CLEMENTE XII, papa
Lorenzo Corsini nacque a Firenze il 7 apr. 1652 da Bartolomeo, marchese di Sismano, Casigliano, Civitella, Laiatico e Orciatico, Castagnetolo, Tresana e Giovagallo, e da Elisabetta Strozzi, in una famiglia di riconosciuta nobiltà e di antica tradizione mercantile, che si era anche segnalata nel servizio della Chiesa. Dopo i primi studi fatti nella città natale, dal 1677 li proseguì a Roma presso i gesuiti del Collegio Romano, sotto la protezione dello zio cardinale Neri Corsini, il quale giunse nel 1670 a rifiutare l'arcivescovado di Firenze per poter favorire l'ascesa del nipote nella Curia: "Se io mi parto dalla corte non potrà così facilmente incamminarsi per la prelatura che stando qua io penserei tra due o tre anni di metterlo in habito procurarli un chiericato e se gli haverà cervello ed io vita di lasciarlo in posto cardinalizio", scriveva al fratello Bartolomeo nel 1670 (P. Orzi Smeriglio, I Corsini a Roma e le origini della Biblioteca Corsiniana, in Mem. dell'Accademia naz. dei Lincei, cl. di sc. mor., stor. e filol., s. 8, VIII [1958], p. 307). Nel 1672 però il cardinale Corsini non poté rifiutare il vescovado di Arezzo, e pertanto il nipote Lorenzo preferì lasciar la città e trasferirsi a Pisa per seguirvi gli studi di diritto. Laureatosi in utroque iure nel 1675, il Corsini ritornò a Firenze (improbabile la tesi del Fabroni, secondo il quale egli avrebbe raggiunto nuovamente a Roma lo zio Neri; questi, infatti, dimesso il vescovado aretino nel marzo 1677, si ritirò a Firenze fino alla morte avvenuta il 19 sett. 1678). Forse - essendo egli il primogenito - la famiglia desiderava che si dedicasse alla cura del patrimonio domestico, ma, alla morte del padre, nel 1685, egli decise di intraprendere la carriera ecclesiastica sulle orme del fratello Ottavio, già divenuto chierico di Camera e in quello stesso anno governatore di Cesi. Giunto a Roma fornito di un assegnamento di 80.000 scudi, il Corsini acquistò il posto vacabile di reggente della Cancelleria e in seguito divenne referendario delle due Segnature; quindi alla fine del 1689 o all'inizio del 1690 comperò un luogo di chierico di Camera, che il 13 febbr. 1690 gli fruttò la nomina a presidente della Grascia (nello stesso anno il fratello Ottavio divenne presidente dell'Annona).
Il 10 apr. 1690 Alessandro VIII lo nominò arcivescovo di Nicomedia, accordandogli la dispensa per non essere ancora sacerdote, e il 4 maggio assistente al soglio pontificio; ricevuti gli ordini maggiori, il Corsini il 18 giugno fu consacrato vescovo dal cardinale Flavio Chigi e il 1º luglio venne designato dal papa nunzio apostolico a Vienna. Ma la corte imperiale, già irritata con Roma per le non gradite nomine cardinalizie effettuate nel concistoro del 13 febbr. 1690, con la motivazione che la S. Sede avrebbe dovuto sottoporle una lista di almeno tre candidati all'incarico con possibilità di scelta, rifiutò di accogliere il Corsini. Questi perciò non entrò mai in carica e rimase a Roma, dove il 6 dic. 1695 fu nominato tesoriere e collettore generale della Camera apostolica e commissario generale del Mare e il 9 dicembre sovrintendente di Castel Sant'Angelo.
Come tesoriere il Corsini si trovò a dover fronteggiare le spese di emergenza richieste dal conflitto con l'imperatore e dalla difesa di Comacchio. Ciò richiese una imposizione straordinaria sulle Comunità dello Stato, che valse fra l'altro a intensificare il controllo dei bilanci da parte del Buon Governo e accelerare l'accentramento finanziario a spese di particolarismi e privilegi. In questa stessa direzione si mosse del resto a Roma la Congregazione detta del Sollievo, che esaminava già dagli inizi del sec. XVIII progetti di riforma economica, agraria e monetaria. Il Corsini, come rispettato tesoriere generale, fu l'anima di molti provvedimenti che avrebbe seguitato come pontefice, prefigurando la possibilità di liberalizzare in parte il commercio dei grani (accadde dopo che egli aveva lasciato la carica, con l'editto del dicembre 1710), ma soprattutto limitando, invece, l'ingresso di merci che facessero concorrenza alle manifatture interne, con una lunga serie di bandi contro panni di lana, cuoiami, sete. In questo senso può dirsi che sia stato consolidato definitivamente in quel periodo, anche in certi discorsi con pretese teoriche che circolavano in Curia e in tesoreria, il quadro di un mercantilismo spinto (e spesso drammaticamente accentuato dalle spese di guerra e dalla mancanza di "numerario" nel paese) che seguitò per molti decenni.
Con breve pontificio del 15 luglio 1704 il Corsini venne inviato come commissario a Ferrara per condurre un'inchiesta rivolta ad accertare presunte parzialità delle autorità militari pontificie in favore delle truppe francesi cui era stato consentito di occupare il territorio di Ficarolo, evacuato dagli Imperiali su richiesta della S. Sede. Egli in pochi mesi espletò la missione, resa delicata dalla circostanza che il principale accusato era il marchese Luigi Paulucci, fratello del segretario di Stato pontificio, con soddisfazione unanime riuscendo a placare il risentimento della corte di Vienna (documentazione nella Bibl. Corsiniana di Roma. mss. 928-931 e in Arch. Segr. Vaticano, Segr. di Stato,Ferrara, 309, 346, 347: il processo informativo è nel codice 346).
Poco meno di due anni dopo, nel concistoro del 17 maggio 1706, il Corsini fu elevato alla porpora con il titolo presbiterale di S. Susanna (25 giugno), che egli muterà il 16 dic. 1720 in quello di S. Pietro in Vincoli mantenuto fino alla nomina a cardinale vescovo di Frascati (19 nov. 1725). Conservò interinalmente la carica di protesoriere, finché non dette le dimissioni verso la metà del 1707, quando a Ferrara un suo subordinato fu fatto arrestare dal vicelegato; egli giudicò l'avvenimento come una manovra della Curia tesa a screditarlo e smise di frequentare il palazzo pontificio. Per sanare questo contrasto, Clemente XI lo nominò il 9 sett. 1709 legato di Ferrara, ma il Corsini rifiutò l'incarico per poter rimanere a Roma, ove il 19 febbr. 1710 divenne camerlengo del Sacro Collegio e membro di varie congregazioni cardinalizie (Vescovi e Regolari, Fabbrica di S. Pietro, Buon Governo, Indice, Cerimoniale, Consulta, Ripe).
Frattanto il Corsini aveva iniziato una pregevole attività di bibliofilo e di animatore di iniziative culturali e artistiche. Aveva ereditato dallo zio Neri Corsini una notevole raccolta libraria, che già mentre era tesoriere poneva a disposizione degli studiosi nel palazzo di piazza Fiammetta; nel 1713 inaugurò le sale del palazzo Pamphili in piazza Navona, nuova residenza romana della famiglia, ove il 14 genn. 1714 si riunì per la prima volta l'Accademia dei Quirini. Tenne sempre aperto il palazzo per frequenti serate di dotta conversazione e specialmente la biblioteca che arricchì, consigliato dal dotto benedettino dom Malachia d'Inguimbert, di importanti codici antichi e moderni e di libri (molto importante fu l'acquisto nel 1728 della biblioteca del cardinale Gualtieri): fu questo il primo cospicuo nucleo della Biblioteca Corsiniana, arricchita notevolmente dopo il suo trasferimento - avvenuto quando era già papa, a cura del cardinale nipote Neri Corsini - nel palazzo già Riario, oltre Tevere, completamente rifatto e abbellito. Si adombrava fin d'allora un'attenzione erudita e artistica che seguitò più ampiamente dopo l'avvento al soglio pontificio. Sulla magnificenza della sua ospitalità le testimonianze concordano; a distanza di vari anni C. De Brosses, ad esempio (Lettres familières écrites d'Italie en 1739 et 1740, II, Paris 1885, pp. 72-74, 117, 139), ricordava: "étant Cardinal, il étoit le plus magnifique seigneur de Rome, et tenoit un plus grand état qu'aucun autre du Sacré Collège".
Sotto il pontificato di Clemente XI, il Corsini fu chiamato a far parte di due congregazioni speciali: quella convocata il 28 sett. 1716 per decidere circa gli aiuti finanziari che la S. Sede doveva prestare agli Stati cattolici impegnati nella guerra contro i Turchi in Ungheria e quella istituita nel marzo 1720 per processare il cardinale Alberoni. Successivamente divenne protettore dell'Ordine dei frati minori osservanti, dei serviti, dei frati minori riformati e di varie istituzioni di carità, tra cui S. Giacomo degli incurabili e l'Ospizio della SS. Trinità. Entrò anche a far parte delle Congregazioni ordinarie del Sollievo dell'arte agraria, del S. Uffizio, e de Propaganda Fide; il 22 nov. 1726 (non 1720, come in Ritzler) fu eletto prefetto della Segnatura di giustizia.
Prima dell'elezione al pontificato partecipò ai due conclavi del 1721 e 1724. In entrambi figurò tra i papabili, ma gli nocque il fatto di essere suddito di uno Stato la cui dinastia regnante appariva prossima all'estinzione. Nel primo, che portò all'elezione di Innocenzo XIII, gli furono più favorevoli gli zelanti e i cardinali legati alla corona imperiale, ma - quando il cardinale Ottoboni, verso la metà di aprile patrocinò la sua elezione - il cardinale Rohan sollevò obiezioni, a nome del "partito francese", per l'atteggiamento troppo favorevole assunto dal Corsini verso la bolla Unigenitus. Nel conclave del 1724, la sua elevazione sembrò a un certo momento probabile, quando - dopo il fallimento della candidatura dell'Imperiali - il suo nome, sostenuto dall'Albani e dagli zelanti, non trovò una marcata opposizione nemmeno da parte dei cardinali "nazionali"; ma fu lui stesso a pregiudicare le proprie chances per l'intransigenza con cui respinse ogni patteggiamento.
Per il periodo precedente al pontificato, cui ascese all'età di settantotto anni, ci rimane un ritratto delineato da un anonimo biografo (Biblioteca Corsiniana, Cors. 1385, p. VI): "Era ornato di molte virtù, specialmente della liberalità, della candidezza, e della giustizia, amante degli uomini dabbene senza bacchettoneria. Per desiderio di difender gl'oppressi talvolta s'impegnava troppo per chi poco meritava. Tenace della propria oppinione. Indefesso nelle udienze, nemico dell'adulazione, ma suscettibile delle carezze, e di certe arti, di cui la sua sincerità non gli lasciava scuoprire la finzione. Era di ottima comprensione, e discernimento, ma non molto versato nelle scienze. Amava il gioco per divertimento, specialmente quello degli scacchi, in cui aveva pochi eguali, e meno superiori").
Il conclave del 1730 fu agitato, sia a causa dell'indignazione popolare che circolava in città contro il cardinal Coscia per i suoi abusi (questi poté a stento trovar rifugio alla morte del papa suo protettore), sia perché i "partiti - non erano chiaramente delineati. La volontà delle potenze era rappresentata dai cardinali Bentivoglio per la Spagna, Cienfuegos per l'Austria, Polignac per la Francia, ma anche il re sardo aveva un suo gruppo di cardinali, che insieme con quelli austriacanti si opponevano a candidati toscani per paura che venissero toccati sia i recenti privilegi medicei e sabaudi sia le aspettative imperiali sul granducato. Un'ala consistente di "zelanti" propose dapprima che si scegliesse il cardinal Imperiali, ma dopo aver raccolto ventidue voti questi venne escluso dal rappresentante spagnolo e da altri. Dopo di allora le preferenze si orientarono successivamente verso i cardinali Ruffo, Davia, Corradini, Banchieri, ma senza esito. In giugno infine l'azione di vari autorevoli intermediari sull'imperatore affinché questi non rifiutasse la candidatura di Lorenzo Corsini ebbe successo, con dispetto dei francesi: le ultime perplessità del Collegio cedettero e l'elezione avvenne unanime il 12 luglio 1730. Seguirono i tradizionali festeggiamenti e l'assunzione da parte del nuovo papa di un nome con cui si ricordava quello dell'Albani, che lo aveva designato a suo tempo alla porpora.
Fra i primi atti di C. XII, dopo quelli rituali, vi fu la nomina a suo segretario di Stato del cardinale A. Banchieri (morto il quale, nel settembre 1733, fu chiamato il Firrao) e a segretario alla Consulta di Domenico Rivera; mentre i nipoti Bartolomeo e Neri Corsini ebbero cariche di minor spicco. Certo, quest'ultimo (creato cardinale l'11 dic. 1730) acquistò peso nelle decisioni pubbliche via via che gli impedimenti del papa aumentavano, ma nel complesso dimostrò sempre maggior interesse per gli affari temporali piuttosto che per quelli di Chiesa e di religione, che pur urgevano, e rispetto ai quali la sua opera fu più che altro di transizione.
A gravi provvedimenti il papa fu indotto per prima cosa dalle pendenze lasciate dal cardinal Coscia e dal suo gruppo cosiddetto "beneventano": li affidò fin dall'8 ag. 1730 a una Congregazione de nonnullis, formata da porporati autorevoli, della quale si conservano tuttora numerosissimi incarti fatti di interrogatori, denunce, istruttorie, revisioni contabili. Il 1º dicembre si avviò formalmente la causa penale, ma pochi mesi dopo, nonostante il divieto ponfificio, l'imputato si rifugiò a Napoli sotto la protezione dell'imperatore (31 marzo 1731). Questa insubordinazione gli costò il sequestro di tutti i benefici e prebende (23 apr. 1731) e l'intimazione di peggiori censure, fino alla minaccia di interdetto e di scomunica (12 e 28 maggio). Così, dopo ulteriori polemiche anche pubbliche, tergiversazioni, condanne, l'anno dopo il Coscia decise di consegnarsi alle autorità romane, finché il 9 maggio 1733, per sollecitazione diretta del papa, si giunse alla sentenza. Considerate le malversazioni, estorsioni, falsificazioni, nonché le disobbedienze alle intimazioni pontificie, egli fu condannato a dieci anni di prigione, alla confisca degli illeciti arricchimenti, alla scomunica, all'allontanamento dal Sacro Collegio. Delibere severe, che trovarono eco favorevole nei più zelanti ambienti di Curia, ma soprattutto fra la popolazione romana.
Il "caso Coscia" rammentava anche amaramente quali fossero, negli anni Trenta, le condizioni della finanza pontificia e, con essa, dell'economia e dell'amministrazione dello Stato. Il precedente pontificato aveva visto aggravarsi, per la corruzione e il particolarismo così come per l'aumento sconsiderato delle spese, un deficit già cronico; C. XII avrebbe fatto molto per superarlo, ma la distruttiva guerra che presto attraversò i suoi domini non permise un durevole risanamento, già di per sé problematico.
In verità si era subito tentata la via più semplice e consueta, quella della stampa di cedole, emesse dal Monte di pietà e dal Banco di S. Spirito come cartamoneta: esse sostituirono di fatto gran parte di quel numerario spicciolo di rame e di "biglione" che, appena zeccato, fuggiva verso l'estero, ma non bastarono a sanare il debito pubblico. Sicché parve anche opportuno, non volendo toccare la riserva del Tesoro di Sant'Angelo, reintrodurre il gioco del lotto (dicembre 1731) con nove estrazioni annue sulla ruota di Roma, non senza qualche frutto concreto per l'erario. Per il resto si cercava, sempre sul piano finanziario, di sollecitare i pagamenti dovuti dalle nazioni cattoliche, che si erano fatti sempre più incerti e saltuari. E più tardi si operò molto, alla fine anche con successo, per ottenere dall'imperatore rimborsi per i sequestri e i danni apportati dal lungo soggiorno e passaggio di sue milizie nello Stato.
Una manovra monetaria e un regime di austerità e di oculata finanza non bastavano comunque a porre riparo a una situazione, che gli esperti e memorialisti che affollavano le anticamere pontificie vedevano sempre più spesso dipendere piuttosto da ristagno produttivo e ritardo manifatturiero rispetto ai progressi delle vicine potenze, che non da motivi contingenti. Su questa linea papa Corsini con i suoi nipoti, con cardinali non mediocri come L. Imperiali, G. Firrao, D. Rivera, A. Albani, C. Collicola, con consiglieri laici da L. Pascoli a F. Trionfi, da M. Fermi a P. Giraud, propose una serie di misure doganali e protezionistiche che tentavano di alimentare la capacità produttiva del paese e di stimolarne le esportazioni a vantaggio della bilancia di commercio.
Provvedimento di rilievo e risonanza fu la creazione di un porto franco in Ancona, da tempo caldeggiata dai mercanti del luogo per far fronte alla dominante concorrenza veneta e anche imperiale.
Fra il 1730 e 1732 si svolsero abbastanza spediti i lavori di un'apposita congregazione sul Commercio e portofranco, che si concluse con un editto del 14 febbr. 1732 in cui erano fissati tredici capitoli con le facilitazioni a chi si recasse o si stabilisse in Ancona. Editto che ottenne subito risultati, richiamando molte case commerciali, trafficanti ebrei, gente levantina, ma anche di Ponente, gran numero di navi, le quali popolarono improvvisamente l'approdo in una misura due o tre volte maggiore che in passato, cariche di merci in transito, o di manufatti industriali provenienti da piazze anche lontane. Le magistrature preposte al porto franco ottennero di finanziare la costruzione di un nuovo grande lazzaretto, disegnato dal Vanvitelli, e di un braccio di molo frangiflutti, mentre si dragava sistematicamente il fondale e si tagliava una via di comunicazione che, evitando sia la Lauretana a sud sia la Flaminia a nord, attraversava l'Appennino più direttamente verso Fabriano e Iesi, e che fu battezzata via Clementina. I risultati del porto franco di Ancona, inizialmente così incoraggianti, si sarebbero dimostrati a lungo andare dannosi per l'erario, in quanto favorivano l'uscita di prodotti naturali dello Stato in cambio dell'ingresso gratuito di merci, generalmente pregiate e concorrenziali, dall'estero. Poco dopo la morte di C. XII già il Broggia poté affermare che il regime stabilito in Ancona era risultato piuttosto una "voragine" per le ricchezze pontificie che non un motivo di sollievo.In altri settori del resto la S. Sede perseguiva invece ora più che mai obiettivi protezionistici, di gravame daziario. Si trattava sia della creazione di privilegi o "monopoli" sopra determinate industrie, specialmente trattura e orsoglio della seta, tessitura di pannilana, fabbrica di pezzi di piombo e di vetro, saponifici - per le quali era totalmente proibito l'ingresso di analoghi prodotti forestieri - sia dell'imposizione di gabelle di entrata su alcuni di tali prodotti. Una di queste gabelle fu stabilita nel 1736 col 10%, sulle seterie importate, un'altra nel 1738 al livello del 12%, per le sole merci entrate in Ancona, ma ne furono stabilite più d'una ancora, diversificate a seconda dei generi (e poi con eccezioni di favore per le provenienze austriache), salvo talvolta smentirle sotto la pressione di gruppi o interessi concorrenti. In ogni caso, benché condotta a un livello di consapevolezza economica nettamente superiore che all'inizio del secolo, la discussione in materia si attestò tutta intorno ai principi propri della corrente mercantilistica.
In questo quadro la politica economica sotto C. XII fu insieme ricca di iniziative e convulsa, contraddittoria. L'unico dato certo da cui si partiva era la grave passività della bilancia commerciale e di quella monetaria dello Stato; e l'unica condizione politica era che si dovesse procedere senza troppo dispiacere all'imperatore, anche quando questi senza riguardo faceva scorrere le proprie milizie nelle province pontificie, poiché l'imperatore significava l'Adriatico, la Valle Padana, Napoli, poi la Toscana, ma anche perché l'elezione di papa Corsini era derivata dal ritiro del veto asburgico alla sua candidatura. Alla fine del pontificato la somma dei provvedimenti economici messi in opera era grande, ma i risultati ottenuti pochi. A Benedetto XIV fu lasciata una situazione di perdurante disordine legislativo, amministrativo e di cassa. Unico dato positivo, una ripresa di definiti criteri d'azione, sostenuti da persone laiche ed ecclesiastiche spesso assai esperte, al posto dell'abbandono degli affari in mano soprattutto di intriganti e speculatori com'era avvenuto con Benedetto XIII e il Coscia.
li declino economico era almeno in parte un aspetto del declino di credibilità e di prestigio dello Stato dopo i più recenti pontificati e soprattutto dopo quello velleitario e talora anacronistico di Clemente XI. Fra le potenze la S. Sede mostrò di nuovo durante gli anni Trenta di contare assai poco, attestandosi invano ora su posizioni di principio, ora su rischiosi interventi di compromesso. Caso tipico è la questione di Napoli e della Sicilia, allorché il dominio di Carlo VI vi fu posto in pericolo dalla rivendicazione di Carlo di Borbone, implicato nella guerra che prese pretesto e nome dalla successione polacca. Mentre i Franco-sardi già erano entrati in Lombardia, gli Spagnoli loro collegati, partendo da Firenze, occupavano nell'aprile del '34 Napoli stessa e il Napoletano, dopo di che richiesero il riconoscimento al papa, che invece esitava e che addirittura continuò a ricevere dal vecchio sovrano l'omaggio della chinea.
Carlo VI, forte di un successo militare che aveva saputo estendere anche in Sicilia - dove abilmente fece luogotenente Bartolomeo Corsini - non usò dopo di allora alcun riguardo verso il papa. Truppe furono avviate dal Mezzogiorno a traversare con i loro bivacchi lo Stato, soldati furono reclutati tra gli oziosi e mercenari disponibili fino in Roma stessa, mentre delicata si presentava la trattativa complessiva fra le due corti, cautamente avviata dall'ambasciatore a Roma, poiché vi si intrecciavano, col riconoscimento del Regno di Napoli, problemi come l'exequatur ai vecchi vescovi napoletani, la nomina del nunzio a Madrid e dell'arcivescovo di Toledo, i rapporti finanziari. Poco dopo, la pace separata franco-austriaca che riconosceva i diritti borbonici sul Meridione consentì al papa di uscire da una posizione equivoca, preparandolo ad accettare la nuova sovranità su quelle province.
Invero, mancando l'alleato francese, Carlo di Borbone era in peggiori condizioni di fronte agli Austriaci, che con l'esercito del Kevenhüller tornarono sulla sponda destra del Po e di lì avanzarono senza riguardi proprio nelle Legazioni pontificie. C. XII adottò l'atteggiamento tradizionale non solo della neutralità, ma della protesta contro invasori e devastatori stranieri, quali che fossero. Certo, tra Ferrara e Bologna, tra Ancona e l'Ascolano, il danno era soprattutto d'ordine materiale, per le gravose requisizioni cui procedeva l'esercito imperiale per approvvigionarsi, ed era arduo sperare in futuri risarcimenti. Laddove operavano gli Spagnoli, erano invece più ampie le implicazioni politiche e la resistenza popolare a sua volta più accesa.
Il papa dovette esercitare azione moderatrice, nel marzo e aprile del 1736, quando a Trastevere e altrove una folla eccitata dai forzati arruolamenti che agenti borbonici operavano fra i cittadini cacciò questi agenti e cercò di dirigersi contro il palazzo del cardinale Acquaviva, che li proteggeva. Pur essendo lui per primo preoccupato delle prepotenze spagnole e pur avendo condannato il sistema degli arruolamenti di suoi sudditi, C. XII comprendeva che l'occupazione dei soldati di Carlo di Borbone fin negli immediati dintorni di Roma non gli lasciava spazio per gesti troppo decisi. Dovette accettare la pretesa dello spagnolo cardinale Acquaviva perché si processasse chi lo aveva oltraggiato e dovette invitare i cittadini di Velletri ad accogliere pacificamente le truppe che lì si stavano accantonando. Ciononostante gli Ispano-napoletani non erano soddisfatti e, mentre si ritiravano gradualmente entro i propri confini, vollero la rottura dei rapporti diplomatici e l'espulsione dei nunzi da Madrid e da Napoli. Occorse una nuova trattativa, lungo l'anno 1737, prima che si giungesse a siglare un accordo di compromesso almeno con la prima delle due corti.
Il concordato con Filippo V, sottoscritto il 26 sett. 1737 a Roma e ratificato fra ottobre e novembre, seguiva le linee dei concordati precedenti, anche se riduceva alquanto i poteri del nunzio in Spagna. Restava aperta la controversia con Carlo di Borbone e col suo ministro Tanucci, deciso esponente delle idee anticuriali. Costoro avevano introdotto fin dal 1734 decreti contro le immunità e i benefici ecclesiastici nel Regno e non mostravano di volerli ritirare, se non in cambio di ampi riconoscimenti da Roma, fra cui gli onori principeschi al passaggio di Maria Amalia dalla Polonia a Napoli per sposarvi il giovane re. E C. XII conferì questi riconoscimenti - con l'invio nel maggio 1738 di una bolla d'investitura - e assicurò siffatti onori, non ricevendone in realtà nulla in cambio: la politica ecclesiastica delle Due Sicilie seguitò sui binari riformistici su cui era instradata e il papa non poté, finché visse, intravvedervi alcun ammorbidimento.
D'altronde anche in altre direzioni i problemi della diplomazia pontificia erano complicati. Ad esempio, strettamente connesso alla lotta fra Impero e Spagna era il caso del ducato di Parma, sempre rivendicato all'alta sovranità pontificia ma già ignorato dagli accordi internazionali, che lo promettevano al figlio di Filippo V e di Elisabetta Farnese, e pregiudicato definitivamente dalla morte nel gennaio 1731 dell'ultimo sovrano maschio, Antonio Farnese. A quel punto C. XII avrebbe voluto una soluzione qualsiasi purché tale che gli riconoscesse il diritto di concedere lui l'investitura, e invece le potenze si attennero ai loro accordi occupando con truppe austriache, in nome dell'adolescente Carlo di Borbone, il ducato. Tentò ancora il protonotario pontificio, monsignor G. Oddi, di pubblicare in Parma la costituzione pontificia del 20 giugno 1731, che dichiarava la città ritornata sotto il dominio della S. Sede, ma quell'atto, per quanto avallato da un concistoro del 24 sett. 1731, fu considerato nullo dai rappresentanti del nuovo duca, che proprio il 9 settembre era entrato nella città solennemente, senza neppur pensare a qualche tributo feudale alla S. Sede. Poco più tardi (1735 e 1736), allorché dopo una reggenza Parma e Piacenza furono assegnate a Vienna in cambio della rinunzia a Napoli, di nuovo nessuno si ricordò dei presunti diritti della Chiesa. Il diritto feudale ecclesiastico aveva fatto il suo tempo, almeno là dove non trovasse riscontro nel diritto del più forte.
In fondo la medesima morale trovò conferma nelle controversie con altri paesi, come quella, già antica, con casa Savoia. A C. XII risultò chiaro che varie concessioni fatte in precedenza dai negoziatori pontifici presieduti dal cardinal Fini erano il frutto di pressioni locali e di corruzione e che si doveva rivedere quel concordato. Egli scrisse quindi a Carlo Emanuele III, subentrato a Vittorio Amedeo II, di non essere stato quell'atto debitamente deliberato dagli organi della Curia e di esser bisognoso di riforma. Ma la risposta sabauda fu dura, con il ritiro dell'ambasciatore da Roma, col rifiuto del ministro sardo d'Ormea di ricevere i legati spediti a Torino, con provvedimenti contro due vescovi non obbedienti e infine senz'altro con un editto di protesta e d'imposizione al clero di misure per isolarlo dalle posizioni prese dalla S. Sede.
Dopo vari discorsi a livello delle più alte Congregazioni, C. XII, che il 6 ag. 1731 aveva dichiarato invalido il concordato, si sentì abbastanza sicuro per scegliere la via della durezza e rispose con una memoria di Giusto Fontanini a quelle ufficiali scritte da Torino fra 1731 e 1732, sicché la contesa sembrava avviarsi a un nulla di fatto. Ma a smuovere la situazione venne nel 1736 l'abile decisione di Ormea di attirare dalla Svizzera nella Savoia il perseguitato Pietro Giannone, per arrestarlo e tenerlo a disposizione del papa e delle sue censure politiche e religiose: col che il re sardo si faceva un merito e dava modo al papa di suggerire che da quel momento si avviasse, col buon monarca cattolico, la revisione complessiva del concordato e delle reciproche relazioni, ciò che infatti, dopo la morte di C. XII, poté avvenire.
Meno accidentate, anche se non prive di tensioni, furono a seconda del momenti le relazioni con le repubbliche di Venezia e di Genova e soprattutto col Portogallo, che si adattò a far pace solo dopo che fu nominato cardinale il nunzio a Lisbona Vincenzo Bichi e dopo che anche il suo regno, al pari degli altri maggiori, ebbe diritto all'introduzione nel Sacro Collegio di un "cardinale della Corona". Seguitava il conflitto con altri paesi, per motivi di religione, come l'Inghilterra, dove oltre allo scisma e alle sette preoccupava la diffusione della massoneria, alla quale infatti C. XII indirizzò il 28 apr. 1738 una solenne condanna (che forse toccava anche alcuni inglesi "giacobiti" in esilio, additati come framassoni benché cattolici, con la costituzione In Eminenti). Pure la Germania, terra di confine, richiese cure ed interventi, specialmente per il ducato di Cleve e il Württemberg; così come ne richiese l'Olanda, dove non cessava di operare, oltre ai protestanti, quel partito di "vecchi cattolici" amici dei giansenisti, che avrebbe seguitato a creare fastidi sul terreno dell'ortodossia anche a Benedetto XIV ed oltre.
Restava poi sempre in piedi per intero la questione della Francia, anche se Clemente XI e Benedetto XIII si erano già assunti gran parte del carico della lotta sia contro i giansenisti sia contro i gallicani e se la bolla Unigenitus era stata accettata dal cardinale di Noailles e dai suoi sostenitori e appena trasformata (24 marzo 1730) in legge del regno. In certo senso a questo punto gran parte della vicenda religiosa di quella nazione è interna ad essa e nonappartiene alla biografia di C. XII, che poteva assistere soddisfatto alle convulsioni ormai tardive e senza sbocco dei gruppi ecclesiali condannati dalle encicliche. Il problema si era trasferito, piuttosto, ai rapporti fra il sovrano e il Parlamento, che rivendicava anche in materia ecclesiastica le sue tradizionali autonomie, e fra clero ortodosso e Comunità o singoli vescovi che ancora fiancheggiavano il giansenismo o ne propagandavano le presunte virtù miracolatrici.
Le dispute di natura teologica seguitarono comunque sotto C. XII soprattutto perché, sconfitto in sostanza il partito giansenista, non appariva opportuno neppure dar troppo spazio all'arrogante partito dei gesuiti. Costoro avevano le loro difficoltà da affrontare in terra di missioni e persino nelle loro "riduzioni" del Paraguay, un vero e proprio Stato istituito per governare secolarmente e religiosamente gli Indios, i quali nel procedere degli anni Trenta dettero segni di irrequietezza e di ribellione. Che era poi poca cosa, in un paese ormai fondamentalmente cristianizzato e coinvolto nella civiltà iberica come tutta l'America latina e l'arcipelago delle Filippine, di fronte ai rischi frontali che i missionari incontrarono altrove, quando tentarono la conversione dei Cinesi, Birmani, Coreani, Tibetani, Indiani e così via. Il lassismo in materia di riti, che aveva visto i gesuiti inoltrarsi molto in là sulla via dell'accettazione di tradizioni pagane e native, richiese interventi anche da parte di C. XII; egli nel 1733 fissò fra l'altro i limiti e i termini esatti dell'accettazione, da parte cattolica, di quei particolari riti che venivano detti "malabarici", ottenendo in ciò l'obbedienza dei gesuiti.
Le iniziative urbanistiche e le scelte artistiche di papa Corsini, che particolarmente ci teneva, vanno ricordate infine anch'esse per le tracce che lasciarono su Roma e sullo Stato. E si può cominciare dai lavori al palazzo del Quirinale che egli affidò, come molti altri incarichi, alla responsabilità di un suo valido compatriota, Ferdinando Fuga, per ingrandirlo, aggiungervi una scuderia e una cappella e ricostruirvi di fronte il palazzo della Consulta: lavori che danno conto di un notevole senso di prestigio personale e sovrano che evidentemente a C. XII non faceva difetto.
Migliorie furono poi avviate in più punti sopra le strade del centro di Roma, investirono la zona di piazza di Trevi, Castel Sant'Angelo, S. Giovanni in Laterano (con la facciata e con la cappella Corsini), varie altre chiese. Nelle province, cura particolare fu data alla città di Ravenna, con lavori di acque e ponti e con un canale fino al mare, inaugurato nel 1737, che culminava appunto nel cosiddetto "porto Corsini", nonché a quelle di Cesena e di Bologna. Più di quanto realmente non si facesse si parlò, invece, a proposito di progetti di navigazione commerciale lungo il corso del Tevere. E gli stessi lavori portuali ed edificatori in Ancona restarono, per ragioni di eccessiva spesa o di disordine burocratico, solo una parte di quelli preventivati nelle numerose congregazioni appositamente dedicate ai provvedimenti di commercio: simbolica e vistosa apparve però l'erezione, nelle vicinanze del mare aperto, di un arco Clementino, disegnato, come altre opere della città dorica, dal Vanvitelli.
Resta da dire dell'erudizione e dell'archeologia. La prima fu coltivata soprattutto presso la Biblioteca Vaticana medesima, cui veniva preposto il futuro cardinal Querini. Fu un periodo di numerosi acquisti di manoscritti, a cominciare da quelli della collezione di famiglia Albani, in un periodo in cui tuttavia fiorivano in Roma anche ragguardevoli altre biblioteche di privati, laici ed ecclesiastici. Quanto al Museo statuario capitolino, affidato ad Alessandro Capponi, anch'esso si accrebbe di un lascito Albani, oltre che di reperti del Foro Romano, di villa Adriana, di altri scavi. Mentre il palazzo dei Conservatori apriva al pubblico le sue collezioni antiche.
C. XII morì a Roma, dopo una prolungata invalidità, il 6 febbr. 1740.
Fonti e Bibl.: Non esistono recenti biografie complessive di C. XII. I tratti d'insieme della figura e del pontificato di lui vanno ricavati fin dai contemporanei: Roma, Bibl. Corsiniana, cod. 38. G. 20: Memorie del pontificato di C. XII; M. Guarnacci, Vitae et res gestae Pontificum Romanorum... usque ad Clementem XII, II, Romae 1751; A. Fabronius, De vita et rebus gestis Clementis XII P. M. commentarius, Romae 1760, o dalle grandi raccolte di storie dei papi, a cominciare da G. De Novaes, Elementi della storia de' sommi pontefici, XIII, Roma 1930, a L. von Ranke, Die römischen Päpste…, III, Leipzig 1885, e soprattutto a L. von Pastor, Storia dei papi, XV, Roma 1930, ricchissima, col risultato di ricerche originali. Buona la voce di R. Mols nel Dict. d'Histoire et de Géogr. Ecclés., XII, coll. 1361-1381; notizie utili in R. Ritzler-P. Sefrin, Hierarchia catholica..., V, Patavii 1952, pp. 24, 43, 50, 52, 59, e V. Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare, II, pp. 552 s. Si ricordi inoltre, per la famiglia, L. Passerini, Genealogia e storia della famiglia Corsini, Firenze 1852. Quanto alla bibliografia per singole materie, nelle quali C. XII si trovò coinvolto - dai "riti malabarici" alle controversie con le corti - è impossibile elencare qui l'ampia letteratura teologica ed ecclesiastica o quella diplomatica. E ogni altro approfondimento richiede il rinvio a fondi archivistici. Evidente rilievo hanno, per C. XII, molti codici della Bibl. Corsiniana in Roma; ma si ricordino poi gli archivi di Simancas, di Vienna, di Parigi (specie per le rispettive ambasciate e governi); l'Arch. Segreto Vaticano per le nunziature (specie quella di Madrid) e per gli atti completi della "Congregazione beneventana"; l'Arch. de Propaganda Fide in Roma (specie per le missioni orientali), ecc. Ampi rifer. al periodo in cui futesoriere gen. e cardinale sono in L. Nina, Le finanze pont. sotto Clemente XI, Milano 1928; e in V. Franchini, Gli indirizzi e le realtà delSettecento romano, Milano 1950. Quanto agli aspetti della politica interna e alla gestione dello Stato dopo l'avvento al soglio c'è egualmente molta letteratura sparsa su singoli punti, di cui non è possibile qui dar conto. Ma le basi archivistiche fondamentali di essa, con bibliografia, sono fornite nei fondi descritti dagli inventari a stampa di A. Lodolini, L'Arch. di Stato di Roma, Roma 1932; e di E. Lodolini, L'Arch. della Congreg. del Buon Governo, Roma 1956, pubblicati dal Ministero dell'Interno. Per altri aspetti si ricorrerà naturalmente agli archivi diocesani e comunali.