CLEMENTE VII, papa
Giulio de' Medici, figlio naturale di Giuliano de' Medici e di una certa Fioretta, del cui casato non si ha notizia sicura (di Antonio dei Gorini, oppure dei Cittadini), nacque a Firenze il 26 maggio 1478, un mese dopo la morte del padre. Il 27 maggio fu battezzato e ricevette i nomi di Giulio e Zanobi (Firenze, Arch. dell'Opera del Duomo, Reg. battesimi 1473-1481, c. 79v).
Fu tenuto a battesimo da Antonio da Sangallo, al quale sembra che Lorenzo de' Medici lo affidasse per i suoi primi sette anni di vita. Accoltolo poi nella famiglia medicea, Lorenzo lo fece allevare insieme con i propri figli e si preoccupò di garantirne il futuro: nel 1488 gli ottenne da Ferdinando I d'Aragona e dal papa il possesso di un ricco beneficio, il priorato di Capua dell'Ordine cavalleresco di S. Giovanni. I suoi studi seguirono la falsariga di quelli del cugino Giovanni: ebbe come precettore Bernardo Michelozzi. Insieme con Giovanni, fu affidato alle cure del vescovo umanista di Arezzo, Gentile Becchi. Allo Studio pisano frequentò probabilmente, insieme con Giovanni, i corsi di diritto canonico. Quando Giovanni vestì le insegne cardinalizie e si recò a Roma, fece parte della corte principesca che lo accompagnò nel trionfale viaggio, iniziato il 12 marzo 1492; ritornò poi a Firenze con lui e lo seguì di nuovo a Roma il 18 luglio, in occasione del conclave. La crisi del regime mediceo costrinse anche lui alla vita dell'esule. Si rifugiò in un primo momento a Bologna, dove giunse il 10 nov. 1494; in seguito, passò a Pitigliano e a Città di Castello. Partecipò anche ai tentativi di riportare al potere la famiglia con le armi. Della sua vita a Roma, all'ombra del cugino cardinale, si sa poco; risulta dalle lettere del Bibbiena che ebbe una relazione con una cortigiana e si è anche parlato di un suo figlio naturale, identificato da taluni in Alessandro de' Medici, il futuro duca di Firenze. Ma mancano dati certi a questo proposito.
In questi anni, si svolse un lungo viaggio dei due cugini attraverso l'Europa. Partiti in incognito nel 1499, passarono da Venezia e, attraverso la Baviera, giunsero ad Ulm. Qui furono arrestati e inviati all'imperatore Massimiliano I. Liberati, furono in seguito ospiti dell'arciduca Filippo in Fiandra. Da lì progettarono di passare in Inghilterra, ma a Rouen ebbero una nuova disavventura: sospettati e messi in carcere, ottennero la libertà solo per un intervento del capo della famiglia, Piero, che da Venezia si occupò della loro liberazione. Fu così che, nel 1500, tornarono in Italia per via di mare, facendo tappa a Marsiglia, Savona e Genova.
Negli anni seguenti Giulio fu, a quanto pare, docile strumento delle iniziative prese dal capo della famiglia, Piero, e dopo la morte di questo dal cugino Giovanni, sulle cui spalle ricadde la responsabilità dell'intera casata. Tra il 1508 e il 1509 si adoperò per portare a buon fine il progetto di un parentado con gli Strozzi attraverso il matrimonio di Filippo Strozzi con Clarice, figlia di Piero.
Per superare l'ostilità del governo fiorentino davanti a quella alleanza delle due più potenti famiglie della città furono necessarie consultazioni e accordi tra le due parti: Filippo Strozzi si incontrò a tale scopo con Giulio, alla fine del dicembre 1508, in una località del Senese. Da questa data ebbe inizio probabilmente l'amicizia tra i due, che doveva poi durare a lungo. Una volta superati gli ostacoli, Giulio accompagnò i due sposi, subito dopo il matrimonio (3 febbr. 1509) fino ai confini del Regno di Napoli; in seguito, accompagnò Clarice nel viaggio che la condusse da Napoli a Firenze.
Ma la speranza di utilizzare l'appoggio di Filippo Strozzi in una congiura per imporre il rientro del Medici in Firenze si mostrò infondata: il tentativo fatto alla fine del 1510 da Prinzivalle della Stufa, d'accordo col cardinal Giovanni, fallì per la sua opposizione. Giulio continuò tuttavia, d'accordo col cugino, nei tentativi per rovesciare il Soderini.
Il 1º ott. 1511 partì per Bologna al seguito del cardinal Giovanni che aveva ottenuto quella legazione. Nella battaglia di Ravenna, mentre il cardinal Giovanni veniva fatto prigioniero, Giulio riuscì a scampare alla cattura rifugiandosi nella rocca di Cesena; fu visto pochi giorni dopo (il 15 apr. 1512) a Forlì, insieme con Giovanni Vitelli, "a cavallo, in zipon, che fugivano" (Sanuto, XIV, col. 146). Con un salvacondotto francese poté poi visitare il cardinale prigioniero, dal quale ebbe l'incarico di recarsi a Roma per comunicare al Papa le proposte di tregua dello esercito vittorioso. Il 28 aprile era a Roma: qui riferì al papa e in concistoro le proposte di cui era latore. Di lì a poco fu impiegato in una missione a Milano, presso i cardinali che davano vita al concilio gallicano.
La scelta fatta dal Soderini di ospitare a Pisa il concilio gallicano e l'improvvisa guarigione di Giulio II dalla crisi che tutti ritenevano definitiva aprirono possibilità insperate per il rovesciamento della situazione fiorentina. Una congiura interna del Palleschi e la pressione dell'esercito spagnolo furono i fattori decisivi di quell'esito. Giulio fu attivissimo nella cospirazione contro il Soderini; travestito da pellegrino ebbe incontri segreti vicino a Siena con Paolo Vettori e con Antonfrancesco degli Albizzi e mantenne una vera e propria corrispondenza coi membri del suo partito. Le sue lettere giungevano ai Palleschi in Firenze per mezzo di un contadino che le nascondeva "nelle più segrete parti della sua persona" e le recapitava in una buca del cimitero di S. Maria Novella (Nardi, Istorie, II, p. 13).
Al seguito del cardinal Giovanni, poté assistere al sacco di Prato e alla successiva conclusione del lungo esilio della famiglia da Firenze: il 14 sett. 1512 vi rientrò insieme con i cugini e si occupò di dirigere, insieme con Paolo Vettori, il corpo di soldati lasciati in città per controllare la popolazione.
A lui si rivolgeva, in una lettera del 14 settembre, Alfonsina Orsini per aver notizie della situazione (Arch. di Stato di Firenze, Med. av. il Princ., 137, n. 606). Anche l'amico Bibbiena lo sollecitava a mandare rapidi e frequenti dispacci a Roma, onde evitare che il partito antimediceo si guadagnasse il favore del papa. I problemi della restaurazione medicea in Firenze lo tennero occupato a lungo. Se il Bibbiena consigliava procedimenti rapidi e drastici, Giulio sembrava invece incline a maggior cautela e a forme di accomodamento con le maggiori famiglie fiorentine. Le feste e gli spettacoli, ma anche le misure punitive contro gli avversari della famiglia, occuparono questo periodo della sua vita che si concluse quando - morto Giulio II il 20 febbr. 1513 - si tenne il conclave per la scelta del successore.
L'elezione di Giovanni de' Medici (11 marzo) ebbe un'importanza decisiva non solo per il potere mediceo su Firenze ma anche per la vita di Giulio, "inclinato - come scrive il Guicciardini - dalla volontà sua alla professione dell'armi ma tirato da' fati alla vita sacerdotale" (Storia d'Italia, l. XI, cap. 8). Tra i primi atti del pontificato di Leone X ci fu la concessione a Giulio dell'archidiocesi di Firenze (è del 19 aprile del 1513 la lettera con cui Giulio accreditò il suo inviato a Firenze Leonardo de' Medici a prender possesso dell'arcivescovato: Arch. arcivesc. di Firenze, Bullettone, c. 331r). Inoltre, fin dal giugno successivo, il papa rese nota la sua intenzione di concedergli il titolo cardinalizio alla prima occasione. Questo era il prestigioso obiettivo al quale Giulio aveva mirato fin dal momento dell'elezione di Leone X; già il 10 marzo aveva scritto a Piero di Antonio Pucci perché esercitasse pressioni sul papa a tal fine. Il 29 sett. 1513 le sue speranze furono premiate.
L'ostacolo della nascita illegittima fu aggirato in due tempi: per la concessione dell'archidiocesi ebbe la dispensa; in occasione del cardinalato, si istruì un processo verbale in cui, dalle testimonianze dello zio materno e di alcuni religiosi, risultò che "la madre... innanzi che ammettesse agli abbracciamenti suoi il padre Giuliano, aveva avuto da lui secreto consentimento di essere sua moglie" (Guicciardini, Storia d'Italia, l. XII, cap. 13).
Com'era consueto, la fortunata carriera curiale fu contrassegnata da una grande abbondanza di benefici ecclesiastici. Tuttavia il caso di Giulio appare eccezionale da questo punto di vista, tanti furono i titoli e le rendite che riuscì a cumulare. Concorsero a questo risultato la volontà papale di assicurare prestigio e ricchezze a un membro della sua famiglia, ma anche l'intento di principi e regnanti di conquistarsi il favore di un uomo il cui parere era così importante presso il pontefice.
Non è facile orientarsi tra i suoi numerosi benefici e tra le varie forme (resignazioni, regressi, pensioni) di controllo e di sfruttamento di quei beni. Accanto all'archidiocesi fiorentina, si annoverano ancora le seguenti diocesi (tenute in qualità di amministratore): Albi, dal 21 nov. 1513, resignata all'inizio del 1515; Lavaur, dal 12 giugno 1514; Narbona, dal 14 febbr. 1515 al pontificato; Albenga, dal 19 nov. 1517; Bologna, dall'8 genn. 1518; Embrun, dal 5 luglio 1518; Ascoli Piceno, dal 30 luglio 1518; Eger, dal 12 sett. 1520; Worcester, dal 7 giugno 1521 e altre ancora. Quando gli fu data la diocesi di Valenza nel 1520, ci fu chi scrisse: "al mar va l'acqua" (Sanuto, XXVIII, col. 361). Oltre ad una folla di benefici minori, ebbe in commenda le ricche abbazie di Chiaravalle (dal 1517), SS. Vincenzo e Anastasio delle Tre Fontane (dicembre 1517), St-Martin di Tournai (17 ag. 1519).
Giulio non si limitò del resto a percepire i frutti che la sua nuova posizione gli rendeva accessibili, ma operò una precisa scelta fin dall'inizio, orientandosi nel senso che le esigenze della politica papale consigliavano. Pochi giorni dopo la creazione cardinalizia, sprisse al re d'Inghilterra Enrico VIII offrendogli i suoi servigi. La possibilità di un'alleanza con la Inghilterra attirava chi, come Leone X, temeva la spartizione d'Italia tra Francia e Spagna. Fu così che Giulio venne nominato dal sovrano inglese cardinal protettore d'Inghilterra.
Nella lettera di ringraziamento indirizzata al re l'8 febbr. 1514, Giulio poteva annunciare anche la concessione a Thomas Wolsey della diocesi di Lincoln; più delle straordinarie indulgenze concesse da Leone X e annunziate al re nella stessa data, era importante questa conferma di un'alleanza destinata a durare negli anni successivi. Il rapporto di protettorato implicava favori e concessioni in materie ecclesiastiche da parte della Curia romana per il tramite del cardinal protettore, in cambio di un impegno di collaborazione e di informazione politico-diplomatica. Ora, la concessione principale che ci si aspettava da Roma in cambio dell'alleanza, era, per Wolsey, il titolo cardinalizio e i poteri di legato de latere per l'intero regno inglese. Il 15 sett. 1515 Giulio poté vantarsi per lettera con Enrico VIII di aver avuto gran parte nella concessione del cardinalato a Wolsey. Il titolo di legato fu conferito più tardi, nel concistoro del 17 maggio 1518, insieme con un'analoga concessione per la Francia.Tuttavia, l'evoluzione della situazione politica europea e italiana doveva creare qualche problema anche intorno al possesso di quel titolo di "protettore". Giulio l'aveva sollecitato e accolto dall'Inghilterra in un momento in cui la potenza francese sembrava indebolita. Ma la vigorosa iniziativa militare di Francesco I rovesciò la situazione.
Una questione che ne risultò avvelenata e che investì direttamente lo stesso Giulio fu quella della concessione della diocesi di Tournai al candidato francese o a quello inglese (che era lo stesso Wolsey). Le vicissitudini della città, occupata dagli Inglesi, e soprattutto le esigenze della politica italiana, resero oscillante il comportamento di Giulio e di Leone X su tale questione e su quella, connessa, dell'abbazia di St-Martin, pure di Tournai.
Intanto, come segno dei buoni rapporti tra Roma e la Francia, Giulio aveva ricevuto nell'estate del 1516 il titolo di protettore del regno di Francia; l'anno dopo Francesco I tentò - senza successo - di costringerlo a rinunziare al protettorato inglese, adducendo a motivo "di non si potere interamente fidare di noi, mentre che terremo la protectione di Inghilterra" (Manoscritti Torrigiani..., in Arch. storico italiano, s. 3, XX [1874], p. 383, lettera di Giulio del 29 marzo 1517).
Se il cardinalato comportava responsabilità politiche, ad esso erano connesse anche funzioni ecclesiastiche. Cardinale diacono del titolo di S. Maria in Dominica, poi (dal 26 giugno 1517) di quello presbiteriale di S. Clemente e infine (dal 6 luglio 1517) di S. Lorenzo in Damaso, Giulio non si affrettò a ricevere gli ordini sacri. Gli ordini minori gli furono conferiti il 6 dic. 1513 e il diaconato il 17 dicembre; l'ordinazione sacerdotale invece ebbe luogo solo il 19 dic. 1517 e la consacrazione episcopale il 21 dicembre dello stesso anno. Ancora nel 1515 ammetteva che, dovendo servir messa al papa, "come poco pratico m'è bisognato studiare" (Arch. di Stato di Firenze, Med. av. il Princ., 117, n. 100: lettera a Lorenzo de' Medici del 28 giugno, da Roma). Pure, in quegli anni egli partecipò a importanti iniziative ecclesiastiche: la ripresa e il compimento del concilio lateranense V, voluti da Leone X e accompagnati da un fiorire di speranze di riforma della Chiesa, la visita generale dell'archidiocesi fiorentina (tenuta dal vicario tra il 1514 e il 1516) e la celebrazione del concilio provinciale fiorentino. Al concilio lateranense partecipò attivamente: presente fin dalla sesta sessione (27 apr. 1513) fu membro della commissione incaricata di stabilire l'ordine e le materie dei lavori conciliari (dal 14 maggio 1513). In particolare, dividendosi quella commissione in tre deputazioni, egli si occupò, nell'ambito della prima deputazione, delle questioni relative al ristabilimento della pace e alla rimozione dello scisma. In attuazione dei canoni del concilio lateranense e in rapporto ai risultati della visita pastorale indisse a Firenze un concilio provinciale.
La misura si impose anche perché la situazione fiorentina era giunta ormai a un punto di rottura per quanto concerneva i rapporti tra i Medici e la tradizione savonaroliana. Subito dopo il rientro della famiglia in città, Giulio si era sforzato di consigliare e di perseguire una politica di riappacificazione: a tale scopo, aveva manifestato anche simpatia verso gli ambienti savonaroliani (sembra, in particolare, che discutesse con Girolamo Benivieni sui caratteri della profezia savonaroliana). Ma l'emergere di inquietudini popolari con gli episodi di predicatori come Francesco da Montepulciano e Teodoro, tra il 1514 e il 1515, aveva portato all'abbandono di quella tattica e all'inizio di un vero e proprio scontro. L'11 febbr. 1515 il vicario di Giulio nell'archidiocesi fiorentina, Pietro Andrea Gammaro, al termine della pubblica cerimonia di condanna del monaco Teodoro, aveva promulgato delle costituzioni con le quali si vietava a chiunque di predicare senza licenza dell'arcivescovo e si proibiva strettamente la diffusione di profezie; un mese più tardi, Leone X indirizzò a Giulio e al suo vicario una bolla solenne di approvazione dell'intero procedimento contro Teodoro, estendendo la condanna anche al Savonarola. Infine Giulio decise di procedere alla convocazione del concilio provinciale.
L'atto solenne di indizione fu emanato da Bologna il 15 nov. 1515 (dove allora Giulio stava preparando l'incontro tra Leone X e Francesco I). In esso i compiti dell'assemblea ecclesiastica venivano individuati nella lotta contro superstizione ed eresia, viste come deviazioni opposte ma ugualmente pericolose dal cammino della vera religione. In realtà, anche in questo - che fu il più significativo atto di governo ecclesiastico di Giulio - gli interessi familiari si legarono strettamente alla restaurazione delle istituzioni ecclesiastiche: il savonarolismo fu colpito sia per la carica antiecclesiastica, che ormai esprimeva, sia per quella antimedicea.
Nella gestione degli affari politici, Giulio conservò per alcuni anni una posizione subordinata rispetto a quella, predominante, del Bibbiena, a cui faceva capo la corrispondenza diplomatica. Dalle sue mani passarono invece le comunicazioni e i rapporti coi cugini Giuliano e Lorenzo, a Firenze, e la corrispondenza diretta verso la Francia.
Nei rapporti coi membri della famiglia a Firenze, Giulio si adoperò con abilità e tatto per garantire il più stretto accordo con le esigenze della politica di Leone X e per esercitare un discreto controllo sull'operato dei due cugini e dei loro uomini di fiducia. Attraverso una continua serie di segnalazioni di persone da ricompensare con uffici per la loro fedeltà alla casata, e di altre da tener lontane per i loro trascorsi, mantenne vivo in Lorenzo e in Giuliano il senso dei doveri che ad essi incombevano nei confronti del loro partigiani. Vittima di uno di questi interventi fu Niccolò Machiavelli (Manoscritti Torrigiani, in Arch. stor. ital., s. 3, XIX [1874], p. 231). La riconquista di Firenze era cosa troppo recente e ancora priva di solide basi istituzionali perché si trascurasse qualsiasi mezzo di consolidamento e qualsiasi rischio. La stessa continuità fisica della presenza di un membro della casata in città appariva a Giulio una condizione fondamentale. Nell'estate del 1515 sconsigliò Lorenzo di allontanarsi a capo dell'esercito, poiché - egli scriveva - "le cose di costì... in questi tempi maximamente sapete che hanno bisogno de un capo" (Arch. di Stato di Firenze, Med. av. il Princ., 117, n. 165).
Quanto alle linee della politica papale, le fonti mostrano la piena e convinta adesione di Giulio al progetto di conservare, per quanto possibile, libertà d'azione allo Stato della Chiesa impedendo che Milano e Napoli cadessero nelle mani di un solo sovrano. Questo pericolo era rappresentato allora dalla Francia, soprattutto dopo la salita al trono di Francesco I. Se, subito dopo l'elezione di Leone X, Giulio aveva prospettato genericamente i futuri compiti politici del papa come consistenti nel procurar la pace tra i principi cristiani (Nitti, p. 11), all'inizio del 1515 egli appare consapevole di molte delle tante sottigliezze della diplomazia papale.
Egli era allora legato di Bologna, con poteri eccezionali. La nomina gli era stata conferita il 1º sett. 1514 ed aveva sottolineato la continuità del governo mediceo in quella città. Attraverso le trattative in corso con gli Svizzeri e gli stretti contatti con Lorenzo, procurò di assicurare una discreta forza militare allo Stato della Chiesa. Intanto, seguiva il gioco diplomatico di Leone X e ne spiegava le linee di fondo al cugino Lorenzo in questi termini: date le eccessive pretese francesi e il loro obbiettivo di conquistare Milano e Napoli, un'alleanza con loro gli sembrava da escludere; si doveva tuttavia continuare a trattare con ambo le parti, evitando di schierarsi nettamente e alimentando ogni speranza fino alla fine, senza trascurare di procurarsi l'alleanza militare con gli Svizzeri. Da parte francese si erano ricevute garanzie solo per il "particulare di Juliano" ma il papa doveva pensare "non... manco alla chiesa et suo honore" (Arch. di St. di Firenze, Med. av. il Princ., 117, n. 165). L'importante era comunque che Firenze non si staccasse dal papa, anche in caso di scontro con la Francia; chi la pensava diversamente e proponeva di staccare Firenze da Roma, "essendo questi due membri in un solo corpo", avrebbe commesso "peccato in spirito santo" (ibid., 109: lettera a Lorenzo, 2 luglio 1515). Era una preoccupazione - e una convinzione - destinata a segnare tutta l'opera politica e l'esistenza stessa di Giulio, anche a causa delle perduranti incertezze istituzionali dell'assetto fiorentino.
Giunto il momento delle armi, fu nominato legato presso l'armata papale che, al comando di Lorenzo, doveva operare in appoggio alla lega antifrancese (ma che si limitò, date le preoccupazioni suddette, a schierarsi in difesa della signoria padana di recente conferita a Giuliano de' Medici). Dopo essersi scelto come vicelegato il vescovo di Pistoia Goro Gheri (12 luglio), Giulio si mise in viaggio per Bologna, dove giunse il 19 agosto. Obbedendo agli ordini papali, si recò a Piacenza e guidò le operazioni militari in modo da difendere il confine del Po senza impegnarsi in azioni offensive. Tornato a Bologna, accontentò gli alleati con l'invio di un piccolo contingente in appoggio al grosso dell'esercito, sul quale incombeva la grave sconfitta di Marignano.
La comparsa in Italia dell'esercito francese e i suoi primi successi avevano creato apprensione nel papa e nei suoi consiglieri e si era avanzata l'idea di restituire Modena e Reggio al duca d'Este e di rimettere a Bologna i Bentivoglio; Giulio si era opposto a tale progetto, "mosso ancora dal dolore di fare infame e vituperosa la memoria della sua legazione" (Guicciardini, Storia d'Italia, l. XII, cap. 13).
Una volta consumata la sconfitta, si adoperò per ridurne gli effetti. Dopo l'accordo firmato da Leone X a Viterbo il 13 ottobre, dovette occuparsi di predisporre l'incontro solenne tra il papa e Francesco I; tra Firenze e Bologna, la scelta cadde su Bologna, anche per evitare al regime fiorentino il trauma di un nuovo ingresso trionfale di un vittorioso re francese. Fu invece il papa a fare un'entrata trionfale in Firenze, insieme con Giulio, il 30 novembre, nel corso del viaggio per Bologna. Quanto a Francesco I, Giulio ebbe l'incarico di accoglierlo ai confini dello Stato della Chiesa e di riaccompagnarlo alla fine delle giornate bolognesi (15 dicembre). Poi tornò insieme con il papa verso Firenze: qui si trattenne per più di due mesi, tornando a Roma solo alla fine del febbraio 1516. Qui ricevette la notizia della morte di Giuliano, uno dei due punti di riferimento della politica nepotistica del papa, e assistette alla campagna contro il duca d'Urbino.
I suoi dispacci di questo periodo al legato in Francia Lodovico di Canossa sono tutti tesi a scagionare il papa dalle accuse di scarsa lealtà per i mancati aiuti nel conflitto tra gli alleati francesi e l'imperatore; era una politica, come riconosceva Giulio scrivendone a Lorenzo, che consisteva nello "stare a vedere più che potrà" (Pastor, IV, 1, p. 98 n.), e quindi nel rinviare il più possibile ogni scelta pericolosa. Intanto, per parte sua, poteva annunciare l'approvazione in concilio del concordato con la Francia e la concessione al re delle decime per le crociate contro i Turchi; pur facendo presente quanto fosse grave destinare ad altro uso il denaro raccolto per un obbiettivo che si mostrava ogni giorno più urgente, dato il crescere del pericolo turco, non perdeva però l'occasione di fare un favore alla consorteria fiorentina chiedendo per Iacopo Salviati e per i suoi l'ufficio di ricevitore delle decime. Era intorno a Giulio che in questo periodo si andavano raccogliendo clienti e amici fiorentini; fra gli altri, Filippo Strozzi che egli già nel 1515 aveva invitato con urgenza a prendersi la Depositeria (lettera a Lorenzo 14 giugno 1515: Archivio di Stato di Firenze, Mediceo av. il Princ., 117, n. 64; v. anche n. 100).
Una svolta decisiva nella sua posizione si ebbe con l'assunzione dell'ufficio di vicecancelliere (9 marzo 1517). La sua autorità era in continua ascesa presso il papa e giunse fino a soppiantare quella del Bibbiena; l'occasione fu offerta l'anno successivo dalla partenza di quest'ultimo per una legazione in Francia. Da allora, grazie anche ai sospetti di eccessiva partigianeria per la Francia che circondaronoil Bibbiena, il disbrigo della corrispondenza diplomatica e la guida degli affari di Stato ricaddero nelle mani di Giulio, che già, come vicecancelliere, esercitava un diretto controllo sugli affari ecclesiastici. Come scrisse il veneziano Marco Minio, egli era "uomo di gran maneggio e di grandissima autorità" (Alberi, II, 3, p. 64). Di tale autorità dovette valersi in alcune delle più gravi questioni fra quelle che si posero allora al governo della Chiesa: la successione all'Impero e la protesta luterana.
La corrispondenza coi nunzi tra la fine del 1517 e l'inizio del 1518 è ancora occupata da materie come la crociata contro i Turchi e le trattative matrimoniali per Lorenzo de' Medici. Membro, dal 4 nov. 1517, della congregazione cardinalizia formata dal papa per la questione della crociata, Giulio si adoperò nei rapporti con Venezia e la Francia per mandare in porto l'organizzazione della offensiva contro i Turchi che in quel momento, come egli scrisse al nunzio Averoldi, stava particolarmente a cuore a Leone X (lettera del 29 ott.: Manoscritti Torrigiani, in Arch. stor. ital., s. 3, XX [1874], p. 404). Ma ben presto fu la questione di chi dovesse succedere a Massimiliano I nell'Impero ad occupare la maggior parte delle attenzioni della diplomazia papale. Il progetto di Massimiliano di far incoronare re dei Romani il nipote Carlo già alla Dieta di Augusta provocò una netta reazione negativa da parte del papa, che Giulio motivò in una lunga lettera al Bibbiena del 14 agosto: non si voleva che Carlo, già sovrano di Napoli, si assicurasse anche il titolo imperiale e si lasciava intravedere al re di Francia la possibilità di un'alleanza contro tale soluzione (ibid., XXIII [1876], pp. 410 s.). Poiché però a Roma non si vedeva di buon occhio nemmeno una candidatura imperiale di Francesco I per ragioni analoghe, si cercò di dare forza ad una terza candidatura, quella dell'elettore di Sassonia. Ma intanto Massimiliano, procuratosi l'accordo sostanziale degli elettori tedeschi, richiese al papa di procedere in via preliminare alla sua incoronazione imperiale, che doveva precedere l'elezione di Carlo a re dei Romani: secondo Massimiliano, doveva essere proprio Giulio, insieme con il cardinale di Magonza, ad essere deputato per procedere in Germania alla cerimonia dell'incoronazione. Dai dispacci inviati da Giulio all'inizio di dicembre al Bibbiena, risulta chiaro che era sua intenzione guadagnare tempo e frapporre ostacoli, senza opporre netti rifiuti, e che, nello stesso tempo, a Roma ci si attendevano compensi da Francesco I per una politica di quel tipo (per esempio, una soluzione favorevole del contrasto col duca di Ferrara, oppure un premio consistente per il giovane Ippolito de' Medici).
Con la questione della successione imperiale si venne a intrecciare in questo periodo anche la vicenda di Lutero. Ma la politica antiasburgica di Leone X, che lo portò a indirizzare le sue simpatie verso l'elettore di Sassonia e ad usare di conseguenza la mano leggera nel procedimento contro Lutero, non influenzò il modo in cui Giulio trattò la questione luterana.
In un dispaccio del 7 ottobre del 1518 al cardinale Caetano (T. De Vio) egli propose di non far consegnare all'elettore Federico di Sassonia la Rosa d'oro inviatagli dal papa se egli non faceva consegnare Lutero perché fosse processato. Ma si trattava pur sempre, agli occhi di Giulio, di una questione secondaria; né la sua cultura teologica - sulla quale in seguito Lutero doveva ironizzare - gli permetteva di cogliere la pericolosità delle dottrine del monaco sassone. Tuttavia, durante la sua permanenza a Roma la questione venne tenuta presente, mentre durante la sue assenze fu sostanzialmente accantonata.
Una di queste assenze si ebbe nei primi mesi del 1519. Essendosi ammalato gravemente Lorenzo, Giulio dovette recarsi a Firenze (22 gennaio) e a Poggio a Caiano dove si trattenne fino ai primi di aprile. Tornato a Roma, dove si trovava per il concistoro del 13 aprile, fu da lì a poco costretto a tornare in gran fretta a Firenze (3 maggio) per l'aggrayamento delle condizioni di salute di Lorenzo e per la sua morte. Tuttavia, anche da qui continuava a seguire l'andamento delle cose romane e a influenzarne l'esito, servendosi dell'opera dei suoi uomini di fiducia: uno di questi, Gian Matteo Giberti, era restato a Roma presso Leone X, mentre l'altro, Nicolò Schönberg, curava da Firenze il recapito a Roma delle richieste e dei consigli del suo patrono.
Naturalmente, il suo influsso era più ridotto e l'impressione che i rappresentanti di altri Stati avevano era che - come scriveva il 3 marzo '19 l'oratore veneto - "prima tutte le cose non solum per il Papa, ma etiam il reverendissimo cardenal Medici si tratava... al presente solo il papa trata lui" (Sanuto, XXVII, col. 25). Le cure per la situazione fiorentina finirono quindi col prendere temporaneamente il posto di ogni altra occupazione.
Nel concistoro del 27 maggio fu nominato legato per tutta la Toscana. A Firenze (dove giunse il 9 maggio, poco dopo la morte di Lorenzo), Giulio prese immediatamente in pugno la situazione, cercando di imporre uno stile di governo diverso da quello del defunto duca d'Urbino. Come scriveva da Roma l'oratore Marco Minio, mentre "Lorenzo voleva far lui li officii etc., cussì questo ha voluto tutti li officii si fazino per el Conseglio" (ibid., col. 381). All'inizio del governo di Lorenzo, Giulio nei suoi consigli si era mostrato convinto che si trattasse soprattutto di guadagnar le simpatie degli uomini piuttosto che di riformare le istituzioni. Questa volta invece non poté trascurare il problema della riforma istituzionale; anzi, sollecitò consigli e proposte in tal senso, anche per dare sfogo a tutti coloro che erano rimasti scontenti del modo in cui Lorenzo aveva esercitato il potere.
Per questa via, si conciliò il favore di chi desiderava riforme, anche se scontentò famiglie aristocratiche come quella del Guicciardini che temevano si stesse preparando la via al principato per Ippolito de' Medici, figlio di Giuliano. Tra gli uomini che Giulio volle avvicinare ci fu anche Machiavelli, il quale redasse proprio nel 1519-20 un Discorso sopra il riformare lo Stato di Firenze. Inoltre, sempre per volontà di Giulio, Machiavelli si vide affidare dallo Studio fiorentino, l'8 nov. 1520, l'incarico di storiografo della città di Firenze. Nell'opera dedicata da Giulio ai problemi fiorentini si può includere anche il suo impegno per la canonizzazione dell'arcivescovo Antonino; su tale questione fu letta una sua supplica nel concistoro del 6 giugno 1519.
Ma da Firenze passavano allora, per le mani di Giulio, anche le questioni più gravi della politica europea. Dopo la conclusione della vicenda elettorale, Carlo V gli fece giungere una lettera di ringraziamento. A poca distanza di tempo, il 26 settembre, Giulio spediva al Bibbiena in Francia l'abbozzo di un trattato di alleanza tra Leone X e Francesco I, col quale si mirava a tutelare lo Stato della Chiesa dall'invadente potenza imperiale e, in più, si cercava di avere mano libera nei confronti del duca di Ferrara. In seguito, facendo leva sui suoi rapporti con Wolsey e sulla sua posizione di cardinal protettore, tentò di sviluppare nei confronti della Inghilterra un rapporto di alleanza che valesse a salvare l'equilibrio: in tale occasione egli espresse quella che probabilmente era una sua convinzione profonda a proposito della situazione politica contemporanea e delle possibilità che restavano al Papato: "Nel favorire - egli scriveva - quello che può manco, si verrebbe a tenere la bilancia pari e, senza venire alle armi, con la reputazione forse si conserverebbe la pace" (Nitti, p. 301).
Il richiamo della grande politica si faceva sentire e già alla fine dell'estate del '19 si sapeva a Roma che Giulio voleva "tornar in Roma" (Sanuto, XXVII, col. 628). Affidata Firenze al cardinal Passerini, il 4 ottobre Giulio rientrò a Roma in compagnia del papa. Ma già alla fine di novembre si diffondeva la voce che doveva tornarsene a Firenze, per lo scarso gradimento ricevuto dal cardinal Passerini. Intanto, per quanto colpito da una malattia ai reni che gli impedì di partecipare alle riunioni del concistoro tra il dicembre 1519 e il gennaio 1520, riprese in mano la conduzione degli affari curiali. La sua presenza significò anche una vigorosa ripresa del processo romano contro Lutero. All'inizio del febbraio 1520 insediò una commissione, composta prevalentemente di francescani osservanti, per l'esame delle dottrine di Lutero; ma, subito dopo, la sostituì con un'altra commissione composta da teologi e meno frettolosa e drastica della prima. Ma la morte a Firenze di Alfonsina Orsini de' Medici e il timore sempre più forte di una crisi del regime mediceo lo costrinsero a tornare in Toscana, in quei primi giorni del febbraio 1520, senza poter guidare i lavori della commissione. Fu quindi assente dalle riunioni concistoriali dalle quali uscì la bolla di condanna di Lutero. Tuttavia fu un suo familiare, Girolamo Aleandro, che - insieme con il teologo tedesco Eck - fu inviato in Germania per l'attuazione della bolla; prima di partire, l'Aleandro fu mandato, per ordine del papa, presso Giulio a Firenze dove si trattenne dalla fine di luglio all'inizio di settembre. Poi, mentre l'Aleandro partiva per la Germania dove doveva prender parte alla Dieta di Worms, Giulio lasciò Firenze per raggiungere il papa, occupato fuori Roma in partite di caccia: lo accompagnava un corpo di armati di millecinquecento persone, destinato alla protezione di Leone X, il quale sembra temesse qualche colpo di mano contro la sua persona. I dispacci dell'Aleandro mostrarono a Giulio tutta la ampiezza e la gravità del movimento luterano e lo stimolarono ad adottare sullo argomento toni e misure ancor più decise. Scrivendo al cardinale Wolsey nel novembre 1520, lo informò che il papa dedicava adesso molto tempo alla questione luterana e salutò con favore le notizie sulla lotta contro la diffusione del libri e delle idee di Lutero. Attraverso lo scambio epistolare con l'Aleandro, è possibile seguire l'aumentare delle preoccupazioni su tale materia e il favore con cui, nell'ambiente del vicecancelliere, si seguiva il comportamento del neoeletto Carlo V.
Concorreva a determinare un atteggiamento del genere anche l'avvio di una politica diversa nei rapporti con le grandi potenze di Europa. In particolare, Giulio aveva fin dall'inizio dell'anno manifestato una grande cordialità nei confronti dell'inviato di Carlo V a Roma, Juan Manuel, che era stato da lui ospitato nel palazzo della Cancelleria appena arrivato a Roma (11 aprile). I numerosi motivi di contrasto che si erano via via accumulati con Francesco I - dalla questione di Ferrara a problemi minori -, uniti al fatto che i Francesi tenevano saldamente Milano e la Lombardia e impedivano o ostacolavano la avanzata della Chiesa nell'area dei ducati padani, finirono col portare ad un cambiamento di fronte.
Nel corso del 1521 la necessità di sorvegliare la situazione fiorentina tenne spesso impegnato fuori Roma Giulio che, partito per Firenze il 28 gennaio, ne ritornò il 30 aprile per allontanarsi quindi di nuovo. Ma la sua scelta a favore dell'imperatore era ormai fatta e veniva accentuata dalle notizie che riceveva dallo Aleandro sulla pericolosità delle idee luterane e sul comportamento seguito da Carlo V alla Dieta. Poiché i timori del papa venivano alimentati da movimenti di truppe spagnole nel Regno di Napoli, manovrate dall'accorto Manuel (tanto che nel concistoro del 6 febbr. 1521 si parlò di questo pericolo come di un "incendio" pari a quello luterano), si poté giungere con relativa rapidità all'accordo, datato 8 maggio ma rimasto per allora segreto, e siglato col sigillo papale il 29 maggio. I contrasti tra i vari comandanti dell'esercito e la lentezza delle operazioni suscitarono le preoccupazioni del papa e portarono alla nomina di Giulio a legato presso lo esercito.
Dopo un viaggio movimentato e non privo di rischi, Giulio raggiunse l'esercito che, dietro la sua spinta e quella del commissario pontificio Francesco Guicciardini, riprese la azione offensiva. Il 19 nov. 1521 entrò in Milano con le sue truppe: la notizia fu comunicata dal suo segretario Giberti al papa il 24 novembre. Era un successo considerevole: ma l'improvvisa malattia del pontefice e la sua morte, avvenuta il 1º dicembre, bloccarono l'offensiva proprio mentre venivano recuperate le città di Parma e Piacenza. Giulio, immediatamente avvertito, partì per Roma, lasciando Parma nelle mani del Guicciardini e predisponendo le difese di Reggio, Modena e Piacenza.
Arrivato a Roma l'11 dicembre, le sue preoccupazioni furono tutte dedicate al futuro conclave.
Egli appariva il candidato più probabile, erede qual era del partito del papa defunto (del quale era anche esecutore testamentario e principale destinatario dei beni, secondo il testamento dell'8 genn. 1521); dietro di lui era schierato anche il partito filoimperiale e l'ambasciatore spagnolo si adoperava attivamente per la sua elezione. Contro di lui invece era il partito francese: Francesco I arrivò a minacciare uno scisma in caso di una sua elezione. Consapevole della difficoltà di un proprio successo, Giulio fece balenare ad altri la possibilità di un suo decisivo appoggio: una promessa in tal senso, secondo Baldassarre Castiglione, venne fatta al cardinale Gonzaga. Il conclave si aprì il 27 dicembre e il primo scrutinio ebbe luogo il 30. Ma apparve subito chiaro che l'opposizione durissima dei cardinali Colonna e Soderini, potendo contare sul veto francese, era in grado di impedire a Giulio l'elezione. Il partito mediceo orientò allora i suoi voti su altri candidati: Farnese, Cibo, Valle. Ma la situazione in conclave appariva bloccata, mentre si deteriorava rapidamente quella militare e si addensavano minacce su Firenze alle quali Giulio era particolarmente sensibile. Fu così che il 9 genn. 1522 egli propose di votare per un assente, il cardinale Adriano di Utrecht. La sera stessa il segretario di Giulio, G. M. Giberti, poteva annunciare l'elezione di Adriano - certamente gradito al partito imperiale - come "opera e factura" del suo padrone (Pastor, IV, 2, p. 691).
Appena uscito dal conclave, Giulio si affrettò ad annodare rapporti per consolidare la sua posizione, anche in vista di scadenze analoghe. Il 12 gennaio scrisse da Roma al re d'Inghilterra e al cardinale Wolsey per ringraziarli di un appoggio che si era rivelato in realtà molto tiepido. Poi si recò immediatamente a Firenze, per raddrizzare una situazione che appariva in grave pericolo. Già durante il conclave i Soderini avevano sollecitato e ottenuto lo aiuto francese per cacciare i Medici da Firenze. La presenza di un Medici in città era quindi estremamente urgente, anche se non bastava a risolvere i problemi.
L'atteggiamento tollerante ed aperto mantenuto fino ad allora da Giulio, ben consapevole di quanto i suoi concittadini tenessero a "recuperar quella loro libertà del Consiglio Grande" (lettera a Lorenzo del 4 maggio 1519: Arch. di Stato di Firenze, Med. av. il Princ., 142, n. 8) indusse molti a sperare in una svolta favorevole al partito popolare. Furono presentati a questo scopo tre progetti di riforma maturati nell'ambiente degli Orti Oricellari, da Machiavelli, Zanobi Buondelmonti e Alessandro de' Pazzi. Fu in questa situazione che prese forma una congiura contro Giulio, maturata in un ambiente imbevuto degli ideali umanistici della libertà repubblicana e del tirannicidio. La congiura venne scoperta in seguito all'arresto del corriere che manteneva i contatti tra il gruppo fiorentino dei congiurati e il partito soderiniano. Alla fine del maggio '22 venne così arrestato in Firenze Iacopo Cattani da Diacceto e si apprese dalla sua confessione che l'obbiettivodei congiurati era la vita stessa di Giulio: il processo che seguì si chiuse con l'esecuzione capitale di Iacopo Cattani e di Luigi di Tommaso Alamanni, decapitati il 7 giugno, mentre altri congiurati, appartenenti al gruppo che si riuniva negli Orti Oricellari, riuscivano a fuggire.
Per tentare di stabilire buoni rapporti col nuovo pontefice, Giulio mandò subito un inviato, Felice Trofino, a recargli le sue congratulazioni; nello stesso tempo mandò il Giberti in Inghilterra "per gli interessi privati et proprii - scrisse il 20 febbraio all'Aleandro - ma ancora per li publici et quelli della Sede Apostolica" (Kalkoff, Nachträge, p. 224). Poiché il Trofino venne fatto prigioniero dai pirati, toccò al Giberti, dopo esser passato alla corte imperiale a Bruxelles e in Inghilterra, recarsi in Spagna e accompagnare papa Adriano nel suo viaggio per mare verso l'Italia. Giulio, avvertito per tempo, si recò ad accoglierlo a Livorno, il 23 agosto, ma non riuscì a instaurare un rapporto cordiale col nuovo papa. Fu così che il 13 ott. 1522, prendendo pretesto anche dall'infierire della peste, Giulio lasciò Roma, nello stesso giorno in cui se ne andava profondamente scontento anche l'ambasciatore spagnolo Manuel. Ma da Firenze preparò il suo ritorno: alla fine di marzo 1521, valendosi della testimonianza di un siciliano da lui fatto arrestare, certo Francesco Imperiale, accusò il Soderini di aver congiurato per far esplodere un conflitto franco-imperiale. Della cosa fu immediatamente informato l'ambasciatore spagnolo a Roma e, tramite suo, il papa. Il risultato non si fece attendere: Adriano VI richiamò a Roma Giulio, che vi fece un ingresso trionfale il 23 aprile, circondato da migliaia di uomini a cavallo. Il 26 ci fu un incontro privato tra Giulio e il papa e il giorno seguente questi fece arrestare il cardinale Soderini. Mentre il processo andava per le lunghe, l'influenza di Giulio presso il pontefice era sempre più grande. Si dovette in buona parte a lui l'alleanza papale con Carlo V che, annunziata nel concistoro del 29 luglio, fu firmata il 3 agosto: Giulio vi portò l'adesione fiorentina. Intanto, la diplomazia era già in movimento per preparare un conclave che l'incerta salute del pontefice faceva prevedere vicino. Carlo V già dal 13 luglio aveva incaricato il suo ambasciatore a Roma di adoperarsi a favore di Giulio, considerato come il suo più fedele e importante alleato. La morte di Adriano VI (14 settembre) e l'apertura del conclave (1º ottobre) non giunsero quindi impreviste.
Fu un conclave assai lungo e difficile. Pur essendo a capo di una cospicua fazione - almeno quindici membri del partito imperiale - Giulio si trovò di fronte l'agguerrita opposizione del gruppo capeggiato dal cardinale Colonna, pure filoimperiale, e di quello filofrancese, rafforzato dall'arrivo di tre cardinali francesi il giorno stesso in cui dovevano iniziare gli scrutini (6 ottobre). Un elemento decisivo nei rapporti di forza era costituito dalla guerra in atto in Lombardia, da cui si attendeva un chiarimento della situazione. Proprio per questo, tutti furono d'accordo nell'imprimere ai lavori un ritmo particolarmente lento. Le notizie passavano liberamente all'esterno del conclave e dall'esterno giungevano tutte le informazioni e le pressioni possibili. Giulio contava soprattutto sull'appoggio politico che gli giungeva senza riserve dalla parte imperiale e - sia pure con molta minor forza - da parte inglese (dove si sarebbe preferita l'elezione di Wolsey). Ma il contrasto fondamentale all'interno del conclave fu tra il gruppo dei giovani, schierati con Giulio, e quello dei cardinali anziani, che si riconoscevano nelle proposte di Colonna e Soderini e nella candidatura del cardinale Farnese. La svolta decisiva si ebbe intorno alla metà di novembre e fu determinata dall'abilità con cui Giulio riuscì ad assicurarsi l'appoggio del cardinale Colonna: valsero a ottenere questo risultato non solo i compensi garantiti da Giulio (la carica di vicecancelliere, il palazzo Riario e altro ancora), ma anche l'impegno a non perseguire il Soderini e, soprattutto, la minaccia di provocare l'elezione del cardinale Orsini. L'accordo fu raggiunto il 18 novembre e portò al già nutrito numero di aderenti di Giulio i voti necessari per ottenere l'elezione: tuttavia se ne rimandò la pubblicazione al giorno dopo, per dare a Giulio il tempo di sottoscrivere le capitolazioni elettorali, con le quali si stabiliva la ripartizione tra gli elettori dell'ingentissima quantità di benefici da lui posseduti. Fu stabilita anche la grazia per Soderini.
L'elezione fu tenuta regolarmente ("ad abundantiorem cautelam", scrive il Martinelli nel suo diario del conclave) la mattina del giorno dopo, il 19 nov. 1523; inseguito, il nuovo papa che aveva scelto il nome di Clemente (a sottolineare la qualità da lui preferita e forse anche per indicare la sua volontà di chiudere una fase della vita del Collegio cardinalizio segnata da aspri contrasti personali e politici) si recò in S. Pietro, dove fu accolto da una folla strabocchevole.
L'elezione di un papa mediceo rassicurava chi aveva temuto un papa straniero; d'altra parte, la severità e l'assiduità di cui il nuovo papa aveva dato prova nell'affrontare i suoi impegni e la sua vicinanza agli ambienti che operavano per una restaurazione morale della vita del clero lasciavano bene sperare in tal senso. Nelle numerose composizioni ricche di lodi e di consigli che in quei giorni giunsero nelle sue mani queste speranze e questa fiducia sono variamente argomentate ma sempre presenti.
Sul fronte politico e militare la sua elezione ebbe immediatamente effetti positivi: Alfonso d'Este, che già si era ripreso Reggio e Rubiera, sospese l'offensiva rivolta verso Modena e mandò un'ambasceria a prestare obbedienza. A Firenze la riconferma di quel consolidato rapporto economico e politico che aveva legato la città a Roma valse a rafforzare il potere della famiglia e a far affluire a Roma nuove schiere di fiorentini. Ma le maggiori speranze si nutrirono soprattutto nell'ambiente filoimperiale: secondo l'ambasciatore di Carlo V, il duca di Sessa, il nuovo papa era da considerare una creatura dell'imperatore. I fatti smentirono quel giudizio: sia per gli impegni presi in conclave, sia in nome di quella difesa della "libertà d'Italia" per la quale si era adoperato sotto Leone X, C. VII volle immediatamente dare alla sua politica un carattere di neutralità tra le due parti per evitare che l'una soverchiasse l'altra. Si rifiutò quindi di dare un carattere offensivo alla lega già firmata da Adriano VI con Carlo V; inoltre, prima ancora della incoronazione (che seguì il 26 novembre) inviò a Francesco I una lettera nella quale, dando notizia della sua elezione, forniva assicurazioni sulla sua intenzione di promuovere guerre contro i Turchi e di pacificare la Cristianità. All'ambasciatore veneziano riserbò un incontro segreto il 23 novembre, nel quale garantì la sua intenzione di restar neutrale e di non far guerre, anche per lo stato in cui Leone X aveva lasciato le finanze, e chiese l'appoggio di Venezia. Ma c'erano anche altri fronti sui quali le sue decisioni erano molto attese: in particolare, quello del movimento luterano e della riforma della Chiesa.
Nel primo concistoro, tenuto il 2 dic. 1523, C. VII parlò della "calamità" luterana come della più grave questione del momento, rispetto alle altre due prese in considerazione (la guerra tra principi cristiani e la minaccia turca). Tuttavia, la questione non fu affrontata allora da C. VII solo nei termini di lotta contro l'eresia bensì, imitando l'atteggiamento già assunto da Adriano VI, anche nei termini di riordinamento di un corpo ecclesiastico gravemente deficitario.
Alla partenza da Roma per la Germania il nunzio Lorenzo Campeggi ricevette un'istruzione (datata 1º febbr. 1524) nella quale gli venivano concessi pieni poteri per correggere e riformare i costumi del clero per mezzo di concili provinciali da convocare in Germania e nelle terre vicine. Negli stessi giorni il papa veniva chiarendo le sue intenzioni in occasione delle riunioni concistoriali: il 18 gennaio affrontò in concistoro la questione della riforma della Curia e costituì una commissione cardinalizia allo scopo di raccogliere ed elaborare proposte in materia. Nel concistoro del 24 febbraio invitò i cardinali a imporre ai loro familiari una rigorosa osservanza dell'abito ecclesiastico, secondo le norme approvate dal concilio lateranense V. In previsione del giubileo del 1525, preannunziato dal papa nel concistoro del 18 apr. 1524, l'attuazione delle misure previste dal Lateranense doveva servire a dare a Roma e alla Curia un aspetto più severo, mettendole al riparo dalle accuse di mondanità e di corruzione sempre più diffuse. Un nuovo e più rigoroso stile fu annunziato anche in materia di cumulo di benefici. A Giovanni III di Portogallo, che aveva chiesto la concessione al fratello dom Enrique di un'altra diocesi oltre a quella che già deteneva, C. VII fece rispondere di no, affermando che tra le sue prime preoccupazioni c'era proprio quella di provvedere alla conservazione della vita religiosa non concedendo a nessuno (tranne i cardinali) il possesso di due diocesi (breve del 1º luglio 1524).Ma le notizie che giungevano dalla Germania, se sollecitavano decisioni in quel senso, facevano temere che apparissero inadeguate. L'alternativa che era uscita dalla Dieta di Ratisbona - un concilio generale oppure un concilio nazionale tedesco per affrontare la questione di Lutero e i gravamina della nazione tedesca - apparve molto preoccupante a Roma. C. VII, raccolto il parere di alcuni cardinali sulla questione, chiese agli ambasciatori presso Carlo V di ottenere un deciso intervento che bloccasse la progettata assemblea ecclesiastica in Germania e spedì un breve in tal senso. Carlo V proibì la assemblea, ma chiese attraverso il proprio ambasciatore a Roma la convocazione quanto prima di un concilio generale proponendo che si scegliesse come sede la città di Trento (in territorio italiano ma legata all'Impero e quindi accettabile anche dai luterani).
Ma l'ostilità del papa alla convocazione di un concilio era grandissima e già allora ben conosciuta, tanto che l'ambasciatore di Carlo V, il duca di Sessa, non ebbe il coraggio di affrontare direttamente l'argomento. Concorrevano ad alimentare tale ostilità da un lato le ombre ancora vicine del conciliarismo e la esperienza del contrasto coi "gallicani", dall'altro il timore che il concilio potesse trovare nella sua nascita illegittima un buon pretesto per deporlo (ancora durante il conclave di Adriano VI, Soderini lo aveva trattato pubblicamente di bastardo).
Come contromisura nei confronti del minacciato concilio, C. VII adottò allora quella di una convocazione a Roma di alti prelati in rappresentanza dei vari paesi della Cristianità, per valersene come consiglieri in materia di riforma della Chiesa: furono invitati gli inglesi Tunstall e Fisher, lo spagnolo Bobadilla, il polacco Laski e altri ancora. Così, nella lettera a Carlo V del 31 luglio 1524 il papa poté far riferimento a questo progetto per arginare la richiesta di un concilio generale. Ma l'opposizione dell'imperatore e di altri sovrani fece fallire quel programma, peraltro assai nebuloso e strumentale. Proseguirono invece le misure relative alla riforma della Curia e del clero in vista del giubileo. I nunzi a Venezia e a Napoli ricevettero indicazioni in merito e furono invitati ad una più rigorosa difesa della giurisdizione ecclesiastica. Sul fronte della lotta antiluterana, si spinse Erasmo ad una polemica esplicita contro Lutero. C. VII, la cui elezione era stata da lui salutata come un presagio di "magna felicitas" (Allen, V, p. 404), lo invitò in una sua lettera del 3 apr. 1524 a prendere le armi "pro eiusdem Dei causam" e lo incoraggiò con l'invio di 200 fiorini tramite Lorenzo Campeggi (ibid., n. 1438). La pubblicazione del De libero arbitrio rappresentò un importante successo su questa strada. Intanto, in Curia si avvertiva sempre più netto l'influsso di personalità come quella di Giampietro Carafa che, dopo aver rinunziato ai suoi due vescovadi, ottenne con breve del 24 giugno '24 di dar vita alla Congregazione di chierici regolari detti teatini. Il papa che, nel 1519, aveva fondato la Confraternita della carità per l'assistenza ai poveri vergognosi, era favorevole alle esigenze che trovavano espressione in iniziative come quella del Carafa o nelle periodiche riunioni dello oratorio del Divino Amore. Si creava così in Curia un clima diverso da quello che aveva caratterizzato l'altro papato mediceo e il primo a farne le spese doveva essere Pietro Aretino.
Nel concistoro del sett. '24 C. VII preannunziò l'attuazione di una visita delle chiese di Roma e un controllo della preparazione del clero secolare. Il 7 novembre il papa riprese in concistoro l'argomento della riforma morale della Curia e il 21 novembre fu pubblicata una bolla a tale proposito. L'8 dicembre fu stampata la bolla di nomina dei tre commissari che dovevano visitare chiese, conventi e ospedali di Roma. Documenti di queste misure furono diffusi per dimostrare la buona volontà del Papa. Sul fronte del dissenso dottrinale, si tentò di ottenere almeno il ritorno degli "utraquisti" boemi all'obbedienza.
Altre misure prese da C. VII all'inizio del suo pontificato dimostrano la sua intenzione di muoversi lungo la via di una corretta amministrazione e di un tentativo di composizione dei contrasti. I gravi problemi di rifornimento alimentare della città di Roma trovarono risposta in una sua bolla del 20 febbr. 1524, con la quale impose la riduzione delle terre a pascolo nella campagna romana e cercò di garantire meglio i liberi coltivatori (sullo stesso argomento ritornò con una bolla del 17 luglio): la misura sollevò proteste soprattutto da parte dei baroni, le cui ragioni trovarono espressione anche in uno scritto di G. B. Casali; l'alleanza con le forze spagnole del Regno di Napoli doveva rendere particolarmente pericoloso il malcontento baronale. Invece nelle città dello Stato della Chiesa il pontefice seguì unapolitica volta alla composizione dei conflitti all'interno delle grandi casate piuttosto che al loro deciso indebolimento: lo si vide a Perugia (coi Baglioni) e a Ravenna, dove fu inviato Francesco Guicciardini. In materia di amministrazione finanziaria, la grave situazione di indebitamento, lasciata dal pontificato di Leone X, fu affrontata cercando forme di finanziamento che non aumentassero gli abusi della Curia e non consistessero in una proliferazione di uffici. La stessa assenza di nomine cardinalizie nei primi anni del suo pontificato significò un distacco dal metodo tradizionalmente seguito per rimpinguare le casse papali. La zecca fu tolta ai Fugger e affidata ai consoli della comunità fiorentina, in accordo con l'ovvia tendenza a rafforzare i legami tra Roma e Firenze. Ma il provvedimento più significativo in tal senso fu la creazione del Monte della Fede (1526) il "primo debito pubblico in senso moderno" (Caravale, p. 232).
Il riaccendersi delle guerre in Italia finì tuttavia col condizionare i tentativi di dare una soluzione ai problemi della riforma. L'arte, appresa da C. VII alla scuola di Leone X, di spostare di volta in volta le proprie forze tra i contendenti tenendo coperte le proprie intenzioni il più a lungo possibile onde guadagnare il "beneficio del tempo", fu messa a prova in una situazione caratterizzata dalla minaccia di una discesa in forze di Francesco I in Italia e dalle difficoltà dell'imperatore in Germania. In un primo momento, egli si limitò a mantenere gli impegni assunti da Adriano VI con l'alleanza con Carlo V: fino alla scadenza del trattato (3 ag. 1524) le somme pattuite furono versate, ma contemporaneamente il papa assunse un atteggiamento di neutralità e prese iniziative per giungere ad una pace generale. Nel concistoro del 9 marzo 1524 si discusse della questione e fu deciso di inviare lo Schönberg come legato presso i tre sovrani di Francia, Spagna e Inghilterra. Di questo allontanamento del consigliere più decisamente filoimperiale di C. VII si avvantaggiarono i partigiani della Francia, capeggiati da Alberto Pio da Carpi e dal Giberti. C. VII si rivolse inoltre direttamente per lettera a Francesco I (10 aprile) e a Carlo V (14 aprile): al primo garantì il suo desiderio di conservarsi imparziale, al secondo annunziò l'intenzione di non rinnovare la lega. Il cattivo andamento delle operazioni militari dei Francesi in Lombardia lo spinse in seguito ad attenuare il suo avvicinamento alla Francia: ai primi di giugno scrisse ancora a Francesco I invitandolo ad un accordo. Per dare maggiore efficacia alla sua azione, progettò l'invio di nunzi presso i principali protagonisti del conflitto: il 19 luglio invitò Baldassarre Castiglione ad accettare la nunziatura presso l'imperatore; presso Francesco I fu inviato, più tardi, Girolamo Aleandro. Il re di Francia, con una decisione che rovesciava la situazione militare, mosse verso l'Italia a capo di un forte esercito. L'iniziativa di pace, per la quale lo Schönberg era partito una seconda volta il 7 settembre verso le tre corti europee già visitate, si rivelava sempre meno realistica; aumentava invece nel papa il timore per la potenza francese che, portando la guerra in Italia, vanificava le sue speranze di una soluzione pacifica che lo lasciasse arbitro della situazione. Dopo la conquista di Milano da parte francese (28 ottobre) C. VII decise di mandare al campo di Francesco I il suo consigliere più ascoltato G. M. Giberti. Ma, giunta la notizia che anche l'esercito spagnolo era comparso in Lombardia, l'inviato papale ricevette l'ordine di modificare l'itinerario e di incontrarsi coi comandanti di Carlo V. L'obbiettivo era quello di ottenere la consegna di Milano nelle mani del papa come garante di una tregua a cui doveva seguire la pace. La tregua non fu raggiunta e, avvicinandosi il momento dello scontro militare, C. VII si sentì costretto ad abbandonare la posizione di neutralità e a compiere una scelta tra i contendenti. Fu scelto quello che appariva allora il più forte, cioè Francesco I. L'alleanza, le cui basi furono gettate durante la legazione di Giberti al campo francese, venne stipulata il 12 dicembre e resa pubblica il 5 genn. 1526. Si conosce solo il sommario di quell'accordo che, redatto in previsione di una altra vittoria come quella di Marignano, si preoccupava di garantire l'integrità dello Stato della Chiesa, la stabilità del dominio mediceo su Firenze e l'appoggio al papa contro il duca di Ferrara.
Nel dare a Carlo V notizia di quell'accordo, C. VII scrisse il 5 gennaio di aver provveduto in tal senso per garantire la propria sicurezza nei confronti dell'armata francese che marciava verso il Regno di Napoli. Nella sua lettera di risposta (7 febbraio) Carlo V incolpò di quella scelta i cattivi consiglieri del papa e, scrivendo due giorni dopo al suo ambasciatore a Roma, si lamentò dell'ingratitudine di C. VII per la cui elezione aveva speso tanto denaro. Mentre il papa era portato dagli interessi medicei ad accarezzare progetti di alleanze matrimoniali colla dinastia francese, Carlo V dichiarava che non era il momento più adatto per affrontare la questione luterana: "en la materia de Luter no es tiempo ahora de hablar" (Gachard, Correspondance, pp. 212 s.).
Ma al posto di una nuova Marignano giunse invece la terribile sconfitta francese di Pavia (24 febbr. 1525). La notizia, giunta a Roma il 27, lasciò completamente stordito e abbattuto il papa, mentre risuonavano per tutta la città le acclamazioni degli spagnoli. Distaccandosi dai suoi consiglieri filofrancesi, C. VII decise di muoversi lungo la strada di un'ambigua alleanza con l'imperatore. Il 1º aprile accettò di sottoscrivere un trattato di alleanza che, in cambio della protezione dello imperatore su Firenze, sui Medici e sullo Stato della Chiesa, impegnava i Fiorentini al pagamento di una grossa cifra. Poiché subito dopo giunsero lettere molto benevole di Carlo V al papa, si decise di inviare come legato in Spagna per la ratifica del trattato il cardinale Salviati: tra le materie da discutere c'erano però questioni scottanti, come quelle del concilio e della venuta di Carlo V in Italia per la incoronazione.
I dispacci che il Salviati inviò nel corso dell'estate dalla corte imperiale erano assai tranquillizzanti, ma intanto i grossi problemi restavano da affrontare e la situazione in Italia peggiorava: la mancata consegna di Reggio e Rubiera alla Chiesa e le vessazioni dell'esercito spagnolo irritavano C. VII e lo rendevano sensibile alle proposte e alle trame ordite dal partito filofrancese. Così, se ai primi di marzo l'ambasciatore veneziano scriveva di lui: "il papa è timido molto et non vol arme", all'inizio di luglio lo trovava invece "caldissimo a far la ditta liga" (Sanuto, XXXVIII, col. 85; XXXIX, col. 176). La lega di cui si parlava in gran segreto era quella tra Francia, Venezia e il papa, voluta dalla reggente Luisa di Savoia e di cui si fecero sostenitori presso C. VII Lodovico di Canossa e il Giberti. Ma il papa passava continuamente dallo scoraggiamento all'entusiasmo e si lasciava tirare da una parte e dall'altra. Ai primi di luglio fu richiesto in gran segreto al nunzio in Svizzera, Ennio Filonardi, di reclutare un buon numero d'armati e si avviarono trattative con l'Inghilterra per farla entrare nella lega; intanto, dietro incarico del Giberti, Girolamo Morone tentava di convincere il marchese di Pescara a passare alla parte antimperiale, promettendogli in cambio l'investitura papale del Regno di Napoli. Ma già ai primi di settembre risultava chiaramente a Roma che la congiura ordita dal Morone era perfettamente nota alla corte imperiale. Il 20 ottobre giunse a Roma l'inviato del marchese di Pescara, Lope Hurtado de Mendoza, ad esporre al papa che, in seguito al tentativo fatto dal Morone, questi era stato imprigionato e il ducato milanese era stato occupato dall'esercito spagnolo. C. VII affrontò il colloquio con evidente imbarazzo, ma non tacque i vari motivi di apprensione e di diffidenza che lo avevano spinto a cercare altre alleanze. La diplomazia spagnola si sforzò nei giorni seguenti di ricreare un rapporto di fiducia col pontefice; ma questi, non fidandosi, fece predisporre misure di difesa per la città di Roma e ordinò di presidiare meglio Parma e Piacenza. Tuttavia, non volle accettare la lega proposta dalla parte francese; ma le sue continue incertezze e i quotidiani ripensamenti sono l'oggetto di tutti i dispacci diplomatici romani di quel periodo. L'arrivo dell'inviato spagnolo Herrera ai primi di dicembre valse a sospendere all'ultimo momento una decisione a favore della lega con la Francia ormai data per certa. Nacque in tal modo un'immagine diversa di C. VII che, se da cardinale era stato conosciuto come un abile uomo politico, divenne noto ora proprio per i suoi continui tentennamenti e per il prevalere in lui di volta in volta di opposte paure ed influenze: questa immagine, prima di trovare una elaborazione letteraria nei versi del Berni e nelle pagine della Storia d'Italia del Guicciardini, fu composta dalle descrizioni e dai giudizi degli uomini più vicini al papa.
La pace di Madrid tra Carlo V e Francesco I (14 genn. 1526) mise in moto la conclusione dell'alleanza antimperiale. Francesco I, il cui impegno venne ritenuto dallo stesso papa non valido (e forse da lui formalmente dichiarato nullo), prese le fila della trattativa diplomatica con gli inviati papali Capino da Capo e Roberto Acciaiuoli e con quello veneziano. Il 22 maggio si arrivò così alla stipulazione della lega di Cognac, tra C. VII, Firenze, Venezia, Milano e il re di Francia; il re d'Inghilterra, nonostante le speranze in una sua adesione, ne era rimasto fuori. Il 13 giugno il concistoro approvò la lega.
Il 16 giunse a Roma l'inviato di Carlo V, Ugo de Moncada: le sue istruzioni consistevano nel cercar di staccare il papa da quell'alleanza con tutti i mezzi e, se il papa si fosse rifiutato, di scatenargli contro rivolte in Firenze, Siena e nello Stato della Chiesa. A tal fine, Moncada doveva valersi della fazione del Colonna, tradizionali alleati dell'imperatore.
Negli incontri con Moncada C. VII si mostrò irremovibile; il 20 giugno, Moncada e il duca di Sessa lasciarono Roma per recarsi presso i Colonna. Tre giorni dopo, il papa si rivolse direttamente a Carlo V, con una lettera nella quale lo accusava, con linguaggio assai aspro, di smodato desiderio di potenza e ripercorreva tutti gli avvenimenti dai tempi della sua elezione per dimostrare i torti subiti. Era un vero e proprio atto di accusa, minaccioso nel tono e pieno di argomenti tratti solo dalle vicende politiche italiane. Ma anche questo documento non fu indenne dalle incertezze continue del papa; nel concistoro del 25 giugno, questi presentò un nuovo breve per l'imperatore al Collegio cardinalizio. Si trattava di un testo assai più moderato e più breve, che si limitava. a rinviare a quanto il nunzio B. Castiglione avrebbe riferito sui motivi dell'adesione del papa alla lega di Cognac. Ma questo secondo breve non riuscì ad arrivare in tempo; e fu il primo ad essere letto dall'imperatore. La reazione fu assai violenta: al Castiglione, che gli aveva presentato i due documenti papali, Carlo V replicò che avrebbe redatto una risposta in tono sostanzialmente mite, annunziando però che vi si sarebbe parlato della richiesta di convocare il concilio. In realtà, la risposta redatta sotto l'influsso del cancelliere Gattinara per opera di Alfonso de Valdés fu un vero e proprio manifesto politico, destinato non tanto alla lettura del papa quanto a quella delle Cancellerie e degli uomini di cultura di tutta Europa. Il documento, datato 17 sett. 1526, rifaceva la storia dei recenti avvenimenti dal punto di vista dell'imperatore, accusava il papa di non essersi comportato da padre universale della Cristianità e faceva appello ad un concilio da convocare come unico giudice delle controversie. Il 6 ottobre Carlo fece redigere una lettera al Collegio cardinalizio nella quale ricordava che, se il papa non voleva convocare un concilio, spettava ai cardinali procedere in tal senso. I due documenti, inviati a Roma, furono consegnati formalmente il 12 dicembre ai cardinali e al papa riuniti in concistoro.
Alla durezza dell'attacco verbale e ideologico si accompagnò la violenza delle armi. In una situazione militare contrassegnata dagli insuccessi (alla fine di luglio Milano era nelle mani degli Imperiali e l'impresa contro Siena era fallita) C. VII mandava inutili ambascerie in Francia e si lagnava dell'abbandono in cui si sentiva lasciato da tutti gli alleati. Ai primi di settembre, giunse la notizia della vittoria turca di Mohács e si seppe contemporaneamente che Carlo V stava preparando la flotta per venire di persona in Italia. C. VII, che all'inizio del mese ancora contava in una ripresa offensiva dell'esercito della lega e che aveva offerto a Francesco I il possesso di Milano in cambio di una più attiva partecipazione alla guerra, fu depresso e spaventato da quelle notizie; nel concistoro del 19 settembre avanzò la proposta di recarsi egli stesso a Barcellona per raggiungere personalmente un accordo con l'imperatore. Ma proprio allora giunse la notizia che i Colonna stavano marciando su Roma. Il 20 settembre Roma, priva di difese, venne percorsa dagli uomini del Colonna che penetrarono nei palazzi vaticani e in S. Pietro e saccheggiarono tutto. C. VII, rifugiatosi in Castel Sant'Angelo, accettò il giorno seguente un armistizio: tra le clausole, concordate con la mediazione dello spagnolo Moncada, c'era l'amnistia per i Colonna. Per garanzia, furono dati come ostaggi Filippo Strozzi e un figlio di Iacopo Salviati.
C. VII visse l'intera vicenda come la ripetizione di una tragedia storica; all'avvicinarsi dei Colonna, aveva deciso di attenderli sul trono papale, come Bonifacio VIII, e solo la insistenza altrui lo aveva indotto a trasferirsi in castello. Una volta concluso l'armistizio, pensò a vendicarsi. Il 28 settembre in concistoro deputò una commissione cardinalizia a trovare modi per raccogliere danaro; fece affluire contingenti di soldati in città, nonostante le proteste del Moncada. Finalmente, il 7 novembre in concistoro decretò un monitorio contro il cardinale Colonna e i suoi aderenti. Poiché Pompeo Colonna non accettò di presentarsi e, da Napoli, si appellò al futuro concilio, fu processato in contumacia e privato delle sue cariche. Inoltre una campagna iniziata il 1º novembre da parte dell'esercito papale puntò alla conquista e alla distruzione delle fortezze dei Colonna. Il cardinale Colonna, per parte sua, oltre a rilanciare la minaccia del concilio accusando il papa di elezione simoniaca, organizzò, d'accordo col Moncada, un piano di attacco congiunto contro Roma da parte delle soldatesche del duca di Borbone, da Milano, e del viceré di Napoli. Era una minaccia terribile, che una serie di avvenimenti resero in quel periodo sempre più realistica: la discesa dell'esercito del Frundsberg in Italia, la ferita e la successiva morte di Giovanni de' Medici nel tentativo di fermarne l'avanzata, il passaggio del duca di Ferrara alla parte imperiale. Facendosi sempre più cupe le prospettive, il 30 novembre furono esaminate in concistoro le possibilità ancora aperte e, rifiutata l'ipotesi di abbandonare Roma (che, per il papa, voleva dire aprire la via al concilio e alla propria deposizione), si decise di tentare la via delle trattative; il tono moderato dei messaggi verbali di Carlo V sembrava intanto smentire la durezza del "manifesto" scritto.
Ma le trattative andarono per le lunghe, in parte per difficoltà reali, in parte perché si cercava, secondo il consiglio del Guicciardini, "che, durante le pratiche della pace, si facessi tucte le provisione possibili per la guerra" (lettera del 29 dicembre, in Carteggi, XI, p. 205). L'accordo sembrò raggiunto iI 28 genn. 1527, ma la notizia dell'arrivo di nuovi aiuti dalla Francia lo rimandò in alto mare e la successiva vittoria ottenuta dalle truppe papali a Frosinone il 30 gennaio contro i soldati del Lannoy fece rinascere speranze migliori. Ma l'inconsistenza degli aiuti e l'addensarsi delle minacce su Roma portarono all'armistizio (15 marzo) perfezionato in seguito a trattative condotte direttamente dal viceré di Napoli Lannoy, a Roma dal 25 marzo. Il 29 marzo il patto fu concluso. Ma le truppe che calavano da nord non accettarono l'armistizio, né si accontentarono del danaro che il Lannoy si era fatto dare dal papa e dai Fiorentini, e calarono su Roma, dove intanto si moltiplicavano foschi presagi e annunzi di sventura. Nei giorni prima di Pasqua nelle strade di Roma si udirono gli appelli alla penitenza del romito Brandano, che pubblicamente profetava punizioni bibliche e inveiva contro il papa.
Mentre le soldatesche si avvicinavano a Roma (evitando Firenze meglio difesa, grazie anche alle fortificazioni che C. VII aveva voluto quando era cardinale) il papa prese alcune decisioni convulse e ormai inefficaci. Il 25 apr. rientrò a far parte della lega di Cognac. Il 3 maggio ricorse ad un mezzo fino ad allora da lui evitato per raccogliere danaro: la vendita di nuovi cardinalati. L'illusione di poter resistere all'attacco del Borbone lo portò anche a prendere misure di grande durezza, come la scomunica comminata proprio al Borbone il 4 maggio. Era ancora relativamente tranquillo il 5 maggio, secondo la relazione dell'ambasciatore mantovano. Il giorno dopo, i soldati spagnoli e tedeschi entravano in Roma e la mettevano a sacco.
Il sacco di Roma era la conclusione fallimentare della politica detta della "libertà d'Italia". Ma la sconfitta del papa era talmente grave da ritorcersi contro lo stesso vincitore; per un certo periodo, C. VII poté addirittura riprendere l'antico gioco delle sottigliezze diplomatiche in un quadro ancora italiano.
Le prime trattative iniziarono in Castel Sant'Angelo con Bartolomeo Gattinara, fin dal 7 maggio. Dopo aver nutrito qualche speranza nell'arrivo dell'esercito della lega, C. VII si rassegnò ad accettare le condizioni offertegli il 5 giugno: amnistia ai Colonna, pagamento di 400.000 ducati, rinunzia a Parma, Piacenza, Modena, Ostia e Civitavecchia. Gli ordini per la cessione di città e fortezze partirono subito, ma molto più difficile fu raccogliere il danaro. Benvenuto Cellini fu incaricato di fondere in un crogiuolo improvvisato argenteria e gioielli del tesoro papale; prestiti furono chiesti a banchieri genovesi e tedeschi. Al pagamento della somma pattuita era anche legata la vita degli ostaggi consegnati in garanzia, tra i quali c'erano alcuni degli uomini più vicini al papa e più legati alla politica della "libertà d'Italia".
Oltre alla intollerabilità materiale della condizione di prigionia in cui il papa si trovava (a partire dal 7 giugno il presidio papale era stato sostituito in Castel Sant'Angelo da truppe spagnole e tedesche) c'erano molti motivi di preoccupazione che nascevano dalla situazione esterna e rendevano quella condizione non più sopportabile: al primo posto nelle preoccupazioni di C. VII c'era, come sempre, Firenze. La ribellione della città, annunciatagli una prima volta alla fine di aprile (suscitando in lui ire terribili) e poi subito rientrata, si era consumata completamente dopo il sacco di Roma. Ma c'era anche il disgregarsi della compagine ecclesiastica o almeno l'incepparsi del meccanismo curiale di governo.
Il segno più evidente in tal senso fu dato dall'iniziativa presa dal cardinale Wolsey che, presentandosi come difensore degli interessi della Chiesa contro Carlo V, invitò i cardinali a raccogliersi ad Avignone (6 agosto) e, a nome anche di altri, indirizzò al papa una dichiarazione ufficiale (16 settembre): vi si affermava che dovevano essere ritenuti nulli tutti gli atti compiuti dal papa prigioniero che potevano ledere le prerogative o i beni della Chiesa e che, in caso di sua morte, i cardinali liberi si sarebbero raccolti in luogo sicuro per eleggere il successore. Oltre alle personali ambizioni del Wolsey, c'era sullo sfondo la questione dell'annullamento del matrimonio di Enrico VIII e Caterina d'Aragona a cui si stava allora interessando anche Carlo V. Su questo terreno di piccole astuzie diplomatiche il papa si sentiva a suo agio. L'idea di servirsi delle sanzioni canoniche contro lo imperatore e i suoi comandanti, usando gli strumenti del potere spirituale secondo i modelli del Papato medievale, fu solo un progetto: una bolla in tal senso, redatta ai primi di settembre, rimase allo stato di abbozzo. Essa va posta in relazione con l'invito, formulato da Carlo V in due lettere del 3 agosto, a convocare il concilio e a recarsi in Spagna per discutere di comune accordo i problemi della Cristianità. La proposta di convocazione del concilio, sia pure accompagnata dall'impegno formale che non sarebbe stato consentito nessun provvedimento di deposizione del papa, bastava ancora a scatenare i timori di Clemente VII.
Intanto, lo stato di prigionia del papa si faceva sempre più penoso e non privo di pericoli, come mostrò un rinnovato e più violento sacco di Roma da parte delle soldatesche il 25 settembre. Tale stato ebbe termine con l'accordo del 26 novembre, stipulato separatamente coi comandanti dell'esercito imperiale e con Carlo V. Coi primi fu pattuito il pagamento di una grossa somma; per raccoglierla, si ricorse ancora una volta alla vendita di cappelli cardinalizi.
Nell'accordo con Carlo V si parla invece della necessità di indire il concilio generale al fine di assicurare la riforma e l'unione della Chiesa; ma si lascia al papa il compito di stabilire i tempi della convocazione. "Salve, Papa triumphaior", postillò ironicamente un deluso lettore di quel patto (Monaco, Bayer. Staatsbibliothek, ms. Lat. 506, c. 34r); la vittoria militare non aveva prodotto quella riforma della Chiesa che molti si attendevano. Dopo la liberazione del papa (6 dicembre) la diplomazia imperiale si trovava di nuovo davanti all'antico problema di stringere un reale accordo con lui, come se niente fosse cambiato.
Nella notte tra il 6 e il 7 dicembre, C. VII, travestito, lasciò Roma di nascosto e raggiunse Orvieto. Qui egli apparve ai visitatori e agli agenti diplomatici povero, con "una barba longa canuda... sempre maninconico" (Sanuto, XLVIII, col. 226). Ma la sua posizione era di nuovo solida e importante. In un concistoro del 18 dicembre cominciò col revocare tutte le grazie concesse durante la prigionia. In seguito, ad una lettera di Carlo V, che si felicitava per la sua recuperata libertà, rispose (11 genn. 1528) ringraziando e dichiarandosi pronto a pensare al concilio e alla realizzazione della pace, ma mettendo come condizione la restituzione degli ostaggi e delle città presidiate dagli Imperiali nello Stato della Chiesa. Anche nelle lettere che aveva inviato un mese prima (14 dicembre) ai re di Francia e d'Inghilterra, alla regina Luisa di Savoia, al Montmorency e al Wolsey aveva assunto un atteggiamento dignitoso e riservato enumerando le sofferenze patite e giustificando in tal modo l'accordo raggiunto con Carlo V, senza però aprirsi di nuovo ad antiche alleanze. Lo stesso atteggiamento riservato fu mantenuto in seguito davanti alle continue pressioni che gli vennero fatte perché rientrasse nella lega antimperiale. Non si trattava però di un cambiamento negli orientamenti del papa; egli poneva precise condizioni al suo rientro nella lega, e cioè: la restituzione, da parte di Venezia, delle città di Ravenna e Cervia, da parte di Ferrara, di Modena e Reggio, e, da parte della lega nel suo insieme, quella di Firenze ai Medici. Si trattava cioè di cancellare tutti i cambiamenti intervenuti durante il periodo in cui il papa era stato abbandonato nelle mani dei suoi nemici. In previsione di un successo militare francese nel Napoletano, fece sapere ai primi di maggio che si sarebbe accontentato di avere subito Ravenna e Cervia e, a guerra finita, Modena e Reggio. L'ambasciatore veneziano Gaspare Contarini, che raggiunse il papa a Viterbo (dove si era trasferito dal 1º giugno) tentò inutilmente di distoglierne l'attenzione dalla questione dei territori occupati dai Veneziani: su questo punto il papa fu irremovibile, giungendo a minacciare di scomunica i Veneziani.
La conclusione fallimentare dell'impresa francese contro Napoli nell'agosto convinse C. VII ad aprire trattative di pace con Carlo V. Un altro tentativo di fargli cambiare idea con l'offerta di Ravenna e Cervia da parte della lega (1º ottobre) non ebbe successo: il 6 ottobre il papa rientrò a Roma e il 24 scrisse all'imperatore dichiarandosi pronto a trattare la pace. Ma a questa sua disponibilità corrispose un atteggiamento più freddo di Carlo V: il suo inviato Francisco de Quiñones, molto atteso a Roma, vi giunse il 30 dicembre senza indicazioni precise, rimandando tutto ad altre trattative.
Fu fatto allora un estremo tentativo di convincere C. VII ad accostarsi alla lega: il Contarini, in una udienza del 4 genn. 1529, sviluppò lungamente l'argomento che il papa doveva rinunziare alle sue pretese su Ravenna e Cervia e abbandonare il punto di vista di un principe italiano per adottare invece quello di capo della Chiesa universale. La replica di C. VII non pose in discussione i principi ma si richiamò alla pratica politica e alla necessità di usare l'astuzia piuttosto che la bontà, facendo presente il rischio che egli correva di restare privato dei suoi possedimenti e di essere per di più giudicato un inetto.
Un'improvvisa malattia del papa (9 gennaio) indusse tutti a prepararsi ad un prossimo conclave; lo stesso pontefice, del resto, ritenendo prossima la propria morte, si affrettò a conferire il cardinalato al nipote Ippolito. Cosi, l'eredità fiorentina restava affidata ad Alessandro de' Medici (molto probabilmente suo figlio). Intanto Wolsey, che non aveva ottenuto nessuna risposta soddisfacente ai già numerosi tentativi di far sciogliere dal papa il matrimonio di Enrico VIII, puntò tutte le sue carte sul futuro conclave; già si discuteva sulla sede in cui tenerlo, quando C. VII si riprese; il 18 febbraio ci fu una nuova, grave ricaduta. Intanto la battaglia diplomatica infuriava di nuovo: l'8 febbraio era stata letta in concistoro una lettera di Carlo V che esortava alla conclusione della pace. Nei giorni successivi si era diffusa la voce del prossimo arrivo in Italia dell'imperatore, evento temutissimo dal papa. Allora da parte della lega si fecero nuove insistenze sul papa malato per convincerlo all'alleanza e si riposero molte speranze sull'influenza chel'antico segretario Giberti, comparso a Roma alla fine di febbraio, poteva esercitare su di lui. Ma due fatti decisivi portarono ad una conclusione diversa: in una lettera del 28 febbraio Carlo V rilanciava la proposta di pace universale e di sistemazione definitiva delle cose italiane senza alludere al concilio; pochi giorni dopo averla letta, il papa ebbe notizia che a Firenze, il 17 aprile, essendosi scoperte le segrete trattative tra il papa e il Capponi, quest'ultimo era stato sostituito al potere da Francesco Carducci, ostilissimo ai Medici. La possibilità di ottenere da Carlo V il ristabilimento della famiglia in Firenze fu l'elemento decisivo per C. VII: ad esso si aggiunse anche la voce, allora diffusasi, di trattative di pace in corso tra Francia e Impero. Secondo Miguel Mai, fu molto importante anche il fatto che in una udienza del 24 aprile i rappresentanti dell'imperatore tranquillizzarono il papa a proposito del concilio. Sta di fatto, comunque che ai primi di maggio, dopo aver dissimulato fino all'ultimo le sue intenzioni, C. VII decise di inviare Girolamo da Schio, vescovo di Vaison, a Barcellona per trattare, coi poteri più ampi, le condizioni della pace. Si trattava intanto anche per un'alleanza matrimoniale tra i Medici e l'imperatore (con l'unione di Alessandro de' Medici e Margherita, figlia di Carlo V). Il 29 maggio fu conclusa la pace: con essa l'imperatore garantiva il suo aiuto per far tornare i Medici a Firenze e per la restituzione di Ravenna, Cervia, Modena, Reggio e Rubiera. Il papa garantiva particolari appoggi e aiuti per la lotta contro gli eretici di Germania e contro i Turchi.
Il 12 agosto giunse a Genova Carlo V e per riceverlo il papa inviò, coi cardinali Farnese e Quiñones, Ippolito e Alessandro de' Medici, oltre all'antico consigliere Giberti (che venne male accolto). Il 13 fu fatto cardinale il Gattinara. Gli accordi di Barcellona si realizzavano rapidamente; sotto la minaccia delle truppe imperiali, fin dai primi di settembre Perugia si sottomise, mentre a Firenze l'aspra resistenza degli abitanti rimandò di un anno la conclusione.
Da Genova Carlo V aveva scritto al papa per chiedergli di celebrare la cerimonia dell'incoronazione non a Roma ma a Bologna. La richiesta fu ripetuta in una seconda lettera da Piacenza e fu motivata con la necessità per l'imperatore di affrettare al massimo i tempi per far fronte al pericolo turco in Germania. Molto di buon grado C. VII accondiscese: fatti i necessari preparativi, regolata l'elezione papale in caso di sua morte fuori di Roma, il 7 ottobre si mise in viaggio. Attraverso Civita Castellana, Orte, Terni, Spoleto, Foligno, Nocera e Sigillo, evitando il percorso attraverso la Toscana dov'era in corso il conflitto con Firenze, il 20 ottobre giunse a Cesena; qui ebbe un incontro con gli ambasciatori fiorentini, coiquali tentò ancora la via di una composizione pacifica. Il 24 fece l'entrata solenne in Bologna; il 5 novembre ebbe luogo quella di Carlo V.
Al di là dei grandi apparati celebrativi, la quantità e la qualità delle questioni aperte che vennero affrontate a Bologna e delle trattative diplomatiche che vi si intrecciarono resero la città per diversi mesi la capitale della politica europea. Accanto agli incontri e ai colloqui diretti che papa e imperatore, alloggiati in appartamenti comunicanti nel palazzo pubblico, poterono avere continuamente, ci fu tutta la rete delle trattative che intorno a loro e con loro svolgevano rappresentanti e mandatari degli Stati italiani ed europei. Gaspare Contarini come rappresentante di Venezia cercò fino all'ultimo di trovare un'alternativa alla restituzione di Ravenna e Cervia, scontrandosi però con la volontà ferma del papa. Gli inviati del duca di Ferrara condussero un'abile serie di trattative per allontanare il rischio della restituzione di Modena, Reggio e Rubiera e per ottenere al duca il permesso di partecipare alla cerimonia della incoronazione. Quanto a Milano, si discusse la possibilità di darne investitura ad Alessandro de' Medici; ma, considerati i rischi di nuovi conflitti legati alla destinazione di Milano, si risolse di lasciarne il possesso à Francesco Sforza. Sullo sfondo, altre questioni si agitavano: gli inviati inglesi raccoglievano pareri di teologi favorevoli allo scioglimento del matrimonio di Enrico VIII. Quanto alle trattative dirette fra C. VII e Carlo V, esse non hanno lasciato traccia scritta, fuorché negli appunti con cui l'imperatore annotava gli argomenti da discutere prima dell'incontro.
Circondato da consiglieri in prevalenza fiorentini - Iacopo Salviati, Lorenzo Pucci - e dai suoi vecchi confidenti degli anni della lega di Cognac, C. VII perseguì con abilità gli obbiettivi del rafforzamento dello Stato della Chiesa, evitando ogni soluzione di continuità con Parma e Piacenza, e del consolidamento della sua casata. Il 23 dicembre, avendo ottenuto la promessa della restituzione di Ravenna e Cervia, aderì al trattato di pace con l'imperatore e Venezia. Più difficile fu superare la questione del duca di Ferrara: solo il 21 marzo fu raggiunto un compromesso in base al quale l'imperatore avrebbe ricevuto Modena dal duca e avrebbe pronunziato una sentenza entro tre mesi sul destino delle tre città contese. Si giunse infine alle cerimonie dell'incoronazione: il 22 febbr. 1530 fu celebrata nella cappella del palazzo pubblico quella con la corona ferrea del re di Italia e il 24, in S. Petronio, quella imperiale. Il 22 marzo, l'imperatore lasciò Bologna per recarsi in Germania. Il 31 marzo, anche C. VII lasciò la città, sempre più angustiato dalla lunga resistenza dei Fiorentini.
Sullo sfondo dei colloqui si era affacciata anche la questione del concilio: Carlo V, che aveva indetto da Bologna la prossima Dieta ad Augusta, aveva insistito sull'importanza di quello strumento per evitare la scissione religiosa e il papa gli aveva dato generiche assicurazioni, dichiarandosi disposto a convocarlo quando si fosse realizzata la pace generale. Su queste materie, l'impressione di ambiguità che C. VII dava in generale si faceva anche più forte. "Dimostra - scriveva il Contarini - di essere desideroso di vedere gli abusi di Santa Chiesa regolati, ma nientedimeno egli non manda ad esecuzione alcun simile pensiero, né si risolve in far provisione alcuna. Quanto ad affezione di stato, dimostra di non avervi molta inclinazione; ma potria ben essere che simulasse" (Alberi, II, 3, p. 265).
In realtà, le materie di Stato continuarono ad essere al centro dei pensieri di C. VII, in particolare quelle relative allo Stato fiorentino, prima a causa della sua lunga resistenza, poi per la lentezza con cui Carlo V procedeva a dargli una definitiva sistemazione (consapevole di poter in tal modo ricattare ancora il pontefice). Solo il 12 ag. 1530 il voltafaccia improvviso di Malatesta Baglioni, comandante delle truppe, fiorentine, costrinse la città alla resa (in seguito ad un probabile, anche se non documentato, accordo col papa). Alle vendette del partito mediceo, C. VII lasciò mano libera; per parte sua, mandò prigioniero in Castel Sant'Angelo il predicatore savonaroliano Benedetto da Foiano. Tuttavia, come si preoccupò di salvare l'integrità della città preservandola dal sacco, così volle anche continuare nella sua politica di mascherare sotto antiche apparenze l'avanzare di nuove forme di dominio. Solo con la nuova costituzione del 27 aprile 1532, con la quale Alessandro de' Medici diventava duca di Firenze, la nuova realtà veniva apertamente riconosciuta.
Le cose italiane e fiorentine riempirono anche le comunicazioni coi nunzi mandati in Germania al seguito dell'imperatore. Quanto alle questioni della Riforma, dalle relazioni del cardinale Lorenzo Campeggi si ricavò a Roma l'impressione che i principi luterani potessero tornare all'obbedienza senza eccessive difficoltà, dosandosi opportunamente da parte dell'imperatore l'astuzia e la forza. Il 6 luglio il papa e i cardinali in concistoro presero in esame una relazione del Campeggi nella quale si faceva presente quali fossero le richieste dei luterani alla Dieta di Augusta: comunione sotto le due specie, abolizione del celibato per i preti, correzione al canone della messa e, infine, "che omnino si faccia un concilio generale, nel che - aggiungeva Campeggi - io so la mente di N. S. et spero condurre questo articolo bene, così mi fusse facile de li altri" (Legation Lorenzo Campeggios, p. 70). La mente del papa era nota anche ai cardinali; nella riunione concistoriale non si arrivò a nessuna conclusione, ma in una congregazione cardinalizia convocata all'uopo si stabilì di non concedere niente e di attestarsi all'editto di Worms.
Ma la questione del concilio fu riaperta direttamente da Carlo V in una lettera al papa del 14 luglio. Nella sua risposta, C. VII accettò apparentemente l'idea della convocazione del concilio, ma la subordinò strettamente ad una condizione: il ritorno dei protestanti all'obbedienza della Chiesa. A Roma si contava su di una facile composizione del conflitto di religione per opera dell'imperatore e la prospettiva del concilio appariva molto lontana. Ma la possibilità di accordo sfumò. Il 29 settembre venne letto nella congregazione cardinalizia il dispaccio di Campeggi del 13 settembre che lasciava immaginare le conseguenze della rottura tra imperatore e principi protestanti. C. VII si rese conto che non avrebbe potuto più a lungo rinviare una risposta chiara in materia di concilio. Una nuova lettera di Carlo V (30 ottobre) lo pose davanti all'alternativa nei termini più netti: o convocare il concilio oppure dichiarare semplicemente di non volerlo. Ma l'alternativa reale, come gli veniva presentata dallo stesso Campeggi in un dispaccio del 13 novembre, era tra il dire chiaramente all'imperatore che il concilio non era opportuno oppure "procedere occultamente... usar il benefitio dil tempo... simulare" (Legation Lorenzo Campeggios, pp. 180-181). C. VII non poteva che scegliere la seconda via.
La prima reazione alla lettera di Carlo V era stata violenta; secondo Quiñones, egli avrebbe esclamato: "Un paio di tedeschi ubriachi metteranno il concilio e il mondo intero sottosopra. Ma lasciateli fare! io me ne vado sui monti, e poi scelgano pure nel Concilio un nuovo papa, anzi una dozzina di papi, poiché ogni nazione vorrà il suo" (Jedin, Storia del concilio, I, p. 223). Comunque, dopo aver trattato della cosa nella congregazione cardinalizia il 21 e il 25 novembre e in concistoro, dove fu letta anche una lettera di Carlo V ai cardinali del 31 ottobre destinata a metterli sull'avviso contro le manovre politiche papali, fu presa la decisione di promettere la convocazione del concilio.
Il 1º dicembre fu redatto un breve ai principi cristiani, in cui si annunziava che il concilio sarebbe stato convocato al più presto. Ma il nunzio straordinario inviato a Carlo V (Uberto Gambara) portò solo obbiezioni e difficoltà teologiche e politiche e, in particolare, alcune pesanti condizioni poste dal papa. Intanto si metteva in moto anche una più ampia manovra politica: il 5 dic. 1530 furono lette in concistoro lettere di Francesco I al papa e ai cardinali del 21 novembre, nelle quali il re di Francia si dichiarava interessato alla convocazione del concilio, pur facendo trasparire chiaramente molte difficoltà. Si riapriva così il gioco a tre, nel quale il papa non aveva bisogno di maestri. Scrivendo all'imperatore (25 apr. 1531) C. VII fece presente che non gli era possibile convocare il concilio finché durava l'opposizione di Francesco I; e quanto questa fosse decisa lo si seppe all'arrivo dell'inviato francese a Roma, cardinal de Gramont. Intanto si intensificavano i contatti tra il papa e il re di Francia per il progetto di matrimonio tra Caterina de' Medici ed Enrico d'Orléans, secondogenito di Francesco. Erano dunque legittimi i sospetti di un accordo tra i due anche in materia di concilio, e Carlo V li fece trapelare in una lettera al papa del 27 giugno; in essa annunziava anche l'intenzione di recarsi presto in Germania per una Dieta da tenersi a Spira. Nella sua risposta, il papa approvò questo progetto e accennò alla possibilità di fare concessioni ai protestanti. Alla Dieta fu inviato un nunzio papale, secondo la decisione presa nel concistoro dell'11 ag. 1531: il papa scelse Girolamo Aleandro. In due lettere successive, l'una a Carlo V (12 settembre) l'altra a Ferdinando d'Austria (11 settembre) mise però in guardia da eventuali concessioni troppo ampie. False notizie, come quella giunta a Roma in novembre del ritomo all'obbedienza romana dell'elettore di Sassonia, alimentavano ancora speranze di poter sfuggire alla traumatica decisione del concilio. Non mancavano tuttavia dichiarazioni formali di buona volontà, come quelle contenute in un documento papale ai principi cristiani del 10 dicembre. Inoltre, subito dopo l'apertura della Dieta di Ratisbona C. VII ribadì in una lettera a Carlo V che si doveva convocare il concilio, anche se l'opposizione francese per il momento bloccava del tutto tale progetto. Ma il fermo atteggiamento degli Stati cattolici alla Dieta nel richiedere la convocazione del concilio a breve termine e la minaccia di riunire altrimenti una Assemblea nazionale tedesca per ristabilire l'unità religiosa costrinsero a prendere delle decisioni; Carlo V fece accettare la cosiddetta "pace religiosa di Norimberga" in base alla quale si manteneva lo statu quo in materia religiosa fino al prossimo concilio da convocare entro breve termine (sei mesi). L'urgenza di una conclusione in qualche modo positiva era dovuta alla necessità di unione nella lotta contro i Turchi.
La minaccia turca era vivamente avvertita anche in Italia. C. VII avviò più intensamente la fortificazione di città come Fano ed Ancona e raccolse nuove tasse per far fronte alle spese di guerra. Anche per questo, pur non approvando il compromesso raggiunto da Carlo in Germania, non se ne dissociò apertamente. Nel concistoro del 21 giugno 1532, insieme con l'imposizione di una tassa straordinaria per la difesa contro i Turchi, si stabilì anche l'invio presso l'imperatore e Ferdinando d'Asburgo del cardinal Ippolito de' Medici, latore di una grossa quantità di danaro per arruolare truppe.
Dopo il successo della campagna militare, Carlo V decise di avere un nuovo incontro personale con C. VII per affrontare le questioni in sospeso. Fu scelta la sede di Bologna. L'8 dicembre il papa, in non buone condizioni di salute per la gotta che lo tormentava, fece il suo ingresso in Bologna; il 13 dicembre vi giunse Carlo V.
Numerose erano le questioni aperte. Se a Carlo V premeva quella del concilio, il papa aveva, per parte sua, lagnanze relative al modo in cui era stata chiusa la questione di Modena, Reggio e Rubiera. Inoltre, il ventaglio dei problemi politici e religiosi si era arricchito, rispetto all'incontro del 1530, di dati nuovi: nei rapporti con l'Inghilterra, pendeva la questione sempre più grave del matrimonio di Enrico VIII e Caterina d'Aragona. Nei rapporti con Francesco I si profilava invece la possibilità di un'alleanza matrimoniale con la dinastia regnante a favore della casa de' Medici. Proprio a quest'ultimo proposito, l'incontro bolognese riuscì ad affrettare i tempi e a facilitare i modi di un'operazione che stava a cuore al papa. Carlo V fece infatti a C. VII la proposta di stringere una alleanza italiana destinata a proteggere Milano e Genova nei confronti di eventuali attacchi francesi; per convincere il papa e rendergli più accettabile una scelta che lo facesse uscire da uno stato di neutralità almeno apparente, gli propose di dare in moglie la nipote Caterina ad Alessandro Sforza. All'obbiezione che altre trattative matrimoniali erano già aperte con la Francia, Carlo V chiese di giungere rapidamente ad una soluzione, contando sul fatto che Francesco I non avesse reale interesse a quel matrimonio: ma il re di Francia decise - proprio per la posta politica in palio - di stringere i tempi dell'accordo matrimoniale, dando ai cardinali Gramont e Tournon, suoi inviati a Bologna pieni poteri per la conclusione del patto matrimoniale e contemporaneamente invitando a Nizza il pontefice per discutere meglio di quell'argomento. Carlo V poté solo, a questo punto, impegnare il papa in un accordo segreto (stipulato il 24 febbr. 1533) a non stringere alleanze con altri e a non alterare in nessun modo l'assetto degli Stati italiani. Nello stesso patto fu deciso che la questione del matrimonio di Enrico VIII non venisse trattata e risolta altrove che a Roma.
Con quest'ultima decisione si intendeva bloccare tutti i tentativi che da tempo Enrico VIII e i suoi ministri facevano per poter trattare la causa di divorzio all'interno del regno d'Inghilterra. Qui la politica piena di reticenze, di contraddizioni e di rinvii, ma sostanzialmente decisa a non cedere, che il papa aveva seguito fin da anni lontani, aveva provocato guasti profondi. Solo nel periodo immediatamente successivo al sacco, durante la sua residenza a Orvieto, egli aveva concesso di trattare la questione in Inghilterra e aveva redatto una decretale che dava il potere ai due legati, Campeggi e Wolsey, di istruire la causa e pronunziare una sentenza senza appello. Ma le pressioni imperiali lo avevano spinto a ordinare a Campeggi di tirare in lungo la questione. L'esibizione da parte di Caterina d'Aragona del breve di dispensa accordato da papa Giulio II per il matrimonio con Enrico VIII aveva riaperto la questione sul piano giuridico, mentre le rinnovate insistenze dell'imperatore avevano convinto il papa che occorreva avocare la causa a Roma. Ma la sospensione del processo in Inghilterra, fatta in maniera pretestuosa dal cardinale Campeggi il 30 luglio 1529, aveva aperto una crisi tra il re Enrico VIII e il papa. Il 6 dic. 1530 il re d'Inghilterra si era rivolto direttamente al papa, con una lettera nella quale lo accusava di essersi reso strumento di Carlo V anche nel trattare quella questione; il papa rispose difendendo se stesso e Carlo V, di concerto col quale gli inviò poco più d'un anno dopo (25 genn. '32) un breve in cui lo invitava a staccarsi da Anna Bolena e a tornare con Caterina in attesa della conclusione del processo. Nell'incontro di Calais dell'ottobre '32, Enrico VIII si era accordato con Francesco I per esercitare ulteriori pressioni sul papa, di cui sembrava imminente il distacco dall'alleanza con Carlo V. Gli inviati francesi a Bologna, i cardinali Tournon e Gramont, erano latori di una non velata minaccia di apostasia da Roma per piegare all'alleanza franco-inglese il papa. La riconferma dei rapporti di forza esistenti, ottenuta da Carlo V grazie anche alla vittoriosa impresa contro i Turchi portò ad un atteggiamento più rigido nei confronti di Enrico VIII: da Bologna partì un monitorio che ingiungeva al re d'Inghilterra di separarsi da Anna Bolena entro un mese, pena la scomunica.
Ma la questione che tra tutte stava più a cuore a Carlo V nell'incontro bolognese era certamente quella del concilio: fin dal primo colloquio col papa (15 dic. 1532) ribadì l'esigenza di giungere rapidamente alla convocazione di quell'assemblea, vista come l'unico strumento per la composizione del dissidio di religione in Germania. Se ne discusse in un concistoro il giorno dopo, senza tuttavia giungere ad una conclusione unanime rispetto alle opposte tesi (quella papale, che insisteva sulla necessità di una preliminare intesa tra i principi cristiani, quella imperiale che riteneva urgente arrivare comunque ad una immediata convocazione). Un nuovo concistoro (20 dicembre) si espresse in maggioranza a favore della tesi papale: per attuarne la decisione fu nominata una commissione cardinalizia, composta di quattro cardinali di parte papale e quattro in rappresentanza dell'imperatore.
Era una soluzione che, al di là delle illusioni di Carlo V, rendeva possibile al papa continuare indefinitamente nella sua politica del rinvio. Il 2 genn. 1533 furono inviati i brevi di invito ai principi cristiani, il 10 quelli ai principi e Stati dell'Impero; alle insistenze di Carlo V, si rispose che, prima di procedere alla indizione del concilio, occorreva attendere la risposta dei principi. Le fredde e generiche risposte di Francesco I e di Enrico VIII mostrarono subito quali fossero le intenzioni degli avversari politici dell'imperatore. Il nunzio papale fu fatto viaggiare a lungo tra Francia e Inghilterra senza ottenere impegni precisi; finalmente, Francesco I dichiarò che avrebbe discusso della questione nell'incontro col papa.
Di questo incontro si cominciò a discutere nel Collegio cardinalizio subito dopo il rientro di C. VII a Roma (3 apr. '33). Nonostante l'ostilità del partito filoimperiale, il papa decise ugualmente di effettuare il viaggio, ma ne spostò la data al mese di settembre. Di ciò avvertì Francesco I con una lettera del 28 maggio. In quello stesso giorno Thomas Cranmer, nuovo arcivescovo di Canterbury, dichiarava la validità del matrimonio di Enrico VIII e di Anna Bolena dopo aver pochi giorni prima annullato quello con Caterina d'Aragona.
Di fronte a questo estremo atto di rottura, la reazione di C. VII fu ancora caratterizzata dal ricorso all'arte del rinvio. L'11 luglio emise una sentenza di nullità contro il matrimonio appena celebrato e di scomunica maggiore contro il re; ma concesse un termine per l'entrata in vigore della scomunica che fu in un primo momento fissato alla fine di settembre, poi rinviato di un altro mese. Accelerò invece le trattative per l'incontro con Francesco I, il quale se ne mostrava ora meno desideroso. La sede dell'incontro, all'inizio indicata da C. VII nella città di Nizza, dovette essere spostata a Marsiglia per le difficoltà sollevate dal duca di Savoia. In direzione di Marsiglia partì, il 1º settembre, Caterina de' Medici; il papa la seguì il 9, viaggiando attraverso il territorio senese, San Miniato al Tedesco (dove ebbe, il 22 settembre, l'ultimo incontro con Michelangelo), Pisa, Livorno. La flotta papale, dopo aver preso a bordo Caterina a Villafranca, giunse a Marsiglia l'11 ottobre.
I colloqui con Francesco I ebbero subito inizio mentre gli atti dell'alleanza mediceo-francese si andavano compiendo: il 28 ottobre C. VII celebrò le nozze tra Caterina ed Enrico; il 7 novembre in concistoro furono nominati, nonostante l'opposizione della parte imperiale, ben quattro nuovi cardinali francesi. Quanto al contenuto delle conversazioni personali tra re e papa, il segreto strettissimo che venne conservato su di esse non permette di averne un quadro definito; tuttavia, in una conversazione con l'ambasciatore spagnolo conte di Cifuentes, il papa si affrettò fin dai primi giorni a rivelare che Francesco I nonvoleva si parlasse di concilio finché durava il suo contrasto con l'imperatore. Con questo, la minaccia del concilio che aveva angosciato C. VII (e che, secondo l'ambasciatore veneziano Soriano, era stata il motivo principale che lo aveva spinto a Marsiglia) era definitivamente allontanata oltre ogni prevedibile scadenza.
Inoltre, da un appunto di Francesco I risulta che si pensava a un'alleanza franco-papale per un attacco contro Milano che, strappata a Carlo V, avrebbe dovuto diventare - insieme con Parma e Piacenza - appannaggio dotale per le nozze di Caterina. Mentre si trattavano i dettagli di questa alleanza, diventava realtà il distacco dell'Inghilterra dall'obbedienza al papa; il 7 novembre gli inviati di Enrico VIII lessero davanti a C. VII l'appello del sovrano inglese al futuro concilio. Il 12 novembre C. VII lasciò Marsiglia, il 10 dicembre rientrò a Roma.
Gli ultimi mesi della vita di C. VII furono occupati dagli esiti degli accordi presi a Marsiglia. Quando scoppiò la guerra condotta da Filippo d'Assia (alleato con la Francia) per restaurare nei suoi domini il duca protestante del Württemberg, C. VII si rifiutò con pretesti difornire aiuto agli Asburgo. Il Collegio cardinalizio, dove la maggioranza apparteneva ora al partito filofrancese, fu d'accordo col papa. Si consumava intanto l'ultima frattura con Enrico VIII; di fronte alle decise misure con cui questi si staccava dall'obbedienza a Roma, si giunse finalmente alla conclusione del processo canonico sul matrimonio del re con Caterina. La sentenza, formulata daC. VII nel concistoro del 24 marzo 1534, riconosceva valido quel matrimonio e imponeva al re di tornare ad onorare il vincolo coniugale con Caterina. Ma a questa data lo scisma inglese era ormai una realtà.
Intanto C. VII doveva ancora preoccuparsi dei problemi di quella famiglia Medici che aveva occupato tanta parte dei suoi pensieri. Il cardinale Ippolito, sempre più attirato da interessi politici e militari, minacciava di abbandonare il cardinalato per contrastare ad Alessandro de' Medici il dominio di Firenze. C. VII, già in cattive condizioni di salute, gli affidò la legazione delle Marche (5 sett. '34); in un breve a Ferdinando d'Asburgo raccomandò i due, ai quali nel suo testamento del 30 luglio aveva destinato i due versanti della sua eredità: le pertinenze fiorentine ad Alessandro, quelle romane a Ippolito.
La grave malattia che, rivelatasi nel giugno 1534, condusse C. VII a morte il 25 settembre, sciolse con la sua vita anche quel legame tra Firenze e Roma che egli si era affaticato a mantenere saldo. Non lo accolse però la tomba medicea che, fin dall'inizio del suo pontificato, aveva tanto raccomandato a Michelangelo: il suo corpo, prima sepolto in S. Pietro, fu trasferito poi a S. Maria sopra Minerva.
Fonti e Bibl.: Per un primo censimento di fonti manoscritte conservate in archivi e biblioteche italiane vedi P. O. Kristeller, Iter Italicum, I-II, ad nomen; per i documenti conservati in Arch. Segreto Vaticanno, vedi Schedario Garampi, 107, Pontefici,ad nomen; 108, Cardinali,ad nomen; si veda altresì l'Indice 113 (Excerpta Felicis Contelorii). Documenti emanati da C. VII e a lui relativi si trovano inoltre in molte delle più importanti biblioteche europee; nel testo è citata la raccolta di documenti fatta a Ferrara nel 1527 da A. Lanciolini e conservata nel ms. Lat. 506 della Bayerische Staatsbibliothek di Monaco di Baviera; ivi, ms. Ital. 216, una raccolta di Notizie attinenti al pontificato di C. VII e Paolo III (1728). L'epistolario è disperso tra vari fondi di manoscritti, tra i quali bisogna ricordare almeno, oltre a quelli dell'Archivio e della Bibl. Vaticani, le filze del Mediceo avanti il Principato dell'Arch. di Stato di Firenze, l'Archivio Gonzaga di Mantova, l'arch. privato Malvezzi-Campeggi presso lo Archivio di Stato di Bologna. Per l'attività di Giulio de' Medici come legato di Bologna, vedi il fondo Suppliche al Legato in Arch. di Stato di Bologna. Poche le tracce residue della sua attività - tutto sommato, assai scarsa - quale arcivescovo di Firenze nelle carte dell'Arch. arcivescovile di Firenze (uno scambio epistolare per la presa di possesso della sede è riprodotto in copia in Bullettone, cc. 331r e ss. insieme a documenti della lotta contro i seguaci del monaco Teodoro). Oltre ai documenti ufficiali da lui fatti stampare durante il suo pontificato, bisogna ricordare l'edizione delle Epistolae duo (Colonia, P. Quentell, 1527) per il ricorso alla stampa nella polemica aperta dalla pubblicazione del "manifesto" di Carlo V. Sulla vastissima bibliografia relativa a C. VII possono servire da introduzione le opere seguenti: L. v. Pastor, Storiadei papi…? IV, 1-2, Roma 1912, ad Ind.; S. Camerani, Bibliografia medicea, Firenze 1964, ad Ind.; R. Mols, Clément VII, in Dict. d'Hist. et de Géogr. Eccl., V, Paris 1958, coll. 1241-1244. Fra le opere ivi censite sono da menzionare: F. Guicciardini, La storia d'Italia..., a cura di C. Panigada, Bari 1967, ad Indices; M. Sanuto, I Diarii, Venezia 1879-1903, ad Ind.; J. Nardi, Ist. della città di Firenze, Firenze 1888, passim; F. Nitti, Leone X e la sua politica…, Firenze 1892, passim; Opus Epistolarum Des. Erasmi Roterodami, a c. di P. S. Allen, Oxonii 1910-1958, ad Indices; Correspondance de Charles-Quint avec Adrien VI, a c. di M. Gachard, Bruxelles 1859, passim; Le relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a c. di E. Alberi, s. 2, III, Firenze 1839-1895, passim; H. Jedin, Storia del concilio di Trento, I, Brescia 1949, ad Indicem; P. Kalkoff, Nachträge zur Korrespondenz Aleanders…, in Zeitschrift für Kirchengeschichte, XXVIII (1907), p. 224, cui si è fatto esplicito riferimento nel testo, e, per gli ultimi due decenni, da aggiungere le seguenti: F. Guicciardini, Carteggi, a cura di R. Palmarocchi - P. G. Ricci, Bologna 1938-Roma 1951 ss., in Fonti per la storia d'Italia,ad Indices; B. Dovizi da Bibbiena, Epistolario, a cura di G. L. Moncallero, Firenze 1955, ad Ind.; Nunziature di Venezia, I (1529-1534) e II (1534-1542), a cura di F. Gaeta, Roma 1959-60, in Fonti per la storia d'Italia,passim; Nuntiaturberichte aus Deutschland nebst ergänzenden Aktenstücke, I, 1533-1559, suppl. I, 1530-1531, a cura di G. Müller: Legation LorenzoCampeggios 1530-1531 und Nuntiatur GirolamoAleandros 1531, Tübingen 1963; suppl. II, 1532, a cura di G. Müller, ibid. 1969, ad Ind.; N. Machiavelli, Legazioni e commissarie, a cura di S. Bertelli, Milano 1970, ad Indicem; I ricordidi Michelangelo, a cura di L. Bardeschi Ciulich-P. Barocchi, Firenze 1970, ad Ind.; Il carteggio di Michelangelo, ediz. postuma di G. Poggi, a cura di P. Barocchi-R. Ristori, III-IV, Firenze 1970-1979, ad Indices; B. Castiglione, Le lettere, a cura di G. La Rocca, I (1497-marzo1521), Milano 1978, ad Ind. Vedi inoltre: R. von Albertini, Das florent. Staatsbewusstsein imÜbergang von der Republik zum Prinzipat, Bern 1955, ad Ind.; F. Gaeta, Origine e sviluppo della rappresentanza stabile pontificia in Venezia (1455-1533), in Annuario dell'Istituto stor. ital. perl'età moderna e contemporanea, IX-X (1957-58), pp. 3-281; G. L. Moncallero, La politica di Leone X e di Francesco I nella progettata crociatacontro i Turchi e nella lotta per la successione imperiale, in Rinascimento, VIII (1957), pp. 61-109; F. Winspeare, La congiura dei cardinali controLeone X, Firenze 1957, ad Ind.; M. Monaco, Le finanze pontif. al tempo di C. VII, in Studiromani, VI (1958), pp. 278-296; Id., Considerazioni sul pontificato di C. VII, in Archivi, s. 2. 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