia". L'equivoco tra il significato classico della parola e quello medievale corrispondente a concessione di feudo, acuito dalla traduzione e dall'interpretazione interessata di Rainaldo di Dassel, provocò l'indignata reazione dell'assemblea. Non era possibile che l'impero, erede di quello di Giustiniano e di Carlo, che derivava direttamente da Dio, fosse concesso come un feudo e che il papa diventasse l'alto signore dell'imperatore. Tanto più grave era il conflitto in quanto il papa aveva concesso a un altro re, che si era riconosciuto suo vassallo, diritti e privilegi in materia di legazione che non si volevano riconoscere all'imperatore romano.
In realtà, con la presa di posizione a Besançon e con l'espulsione dei legati papali si volle impedire l'esercizio della loro missione e della loro autorità nelle Chiese tedesche. A. cercò l'appoggio dei vescovi dell'impero, ma costoro, anche quelli che personalmente erano favorevoli alle idee gregoriane in materia ecclesiastica, rimasero uniti all'imperatore. L'impero veniva da Dio e non si poteva in nessun modo parlare di beneficium;se certe interpretazioni, che avevano trovato anche una rappresentazione figurativa, come quella dell'omaggio di Lotario a Innocenzo II, si erano potute diffondere, bisognava eliminarle; così non si potevano ammettere certi rapporti oscuri, di cui si parlava, coi nemici dell'impero, come Guglielmo ed altri. L'allusione è evidente: non solo si accusava il papa di aver rotto gli accordi, ma gli si rimproverava di aver allacciato rapporti con tutti coloro che erano ostili all'imperatore. E questi potevano essere i Greci, e anche le città lombarde, particolarmente Milano, contro la quale era stata annunciata una nuova spedizione e una nuova discesa in Italia di Federico. La Sicilia, i Greci ed ora le città ribelli sono tutti elementi di una coniuratio che non solo viene rimproverata ad A., ma che sarà la colpa principale imputata ai sostenitori del suo successore.
Il papa tentò una conciliazione con la legazione dei cardinali Enrico e Giacinto ad Augusta, all'inizio del 1158, inviando una lettera in cui si spiegava il vocabolo beneficium, pretesto dello scontro a Besançon, nel senso tradizionale e non in quello feudale. Ma la polemica era appena iniziata e doveva avere più ampi sviluppi. Nell'estate l'imperatore scese in Italia, cinse d'assedio Milano e l'8 settembre ne ottenne la resa. Nel novembre del '58 sui piani di Roncaglia vennero emanate quelle costituzioni, che, con la restituzione all'imperatore delle regalie, riaffermavano, in una restaurazione degli antichi ordinamenti feudali, confermata dai principi del diritto romano sull'autorità imperiale, il potere del sovrano sul regno. Molti aspetti di queste costituzioni erano suscettibili di toccare la sfera dei rapporti con la Chiesa, così come il giuramento di fedeltà e l'omaggio richiesto ai vescovi e il diritto dell'imperatore di alloggiare nei palazzi episcopali; non solo, ma molte misure di Federico e dei suoi signori minacciavano diritti papali nei beni matildini e nel Patrimonio. Il senato di Roma cercava nuovi contatti con Federico e il pontefice da un lato tentò ancora vie di conciliazione, dall'altro cercò di collegarsi con le città lombarde, soprattutto con Milano, che non si era piegata a ricevere il podestà imperiale. Urto di teorie e di interessi, di interpretazioni giuridiche dei rispettivi diritti e conflitti concreti di potenza: la situazione si fa sempre più tesa e non solo si arriva a mettere in discussione il patto di Costanza, ma anche in pratica alcuni aspetti del concordato di Worms.
Secondo alcune fonti, forse ispirate dalle polemiche successive, nell'agosto del 1159 ci sarebbe stato un impegno giurato tra le città lombarde, Milano, Piacenza, Brescia e il papa, che avrebbe dovuto addirittura scomunicare il Barbarossa. Nella coalizione sarebbero entrati il re di Sicilia e anche l'imperatore d'Oriente, che, per effetto della mediazione papale, si era riconciliato con Guglielmo. Prendeva così aspetto di attualità un documento non autentico, ma comunque ricco di significato, che veniva datato al 19 marzo 1158: di fronte all'atteggiamento del Barbarossa il papa avrebbe rivendicato l'autorità di conferire l'impero e minacciato una nuova translatio a favore del βασιλεύς. Si apriva una nuova lotta tra regnum e sacerdotium, in cui accanto ai vecchi attori se ne presentavano dei nuovi: l'antica forza di Bisanzio, che si affaccia sulla scena italiana e occidentale con rinnovate speranze, e la fresca energia delle città comunali e dei regni dell'Occidente. Ma il 1 sett. 1159, nel pieno della battaglia, A. si spegneva in Anagni.
Anche se non si vuol dare troppa importanza agli elogi del cardinale Bosone, sul suo carattere, sul suo coraggio, sul suo disinteresse e sulla sua cultura, restano sempre convincenti le testimonianze di Giovanni di Salisbury sulla capacità di comprensione di A. anche di fronte alle critiche e ai consigli (Metalogicon, IV, 12; Policraticus, VI, 24).
Più valide ancora sono le prove della sua fermezza di fronte al Barbarossa, del suo personale ardimento durante l'avventura nel Regno, della sua prudenza ed abilità nelle trattative con il Barbarossa e coi Greci.
A. aveva cercato di restaurare e di accrescere il Patrimonio in Italia, rinsaldando i vincoli verso la Santa Sede da parte di città e di signori; dotò Roma di nuovi edifici, mentre, d'altra parte, curò la riorganizzazione del corpo degli Ostiarii delle basiliche romane. Ma, accanto a queste iniziative locali, ricordate nel Liber censuum e nella parte della biografia di A. che il cardinale Bosone, secondo la tradizione del Liber Pontificalis, dedica all'attività edilizia del papa, si ricorda di lui un'opera varia ed intensa per il governo della Chiesa in tutti i settori. A. cercò di mantenere buoni rapporti con i diversi regni d'Europa, e nello stesso tempo di difendere le prerogative della sede romana, come attestano i suoi rapporti con Enrico II e l'arcivescovo Teobaldo di Canterbury. Anche di fronte a Luigi VII e alla situazione francese sono segnalati numerosi interventi per mantenere i diritti della Chiesa contro tutte le minacce. Caratteristico l'atteggiamento di A. davanti ai cittadini di Vézélay, che, organizzati nel Comune, avevano minacciato le prerogative dell'abate Ponzio. In questa circostanza il papa, che pure non esitò in altro momento ad ergersi a difensore dell'indipendenza comunale nell'Italia del nord, rivolse serie ammonizioni al re di Francia e allo stesso abate perché obbligassero i cittadini a rinunciare alla loro associazione in quanto questa minacciava gli interessi costituiti dell'abbazia e della Chiesa. La stessa disinvoltura di atteggiamento A. rivelò nei riguardi della crociata, quando in una lettera a Luigi VII e ad Enrico II, che miravano ad intraprendere una spedizione in Spagna contro i Saraceni, li ammonì a ricordarsi dell'insuccesso della seconda crociata e a non muoversi senza il consenso dei principi spagnoli (19 nov. 1159). Così da un lato difese gli interessi di quei principi di fronte alle intrusioni dei sovrani di Francia e di Inghilterra e nello stesso tempo cercò di assicurarsi l'appoggio dei due re per il suo minacciato conflitto con Barbarossa. A. cercò di contemperare l'appoggio agli Ordini religiosi e ai monasteri con l'esigenza di salvaguardare i diritti della gerarchia episcopale. Di lui si ricordano anche rapporti diretti con la grande mistica Hildegarde di Bingen e con Gerhoh di Reichersberg, che gli dedicò il Liber de novitatibus huius temporis, nel quale il proposto bavarese voleva invitare il papa a prendere posizione per le sue vedute in materia di riforma ecclesiastica e di rapporti tra regnum e sacerdotium e infine nella questione cristologica dibattuta con i discepoli di Gilberto Porretano e di Pier Lombardo.
In questa ricerca di equilibrio, nello sforzo di autonomia di fronte ai gravi problemi del momento, nel tentativo di trovare di volta in volta i mezzi più idonei per conservare alla Chiesa la sua indipendenza e la sua tradizione in un'età di grandi cambiamenti, di fronte alla personalità eccezionale del Barbarossa e dei suoi collaboratori, stanno i valori e i limiti dell'azione pontificale di Adriano IV.
Fonti e Bibl.: Documenti originali della cancelleria pontificia, bolle e privilegi del papa, in Migne, Patr. Lat. CLXXXVIII; altri documenti citati in Ph. Iaffé, Regesta Pontif. Rom., e in P. F. Kehr, Italia Pontificia, I-VIII, Berolini 1906-1935; molte bolle inedite sono pubblicate in W. Holtzmann, Papsturkunden in England, Berlin 1930-31, 1935-36. Si veda anche il Liber censuum, a cura di Fabre e Duchesne, Paris 1910. La biografia di A. ad opera del cardinale Bosone si trova nel Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, II, Paris 1892, pp. 388 ss. Sulla gioventù di A. notizie interessanti in Willelmus Novoburgensis, Historia anglicana (Rolls series 199 ss.). Per i rapporti col Barbarossa si veda Othonis et Rahevini Gesta Friderici I imperatoris, Scriptores rerum Germanicarum, Hannoverae 1884, index;Gotifredi Viterbensis Gesta Friderici I et Henrici VI, Scriptores rerum Germanicarum, Hannoverae 1872; Guntheri Ligurinus in Migne, Patr. Lat., CCXII; Gesta di Federico I in Italia, a cura di E. Monaci, Roma 1887, passim;Iohannis Saresberensis Metalogicon, l., IV, 42; Policraticus, a cura di C. J. Webb, I, Oxonii 1909; l. VI, 24, l. VII, 21, l. VIII, 23, ecc.; A. H. Tarleton, Nicholas Breakespear, Englishman and Pope, London 1896; H. K. Mann, The lives of the Popes in the early Middle Ages, London 1914, pp. 231-340; A. O. Johnsen, Studier verdrorende kardinal Nicholaus Breakespears legasjon tinorden, Oslo 1945; O. J. Thathcher, Studies concerning Adrian IV, Chicago 1903, pp. 153-238. Oltre a questi studi monografici si vedano le Storie della Chiesa in questo periodo dell'Hauck, dello Haller e, da ultimo, R. Foreville, in R. Foreville e G. Rousset de Pina, Du premier concile du Latran à l'événement d'Innocent III, II, Paris 1953, pp. 5-49; per i rapporti con la monarchia normanna si veda F. Chalandon, Histoire de la domination normande en Italie et en Sicile, II, Paris 1907, passim e specialmente pp. 194-199, 210-212, 231, 233, 254-261; per i rapporti con Federico Barbarossa, oltre alle opere classiche sull'argomento, si vedano tra le più recenti, P. Brezzi, Roma e l'impero medievale, Bologna 1947, pp. 341-343, 346, 350; A. Frugoni, Arnaldo da Brescia nelle fonti del sec. XII, Roma 1954, passim;P. Lamma, Comneni e Staufer, I, Roma 1955, passim.