ALESSANDRO VII, papa
Nacque Fabio Chigi a Siena il 13 febbr. 1599, da Flavio, discendente del "magnifico" Agostino, e da Laura Marsili. Trascorsi a Siena in un fecondo fervore intellettuale gli anni della sua giovinezza, formandosi, specie alla scuola del letterato Celso Cittadini, quel gusto erudito e, pare da autodidatta, quel gusto artistico che impronteranno i suoi interessi di uomo di cultura, la sua bibliofilia e il suo splendido mecenatismo da pontefice, si trasferì nel dicembre 1626, compiuti gli studi giuridici, a Roma per iniziarvi la carriera curiale.
I rapporti con l'ambiente di Rota, con l'uditore e poi decano Clemente Merlini, ma anche i legami con i circoli colti romani, che egli seppe avviare ben presto, gli valsero nel 1629 la nomina a referendario delle Due Segnature da parte di Urbano VIII, che lo inviò di lì a poco come vice legato a Ferrara presso il cardinale Giulio Sacchetti. Con questo il Chigi si unì in duratura amicizia, importante per i riflessi e le conseguenze future. Dopo un quinquennio passato col Sacchetti, il Chigi non trovò presso il successore di lui, il cardinale G. B. Pallotta, quella concordanza di spirito che aveva resa fruttuosa la collaborazione per il governo della legazione, tanto da essere indotto nel 1634 al ritorno a Roma, dove fu ordinato sacerdote, nominato vescovo di Nardò (8 genn. 1635) ed inviato a Malta con l'incarico di inquisitore e di visitatore apostolico. Anche nell'isola per altri cinque anni, nei rapporti con i cavalieri, egli diede buona prova delle proprie doti amministrative e diplomatiche, finché le non buone condizioni di salute e le congiunte pressioni degli amici romani gli ottennero il richiamo e l'incarico più importante e impegnativo (giugno 1639) di nunzio a Colonia, dove il Chigi giunse nell'agosto.
Il periodo della sua nunziatura in terra tedesca costituì per i complessi problemi che egli si trovò ad affrontare il vero banco di prova delle sue capacità e l'occasione che lo rese non solo profondo conoscitore delle principali questioni politico-ecclesiastiche che si agitavano in quegli anni quanto, per la sua duttilità e insieme per lo zelo di spiegato nell'applicazione autoritaria delle direttive pontificie e curiali, ben accetto agli ambienti romani, al cardinal nepote F. Barberini e all'Albizzi, assessore del S. Uffizio, come poi al pontefice Innocenzo X e al cardinale Spada, che doveva maggiormente favorirlo.
Fu infatti il Chigi, che ebbe parte negli affari della nunziatura di Bruxelles, prima col Pauli-Stravius, ma, soprattutto, con la nomina, nel 1642, a internunzio del nipote A. Bichi, a dover affrontare le questioni sollevate dalla prima condanna dell'Augustinus di Giansenio (con la bolla In eminenti del 1642, ma pubblicata nel 1643) e a partecipare alle prime vicende del grande contrasto dottrinale e disciplinare. Al quale in parte contribuì con la ristampa del documento romano inviatogli dall'Albizzi, che ne era stato fautore ed estensore: alla bolla non priva di errori tipografici egli apportò talune variazioni, nella data, da lui mutata dallo stile ab incarnatione, proprio della curia, in quello comune a nativitate, e nel testo, creando, però, quelle incongruenze formali che diedero facilmente adito ad accuse di alterazione e falsificazione della bolla e vennero sfruttate nelle successive polemiche da parte giansenista per inficiarne il valore.
Per quanto breve, questa prima esperienza e questo primo contatto con il problema giansenistico fu determinante per gli orientamenti futuri del nunzio, che dai gruppi antigiansenisti belgi, per i quali agi da tramite con la curia, ricevette suggerimenti e pressioni rimanendone chiaramente influenzato. Ma più, allora e in seguito, dai rapporti con i gesuiti, che ebbero gran parte nella sua formazione spirituale, in specie con il Van der Veken, per molti anni suo ascoltato consigliere e direttore di coscienza, trasse quei convincimenti che rimarranno alla base della sua azione di pontefice.
Nel maggior fervore delle discussioni, l'urgenza dei problemi politici sul turbato scacchiere europeo indusse la S. Sede a nominare, il 23 dic. 1643, il Chigi nunzio pontificio straordinario al congresso di Münster per la pace che venne detta di Vestfalia.
Una serie di rappresentanti papali aveva preceduto il Chigi, dal cardinale Marzio Ginetti, inviato nel 1636 al congresso di Colonia e rientrato deluso dopo quattro anni per l'ostilità francese, a F. M. Machiavelli e C. Rossetti, entrambi ancora invisi alla Francia. Se si preferì il Chigi, figura certo non ancora di primo piano nella diplomazia pontificia, e se si incontrò il gradimento francese (24 genn. 1644), le difficoltà erano ben lontane dall'essere appianate. Il 1644 trascorse per il Chigi nell'incertezza, dopo la morte di Urbano VIII e l'elezione di Innocenzo X (15 sett.), che egli personalmente non conosceva e sul quale furono esercitate pressioni da parte spagnola perché richiamasse il proprio rappresentante. Né in seguito, fino al dicembre 1649, dopo la stipulazione della "infame" pace di Münster, come il Chigi la definì, egli ebbe vita facile durante le logoranti fatiche del congresso, quale mediator pacis insieme con l'ambasciatore veneziano A. Contarini. Ma le più gravi difficoltà del Chigi erano determinate, sopratutto, dal generale orientamento della S. Sede verso i problemi del mondo tedesco, orientamento che anche sotto Innocenzo X continuò la erronea politica dei Barberini (ne sono prova le successive istruzioni inviate ai rappresentanti pontifici e al Chigi, sostanzialmente e spesso letteralmente identiche): accanto alla "indifferenza" e alla neutralità tra le parti in contesa veniva raccomandata la salvaguardia intransigente degli interessi cattolici. In tal modo l'opera del Chigi, per quanto abile, dovette limitarsi, da una parte, a superare le complicazioni formali e protocollari dei plenipotenziari e a ricèrcare quelle formule di compromesso che permettessero la continuazione delle trattative, mentre, dall'altra, sul piano politico, dovette registrare il più clamoroso dei fallimenti. Il Chigi venne a trovarsi sempre più isolato tra le posizioni assolutamente politicizzate sia spagnole sia francesi; sostenendo il gruppo dei cattolici intransigenti, l'ambasciatore spagnolo conte di Peñaranda, il vescovo di Osnabrück F. W. de Wartenberg, il gesuita H. Wangnereck, si alienò lo schieramento dei cattolici "politici", inclini alle maggiori concessioni in vista della conciliazione, rappresentato da Massimiliano di Baviera e dai consiglieri dell'imperatore Ferdinando III, tra i quali il Caramuel; nel grande vuoto politico creatosi in quegli anni intorno alla Chiesa romana la linea da lui patrocinata non poté neppure giovarsi del coperto contrasto tra Francia e Svezia. Perduto ogni aggancio con la realtà della situazione in ossequio alle rigide direttive della S. Sede, il Chigi assisté così senza potervi minimamente influire al cedimento completo degli imperiali e alla stipulazione di quelle clausole del trattato di pace che, con la restitutio alle condizioni del 1618, sanzionò uno stato di fatto, ma lese gravemente gli interessi cattolici, consacrando la scissione religiosa, il principio delle Chiese territoriali, la spoliazione dei beni ecclesiastici. Egli si rifiutò di firmare i protocolli, il 24 ott. 1648, e protestò ufficialmente contro le decisioni dei plenipotenziari dieci giorni dopo la chiusura del congresso. Pure si adoperò a che la curia non intervenisse violentemente contro le deliberazioni di pace e suggeri diverse modifiche alla bolla di protesta e di disconoscimento delle conclusioni di Vestfalia emanata da Innocenzo X nel 1651.
Questo periodo di maneggi diplomatici doveva, però, risolversi in un altro elemento importante per la vita del Chigi, poiché contribuì non poco ad alienargli le iniziali simpatie francesi (il Mazzarino nel 1644 avrebbe compiuto qualche passo a Roma per il cardinalato del Chigi): il nunzio nel suo ruolo di moderatore ebbe più volte a contrastare le pretese francesi e ad attraversare quei piani francesi di saldo inserimento nel gioco politico europeo tra l'Impero esausto e la Spagna in decadenza, che dovevano, col Mazzarino, preparare la base per le affermazioni di supremazia di Luigi XIV. E il Mazzarino nella Istruzione per il conclave, dopo la morte di Innocenzo X, dichiarando la esclusiva francese per il Chigi, farà appunto risalire agli anni di Münster l'ostilità francese contro uno dei più probabili candidati alla tiara (confronta in Lettres du cardinai Mazarin..., a cura di A. Chéruel, VI, Paris 1890, pp. 343-352: "...per l'impiego che ha havuto in Münster, che è quello che l'ha fatto conoscere a noi per il più incapace di tutti gl'huomini per il governo della chiesa universale..." ecc.). Può anzi dirsi che nel periodo di Münster va vista la genesi lontana di molti orientamenti della politica di A. VII verso la Francia e della Francia verso il papato.
Da Münster il Chigi venne inviato ad Aquisgrana (dic. 1649 -ott. 1651) per i preliminari di pace tra Francia e Spagna che non ebbero seguito. Innocenzo X, che avrebbe voluto richiamarlo in Italia già nel 1649, fu indotto dai suggerimenti del cardinale Spada, esponente del gruppo di cardinali e prelati di curia più rigidi, in particolare sulla questione giansenistica, dietro il quale era l'Albizzi, a ordinarne il ritorno e a designarlo quale successore del cardinale G. G. Panciroli alla segreteria di stato, il 9 sett. 1651. Il mese successivo il Chigi rientrò a Roma, dopo dodici anni di lontananza.
Nei quattro anni in cui rimase nella nuova carica, sullo scorcio del pontificato pamphiliano, seppe inserirsi nella vita di curia e della corte pontificia, mantenendo un difficile equilibrio nei rapporti con i parenti del pontefice, tra cui la influente cognata di Innocenzo, Olimpia Maidalchini, e i cardinali Sacchetti e F. Barberini, allora in disgrazia presso il papa. Ma andrà, soprattutto, posta in evidenza del Chigi segretario di stato la parte avuta nella congregazione speciale cardinalizia per il giansenismo, istituita da Innocenzo X dopo la denunzia da parte dei vescovi francesi dell'opera di Giansemo, congregazione che, iniziatasi il 12 apr. 1651, portò alla promulgazione della bolla Cum occasione del 31 maggio 1653 e alla condanna di cinque proposizioni dell'Augustinus.
Nelle discussioni il ruolo di primo piano fu svolto ancora dall'Albizzi che tanta parte già aveva avuto nella elaborazione della In eminenti, il Chigi, che non aveva propriamente preparazione teologica, come nessun altro dei cardinali presenti (ché anzi, come sottolinea il Pallavicino, che della congregazione fu qualificatore, da essa furono esclusi deliberatamente i due cardinali teologi Maculani e de Lugo, domenicano e gesuita) partecipò alla discussioni dalla XIV congregazione in poi (11 apr. 1652), affiancandosi all'Albizzi e rappresentando insieme quell'esigenza disciplinare che andava sempre più facendosi strada nel dibattito teologico. Tale esigenza il Chigi espresse più volte al di fuori della congregazione nei colloqui con il Saint-Amour, rappresentante ufficiale di quella minoranza di vescovi francesi che si era schierata a favore della dottrina agostiniana, che si temeva sarebbe stata compromessa da una condanna dell'opera di Giansenio; e impersonò poi, a conclusione dei lavori della congregazione, quando fece propria presso il pontefice l'istanza dell'Albizzi di emanare una bolla e non un semplice decreto e quando, respinto da Innocenzo un primo abbozzo della bolla steso dal solo Albizzi ed elaboratone un secondo (insieme dal Chigi e dall'Albizzi), si trovò a dover vincere l'ultima resistenza del papa, incerto di fronte al grave passo che era sul punto di compiere. Determinante fu allora, in nome dell'autorità della S. Sede a difesa dell'ortodossia e del giudizio infallibile del pontefice nelle controversie di fede, l'opera di persuasione da lui svolta presso Innocenzo per la promulgazione di quell'atto che avrebbe poi avuto tante conseguenze durante il pontificato dello stesso Chigi.
Divenuto cardinale il 19 febbr. 1652 e vescovo di Imola il 13 maggio, il Chigi vide accresciuta la propria influenza in curia negli ultimi tempi del pontificato di Innocenzo X dopo la disgrazia del cardinal nepote Pamphili (già Astalli), i cui incarichi e le cui responsabilità passarono a lui, pur se l'abile Maidalchini prese a contrapporgli l'Azzolini, che, ottenuto il cardinalato nel 1654, pareva destinato a succedergli nella segreteria di stato. Ma la lunga malattia di Innocenzo e la sua morte, il 7 genn. 1655 lasciarono sostanzialmente immutata nel suo prestigio la posizione del Chigi.
Il conclave, iniziatosi il 18 gennaio, vide un fatto che da più pontificati non si verificava nella vita della Chiesa, la mancanza, cioè, di un cardinale nepote che impersonasse la politica del papato precedente e condizionasse in certo modo, per aderenze e legami con cardinali eletti dallo zio pontefice, l'elezione del successore. Le coloriture politiche, però, rimanevano quelle tradizionali: il gruppo dei cardinali spagnoli faceva capo ai due medicei, Carlo, decano del S. Collegio, e Giancarlo; il gruppo "francese" era guidato da R. d'Este e da A. Barberini. A parte erano il gruppo dei cardinali anziani, creati da Urbano VIII, controllato da F. Barberini, e il gruppo dei cardinali di Innocenzo, lo "squadrone volante",che contava tra gli altri l'Albizzi, l'Azzolini e l'Ottoboni. Il candidato più probabile fu, in un primo tempo, il Sacchetti, che, pur sostenuto dai "francesi", dai "barberiniani" e dai "volanti",non raggiunse, per l'ostilità spagnola, più di trentasei voti sui quarantaquattro necessari all'elezione. Al Chigi, cui andavano simpatie da diversi settori, si opponevano l'esclusiva non pubblica del Mazzarino e l'ostilità dei cardinali anziani, contrari a un candidato appena cinquantaseienne.
La situazione si protrasse fin quando il Sacchetti, accortosi che parte dei voti controllati dal Barberini sarebbero andati al Rapaccioli, fu indotto a richiedere al Mazzarino il ritiro dell'esclusiva per il Chigi. La risposta francese del 4 marzo 1655,per quanto non annullasse le riserve sulla persona del Chigi, ne permetteva l'elezione il 7 aprile successivo con venticinque voti più trentanove di accessus. Egli si chiamò A.VII a ricordo, come disse, del terzo di tal nome.
Un esame delle principali vicende del pontificato di A. dovrà tener presenti i motivi essenziali già delineati della sua personalità: formatosi nella vita della diplomazia e della curia, buon esecutore e interprete di quegli orientamenti e di quegli interessi profondamente strutturati nel centro del cattolicesimo, A. nella sua azione religiosa e politica mancò di una decisa volontà accentratrice e tese piuttosto a vedere le questioni quale risultato di discussioni e consigli: donde nel suo pontificato una ripresa delle attività delle congregazioni, smorzata nei decenni precedenti, e addirittura il ripristino di alcune congregazioni, come quelle della Visita e degli Sgravi, istituite da Clemente VIII e poi abolite; e l'importanza che assunse il gruppo dei suoi intimi e consiglieri, l'Albizzi, il Pallavicino, che egli creò cardinale, il Bona, ecc. Dal che derivò talvolta un'oscillazione e un'incertezza nelle decisioni e certo disinteresse nella trattazione diretta degli affari da parte del pontefice, che andò accentuando quell'amore per la quiete appartata, per la meditazione e i colloqui con i suoi collaboratori, espressione di un gusto culturale umanistico e di tendenze ascetiche che agivano profondamente nella sua formazione. Pure numerosi momenti del papato di A., frutto di un intervento personale del pontefice o dei suggerimenti del suo entourage, rappresentano punti nodali nella vita religiosa, ecclesiastica e politica della Chiesa a metà '600, tali da influire sui pontificati successivi, da perdurare - almeno alcuni - sino alla metà del sec. XVIII, e comunque da contribuire esemplarmente alla costruzione di quell'edificio organizzativo e disciplinare della Chiesa postridentina, che A. sentì in tutta la sua complessità.
Ad A. pontefice si presentò immediatamente e più grave che negli anni precedenti il problema del giansenismo, questa volta travalicato dai Paesi Bassi alla Francia.
La Cum occasione aveva originato una damorosa discussione sul senso da attribuire alle cinque proposizioni condannate e Arnauld aveva avanzata la distinzione, divenuta famosa, tra la questione di diritto e quella di fatto, negando la presenza delle cinque proposizioni condannate in Giansenio, o che esse fossero state condannate nel senso di Giansenio, ed aveva elaborato sulla quaestio facti la teoria del "silenzio rispettoso", cioè di un'ubbidienza puramente disciplinare ed esteriore alla condanna della S. Sede, di contro agli antigiansenisti, che reclamavano la piena accettazione e la sottoscrizione di fede di un formulano. Innocenzo X aveva risposto con vaghe ammonizioni, ma da A., che tanto si era adoperato per la promulgazione della bolla, era da aspettarsi un intervento ben più deciso.
Maturò così, anche per le pressioni dell'Albizzi, un nuovo documento, la bolla Ad sanctam beati Petri Sedem del 16 ott. 1656 (ma decisa già nel mese di aprile), in cui A., confermando la Cum occasione, attestò, come intervenuto alle discussioni sulle cinque proposizioni gianseniane, la cura con cui l'esame era stato condotto e dichiarò le cinque proposizioni estratte dall'Augustinus e condannate nel senso inteso dall'autore.
La rinnovata condanna papale, pur se accettata dall'Assemblea del clero francese del 1656-57,che impose accanto all'accettazione della bolla la segnatura di un formulano, non solo non risolse la situazione, ma l'aggravò, poiché la discussione dal problema giansenistico venne spostata a quello ben più ampio della estensione della infallibilità della Chiesa e del pontefice sulle questioni di fatto, per l'affermazione di A. intesa in tal senso, che incontrò una irriducibile opposizione nei settori filogiansenisti e, ancor più, gallicani del clero e delle magistrature francesi. La bolla Ad sanctam, che non fu per questo registrata, acquistò in tal modo, per l'interpretazione di cui fu oggetto, un valore che trascende l'episodio da cui essa era stata originata.
Falliti tutti i tentativi di pacificazione religiosa e imposta più duramente dal re la segnatura del formulano (1664), Luigi chiese ad A. una nuova presa di posizione. A. emanò allora, il 15 febbr. 1665, la bolla Regiminis apostolici, con la quale ribadì le due bolle del 1653 e del 1656 e prescrisse a tutti gli ecclesiastici la sottoscrizione di un formulano analogo nella sostanza a quello presentato dall'Assemblea del clero del 1657. La registrazione della bolla voluta questa volta dal re non fu in grado di spezzare il fronte degli oppositori: la resistenza fu impersonata da Nicole e dai quattro vescovi di Alet, Beauvais, Angers e Pamiers, che, nel riacutizzarsi violento della questione di fatto, negarono la infallibilità della Chiesa in materia e dichiararono la sottoscrizione del formulano un puro atto di rispetto e di disciplina verso l'affermazione del pontefice. Condannato il Mandement dei quattro vescovi (18 genn. 1667), A. decise di portare a giudizio dinanzi a nove confratelli francesi, come da lui delegati, i disobbedienti. La sua morte, il 22 maggio, troncò quest'ultima e più dura fase del contrasto. Spetterà al successore di A., Clemente IX Rospigliosi, che era stato segretario di stato di papa Chigi, abbandonare la linea di assoluta intransigenza e tentare quella pacificazione degli animi che, con qualche cedimento e compromesso da parte della S. Sede, culminò nella cosiddetta pace clementina del 1669.
Sul problema del giansenismo il pontificato di A. si chiudeva così con un bilancio negativo: le chiare prese di posizione pontificie non solo non erano state in grado di vincere prevedibili resistenze, ma avevano provocato e ninvigorito quegli orientamenti gallicani della Sorbona e del Parlamento di Parigi (condannati da A. nel 1665 con una dura bolla Cum ad aures, ispirata dal Pallavicino e dall'Albizzi), su cui, contro i successori di A., avrebbe fatto leva l'assolutismo di Luigi XIV. Ma, d'altra parte, con la Regiminis apostolici, A., cedendo alle pressioni di Luigi, dimentico questa volta di rivendicazioni gallicane, realizzò un fatto nuovo nell'atteggiamento della Chiesa riguardo al giansenismo e compì un gesto di estrema importanza per il futuro: legandosi nella lotta contro il giansenismo alla monarchia francese, dopo che questa aveva fatto valere con gli avvenimenti politici del 1662-64 (v. oltre) il suo intervento imperioso sul papato, sottrasse l'iniziativa alla S. Sede e fece travalicare definitivamente la controversia sia religiosa sia disciplinare dall'ambito ecclesiastico nel settore politico; ma, ponendo le premesse di una più stretta convergenza e intesa tra Roma e Francia intorno alla questione giansenistica, che diverrà operante, dopo le più recise affermazioni del programma gallicano, negli ultimi tempi di regno di Luigi XIV, configurò di lontano lo schema entro cui si svolse ampia parte delle vicende della Chiesa francese ancien régime.
Alla questione giansenista si accompagnò, durante il pontificato di A., un vasto dibattito dottrinale nel settore della teologia morale, contro gli eccessi del probabilismo diffusosi nella Chiesa nel corso della prima metà del sec. XVII. L'insorgenza di rigorismo, quale reazione, favorita anche da tendenze giansenisteggianti, antigesuitiche e, più generalmente, agostiniane, si configurò come opposizione netta al lassismo e trovò, negli ultimi anni del papato di A., il suo sbocco in una serie di decisioni pontificie.
Già nel 1656 A. aveva intimato al capitolo generale dei domenicani riunito a Roma di opporsi alle nuove opinioni morali (v. Ceyssens, Le cardinal Jean Bona..., p. 100) e pareva orientato per la pubblicazione di una bolla contro il probabilismo. Ne sarebbe stato distolto dal Pallavicino, che l'avrebbe persuaso a non procedere ad una condanna generale, ma a colpire singole proposizioni lassiste, già denunziate o condannate in parte dall'università di Lovanio e da vescovi belgi e francesi: da qui un primo decreto del S. Uffizio del 24 sett. 1665 includente ventotto proposizioni (senza i nomi degli autori, ma alcune del Guimenius, Caramuel, Amico) e un secondo del 18 maggio 1666 includente altre diciassette proposizioni (alcune da Sanchez e Diana), entrambi opere, come si suppone, del Bona e dell'allora membro e presto assessore del S.Uffizio, poi cardinale, Casanate. Le condanne di A. prelusero a quella emanata per altre sessantacinque proposizioni lassiste, in modo analogo, nel 1679, da Innocenzo XI; è certo che in questo senso esse furono fondamentali per lo sforzo di elaborazione della teologia morale nel corso del '600.
Saranno da menzionare infine due altri particolari documenti, notevoli per il loro significato, che mostrano come A. fosse attento agli sviluppi del dibattito dottrinale, ma, al tempo stesso, incline a far maturare quei motivi della tradizione che apparivano ancora discussi. Il primo, riguardante la pietà mariana, suonava risposta alle pressioni spagnole per la definizione del carattere del culto dell'Immacolata Concezione. Conscio dell'antichità e della diffusione di tale opinione e della sua accettabiità nella Chiesa cattolica, come gli veniva suggerito anche dal Pallavicino, A. emanò la bolla Sollicitudo omnium Ecclesiarum dell'8 dic. 1661, in cui rinnovò i decreti favorevoli di Sisto IV, Paolo V e Gregorio XV, ma proibì, in attesa di una decisione della S. Sede, di incolpare coloro che sostenevano l'opinione contraria di eresia o peccato mortale. È l'ultimo importante atto pontificio prima della prescrizione generale della celebrazione della festa della Concezione in tutta la Chiesa ad opera di Clemente XI (1708). Esso per il suo carattere disciplinare sopì ogni discussione fino alla celebre polemica muratoriana contro il "voto sanguinano" apertasi intorno alla metà del '700.
Con il secondo documento, il decreto sull'attrizione del 5 maggio 1667, A. rispose alla controversia, scoppiata nei Paesi Bassi, in particolare a Gand e Lovanio, ma sentita fortemente negli ambienti ecclesiastici con cura d'anime, circa la natura dell'attrizione sufficiente per l'assoluzione sacramentale. Anche per questo documento singolare fu la partecipazione del Pallavicino, al quale, come al pontefice, si erano rivolti i curati "contrizionisti" di Gand. Personalmente antiattrizionista, come, del resto, lo stesso A., ma consapevole della estrema diffusione dell'attrizionismo nel cattolicesimo, il Pallavicino, insieme con il Bona, influì molto probabilmente sul decreto pontificio del 1667, che A. firmò sul suo letto di morte e che impose silenzio alle parti in attesa di una decisione della Chiesa. Questa mancò, ma il documento rimase tra i termini ineliminabili delle discussioni successive: ancora un secolo dopo, s. Alfonso Maria de' Liguori doveva rifarsi al decreto alessandrino.
L'uso dei decreti e l'attività della Congregazione dell'Indice e di quella del S. Uffizio non conobbero sosta col pontificato di A.: per l'Indice anzi A. fece approntare una nuova edizione nel 1664 che completò l'Indice clementino del 1596, raccogliendo le proibizioni e le condanne di libri dal 1601 al 1662-63, e riordinando non solo un imponente materiale che si era venuto accumulando quanto le norme consacrate da una lunga pratica dopo i dettami del Tridentino e l'istruzione dementina. L'iIndice alessandrino con graduali ampliamenti conobbe numerose edizioni per tutto il secolo e oltre (anche se le edizioni del 1681, 1683, 1685, ecc., vanno sotto il nome di Innocenzo XI) e fu sostituito soltanto nel 1758,sotto il pontificato di Benedetto XIV, dal nuovo Indice curato dal domenicano Ricchini.
Alla durezza di certe decisioni, però, fanno riscontro concessioni maggiori in altri settori, specie in quello missionario, a cui A. fu particolarmente sensibile e che conobbe un intenso sviluppo negli anni del suo pontificato.
Con A. venne regolata, almeno temporaneamente (23 marzo 1656), la questione dei riti cinesi, condannati un decennio prima da Innocenzo X. A., diversamente dal precedessore, si mostrò disposto ad accogliere il punto di vista dei missionari gesuiti e tollerò un'interpretazione più larga, permettendo, secundum exposita, ai cristiani della Cina l'omaggio a Confucio, il culto degli antenati e alcune altre cerimonie quale espressione di un culto soltanto civile e politico e non religioso. Il decreto alessandrino fu accolto dai missionari durante le cosiddette conferenze di Canton del 1668: esso, però, lasciando aperta la discussione sul vero carattere dei riti, segnò un punto di compromesso tra le opposte tendenze e diede adito, nonostante il decreto di Clemente IX del 13 nov. 1669, che confermò i due documenti precedenti tra loro in qualche modo discordanti, alle ulteriori discussioni che si riaprirono violentemente Sotto Innocenzo XII e sotto Clemente XI, soprattutto nel primo decennio del '700. Ma, ancora nell'Estremo Oriente, la decisione maturata con il pontificato di A. di creare una gerarchia missionaria (1658), inviando tre vicari apostolici di nazionalità francese, e di spezzare il monopolio portoghese nel settore, fu estremamente significativa per il futuro, poiché ripropose in termini concreti la possibilità di formazione di un clero indigeno, sino allora rimasta puramente teorica.
Tale possibilità riportò in discussione una importante questione, dibattuta già sotto Paolo V, ma di cui si era perso il ricordo, cioè dell'uso del cinese, come di altre lingue orientali, nella liturgia e per le traduzioni della Scrittura. Con il privilegio Romanae sedis antistes del 27 giugno 1615 Paolo V aveva permesso l'uso: ma il privilegio non aveva avuto attuazione per la mancanza di un clero indigeno. A., ignorando la decisione del predecessore, nella nuova situazione di fatto venutasi a creare sollevò il problema, incaricandone una speciale congregazione, e personalmente si mostrò favorevolmente disposto, sebbene con-dannasse poi, con breve del 12 genn. 1661, recisamente, attraverso la traduzione francese del Messale (del Voisin), ogni eventuale traduzione nelle lingue europee dei testi liturgici e della Scrittura. Se l'orientamento papale trovò consensi nella congregazione da parte dell'Albrizzi, dell'Allacci, del Rancati e una apertura possibilistica da parte dell'Albizzi, la maggioranza fu di parere contrario e giudicò immatura qualsiasi decisione. A. accolse il parere negativo della congregazione, ma con il breve Super Cathedram del 9 sett. 1659 dispensò per un settennio, poi continuamente rinnovato, i missionari indigeni dalla lettura di parte dell'Uffizio in latino, che venne sostituita da preghiere in cinese, e delimitò temporaneamente la questione che doveva, come altre, riaprirsi in seguito.
Dove più chiaramente risaltano alcune intrinseche debolezze del pontificato di A. è al di fuori dell'azione ecclesiastica e di politica ecclesiastica, nella quale, se si sono notate pressioni diverse esercitate secondo i momenti dalle tendenze di curia sul pontefice (tipici, a questo proposito, gli interventi del Pallavicino e dell'Albizzi per la lotta contro il giansenismo e il gallicanesimo, del Bona e del Casanate per la condanna del lassismo), pure è stato possibile delineare un orientamento non privo di coerenza e di energia e una preoccupazione costante di intervenire e di dare risposta alle maggiori questioni successivamente affrontate: con una vocazione autoritaria che in A. si accompagnò per lo più alla ricerca di un equilibrio armonizzatore tra i partiti curiali, che erano insieme espressione di più vaste discussioni nel mondo cattolico. Nell'azione più propriamente politica, che può sintetizzarsi nei rapporti con la Francia, si colgono i limiti, oltre che di una personalità, di un intero momento storico della Chiesa.
Si è accennato all'inimicizia del Mazzarino nei riguardi di A., ma converrà aggiungere come essa, motivata dall'ostilità francese verso un atteggiamento politico che si sforzava di essere imparziale e veniva interpretato come filospagnolo (e di appena velate simpatie filospagnole si dovrà parlare per A., che in questo seguì la linea politica di Innocenzo X), in un primo tempo si sia articolata intorno al caso del cardinale di Retz, il grande nemico politico del Mazzarino, che, dopo lunghe e complicate trattative, A. privò dell'arcivescovado di Parigi e, sia pure salvando il principio delle immunità ecclesiastiche, sacrificò al risentimento del potente ministro (1662). Ma A. accentuò la frattura con la Francia quando, preoccupato per il pro-trarsi della guerra franco-spagnola, volle interporsi come mediatore tra i contendenti, con un breve diretto all'Assemblea del clero del 1655-56, nel quale auspicò una pronta pacificazione e biasimò i tentativi che i due regni andavano facendo per stipulare un'alleanza con Cromwell. L'intervento papale non solo non impedì che la Francia raggiungesse il suo intento, ma spinse il Mazzarino a reagire e a porre le basi di più ampi contrasti con Roma, su due fronti diversi, nella stessa Francia sul piano della politica ecclesiastica, quando egli in funzione antipapale prese a blandire e a sviluppare intorno al tronco giansenistico i motivi gallicani, e in Italia, dove seppe abilmente soffiare sul fuoco delle rivendicazioni di Parma e Modena contro la S. Sede per le questioni di Castro e Comacchio.
La stipulazione, a insaputa del pontefice, della pace dei Pirenei tra Francia e Spagna (7 nov. 1659), con le clausole imposte dal Mazzarino circa le pretese dei duchi di Parma e Modena contro il pontefice, e il ritardo della comunicazione alla S. Sede (11 genn. 1660) sanzionarono quella decadenza politica del papato, di cui A. era stato diretto testimone a Münster.
A. rispose alle pressioni francesi su Parma incamerando Castro nel concistoro del 20 dic. 1660; ma trovò nuovi ostacoli nella sua politica verso la Francia, nonostante concessioni e cedimenti da parte sua specie sul piano della provvista dei vescovadi, quando, aumentata la pressione turca nei Balcani ai danni dell'Impero, si pose con impegno a organizzare una lega cattolica, riprendendo il programma abbozzato nel 1657 in aiuto di Venezia, alla quale egli aveva inviato la flotta pontificia e dalla quale in cambio aveva ottenuto il ritorno dei gesuiti dopo il cinquantennale esilio dal tempo dell'Interdetto. L'aspirazione papale si scontrò allora con le ambizioni di Luigi XIV in terra tedesca, dove ai piani francesi tornava utile un indebolimento dell'Impero e perciò stesso il mantenimento del peso turco ai confini orientali. Sia l'inviato straordinario francese d'Aubeville sia il ministro Créqui, giunti a Roma nel corso del 1662 per la stipulazione di una lega che non si aveva nessuna intenzione di concludere, compromisero in ogni modo volutamente i negoziati e, insieme, i rapporti tra Francia e Roma. Gli incidenti del 20 ag. 1662, provocati dalla guardia corsa pontificia contro il personale dell'ambasciata francese, in un'atmosfera già tesa determinarono, con l'esplosione di una questione di prestigio, la reazione violentissima della Francia, che costò ad A. una serie di gravi umiliazioni.
A. si trovò isolato: né l'Impero né la Spagna, impegnata con la guerra contro il Portogallo, potevano intervenire; il contegno degli stati italiani fu timoroso e ambiguo, se non ostile come Modena e Parma. Usurpati Avignone e il Contado venassino dalla Francia e votati per le pressioni di Luigi XIV dalla Sorbona i sei articoli gallicani del 1663, ad A. non restò, di fronte ad una minaccia armata, che piegarsi: col trattato di Pisa del 12 febbr. 1664 disincamerò Castro, concedendo una dilazione di Otto anni al duca di Parma, e versò per Comacchio un'indennità al duca di Modena, creando così più solida base all'influenza francese in Italia; si vide Costretto ad altri gesti di riparazione, erigendo una piramide con scritta infamante per i Corsi sul luogo del tumulto e inviando in Francia per le scuse formali il nipote cardinale Flavio Chigi. Potè solo esprimere, extrema ratio, la propria protesta in una bolla rimasta segreta.
L'episodio assume, nel più generale quadro degli avvenimenti europei, un significato e un'importanza singolari: in Europa, travolti gli schemi e le dimensioni politiche e spirituali create dalle guerre di religione e consolidatosi in Francia, dopo lunghe crisi, ultime quelle della Fronda, l'assolutismo monarchico, era finito quell'equilibrio vario tra le potenze che aveva caratterizzato la prima metà del '600 e permesso alla Chiesa di esercitare la tradizionale funzione mediatrice, a salvaguardia dei propri interessi spirituali e politici; esso si era spostato a favore della Francia e i frutti già amari proprio A. aveva raccolto durante la pace di Vestfalia. Ma nel cambiamento dei rapporti di forza giocava anche, determinante, l'ambivalenza insita nella personalità stessa del pontefice, rigidissimo nella difesa dei principi e, al tempo stesso, legato ad una scuola di alta diplomazia piuttosto che dotato di vero intuito politico, incapace di elaborare immediatamente prospettive e linee nuove della politica pontificia e di inserirsi a pieno nella nuova fase politica europea, e portato, per carattere e lunga consuetudine, a quella cautela e a quegli orientamenti di compromesso che, di fronte a decise affermazioni di potenza, non potevano non risolversi nella più completa cedevolezza. Per la S. Sede, e con la persona di A., tramontava davvero un' epoca - non senza crisi - e si iniziava una fase di alterni contrasti con la Francia durati sino alla fine del secolo.
Nella politica interna, nel governo cioè dello Stato pontificio, possiamo rintracciare tendenze analoghe a quelle già riscontrate. Qui, se mai, è avvertibile un'accentuazione maggiore da parte del pontefice a servirsi di collaboratori preposti alle diverse congregazioni: così il cardinale G. Rospigliosi, che aveva nelle mani gli affari esteri, venne chiamato alla segreteria della Congregazione di stato, che, istituita da Urbano VIII e retta già dal Panciroli e dallo stesso Chigi, assunse in tal modo la fisionomia rimastale nei secoli successivi; il cardinale Corrado datano presiedette la congregazione dell'Immunità; il Sacchetti seguitò ad avere importanza in diverse congregazioni e fu notevole il contributo da lui dato in quella dell'Abbondanza, intorno al 1656,dopo la pestilenza che devastò Roma e la Campagna, arrecando per la diminuita mano d'opera gravi danni all'agricoltura già in decadenza. Un qualche peso nella vita della curia e dello stato ebbero anche i più stretti parenti del papa. Solo ad un anno dall'assunzione al pontificato A. si risolse a far venire a Roma i congiunti, dopo che sembrò opportuno non abbandonare una tradizione importante anche per i suoi riflessi politici. Il fratello di A., Mario, fu sovraintendente alla Annona e giudice di Borgo; il nipote Flavio divenne cardinale nepote e ottenne rendite ecclesiastiche che raggiunsero i 100.000 scudi; il nipote Agostino ricevette splendidi possedimenti e il palazzo romano e sposò una Borghese. Ma questi e altri, come A. Bichi che fu grandemente beneficato, pur perpetuando il nepotismo nella corte papale, ebbero poca influenza sul pontefice, neppure paragonabile ai tempi dei Barberini o a quelli più vicini di Innocenzo X.
Dove A. lasciò orma profonda fu nelle riforme degli uffici di curia di cui egli aveva direttamente potuto constatare la venalità e gli abusi, sotto il papato Pamphili. Riordinò la cancelleria, raccogliendo le Regulae, ordinationes et constitutiones cancellariae Apostolicae, Romae 1655,e emanò quelle disposizioni per la carriera prelatizia che diedero ad essa la sua forma moderna.
A. cercò inoltre, tra i suoi principali provvedimenti di politica interna, di risolvere in qualche modo la grave situazione finanziaria venutasi a creare nello stato sin dai primi del '600, con la decadenza dell'agricoltura, il rigido sistema annonario, la diminuzione del reddito pubblico e l'aumento pauroso del debito che la fastosa e dispendiosa politica dei Barberini aveva accentuato.
Succedendo a Innocenzo X, A. trovò quarantotto milioni di scudi di debito complessivo, per i prestiti e il pagamento degli interessi che assorbivano gran parte delle entrate. Apparsagli evidente l'impossibilità di un ulteriore aumento delle imposte già pesantissime, si risolse cosi, a parte i tentativi di più rigorosa economia, per un'importante riforma finanziaria riducendo l'interesse dei "luoghi di monte", che erano il perno del sistema finanziario pontificio. Riscattò quelli vacabili e rimborsò, senza tener conto delle quotazioni, il valore nominale di quelli non vacabili, realizzando certamente un utile considerevole; ma il provvedimento scosse il credito su cui era fondato il sistema e provocò una diminuzione del valore dei luoghi. Il guadagno fu inghiottito presto dalle spese dell'aniministrazione, dalle costruzioni edilizie, alle quali A. diede grandissimo incremento, e soprattutto dal fatto che ovviamente rimase in piedi il vecchio sistema economico. Anzi A. continuò la prassi dei predecessori e nella ricerca di nuovi cespiti per le casse dello stato aumentò la tassa sul macinato, creò la privativa e l'appalto del tabacco (1655 e 1665) e mantenne il sistema annonario, rifiutandosi di prendere in considerazione quella liberalizzazione delle tratte delle granaglie che il Sacchetti gli suggerì quale rimedio alla grave crisi dell'agricoltura e del commercio nello stato. Il debito pubblico aumentò, tanto che nel 1670, a tre anni dalla morte di A., esso era salito a cinquantadue milioni.
Cagionevole di salute sin dalla giovinezza e sofferente di mal della pietra (per cui venne anche operato mentre era nunzio a Colonia), A. si aggravò nel corso del 1666: morì il 22 maggio 1667.
Il profilo di A. non sarebbe completo se non dessimo infine qualche cenno di quella che èstata definita la sua fisionomia spirituale e se non cercassimo di delineare un altro aspetto essenziale della sua personalità. Accanto alla componente organizzativa e disciplinare, più evidente e più compiutamente espressa in quegli anni di lotte dottrinali e politiche, è da vedere in A. la risonanza di motivi del tardo umanesimo, rivissuti più che nella consuetudine di comporre versi latini orazianamente atteggiati, nel mecenatismo artistico, nei rapporti eruditi e nella bibliofilia. Se la storia esterna di questi atteggiamenti di A. è nota almeno nelle sue grandi linee, ben poco si sa di quella interiore, per la limitata attenzione rivolta sino ad oggi alla vasta corrispondenza privata e alle carte e agli appunti personali del pontefice. Delle composizioni latine di A. si dirà brevemente: le Philomathi Musae iuveniles, Coloniae Ubiorum 1645, Antverpiae 1654, Parisiis 1656, Amstelaedami 1660, sono, pur nella finezza della imitazione letteraria che ammanta numerosi spunti biografici, poco più che il diletto di uno spirito colto, che anche nei momenti più duri, specie del soggiorno tedesco, amò rifugiarsi in quei "carmina animo deducta sereno". Importante invece e significativo il mecenatismo artistico di A., che giunse ad assumere le forme di un vero e proprio rinnovamento urbanistico di qualche zona di Roma: dalla costruzione berniniana del colonnato di S. Pietro, dai lavori nell'interno della basilica, dalla costruzione della scala regia in Vaticano, della Zecca, di una parte dell'Archivio, all'ingrandimento del Quirinale, la cui galleria A. fece affrescare da Pietro da Cortona, alla sistemazione delle piazze del Pantheon e della Minerva, nella quale venne eretto l'obelisco berniniano dell'elefante, all'apertura di via del Corso, alla sistemazione della Sapienza, dove venne costituita la biblioteca che da lui fu detta Alessandrina (1667), ecc. E sovrano fastoso si mostrò A. nelle accoglienze tributate a Cristina di Svezia (1655) e intelligente mecenate nell'amore per la cultura e i libri e nella protezione concessa a studiosi e ad artisti, in anni forse tra i più ricchi dell'erudizione romana seicentesca, che vide insieme l'Allacci, l'Holstenio, il Kircher, l'Ughelli, Giano Nicio Eritreo, il Pallavicino, per non parlare, tra gli artisti, del Bernini. All'Holstenio A. affidò l'incarico di trasferire nella Vaticana (1657) i codici urbinati, contesi, dopo la morte dell'ultimo duca Francesco Maria II della Rovere, tra la comunità di Urbino e la confraternita del SS. Crocifisso della Grotta: e l'acquisto suggerito ad A. dal cardinal legato Luigi Omodei evitò che essi andassero dispersi. Ma A. dedicò cure attente soprattutto alla sua biblioteca personale, per i cui acquisti sembra abbia obbedito spesso ad uno schema preordinato: così operò una scelta tra i manoscritti senesi delle biblioteche di Pio II e Pio III Piccolomini, si procurò codici dalle biblioteche di due letterati senesi suoi amici, Celso Cittadini, che fu, come si è visto, suo maestro, e Federico Ubaldini; e altri codici acquistò in Germania, come forse gli importanti originali delle epistole del Melantone, e in Francia, o ricevette in dono. Molto resta da studiare, mancando ancora una ricerca precisa sulla formazione della biblioteca attraverso gli interessi di A., le note di sua mano apposte a numerosi manoscritti, appunti, lettere, ecc. Soltanto un timido avvio fu dato quando la Chigiana venne acquistata dallo stato italiano nel 1918 e donata poi nel 1922 alla Biblioteca Vaticana.
Questo fervore di cultura, d'altra parte, s'innestò armonicamente nella vena di una pietà autentica, alimentata in A. dalla quotidiana meditazione della Introduction à la vie dèvote o Philothée di Francesco di Sales, che egli beatificò nel 1661 e canonizzò nel 1665. Già in una lettera notissima e diffusa anche in traduzione francese, diretta mentre era nunzio a Colonia, il 1 apr. 1642, al nipote A. Bichi, A. consigliava quale prototipo di vita spirituale (profondamente consentaneo al suo spirito aristocratico) l'insegnamento di Philotée: "Il ne vous persuade point l'austerité, ny la solitude des déserts, ny un genre de vie extraordinaire; mais une dévotion civile, noble, et temperée...", (in append. a La bonne philosophie..., Paris 1658); e lo ricordava come esempio, ormai ventennale, proposto alla propria personale ricerca di perfezione cristiana. A quanto sappiamo A. divulgò in diverse operette, apparse anonime, i temi principali della pietà salesiana e dell'umanesimo devoto e improntata qua e là a questo (ma anche alla spiritualità gesuitica per il ricordo esplicito del Realino e del Coster) ci appare l'opuscolo La bonne philosophie et l'art de salut ou Institution de vivre parfaitement comprise en trois preceptes, par N. S. P. le Pape Alexandre VII, Et traduit de Latin en François par F.Martial Religieux Penitent du tiers Ordre de S. François, a Paris 1658,dove si giustappongono un'arte di ben morire, in quattordici meditazioni (la bonne philosophie) e un'arte di ben vivere delineata in tre precetti che ripercorrono le "tre vie", purgativa, illuminativa e unitiva.
La meditazione della morte sembra essere stato un motivo della pietà barocca fortemente presente nell'animo di A., che amò tenere sempre sul suo tavolo, da pontefice, un cranio di marmo scolpito dal Bernini. Questi diede poi, in maniera mirabile, forma artistica a quel barocco trionfo della morte costituito dal sepolcro di A. in S. Pietro, che segna una svolta nella iconografia funebre del '600 (v. Mâle).
I precetti de L'ari de salut indicano equilibratamente i doveri del vivere cristiano: accentuati quelli ascetico-penitenziali (meditazione quotidiana, contrizione dei peccati) e quelli devozionali (caratteristiche la lettura dei libri devoti, la comunione frequente, la devozione alla Vergine e all'Angelo custode). La parte finale, sulla conformità alla volontà divina, riconduce ad altri accenni espressi nella corrispondenza con il cappuccmo Carlo d'Arenberg (1642-52), analizzata dal Callaey, nella quale il motivo della sottomissione al volere di Dio trova perfetta rispondenza in quello della obbedienza alla Chiesa romana. Tale rapporto, se approfondito da ulteriori ricerche, varrebbe forse a mostrare dietro tanta parte dell'attività organizzativa e disciplinare di A. un'ispirazione più profonda e la presenza di una concezione della Chiesa motivata nella sua ricchezza spirituale.
Fonti e Bibl.: Tra le fonti, un diario di A. degli anni di Münster (1644-45) che è stato pubblicato dal Kybal, e tra gli Inediti, nella Biblioteca Apostolica Vaticana, Fondo Chigi, O. IV, 58, un altro diario che inizia con l'agosto 1655; ancora nel Fondo Chigi, A. I. 8, diari del periodo da Colonia al pontificato; la corrispondenza, e due serie di mss. sempre nel Fondo Chigi riguardanti gli anni di pontificato, la prima, in nove volumi, di Scritture diverse concernenti molti e importanti negozi religiosi e politici del tempo di A. VII, e, la seconda, in quindici volumi, di Proposte e risposte di cifre in copia, dei nunzi apostolici, dei cardinali legati, di governatori e arcivescovi.
Per indicazioni sulla corrispondenza di A. e su altro materiale, estratti di lettere, ecc., v. Archivalia in Italia, a cura di G. Brom, II, Rome. Vaticaansche Bibliotheek, in Riìks Geschiedkundige Publicatiën, kleine serie 9, s-Gravenhage 1911, nn. 252, 272, 349, 351, 352; III, Rome. Ovenige Bibliotheken en Archieven, ibid., kleine serie 14, ibid. 1914, passim, e Bescheiden in Italië, a cura di O. I. Hoogewerff, III, ibid., kleine serie 17, ibid. 1917, passim. Ampio materiale ms. e archivistico utilizza L. v. Pastor, Storia dei Papi, XIV, 1, Roma 1932, pp. 311-538 (ma v. anche L. v. Ranke, Storia dei Papi, Firenze 1959, pp. 839 ss. e pp. 913 ss., note). In corso di pubblicazione La nunziatura di Fabio Chigi (1640-1651), a cura di V. Kybal e O. Incisa della Rocchetta, I, 1e 2, Roma 1943-46 (giunta finora al 1645); edito il carteggio con F. Barberini, F. Albizzi, Van der Veken e altri riguardante il giansenismo nei Paesi Bassi, La correspondance antijanséniste de Fabio Chigi nonce à Cologne plus tard pape A. VII, a cura di A. Legrand e L. Ceyssens, Bruxellee-Rome 1957 (con Bibl.); edito e regestato il carteggio con lo Stravius in Correspondance de Richard Pauli-Stravius (1634-42), a cura di W. Brulez, Bruxelles-Rome 1955, passim ; della corrispondenza sporadiche indicazioni dà I. Ciampi, L'epistolario inedito di Fabio Chigi, poi papa A. VII, in Atti d. R. Acc. dei Lincei, Mem. della classe di scienze mor. stor. e filol., s. 3, I (1876-77), pp. 393-403; del carteggio con i Merlini dà notizia e pubblica parti A. Piccolomini, Carteggio inedito di Fabio Chigi, poi papa A. VII, in Bullett. senese di storia patria, XV (1908), pp. 3-31. Manca una monografia moderna su A.: fondamentale resta la biografia che di A. tracciò P. Sforza Pallavicino, Della vita di A. VII libri cinque..., voll. 2, Prato 1839-40. In particolare: per l'attività politica v.: A. v. Reumont, Fabio Chigi - Papst Alexander VII -in Deutschland (1639-1651), in Zeitschrift des Aachener Geschichtsvereins, VII (1885), pp. 1-48; L. Schiavi, La mediazione di Roma e di Venezia nel Congresso di Münster per la pace di Vestphalia..., Bologna 1923; I. I. Poelhekke, De vrede van Münster,'s-Gravenhage 1948, passim; K. Repgen, Fabio Chigis Instruktion für den Westfälischen Friedenskongress. Ein Beitrag zum kurialen Instruktionswesen im Dreissigjährigen Knieg, in Römische Quartalschrift für christliche Altertumskunde und Kirchengeschichte, XLVIII (1953), pp. 79-104 e 104-116 (docc.); Id., Der päpstliche Protest gegen den Westfälischen Frieden und die Friedenspolirik Urbans VIII, in Histonisches Jahrbuch, LXXV (1956), pp. 94-122; H. Bücker, Der Nuntius Fabio Chigi (Papst Alexander VII) in Münster 1644-1649, nach seinen Briefen, Tagebüchern und Gedichten, Münster 1958 (con bibl.).
Per i problemi politico-religiosi: la lotta contro il giansenismo: oltre le lettere pubblicate ne La correspondance antijanséniste, cit., sono essenziali per l'inizio della vicenda e notizie sulla posizione di A. due documenti contemporanei, il Journal de Mr. de Saint Amour... de ce qui s'est fait à Rome dans l'affaire des Cinq Propositions, s. l. 1662, passim e la relazione dell'Albizzi edita da A. Schill, Die officielle Relation des römischen Officiums über die Verurtheilung des Jansenismus, in Der Katholik, LXIII (1883), II, pp. 282-299, 363-381, 472-494; per un orientamento sugli avvenimenti successivi cfr. la voce Jansénisme (di I. Carreyre) in Dict. de Théol. Cath.,VIII, coll. 504-520; A. Gits, La foi ecclésiastique aux faits dogmatiques dans la théologie moderne, Louvain 1940, pp. 7-9 e passim, e L. Ceyssens, La publication, aux Pays-Bas, de la troisiéme bulle contre Jansénius (1656-1660), in Rev. d'Hist. ecclés., LIV, 1 (1959), pp. 478-506, 807-837 (seguita), in part. le pp. 478-487.
Per queste e per le altre questioni religioso-ecclesiastiche del pontificato di A., discussioni, condanne, ecc., un buon panorama offrono Fr. H. Reusch, Der Index der verbotenen Bücher, II, Bonn 1885, passim e I. v. Döllinger-Fr. H. Reusch, Geschichte der Moralstreitigkeiten in der römisch-katholischen Kirche... I, Nördlingen 1889, passim. In particolare: per la bolla sul culto dell'Immacolata, R. Laurentin, L'action du Saint-Siège par rapport au problème de l'Immaculée, in Virgo Immaculata, II, Roma 1956, pp. 1-99; per il decreto sull'attrizione, L. Ceyssens, L'origine du decret du Saint-Office concernant l'attrition (5 mai 1667), in Ephemerides theologicae Lovanienses, XXV (1949), pp. 83-91; per la questione dei riti cinesi, Dict. de Théol. Cath.,II, sub voce Chinois, rites, coll. 2369 ss., e in Dict. d'Hist. et de Géogr. Ecclés., XII, coll. 731 ss.; per il problema della liturgia in cinese ecc., St. Chen, Historia tentaminum Missionariorum Soc. Iesu pro liturgia Sinica in saec. XVII, Romae 1951, pp. 51 ss. e passim, ma cfr. anche la recensione di P. M. D'Elia, La lingua cinese nella liturgia e i gesuiti del sec. XVII (a proposito di un libro recente), in La Civiltà Cattolica, 1953, III, pp. 55-70.
Per i rapporti con la Francia: Ch. Gérin, Louis XIV et le Saint-Siège, voll. 2, Paris 1894, passim.
Per i rapporti con la curia e la corte pontificia, I. Ciampi, Innocenzo X Pamphili e la sua corte..., Roma 1878, passim; per i rapporti col Pallavicino, I. Macchia, Relazioni fra il p. Sforza Pallavicino e F. Chigi, Torino 1907; per i rapporti con il Bona, L. Ceyssens, Le cardinal Jean Bona et le jansénisme. Autour d'une récente étude,in Benedictina, X (1953), pp. 79-119, 267-327 (ma anche in Jansenistica Minora, IV); L. J. Lekai, Pope A. VII and the cisterc. Observances, in Catholic Histor. Review, XLV (1959), pp. 1-23; per i rapporti con il Sacchetti, O. Sacchetti, Il cardinale Giulio Sacchetti, (1587-1663), in Studi romana, VII, 2 (1959), pp. 405-416 e M. Zucchini, Una scrittura del cardinale Giulio Sacchetti a Papa A. VII per rimettere in piedi l'arte dell'agricoltura, in Economia e Storia, IV (1957), pp. 278-282 e 282-285 (doc.).
Per qualche indicazione sulla politica finanziaria di A.: A. Serra, I riflessi della politica finanziaria di A. VII nelle monete del suo pontificato, in Studi romani, V (1957), pp. 184-188.
Per un profilo spirituale di A.: F. Callaey, La physionomie spirituelle de Fabio Chigi (Alex. VII) d'après sa correspondance avee le p. Charles d'Arenberg fr. mineur capucin, in Miscell. Giovanni Mercati, V, Città del Vaticano 1946, pp. 451-476.
Per le composizioni latine: O. Travaglini, I papi cultori della poesia, Lanciano 1887, pp. 77-80 e B. Croce, Poesia latina nel Seicento, in Nuovi saggi sulla letter. ital. del Seicento, Bari 1949, p. 148.
Per il mecenatismo artistico: L. Ozzola, L'arte alla corte di A. VII,in Arch. d. Soc. romana di storia patria, XXXI (1908), pp. 5-91; per irapporti col Bernini v. anche V. Martinelli, Capolavori noti e ignoti del Bernini: I ritratti dei Barberini, di Innocenzo X e di A. VII, in Studi romani, III (1955), pp. 51-52.
Per i rapporti eruditi, oltre Pastor, ecc., O. Fea, Miscell. stor. filologica critica e antiquaria, I, Roma 1790; per i rapporti con l'Holstenio, R. Almagià, L'opera geografica di L. Holstenio, Città del Vaticano 1942, passim; su A. bibliofilo: L. Frati, Diz. bio-bibliogr. dei bibliotecari e bibliofili ital., Firenze 1933, pp. 158-159; M. Parenti, Aggiunte..., I, Firenze 1957, pp. 26-27, 28-29, 253-254; in particolare per l'acquisto dei codici urbinati, v. la prefaz. di C. Stornaiolo ai Codices Urbinati graeci, Roma 1895, pp. XXXII ss.; per la costruzione e la dotazione della Biblioteca Alessandrina, E. Narducci, Notizie della Biblioteca Alessandrina, Roma 1872; per la Chigiana e i suoi più import. codici, I. Giorgi, Cenni sulla biblioteca Chigiana recentemente acquistata dallo Stato, in Rendic. d. R. Accad. dei Lincei, classe di scienze mor., stor. e filol., s. 5, XXVII (1918-19), pp. 151-156; L. P. Gachard, La bibliothèque des Princes Chigi à Rome, in Compte rendu des séances de la Commission royale d'Hist., s. 3, X (1869), Bruxelles 1869, pp. 219-244 (per i fondi documentari anche riguardanti A.); Herr v. Druffei, Die Melanchthon-Handschriften der Chigi-Bibliothek, in Sitzungsberichte der K. Akad. der Wissenschaften tu München, philos.-philol. hist. Classe, 1876, pp. 491-527; R. Wolkan, Die Briefe des Eneas Silvius vor seiner Erhebung auf den päpstlichen Stuhl, Wien 1905.
Per la tomba di A. : E. Mâle, L'art religieux après le Concile de Trente, Paris 1932, p. 220. Si v. infine le voci del Dictionn. d'Hist. et de Géogr. Ecclés.e della Encicl. Cattolica.