CLEMENTE XIII, papa
Carlo Rezzonico nacque a Venezia il 7 marzo 1693 da Gian Battista e da Vittoria Barbarigo. La sua famiglia era originaria di Como: il ramo paterno si era trasferito a Venezia nel 1640, dove si era arricchito enormemente col commercio, tanto da poter comprare, nel 1687, l'ammissione nel Libro d'oro della nobiltà veneziana per la ragguardevole somma di 100.000 ducati. A dieci anni Carlo fu mandato a studiare a Bologna nel collegio di S. Francesco Saverio, retto dai gesuiti, dove restò otto anni. Studiò poi per due anni all'università di Padova, dove si laureò in utroque iure il 30 sett. 1713. Nello stesso anno, rifiutato un canonicato offertogli a Padova dal vescovo Giorgio Cornelio, si trasferì a Roma per intraprendere la carriera curiale. Qui entrò nell'Accademia ecclesiastica, dove proseguì gli studi giuridici sotto la direzione del famoso giurista Iacopo Lanfredini. Il 28 maggio 1716 fece il suo ingresso in Curia, in qualità di protonotario apostolico partecipante e, nello stesso anno, fu nominato da Clemente XI governatore di Rieti; nel 1721 passò al governo di Fano. Nel 1723 Innocenzo XIII lo richiamò a Roma come ponente nella Congregazione della Sacra Consulta. Nel 1728, alla morte di Federico Cornelio, uditore veneto alla Sacra Rota, gli subentrò in questa importante carica. Le sentenze da lui rese come uditore di Rota furono pubblicate dopo il suo avvento al pontificato (Decisiones S. Rotae Romanae coram R. P. D. C. Rezzonico, Romae 17-59). Il 20 dic. 1737 fu creato cardinale, nell'elezione cardinalizia riservata alle potenze.
In questa elezione il cardinale prescelto da Venezia era Daniele Delfino, patriarca di Aquileia. Ma, spiega il Cordara nella sua Clementis Vitae..., contro questa candidatura intervenne, a favore del Rezzonico, il nipote del papa, il cardinale Neri Corsini, che "amicus aestimatorque Rezzonici hunc summa ope studioque promovebat", e che, dopo lunghe insistenze, riuscì a convincere il papa. L'ipotesi più probabile per spiegare un simile intervento, che andava contro il corso tradizionale delle elezioni cardinalizie riservate alle potenze, è che l'appoggio del cardinale Corsini fosse stato comprato dal ricchissimo Rezzonico: voci in tal senso dovettero circolare a Roma se, molti anni dopo, nel 1768 l'Azara poteva indicare, nella sua corrispondenza col ministro spagnolo Roda, addirittura la cifra che il Rezzonico avrebbe pagato ai Corsini per il cappello cardinalizio: 30.000 scudi (El espiritu..., I, p. 13).
Cardinale diacono del titolo di S. Nicola in Carcere il 27 genn. 1738, il 15 maggio 1747 passò a quello presbiterale di S. Maria in Aracoeli e il 17 febbr. 1755 a quello di S. Marco.
Fu membro di varie Congregazioni: del Sacro Concilio di Trento, de Propaganda Fide, della Sacra Consulta, della Visita Apostolica, dei Vescovi e Regolari e della Fabbrica di S. Pietro. Nel 1740 partecipò al conclave in cui fu eletto Benedetto XIV, dove pur non esercitando un ruolo importante si schierò apertamente contro la candidatura dell'Aldrovandi, a cui rimproverava la fama di simoniaco. Negli anni trascorsi in Curia il Rezzonico non fu certo un personaggio di primo piano e una certa notorietà l'acquisterà solo per la sua attività pastorale a Padova. Nel 1743 questo vescovato divenne vacante: come riferisce lo stesso Benedetto XIV (E. de Heeckeren, Correspondance..., p. 365), la candidatura più probabile era quella del cardinal Querini, che, pur aspirandovi, non voleva però rinunciare nemmeno al minore dei suoi numerosi benefici. Il vescovato fu, allora, offerto al Rezzonico che accettò immediatamente, nonostante un tardivo ripensamento del Querini. La consacrazione avvenne a Roma, per mano di Benedetto XIV, il 19 marzo 1743.
Si trattava di una diocesi importante, molto estesa, con una celebre università, molti monasteri e istituti pii. Il Rezzonico tracciò il programma del suo episcopato in una prima lettera pastorale spedita da Roma il 25 marzo di quell'anno (Epistola ad clerum et populum Patavinum, Romae 1743): in essa preannuncia una accurata visita pastorale e manifesta l'intenzione di preparare una raccolta di disposizioni ecclesiastiche diocesane conformi allo spirito post-tridentino. Èsignificativo che un esponente del cattolicesimo illuminato quale il Lami, recensendo qualche anno più tardi questo scritto, coprisse di lodi il Rezzonico per la sua dirittura morale e il suo zelo pastorale, sottolineando in particolare che egli consigliava ai parroci la lettura di opere dei Santi Padri, e non di "casisti relassati" (Novelleletterarie di Firenze, VIII [1747], col. 10).
Caratteristica costante del suo episcopato fu l'attenzione severa rivolta alla disciplina e ai costumi del clero e dei fedeli. Era solito egli stesso affermare di voler prendere ad esempio s. Carlo Borromeo e il proprio antenato Gregorio Barbarigo, che aveva retto la stessa diocesi. Per tutti i quindici anni del suo episcopato egli risiedette con grande coscienziosità nella diocesi, tranne i due anni trascorsi a Roma per trattare la questione del patriarcato di Aquileia. Il 10 marzo 1744 indisse la visita pastorale, attuata nei due anni successivi. Nel 1746 tenne un sinodo diocesano; si occupò inoltre della ricostruzione del seminario di Padova.
Della sua attività pastorale resta una significativa testimonianza di Benedetto XIV, risalente al 1746: "il card. Rezzonico, vescovo di Padova, è assolutamente il prelato più degno che abbiamo in Italia. Vive con i suoi beni patrimoniali; le rendite ecclesiastiche unicamente si spendono in beneficio de' poveri e della Chiesa. Nonostante la gracile complessione, è indefesso alle visite ed a tutte le altre funzioni episcopali; nel suo palazzo si vive come in un chiostro, in tal maniera che la sua elezione, che non fu nel principio applaudita dai veneziani per essere esso di famiglia novamente aggregata alla loro nobiltà, oggi a coro pieno viene benedetta dalla Repubblica" (Le lettere..., I, p. 355). Queste parole furono scritte in occasione di un infortunio occorso al cardinal Rezzonico, che aveva accettato, senza averne preso visione, la dedica di un libro del padre Rizzetti contenente alcune tesi gianseniste.
Tra la fine del 1749 e l'estate del 1751, il Rezzonico fu di nuovo a Roma per trattare, in nome di Venezia, la complessa questione del patriarcato di Aquileia, che aveva determinato un conflitto secolare tra la Repubblica e l'Impero.
Aquileia, infatti, era feudo imperiale, mentre il patriarca, tradizionalmente scelto tra la nobiltà veneta, risiedeva ad Udine, in territorio veneto. La parte imperiale del patriarcato si trovava così abbandonata da parte delle autorità ecclesiastiche. L'Impero caldeggiava perciò l'abolizione del patriarcato e l'istituzione di un vescovato a Gorizia, in territorio imperiale, mentre la Repubblica vi si opponeva recisamente, timorosa che ne derivassero anche mutamenti all'assetto territoriale. Nel 1749, Benedetto XIV aveva deciso provvisoriamente di nominare un vicario in partibus Imperii con residenza a Gorizia. La Repubblica, però, era fortemente avversa anche a questa soluzione e nel dicembre 1749 inviò a Roma il Rezzonico per riprendere le trattative, affiancandolo successivamente con il cardinal Querini, che gli era personalmente ostile e che era legato al patriarca di Aquileia, il cardinale Delfino. Mentre il Querini era decisamente contrario alla soppressione del patriarcato, il Rezzonico non aveva una linea precisa e si mosse in modo incerto e contraddittorio. Commentava l'ambasciatore austriaco, il card. M. Millini, il 3 genn. 1750: "Il Signor cardinal Rezzonico si trova pieno di confusione: non avendo quell'abilità che il negozio ricerca, né quella stima nella Repubblica, la quale gli dia coraggio di illuminarla nell'imbroglio" (Pastor, p. 431). Un analogo giudizio fu espresso l'anno successivo dal papa, il quale osservava che il Rezzonico agiva "con tanta riserva e cautela che avrà paura della sola ombra" (Le lettere..., II, p. 313).
La trattativa conobbe fasi alterne: alla fine fu proprio il cauto Rezzonico, nonostante le proteste del Querini, a trovare un accordo con il Millini sulla base di una mediazione francese, che prevedeva la soppressione del patriarcato e la creazione di due vescovati, a Udine e a Gorizia, sancita da una bolla del 6 luglio 1751. La Repubblica fu assai grata al Rezzonico ed in quell'occasione suo fratello Ludovico fu creato senatore. Commentava il pontefice: "la famiglia è nobile, ma di nobiltà nuova essendo comasca, e però ci volevano almeno dugent'anni, avanti che uno d'essa arrivasse al grado, a cui ora è giunto il fratello del cardinale" (ibid., p. 380). Il Rezzonico tornò nella sua diocesi per restarvi fino al conclave del 1758.
Il futuro conclave era già da tempo al centro degli interessi delle potenze, da quando la salute declinante di papa Lambertini ne aveva fatto intravedere l'imminenza. L'ambasciatore straordinario francese Choiseul, a Roma fin dal 1754, scriveva al proprio governo nel novembre del 1756 un memoriale in cui sosteneva la necessità di un accordo con l'Austria e la Spagna per orientare la scelta dei cardinali su un papa che non si distaccasse troppo dalla benevola politica attuata da Benedetto XIV nei confronti del giurisdizionalismo.
In questo documento lo Choiseul dava una serie di giudizi assai interessanti anche per comprendere i successivi schieramenti in conclave. Sul Rezzonico confessa di possedere scarse notizie, perché assente da Roma: di lui si diceva comunque che era un "homme de mérite dans son état et propre à la papauté s'il n'était pas Vénitien" (Boutry, Choiseul à Rome, p. 247), il che, dato il clima di tensione di nuovo esistente nel 1756 tra la S. Sede e la Repubblica, a causa di un editto con cui quest'ultima aveva proibito a tutti i suoi sudditi di rivolgersi a Roma senza il placet, era considerato un ostacolo insormontabile. Comunque in quel momento il candidato preferito della Francia era lo Spinelli, considerato ancor più favorevole di Benedetto XIV alle "vues du Roi pour la pacification de l'Eglise de France" (ibid., p. 225). Ma nei confronti di questa candidatura esistevano serie difficoltà, soprattutto il fatto che lo Spinelli era in disgrazia presso la corte di Napoli per aver voluto introdurre l'Inquisizione nel Regno quando era arcivescovo di Napoli, tentativo questo che gli era costato la cattedra; lo Choiseul lo raccomandava almeno come segretario di Stato. Fra i candidati sgraditi alla Francia troviamo già allora il Cavalchini, sia perché suddito del re di Sardegna, sia perché filogesuita, come aveva dimostrato col suo impegno per la canonizzazione del Bellarmino. Ancora più contrario agli interessi francesi appariva il Torrigiani, che per lo Choiseul non era da sostenere assolutamente né come papa né come eventuale segretario di Stato. Egli lo giudicava un uomo che non "entend rien aux affairs publiques", irrispettoso verso le corti, duro e imperioso. "Le fonds de son caractère est fèroce et despotique", concludeva l'ambasciatore francese, aggiungendo che Benedetto XIV non poteva soffrirlo e che lo aveva creato cardinale assai a malincuore.
Il conclave iniziò il 15 maggio 1758: vi entrarono allora solo ventisette dei quarantaquattro cardinali che alla fine vi parteciparono. Mancavano tutti i rappresentanti delle potenze e nell'attesa l'attività elettorale si avviò lentamente. Dal confronto fra le varie testimonianze si vede che due furono i temi di fondo che la dominarono: da un lato il diffuso rifiuto verso la politica di Benedetto XIV, cui molti rimproveravano di aver ceduto al giurisdizionalismo; dall'altro le preoccupazioni per i recenti sviluppi della questione gesuitica in Portogallo. Ormai da un paio d'anni era infatti in atto l'offensiva antigesuitica del Pombal, che nel suo programma di trasformazione dello Stato in senso assolutistico, diretto, tra l'altro, a creare grandi compagnie commerciali privilegiate, aveva urtato contro gli interessi economici dei grandi Ordini religiosi, in particolare dei gesuiti.
L'occasione dell'attacco diretto alla Compagnia fu offerta dalla rivolta degli Indios delle riduzioni del Paraguay durante la rettifica della frontiera fra la Spagna e il Portogallo, rivolta che i gesuiti della zona furono accusati di aver fomentato. Nel 1757 i confessori gesuiti erano stati allontanati dalla corte. Su reiterate pressioni portoghesi, Benedetto XIV aveva nominato, il 1º apr. 1758, un mese prima della morte, il cardinale portoghese Saldanha visitatore dell'Ordine per indagare sugli eventuali abusi commessi in Portogallo. Il breve di nomina fu emanato in segreto e se ne venne a conoscenza solo durante il conclave. Il Saldanha, strettamente legato al Pombal, andò, intanto, ben oltre i poteri puramente investigativi che gli erano stati conferiti e il 15 giugno emise un editto in cui dichiarava che tutti i gesuiti portoghesi erano colpevoli di esercitare il commercio, in violazione del diritto canonico. Pochi giorni dopo, il patriarca di Lisbona, cardinale Atalaya, sospese tutti i gesuiti dal ministero pastorale.
Secondo il Cordara di fronte a questi pericoli diciotto cardinali, per iniziativa di Gian Francesco Albani, si impegnarono con giuramento a non eleggere un papa ostile ai gesuiti. I cardinali creati da Benedetto XIV erano in schiacciante maggioranza, ben trentasette, ma non formavano un gruppo omogeneo capace di condizionare il conclave: solo una parte di essi si riunì intorno allo spagnolo Portocarrero, e fra essi il Torrigiani. Un altro gruppo, piccolo ma compatto, formato da cinque o sei cardinali, fra cui lo Spinelli e il Passionei, era guidato dal Corsini: esso era su una linea antigiurisdizionalista, ma piuttosto ostile ai gesuiti. Il quadro degli schieramenti era completato poi dai cardinali legati alle varie potenze. La candidatura dello Spinelli naufragò subito per l'opposizione napoletana. Grosso successo ebbe invece quella del Cavalchini, sostenuta attivamente dal Portocarrero, e gradita sia alla fazione austriaca sia a quella filogesuitica. Su di essa si raccolsero i voti necessari all'elezione, e i francesi, per impedirla, furono costretti a ricorrere all'esclusiva pubblica. Questo gesto creò molto risentimento fra i cardinali, e compromise definitivamente ogni candidatura filofrancese, fra cui quella dell'Archinto, che aveva riscosso in precedenza un certo consenso. A questo punto, dopo alcune manovre andate a vuoto, il Corsini avanzò la candidatura Rezzonico, che incontrò il favore anche di Gian Francesco Albani.
Il Rezzonico era il personaggio ideale per un'operazione di compromesso: poco conosciuto a Roma, aveva fama essenzialmente di uomo pio, senza particolari caratterizzazioni di partito. Era certo nota la sua simpatia per i gesuiti, perché durante il suo soggiorno romano aveva fatto parte della Arciconfraternita di S. Teodoro al Palatino, dove aveva assunto il nome emblematico di fra' Carlo di S. Ignazio: e questa Arciconfraternita aveva come fine la diffusione della devozione del Sacro Cuore di Gesù, che aveva un marcato carattere antigiansenista. Ma oltre a questo non aveva mai dato prove di essere un acceso fautore della Compagnia. Il giudizio del Lami mostra del resto come fosse gradito per il suo zelo pastorale anche negli ambienti antigesuiti. In una scrittura in suo favore che girò in conclave, conservata fra le carte del Corsini, si legge fra l'altro che la sua esperienza come vescovo di Padova lo aveva reso consapevole dei pericoli della politica giurisdizionalista ed esperto nel contrastarla. La lotta al giurisdizionalismo era diventata dunque l'obiettivo principale e il punto di incontro delle due fazioni che lo sostenevano: quanto al problema dei gesuiti ciascuna fazione contava di poter in seguito condizionarlo a proprio favore, poiché non gli si attribuiva un atteggiamento deciso in materia.
Si era così formato un consistente schieramento a favore del Rezzonico, quando il 29 giugno entrò in conclave l'ultimo rappresentante delle potenze, il cardinale austriaco Rodt, che fece definitivamente pendere la bilancia dalla parte del Rezzonico: questi, pur non essendo ai primi posti nella lista dei papabili che egli portava con sé (prima di lui c'era fra gli altri anche il Torrigiani), era gradito all'Austria, nonostante la sua origine veneziana, proprio per il comportamento tenuto nella questione di Aquileia. L'accordo fu dunque facilmente raggiunto e, nonostante le continue resistenze dei francesi, il Rezzonico fu eletto il 6 luglio 1758, con trentuno voti; la consacrazione avvenne il 16 dello stesso mese.
Le reazioni alla sua elezione non furono univoche. Grande fu la gioia dei gesuiti, che da lui si aspettavano un notevole appoggio: "et vero Pontificem amiciorem, rerumque suarum studiosiorem optare vix poterant, sique ipsis ius et arbitrium elegendi fuisset, non alium certe, quam Rezzonicum, elegissent" (Cordara, Commentarii, p. 233). Personalmente, peraltro, il Cordara temeva, data l'influenzabilità del nuovo pontefice, il permanere al suo fianco di Archinto e Spinelli, avversi ai gesuiti. Naturalmente assai meno soddisfatti erano gli ambienti dei cattolici illuminati, più o meno filogiansenisti. Tuttavia proprio ciò che impensieriva il Cordara era per loro motivo di moderato ottimismo: il Cerati, scrivendo in quei giorni al Bottari, contava sul fatto che il S. Uffizio restava in mano a sicuri antigesuiti, come Corsini, Tamburini e Passionei, oltre allo Spinelli (Roma, Bibl. Corsiniana, ms. 32 E 11). L'abate Clément parlava addirittura entusiasticamente di sconfitta dei gesuiti (Ibid., ms. 32 C 3, cc. 73-77).
In effetti nei primi mesi il papa mostrò grande cautela nel trattare la questione dei gesuiti. Quando infatti il 31 luglio il preposito generale Lorenzo Ricci, eletto proprio durante il conclave, gli presentò un memoriale in cui chiedeva protezione contro i soprusi del Saldanha e dell'Atalaya, il papa gli ordinò silenzio, pazienza e preghiera, e trasmise il memoriale al S. Uffizio per un consulto. Questo, pur disapprovando l'operato del visitatore e del patriarca, sconsigliò una presa di posizione energica per non inasprire il re Giuseppe I. Intanto, il partito antigesuitico a Roma era sempre più attivo e promuoveva la stampa di numerosi libelli. Il papa non intervenne, neppure quando fu pubblicato il memoriale del Ricci (Riflessioni di un portoghese sopra il memoriale presentato da' PP. Gesuiti alla Santità di PP. Clemente XIII…, Lisbona [ma Roma] 1758), in aperta violazione del segreto d'ufficio, dallo stampatore Pagliarini, contenente un commento pesantemente polemico di Urbano Tosetti. In questa situazione, in cui sembravano aperti molti spazi, si inserì l'iniziativa del generale degli eremitani agostiniani, Vazquez, uno dei più accaniti avversari dei gesuiti, che sottopose al papa un memoriale dove si riassumeva la dottrina della scuola agostiniana, da più parti accusata di giansenismo, perché ufficialmente ne venisse riconosciuta l'ortodossia. Un parere favorevole sarebbe stato naturalmente di grande importanza nella polemica contro i gesuiti: ma il papa era contrario, e alla fine (gennaio 1759) il S. Uffizio poté emettere solo un decreto molto generico. Questo può essere considerato il sintomo che l'atmosfera della Curia stava ormai cambiando: decisiva era stata in questo senso la nomina del cardinale Torrigiani a segretario di Stato, dopo l'improvvisa morte dell'Archinto, avvenuta nel settembre 1758. Oltre ad essere universalmente conosciuto come un deciso curialista, il Torrigiani era legatissimo ai gesuiti (il Ricci era suo confessore). La sua nomina era dunque un segno del prevalere di questo partito, e vi contribuì probabilmente anche il gradimento austriaco. Da questo momento in poi la politica di C. XIII assunse un indirizzo ben definito, di resistenza cioè ad ogni pretesa giurisdizionalista, di difesa ad oltranza della Chiesa e della fede secondo le istituzioni e i principi tridentini, di chiusura e ostilità verso le istanze di rinnovamento in seno al cattolicesimo, verso il giansenismo e verso l'illuminismo. Contemporanei e storici posteriori hanno discusso se e in che misura la forte personalità del Torrigiani avesse condizionato le decisioni del papa. In realtà già nelle sue prime dichiarazioni pubbliche, il pontefice aveva mostrato chiaramente di volersi allontanare in tutti i campi dalla politica mediatrice del suo predecessore.
Nell'allocuzione pronunciata il 19 luglio 1758nel primo concistoro segreto aveva affermato che "quo ad depositum Orthodoxae Fidei... rite sancteque servandum, quo ad Sacrum Catholicae Ecclesiae Principatum in centrum unitatis sartum tectumque custodiendum, quo ad inconcussas Apostolicae hujus Sanctae Sedis rationes cum rebus spiritualibus ac temporalibus conjunctas sedulo accurandas forti pectore tutandas, ac pro viribus provehendas, non faciemus animam nostram pretiosiorem quam Nos..." (BullariiRomani continuatio..., I, Romae 1835, p. 2). L'11 settembre, nella bolla che indiceva il giubileo straordinario, aveva lamentato "tot horrida vulnera et fidei, et disciplinae, et juribus nostris inflicta" (ibid., p. 25); ed ancora tre giorni più tardi, nell'enciclica ai vescovi, concludeva esortandoli "ne tamquam canes muti, non valentes latrare, Greges nostros patiamur fieri in rapinam, et oves nostras in devorationem omnium bestiarum agri" (ibid., p. 33).
Su questa linea inflessibile il papa si incontrò perfettamente sia con il Torrigiani, che conservò la sua carica fino alla fine del pontificato, sia con il Ricci. I tre avevano lo stesso atteggiamento mentale: non concepivano alternative al sistema della Controriforma, che vedevano come un blocco unico, senza distinguere il caduco dall'essenziale, e consideravano ogni cambiamento come un cedimento e un tradimento della fede. Questa impostazione portò ad un comportamento rigido, privo di duttilità, di capacità di mediazione e di accortezza politica, proprio nel momento in cui l'attacco giurisdizionalista si organizzava e cresceva sempre di più, coinvolgendo nella lotta contro i gesuiti tutte le istanze di rinnovamento presenti nell'opinione pubblica europea. A tutto ciò i vertici della Chiesa non seppero reagire che con fasi prolungate di resistenza passiva alternate a momenti di esplosione in rigidissime petizioni di principi, collezionando così una serie di dure sconfitte.
La questione gesuitica fu il problema che dominò tutto il pontificato. La Compagnia venne dapprima soppressa in Portogallo, e poi, in fasi successive, in tutti gli Stati borbonici con modalità e motivazioni in parte diverse.
In Portogallo l'offensiva del Pombal continuò con l'accusa ai gesuiti di essere i mandanti di un attentato al re avvenuto nel settembre del 1758. L'accusa risultava tanto più credibile in quanto l'opinione pubblica vedeva generalmente nei gesuiti i più accesi fautori di teorie monarcomache. Tre gesuiti furono arrestati e condannati a morte. Il re impose ai vescovi portoghesi di pubblicare pastorali di condanna della Compagnia. Da Roma non si reagì con decisione, ci si limitò a trattare sul problema dell'immunità ecclesiastica senza credere realmente alla possibilità che i gesuiti venissero espulsi, come il re aveva annunciato in una lettera al papa del 20 apr. 1759. In questa circostanza il Cordara, comprendendo che l'intera Compagnia era in pericolo, propose di separare l'assistenza portoghese, ed eventualmente di sacrificarla. Ma questa spregiudicata proposta cadde di fronte all'opposizione del Ricci. L'espulsione dal Portogallo avvenne all'improvviso nell'ottobre dello stesso anno. I gesuiti portoghesi furono accolti nello Stato della Chiesa. Seguirono infruttuose trattative che sfociarono in una rottura nel luglio del 1760. In seguito Roma tentò di riaprire le trattative, temendo un concilio nazionale della Chiesa portoghese e il rafforzamento dell'influsso giansenista in Portogallo: fu sollecitata in tal senso la mediazione francese (lo Choiseul aveva disapprovato il comportamento del Pombal), spagnola e sarda. Nel 1763 e poi nel 1767 nuovi tentativi di pacificazione si scontrarono con l'intransigenza portoghese, né li facilitava, del resto, la presenza nelle trattative dell'odiato Torrigiani.
Dopo il Portogallo fu la volta della Francia. Qui la soppressione della Compagnia fu voluta dai Parlamenti in lotta contro il potere regio, crebbe sul terreno delle lunghe e accanite dispute tra gesuiti e giansenisti, fu vivificata dal fresco e combattivo apporto dei philosophes, e fu imposta al re solo con molta difficoltà. Le prime ostilità scoppiarono nel 1761, anche se già nel 1757, in occasione dell'attentato di R.-E Damiens, erano circolate voci che egli fosse stato servitore presso i gesuiti e avesse appreso da loro le dottrine monarcomache. Si dovette al fallimento delle imprese commerciali del gesuita Lavalette nella Martinica e alle liti giudiziarie tra i suoi creditori e la Compagnia l'insorgere nell'opinione pubblica di una generale e decisa ostilità contro di essa. In seguito a questo episodio, il Parlamento di Parigi, filogiansenista, lanciò un'offensiva organica contro i gesuiti, imitato ben presto dai Parlamenti provinciali: decise in primo luogo di esaminare le costituzioni della Compagnia per verificarne la compatibilità con le leggi dello Stato, ed emanò poi nell'agosto una serie di decreti che ne condannavano le dottrine come tirannicide ed antigallicane, e le vietavano l'accoglimento di novizi e l'insegnamento pubblico e privato. Sollecitato dal papa ad intervenire in difesa della Compagnia, Luigi XV tentò una complessa mediazione, sospendendo temporaneamente l'esecuzione dei decreti del Parlamento e nominando una speciale commissione per l'esame delle costituzioni dell'Ordine. Convocò poi un'assemblea di vescovi francesi, che si espresse a grande maggioranza a favore della Compagnia. Ottenne, inoltre, forte dell'appoggio di una importante parte dei gesuiti francesi, che essi sottoscrivessero una dichiarazione di condanna del tirannicidio e della dottrina del potere indiretto del papa nelle questioni temporali, e un'altra dichiarazione di adesione ai quattro articoli gallicani. A Roma tuttavia questa mediazione non venne minimamente sostenuta.
Il Ricci criticò fortemente il comportamento dei gesuiti francesi, giudicandolo un inutile cedimento e un atto di disobbedienza, e si rifiutò di avallarlo. Riassumeva infatti con queste parole le motivazioni della sua intransigenza: "At peribit non in Gallia solum, sed ubique Societas... si servari Societas non potest sine meo scelere, praestat illam perire, quam ne levissima quidem culpa tueri christianus debet; lugebo eius ruinam, solabor me innocentia mea" (Pastor, p. 671). Con uguale intransigenza C. XIII respinse nel gennaio del 1762 la proposta della commissione di creare un vicario generale per l'assistenza francese, separandola così dal resto della Compagnia. E fu in quell'occasione che il Papa, a dire del Cordara, avrebbe pronunciato la famosa frase: "Aut sint ut sunt aut non sint". Il Torrigiani da parte sua aveva negato fin dall'inizio alla commissione reale qualsiasi competenza sulle costituzioni della Compagnia: un compromesso con lo Stato gli sembrava comunque inaccettabile: "Sarà meglio che costì tutto si faccia per una abusiva potestà - scriveva al nunzio Pamphili il 30 dic. 1761 - piuttostoche la legitima venga a confermare quelle risoluzioni che distruggono un Ordine approvato dalla sede apostolica" (Pastor, p. 666).
Nonostante le difficoltà in cui l'atteggiamento di Roma lo metteva, Luigi XV fece un estremo tentativo di mediazione, conferendo con un editto del marzo 1762 ai cinque provinciali francesi i poteri del generale. Il Parlamento di Parigi ne rifiutò però la registrazione, e il 6 agosto decretò lo scioglimento della Compagnia nell'ambito della sua giurisdizione. Il 3 settembre in concistoro il pontefice pronunciò una allocuzione in cui dichiarava nulle le risoluzioni del Parlamento di Parigi: ma su consiglio dello Choiseul l'allocuzione non venne neppure pubblicata in Francia, per evitarne la distruzione per mano del boia. Più tardi, con un editto del 1º dic. 1764, la Compagnia venne sciolta in tutta la Francia. In questo modo venivano uniformate le diverse disposizioni prese via via dai Parlamenti. Gli ex gesuiti avrebbero potuto vivere in Francia come preti secolari sotto la giurisdizione dei vescovi. La risposta del pontefice, ora che tutto era perduto, fu la bolla Apostolicum pascendi, contenente la riconferma della Compagnia, promulgata il 7 genn. 1765. A quanto sembra essa era già stata redatta, quando si conobbe l'editto di soppressione della Compagnia. Sciolti i dubbi sulla convenienza di una sua pubblicazione in quelle circostanze, prevalse la linea dello scontro duro. Le reazioni degli Stati europei, compresi quelli non direttamente impegnati nella lotta contro la Compagnia, furono durissime: i Parlamenti di Parigi e di Normandia condannarono la bolla, quello d'Aix la fece addirittura bruciare pubblicamente dal boia. In Spagna e negli Stati italiani ne fu proibita non solo la pubblicazione e la vendita, ma anche la semplice detenzione, con pene che, a Venezia, arrivarono a quella di morte. Il viceré di Sicilia le aveva accordato l'exequatur, ma il Tanucci l'obbligò a ritirarlo. Anche in Austria ne fu proibita la pubblicazione. D'altra parte il papa ricevette, come già durante il conflitto con il Portogallo, numerose lettere di plauso da parte di vescovi, tra cui Alfonso de' Liguori.
Alla espulsione dei gesuiti in Francia seguì quella in Spagna. L'inizio del conflitto tra la Spagna di Carlo III e la S. Sede risaliva al 1761 ed era scoppiato a proposito del catechismo dell'appellante francese Mésenguy. Quest'opera era già stata condannata sotto Benedetto XIV nell'edizione francese. Il Bottari tuttavia fra il 1758 e il 1760 ne aveva fatto stampare a Napoli una traduzione italiana lievemente corretta, che ebbe grande diffusione. Nel 1761 C. XIII la sottopose al S. Uffizio, nel quale ormai i filogiansenisti erano in minoranza, e il catechismo venne condannato, nonostante le pressioni del Tanucci e del ministro spagnolo Wall. Insieme con il breve di condanna del 14 giugno 1761, il papa indirizzò ai vescovi una enciclica raccomandando loro l'uso del catechismo romano Il Tanucci reagì duramente, rifiutando il breve e negando l'exequatur al catechismo romano. Anche Carlo III fu molto colpito dalla condanna di quest'opera, che egli aveva fatto adottare al principe ereditario, e perciò il 18 genn. 1762 promulgò una prammatica che sottoponeva al regio exequatur tutti i brevi e le ordinanze della S. Sede. Questa volta le pressioni del papa sul re, sulla regina madre e su altre personalità spagnole portarono dopo poco più di un anno (5 luglio 1763) all'abrogazione della prammatica e alle dimissioni del Wall. Il papa esultò per questo successo: ma la politica giurisdizionalista spagnola aveva subito soltanto una sconfitta momentanea. A partire dal 1766, infatti, la morte della filogesuita regina madre, Elisabetta Farnese, e la politica svolta dal successore del Wall, il genovese Grimaldi, dai ministri Roda e Aranda e dall'avvocato fiscale del Consiglio di Castiglia, il Campomanes, sostenitore di una energica limitazionedella manomorta, ridiedero impulso all'azione riformatrice. Importanza notevole ebbero inoltre le pressioni del Tanucci su Carlo III. Nel marzo 1766, scoppiarono a Madrid e in altre città violenti tumulti contro il carovita e contro l'introduzione forzata della moda francese. Ancora una volta i gesuiti furono accusati di aver ispirato la rivolta, ed inoltre di mettere in dubbio la legittimità di Carlo III, spargendo la voce che egli fosse figlio dell'Alberoni, per sostituirlo sul trono col fratello don Luigi (il Dudon ha provato in effetti l'esistenza di un pamphlet in tal senso, che invece era stata negata dal Pastor). Mentre a Roma si era nell'incertezza, ma non si pensava che la situazione stesse precipitando, Carlo III decise in gran segreto l'espulsione dei gesuiti. Nel breve Inter acerbissima (16 apr. 1767) C. XIII lo supplicò con accorate parole di sospendere il provvedimento, ma senza risultato. Allora, consultatosi con una congregazione straordinaria di cardinali, decise di non cedere alla richiesta spagnola di accogliere i gesuiti espulsi nello Stato della Chiesa. Ciò non valse a distogliere il re dal suo proposito: ovunque respinti, dopo molte peregrinazioni i gesuiti spagnoli trovarono un precario rifugio in Corsica per concessione della Repubblica di Genova.
Anche a Napoli, come si è visto, lo scontro con la S. Sede era iniziato con la condanna del catechismo del Mésenguy. Negli anni successivi si accentuò la politica giurisdizionalista, che era portata avanti dal Tanucci e affondava le sue radici in una lunga tradizione anticurialista ed antigesuita. Accanto al Tanucci le forze più vive del movimento riformatore italiano parteciparono alla lotta contro Roma, creando intorno a lui un vasto consenso che fece sì che la lotta contro i gesuiti non apparisse, come in Portogallo e in Spagna, un arbitrio della ragione di Stato. Nell'ottobre 1767, il Tanucci, che aveva ottenuto dopo molte insistenze che Carlo III ordinasse al figlio l'espulsione dei gesuiti, poté finalmente procedere: il 24 novembre essi vennero sbarcati in territorio pontificio. Nel dicembre il papa inviò alle potenze un memoriale di protesta. Le relazioni tra Napoli e la S. Sede divennero molto tese ma il Tanucci cercò di evitare una rottura completa, ripromettendosi maggiori risultati politici da una situazione di costante tensione.
Nel 1768 i gesuiti furono espulsi anche da Malta.
Il punto più alto dello scontro fu raggiunto nel conflitto con Parma. L'influsso della politica antigesuitica spagnola si fece sentire infatti anche in questo piccolo Stato borbonico, che fra l'altro la S. Sede rivendicava come suo feudo. Il Tillot aveva iniziato un'energica politica contro la manomorta e i privilegi del clero e nel maggio 1707 chiese a Carlo III l'autorizzazione ad espellere i gesuiti. Nel frattempo, varava una serie di riforme: stabilì l'exequatur, avocò al governo l'imprimatur dei decreti dell'Inquisizione e soprattutto proibì il ricorso a tribunali stranieri, in primo luogo a Roma. Fu quest'ultimo provvedimento, promulgato il 16 genn. 1768, a scatenare la violenta reazione del pontefice: il 30 gennaio egli emanò infatti un breve, noto come "monitorio di Parma", nel quale tentava la prova di forza, con una durezza mai usata fino ad allora, cassando l'intera legislazione del Tillot e scomunicando i suoi autori e sostenitori in base alla bolla In Coena Domini. Tutta l'Europa fu colpita da sorpresa per questa improvvisa mossa con cui il papa sperava di colpire l'anello più debole dello schieramento anticurialista. La risposta immediata di Parma fu l'espulsione dei gesuiti, nella notte tra il 7 e l'8 febbr. 1768. Molto dura fu anche la reazione del Tanucci, che propose di attaccare i domini del papa per privarlo del potere temporale.
La mossa del papa venne universalmente commentata come un grave errore, che faceva il gioco dei suoi avversari. Scriveva il Galiani al Tanucci, l'11 apr. 1768: "Il re di Prussia ha scritto a... M. d'Alembert una lettera sulle cose parmensi graziosissima. Dice che il papa gli pare un vieux danseur decorde qui,voulant refaire les tours de sa jeunesse,se casse le cou. Dice che sono state le preghiere e i voti des philosophes, che hanno dato questo papa alla Chiesa, acciocché la cosa si sbrigasse presto e siabbreviassero almento duecent'anni di tempo e di fatiche" (Tanucci, II, p. 196). Lostesso Choiseul scriveva al Grimaldi: "il papa è proprio uno scemo e il suo ministro un pazzo di prima classe" (Pastor, p. 929). La legittimità stessa del potere temporale venne contestata, in particolare da Voltaire con l'opuscolo Lesdroits des hommes et les usurpations des autres.Come era prevedibile i Borboni si strinsero intorno al duca di Parma; il Consiglio straordinario di Castiglia approvò la linea proposta dallo Choiseul, più moderata di quanto avrebbe desiderato il Tanucci: le potenze decisero infatti di bloccare la crisi prima che precipitasse e che l'equilibrio ormai consolidatosi in Italia venisse rimesso in discussione. Fu deciso di chiedere al pontefice, con un passo concertato tra le corti borboniche, la revoca del monitorio e solo in un secondo momento, di fronte ad una risposta negativa, di procedere per rappresaglia all'occupazione di Avignone e del Contado Venassino in Francia, di Pontecorvo e Benevento nel Regno di Napoli. Il monitorio fu, intanto, proibito in tutti gli Stati. Maria Teresa d'Austria offrì la propria mediazione; il Regno di Sardegna, filocuriale, si mantenne neutrale; Venezia solidarizzò cautamente con Parma. Dopo il rifiuto del papa di revocare il monitorio, le potenze procedettero, nel giugno, alle occupazioni. C. XIII ne fu profondamente turbato: "Il Papa è angustiato e mi fa compassione e non vi veggo riparo, non sò come finirà questa tragedia", scriveva il suo confessore, A. M. Borini (Betto, Papa Rezzonico..., p. 463). L'attacco venne rivolto poi contro la teocratica bolla In Coena Domini, che fu proibita a Napoli nel giugno 1768, a Milano nell'ottobre, a Parma nel novembre e a Venezia nel marzo 1769. Il venerdì santo del 1768 venne ancora letta, per l'ultima volta, secondo l'usanza, da C. XIII, sulla gran loggia del Vaticano. Uno dei primi atti del nuovo papa, l'anno successivo, sarebbe stato quello di abolire quest'usanza.
Intanto, tra il maggio e il settembre del 1768 a Roma si giocava una partita serrata, complessa ed estremamente importante in cui non era in gioco solo la revoca del monitorio e la soppressione della Compagnia, ma il prevalere, all'interno del fronte delle potenze, di una linea più moderata o di una più radicale. La prima, condivisa dalla Francia e caldeggiata dall'ambasciatore spagnolo a Roma Azpuru, puntava sul conclave, che appariva ormai prossimo, per ottenere l'elezione di un papa più duttile; la seconda, impersonata dal Tanucci, dal Roda e dall'Azara, cercava invece uno scontro frontale e definitivo con Roma. Le lettere di quest'ultimo, allora inviato del governo spagnolo, ma in forma privata, costituiscono un documento prezioso e ci mostrano come il partito più radicale tentasse con ogni mezzo di far fallire ogni proposta di mediazione e di pacificazione. A Roma, intanto, il precipitare della situazione e lo stato di grave pericolo in cui versava la Chiesa determinavano lacerazioni e spaccature in seno alla Curia e alla stessa famiglia Rezzonico.
Era, in questo senso, esemplare il mutamento di rotta del Cavalchini, fino ad allora uno dei sostenitori della Compagnia; egli, già nell'aprile 1767, quando la Spagna aveva richiesto l'accoglimento dei gesuiti espulsi nello Stato della Chiesa, si era espresso favorevolmente motivando questo parere con la necessità di sottoporre i gesuiti ad un severo controllo e dichiarandosi favorevole alla loro secolarizzazione. Un nipote del papa, il maggiordomo Gian Battista Rezzonico, che puntava al cardinalato ed era spinto da una inimicizia personale verso il Torrigiani, si era, da tempo, avvicinato alla Francia, ed intrigava con l'ambasciatore d'Aubeterre e con lo stesso Azpuru.
Nel maggio 1768, le potenze borboniche, in un memoriale durissimo inviato al pontefice, oltre alla revoca del monitorio, avevano anche chiesto la destituzione del Torrigiani. L'Azara temeva l'accoglimento di questa richiesta: ciò infatti, dando soddisfazione, limitatamente ad alcuni punti, ai Borboni, ne avrebbe frenato la politica antiecclesiastica. Comunque, l'intervento del cardinal nepote Carlo Rezzonico scongiurò il ritiro del Torrigiani e portò a una soluzione di compromesso: egli restò segretario di Stato, ma le trattative con i Borboni furono affidate al cardinal Negroni. In realtà tutto continuò, tramite il Negroni, a passare attraverso le mani del Torrigiani, il che irritò ulteriormente le corti borboniche. Sintomatico della tensione e della disgregazione esistenti allora perfino nella Curia è il revirement dello stesso Torrigiani, il quale nel mese di agosto, per sventare le manovre rivolte contro di lui, prese contatti con l'Azara, offrendogli un cambiamento radicale della politica condotta fino ad allora. Su questi passi del Torrigiani gli storici del pontificato di C. XIII, a partire dal Pastor, tacciono. Il Torrigiani si impegnava sostanzialmente per una graduale soppressione della Compagnia e la revoca del monitorio. Queste trattative fallirono comunque quasi subito. In ottobre, il papa rispose finalmente al memoriale borbonico: contrariamente alle previsioni generali, la risposta era durissima e non lasciava alcuno spazio di manovra. Era la vittoria della linea dell'Azara, che sperava in una altrettanto dura reazione delle potenze, che si concretò infatti nel gennaio del 1769, nella richiesta, concertata dalle tre principali potenze borboniche, di scioglimento della Compagnia di Gesù. Il 20 gennaio fu la volta del memoriale napoletano, presentato dal cardinale Orsini: il pontefice reagì scoppiando in lacrime; il 24 gennaio l'ambasciatore d'Aubeterre presentò, infine, quello francese. Naturalmente a Roma negli ambienti gesuitici regnava il più grande sconforto, tanto più che il papa aveva fatto sapere al Ricci che ogni appello alle altre potenze sarebbe rimasto inascoltato, e che la stessa Maria Teresa d'Austria aveva assicurato ai Borboni la sua neutralità. Il papa convocò per il 3 febbraio il concistoro, da cui doveva uscire una risposta ai memoriali; ma, colpito da apoplessia, morì a Roma nella notte del 2 febbr. 1769. È sepolto in S. Pietro, dove il nipote, senatore A. Rezzonico, gli fece erigere un monumento funebre dal Canova.
Così l'Azara descrive in una lettera del 2 febbraio le ultime ore del pontefice: "El Papa se va recomandando á todos las beatas y beatos; pidiendo oraciones á monias y frailes; hace muchisimas limosnas extraordinarias, para que Dios lo ilumine en al aprieto terrible a que está metido; ... pues el Dios que le hablará, por boca de todo esto beaterio, será al P. Rici..." (El espiritu..., p. 209). A Roma corse la voce, divulgata tra l'altro dal cardinale Orsini, che il papa fosse stato avvelenato dai gesuiti, perché aveva deciso di scioglierne l'Ordine. La voce era però priva d'ogni fondamento. La risposta del papa ai memoriali, come risulta dalle minute rimaste (Pastor, p. 993), sarebbe stata recisamente negativa. Di questa morte così repentina, che giungeva proprio nel momento di massima tensione, così scriveva l'agente lucchese a Roma Buonamici: "Benché il caso sia compassionevole, con tutto ciò le presenti circostanze che si affacciano al pensiero di ciascuno fanno credere essere questa morte anche per lui medesimo opportuna" (Sforza, Papa Rezzonico..., p. 54).
Se la questione gesuitica rappresentò il momento di massimo conflitto fra C. XIII e le potenze, la sua rigida politica curialista lo portò anche su altri problemi a scontrarsi spesso con gli Stati. Con l'Austria i rapporti furono inizialmente molto buoni, grazie anche all'appoggio avuto in conclave. Poco dopo l'elezione, il 19 agosto, C. XIII concesse a Maria Teresa il titolo di "maestà apostolica", da lei pressantemente sollecitato, e il 5 maggio 1761 le concesse il privilegio di essere inserita insieme con il consorte e con i successori nel canone della messa per i suoi Stati. Inoltre, autorizzò l'imposizione di tasse straordinarie sul clero per finanziare la guerra dei Sette anni. Contrasti non tardarono tuttavia ad emergere, pur senza sfociare mai in uno scontro aperto, a causa della politica giurisdizionalista che il Kaunitz portò fermamente avanti in quegli anni, soprattutto dopo la conclusione della guerra. Fra l'altro, anche se l'Austria si mantenne sostanzialmente neutrale nella questione dei gesuiti, anche lì essi vennero allontanati poco per volta e senza clamore dall'insegnamento universitario, dalla corte e dalla Commissione di censura. I primi dissapori nacquero comunque per iniziativa di Roma, che dal 1760 si rifiutò di riconoscere a Maria Teresa la facoltà di proporre una terna di candidati alle nomine episcopali in Lombardia: questo privilegio si basava infatti su una consuetudine mai formalizzata in un trattato e per questo Roma si ritenne autorizzata a non tenerne conto. A Vienna se ne attribuì la responsabilità al Torrigiani, che cominciò a non essere più molto gradito. Più gravi furono le tensioni sorte nel 1763 a causa del concordato austriaco coi Grigioni. Con esso infatti l'Austria, in cambio di considerevoli agevolazioni politiche ed economiche, aveva concesso che in deroga all'articolo 33 del capitolato del 1639 - che proibiva ai non cattolici di risiedere nella cattolica Valtellina - fosse permessa la residenza dei protestanti. Il papa si rifiutò di avallare questo concordato, che finì per decadere, date anche le perplessità di Maria Teresa. Negli anni seguenti vennero prese a Vienna importanti misure per limitare la manomorta e venne riformata la commissione di censura, sottraendola al controllo degli ecclesiastici. C. XIII perorò più volte presso Maria Teresa la revoca dei provvedimenti, senza tuttavia ricorrere mai a termini ultimativi.
Per quanto riguarda la Germania, a parte alcune preoccupazioni per una ventilata secolarizzazione dei principati ecclesiastici dopo la conclusione della guerra dei Sette anni, i problemi maggiori vennero dalla pubblicazione nel 1763 dell'opera del Febronio (J. N. von Hontheim), De statu Ecclesiae, che rilanciava l'episcopalismo e divenne un importante strumento per la politica giurisdizionalista. Essa ebbe grande successo in tutta Europa, ebbe l'appoggio delle corti e penetrò in molti ambienti cattolici. La reazione di Roma fu cauta, soprattutto perché molti vescovi tedeschi erano favorevoli a questa opera. Si fecero quindi pressioni su costoro affinché la condannassero pubblicamente, si cercò, anche se inutilmente, di ottenere la ritrattazione dell'autore, e si promosse una vasta pubblicistica contraria.
Questi anni videro anche il maturare della crisi interna polacca, che dopo la morte di Federico Augusto III degenerò in guerra civile. Uno dei problemi più roventi era la parificazione dei diritti della nobiltà dissidente, sostenuta da Russia e Prussia, con quelli della nobiltà cattolica. C. XIII non contribuì certo a pacificare gli animi, con i suoi ripetuti interventi diplomatici in difesa dei privilegi dei cattolici. La sua intransigenza lo spinse anzi, nel 1767, ad esortare il nuovo re, Stanislao Augusto Poniatowski, a preoccuparsi più della pace della Chiesa che di quella del suo Stato.
Tra Venezia e Roma, al momento dell'elezione di C. XIII i rapporti erano tesissimi a causa del già ricordato decreto del 1754. Il papa, nel ringraziare il Senato per i fastosi festeggiamenti con cui aveva fatto celebrare la sua elevazione al pontificato, aveva vivamente auspicato la soppressione del decreto: questo fu infatti ritirato il 12 ag. 1758, e i rapporti si normalizzarono. Nel 1759 il papa concesse alla Repubblica la Rosa d'oro; nel 1761 le concesse la facoltà di scegliere un uditore di Rota, parificandola, così, alle maggiori potenze; inoltre creò cardinale il vescovo di Vicenza, A. M. Priuli. Contrasti ci furono di nuovo nel 1762 in seguito alla nomina di Giorgio Facca, che Roma considerava scismatico, a vescovo della Chiesa greca in Venezia. I rapporti comunque tornarono seriamente tesi sul finire del pontificato, a causa della questione della riforma degli Ordini religiosi. Il Senato cercava infatti di colpire l'immensa estensione della manomorta e di diminuire il gran numero degli ecclesiastici: così il 7 sett. 1767, con un decreto, sottopose tutti gli Ordini alla giurisdizione dei vescovi locali, proibì l'accoglimento di novizi minorenni e proibì le donazioni ad enti ecclesiastici. C. XIII reagì prontamente, ammonendo i vescovi veneti a rispettare l'esenzione dei regolari ed accusando il Senato di mettere in pericolo la religione e di voler distruggere gli Ordini. Il Senato comunque non si lasciò piegare. Questo episodio fu solo uno dei prodromi di una campagna contro gli Ordini religiosi che si sarebbe sviluppata in seguito. Anche il Kaunitz infatti guardava con molto interesse a quanto si faceva a Venezia, ed anche in Francia, in quello stesso anno, erano stati emanati simili editti di riforma, che portarono alla chiusura di molti conventi.
Il conflitto che a partire dal 1760 oppose Genova a Roma per la questione della Corsica ebbe un carattere particolare, anche perché, contrariamente al solito, i gesuiti genovesi avevano sempre appoggiato la politica giurisdizionalista della Repubblica. Sintomatico di questo clima di buoni rapporti è il fatto che i gesuiti cacciati dalla Spagna erano stati accolti da Genova in quella parte di Corsica che ancora riusciva a controllare. Da decenni infatti la Corsica era in rivolta, ed esponenti dei ribelli avevano ripetutamente, ma invano, sollecitato un preciso intervento della S. Sede in loro favore, richiamandosi all'alto dominio che essa tradizionalmente rivendicava sull'isola.
Benedetto XIV, però, aveva appoggiato la politica genovese, che mirava a controllare il basso clero dell'isola, schierato con i ribelli, nominando vescovi e provinciali fedeli alla Repubblica. Dopo l'elezione di C. XIII, durante il breve periodo del segretariato di Stato dell'Archinto, la Repubblica aveva addirittura sperato di ottenere da Roma la condanna formale della rivolta. Ma, con la nomina del Torrigiani, si verificò una vera e propria inversione di rotta. Su sollecitazione del Paoli, il papa inviò, infatti, nel 1760 un visitatore apostolico in Corsica, il vescovo di Segni, De Angelis, con l'incarico di provvedere allo stato religioso dell'isola, senza tuttavia ingerirsi in questioni politiche. Genova considerò il gesto come un avallo alla rivolta e pose una taglia sul capo del visitatore. Un'ambigua proposta di mediazione del Tanucci, che suggeriva il contemporaneo ritiro del visitatore da una parte e della taglia dall'altra, fu decisamente respinta da Roma. Il conflitto continuò quindi fin quasi alla fine del pontificato, estendendosi anche alla questione dei vescovati liguri vacanti e della cacciata dei serviti da Genova.
Per quanto riguarda la vita interna della Chiesa, il pontificato di C. XIII segnò una battuta d'arresto del processo di rinnovamento che si era avviato sotto il suo predecessore. Il papa Benedetto XIV, infatti, aveva avuto una chiara visione della necessità di una riforma della Chiesa, e nelle dure polemiche interne al mondo cattolico aveva cercato sempre di mantenere un equilibrio, spesso difficile, per assicurare la pluralità delle voci nel dibattito. C. XIII puntava, invece, ad una rigida difesa delle strutture tridentine, e dei gesuiti in primo luogo, e si schierò decisamente contro giansenisti e cattolici illuminati. Roma stessa, dove esisteva un forte gruppo antigesuita, riunito intorno ai circoli dell'Archetto e della Chiesa Nuova, fu uno dei centri principali dello scontro, soprattutto dopo la rottura col Portogallo, che provocò la fine del clima di tolleranza. Il Pagliarini, infaticabile editore di scritti contro la Compagnia, venne arrestato nel dicembre 1760: condannato alla galera, venne peraltro graziato, e riparò a Napoli prima e in Portogallo poi. Il papa inoltre nel 1763 colpì il collegio Nazareno, tenuto dagli scolopi, destituendo il rettore Tosetti e M. Natali, che vi insegnava teologia. Molto scalpore fece l'episodio del Passionei: come segretario dei Brevi questi doveva infatti sottoscrivere il breve di condanna del catechismo del Mésenguy, di cui egli era appassionato difensore. Cercò di sottrarsi a questo spiacevole dovere allontanandosi da Roma, ma il papa gli impose di firmare o di dimettersi. Egli finì per cedere, sotto le pressioni dei familiari, ma la rabbia fu tale che fu subito colto da un colpo apoplettico, che nel giro di tre settimane lo portò alla tomba.
Per quanto indebolito e in difficoltà, il partito antigesuita romano non restò inattivo. Il Vazquez tenne stretti contatti col Roda durante la soppressione della Compagnia in Spagna, e il Bottari tenne una fitta corrispondenza con la Chiesa giansenista di Utrecht, adoperandosi, peraltro senza successo, perché C. XIII non condannasse gli atti del sinodo da questa celebrato nel settembre del 1763.
Un'allusione, per quanto velata, all'attività e alla propaganda filogiansenista a Roma si può cogliere in un'allocuzione rivolta dal papa ai parroci romani nel 1764 (Due allocuzioni inedite di S. S. Clemente XIII P. M. tenute l'una ai parroci l'anno 1764,l'altra ai predicatori di Roma l'anno 1765, Venezia 1874), nella quale li metteva in guardia contro coloro che, lupi rapaci sotto le spoglie di agnelli, nascondendo cioè pericolosi errori sotto la maschera di zelo e di virtù, insidiavano i fedeli. Malumore suscitarono peraltro fra i Romani i provvedimenti con cui egli impose una rigida osservanza della quaresima.
Un passo importante a favore dei gesuiti fu l'ufficializzazione del culto del Sacro Cuore di Gesù, che già alcuni settori del mondo cattolico avevano invano sollecitato da Benedetto XIV. Soprattutto l'episcopato polacco e parte di quello spagnolo rivolsero nuove istanze a C. XIII, che nel 1761istituì una particolare festa per la Polonia e per l'Arciconfraternita romana di S. Teodoro. Carlo III invece si oppose alla sua introduzione in Spagna: i vescovi che l'avevano richiesta furono biasimati, e dopo l'espulsione dei gesuiti tutte le immagini del Sacro Cuore vennero rimosse dalle chiese.
Sono da ricordare le sei canonizzazioni fatte da C. XIII il 16 ag. 1767: riguardarono Giuseppe Calasanzio, Giuseppe da Copertino, Girolamo Emiliani, Giovanni di Kenty, Serafino da Montegranario e Giovanna di Chantal. Fra le numerose beatificazioni ci fu anche quella del suo antenato Gregorio Barbarigo.
Di scarso rilievo furono i suoi interventi nel settore delle missioni, che conobbe durante il suo pontificato una grave crisi a causa delle soppressioni della Compagnia di Gesù.
Sotto C. XIII divenne definitiva la condanna dell'illuminismo, che già negli ultimi anni del pontificato di Benedetto XIV stava maturando. Nel 1759vennero condannate l'opera di Helvétius, De l'Esprit, e l'Encyclopédie, e nel 1763 l'Emile di Rousseau. Alla fine, con l'enciclica Christianae reipublicae del 25 nov. 1766, si ebbe una condanna globale di tutta la pubblicistica non in linea con il dogma cattolico.
Per quanto riguarda la politica interna dello Stato, il regno di C. XIII fu caratterizzato dall'intrecciarsi della crisi finanziaria generale con la crisi annonaria, che insieme determinarono l'inizio di un dissesto irreversibile. Appena salito sul trono C. XIII si preoccupò di ridurre il debito pubblico, divenuto sempre più ingente nonostante le economie realizzate dal suo predecessore. Era preoccupante, in particolare, che 20.000.000 di scudi fossero stati sottoscritti all'estero, il che comportava ogni anno l'uscita dallo Stato di 600.000 scudi di interessi. C. XIII pensò di ricorrere all'Erario sanziore, i 3.000.000 di scudi depositati da Sisto V in Castel Sant'Angelo per far fronte a calamità improvvise come pestilenze, carestie, e guerre, e sottopose il progetto ai cardinali. Le risposte furono per lo più negative: si temeva di perdere una riserva così importante di denaro liquido, ed inoltre si giudicava controproducente il rimborso d'un colpo di una parte notevole del debito pubblico. Fra queste risposte è degna di nota quella del Corsini, il quale, pur giudicando inopportuno il progetto, era dell'opinione che buona parte del tesoro potesse essere impiegato per risollevare l'economia dello Stato promuovendo attività manifatturiere e bonificando le paludi pontine. Quest'ultimo progetto era stato affrontato più volte in passato, senza risultati soddisfacenti.
C. XIII decise di riprenderlo, affidandolo al governatore della provincia di Marittima e Campagna, Emerico Bolognini, che stese un piano di bonifica per una superficie di 36.400 rubbie (pari a 67.267,2 ettari), con una previsione di spesa di circa 100.000 scudi. I lavori avrebbero dovuto essere affidati ad una società per azioni, che sarebbe poi divenuta proprietaria delle terre bonificate. In compenso dell'esproprio i proprietari avrebbero ricevuto ogni anno l'equivalente del reddito medio che avevano ricavato negli ultimi cinque anni (frutto soprattutto di pesca e taglio di legna), reddito che il Bolognini valutava complessivamente in 6.000 scudi. Poiché nessuno si fece avanti per assumere l'impresa, il papa decise che essa sarebbe stata gestita dalla Camera apostolica. Con un motu proprio del 30 nov. 1762 incaricò dell'esecuzione il cardinale Baldassarre Cenci, precisando che avrebbero dovuto essere compresi nell'area da bonificare tutti i terreni che negli ultimi cinque anni non erano stati coltivati né avevano prodotto foraggio. Questa operazione di esproprio suscitò vivaci reazioni nei grossi proprietari, in particolare nei Caetani. Essi infatti volevano che si riducesse l'area da bonificare, includendovi solo le terre più vicine al mare, contando che, una volta prosciugate queste, anche le terre più a monte si sarebbero prosciugate automaticamente, senza spesa e con grande vantaggio per loro. Il Cenci morì improvvisamente a Nettuno, poco dopo aver iniziato il rilevamento, il 2 marzo 1763. Qualcuno parlò di veleno. In ogni modo il suo successore, il cardinale Simone Bonaccorsi, fu molto più sensibile di lui alle esigenze dei grossi proprietari e ridusse la superficie da bonificare a sole 9.200 rubbie. Inoltre, come risulta dalla relazione che egli stese nel giugno del 1764, la somma annua con cui risarcire i proprietari espropriati, stabilita in base alle loro dichiarazioni giurate, toccava i 12.000 scudi. L'operazione si prospettava a questo punto molto più onerosa del previsto per la Camera apostolica. Vennero ugualmente intrapresi lavori preliminari, ben presto abbandonati perché la carestia era frattanto intervenuta a dissestare le finanze dello Stato.
Le cause di questa grave carestia, che travagliò lo Stato ecclesiastico, insieme con altre zone dell'Italia centrale e meridionale, fra il 1764 e il 1767, non furono soltanto naturali. I guasti alle colture prodotti dal maltempo furono aggravati dai difetti intrinseci del sistema annonario e dalla sostanziale incapacità dell'amministrazione pontificia di reagire con provvedimenti efficaci. Da una parte c'erano problemi annosi, come la diminuzione delle superfici coltivate a grano, perché i grandi proprietari, che dovevano vendere il prodotto all'Annona ai bassi prezzi che questa stabiliva, non trovavano sufficientemente remunerativo coltivare grano, e preferivano diffondere la pastorizia. Inoltre il sistema delle assegne, cioè delle dichiarazioni giurate dell'ammontare della produzione, era tale che l'Annona aveva sempre un'immagine deformata della realtà: infatti in caso di raccolto abbondante, i proprietari lo sottoestimavano, per spuntare prezzi più alti; in caso di raccolto mediocre o cattivo, lo sovraestimavano per ottenere permessi di esportazione in modo da cercare i mercati più favorevoli. La crisi del 1764 ebbe dunque la sua origine in un cattivo raccolto, di cui però le assegne dei proprietari non consentirono all'Annona di cogliere subito la gravità, mentre gli intermediari, meglio informati, accaparravano il grano per esportarlo. Anche la burocrazia del resto ebbe grosse responsabilità in queste speculazioni: infatti si continuarono a concedere permessi di esportazione anche quando la crisi era ormai evidente, e il cardinale nepote, che in qualità di camerlengo concedeva questi permessi, venne accusato dagli osservatori stranieri di lucrare sostanziose tangenti sul grano esportato. Nell'aprile del 1764, quando ormai la situazione dell'ordine pubblico a Roma minacciava di degenerare, a causa dei primi assalti ai forni e del massiccio afflusso di affamati dalle province, cominciarono ad arrivare i primi carichi di grano acquistato all'estero a caro prezzo. Per pagarlo il papa si trovò costretto a ricorrere all'Erario sanziore: solo dopo molte resistenze il Collegio cardinalizio acconsentì. Complessivamente, in più riprese, vennero prelevati nel corso dell'intero periodo della carestia 1.500.000 di scudi, dando così un durissimo colpo al deposito. Per reintegrarlo, almeno parzialmente, venne istituita il 31 ag. 1764 un'imposta una tantum su tutti i capitali e i fondi, anche ecclesiastici, esistenti in Roma e nel suo distretto, come pure sui luoghi di Monte. Il provvedimento suscitò fortissime critiche nei confronti del camerlengo, anche da parte dei cardinali, ma egli non cedette e alla fine questa tassa straordinaria portò oltre 400.000 scudi: una somma notevole, ma comunque insufficiente di fronte al deficit dello Stato. Questa disastrosa esperienza della carestia diede vita ad un grosso dibattito sui problemi dell'agricoltura nelle province annonarie. I proprietari chiesero al governo la liberalizzazione del commercio del grano e un maggiore afflusso di manodopera, in modo da abbassarne il costo. I piccoli agricoltori chiesero invece un credito agevolato, un aumento dei prezzi a cui l'Annona acquistava il grano e una diminuzione degli affitti. In realtà non si ebbe l'energia per prendere una misura risolutiva: si attuarono solo provvedimenti parziali, come la concessione di permessi di esportazione gratuiti per qualche anno, e alcuni prestiti ad agricoltori. La struttura dell'Annona rimase immutata, con tutti i suoi difetti. Né maggior successo ebbe il progetto di riforma finanziaria del tesoriere generale Giovan Angelo Braschi, che assunse questa carica nel 1766. Egli si proponeva di risanare le finanze dello Stato non ricorrendo, come si era fatto fino ad allora, a semplici espedienti come la riduzione di certe spese o l'imposizione di nuove gabelle, ma ristrutturando radicalmente il sistema: si sarebbero dovuti abolire tutti i pesi camerali, sostituendoli con tre soltanto, cioè sul macinato, sul sale e sull'estimo; si sarebbero dovuti inoltre abolire tutti i pedaggi e le gabelle per favorire il libero commercio all'interno dello Stato, spostando le dogane ai confini. Era in pratica il programma che egli avrebbe cercato di realizzare in seguito, una volta salito al trono col nome di Pio VI. I primi passi per la sua attuazione vennero in effetti compiuti: il Braschi ottenne dal papa la nomina di una congregazione particolare per studiare la realizzazione e incaricò un esperto milanese, Francesco Antonio Bettinelli, di compiere un'ispezione in tutto lo Stato per esaminare concretamente le possibilità di una riforma doganale. La relazione del Bettinelli, presentata alla fine del 1768, era positiva. Ma la morte del papa, seguita di lì a poco, bloccò l'iniziativa.Fra i provvedimenti presi in campo amministrativo, complessivamente poco incisivi, sono da ricordare l'abolizione della Congregazione fermana (19 sett. 1761), cioè del regime di autonomia di cui godeva la città di Fermo; la riforma dei due istituti di depositi e credito della capitale, il Monte di pietà e il Banco di S. Spirito; e infine l'abolizione delle leve straordinarie di truppe che durante i periodi di sede vacante venivano fatte da molte magistrature locali e perfino da alcuni nobili romani. A proposito di ordine pubblico, è il caso di smentire quanto ha scritto il Novaes (ripreso fra gli altri anche dal Pastor): egli afferma infatti che l'eccessiva indulgenza con cui la giustizia penale venne amministrata sotto C. XIII fece aumentare la criminalità: in particolare, durante il suo pontificato, sarebbero stati commessi in tutto lo Stato oltre 10.000 omicidi, di cui 4.000 nella sola Roma. In realtà ricerche recenti condotte sulla criminalità romana nel Settecento, basate su analisi quantitative, hanno dimostrato che non ci furono aumenti del tasso di criminalità, rispetto alla media del secolo, e che in particolare gli omicidi furono circa quaranta l'anno.
Praticamente nulla v'è da dire sull'attività artistica a Roma sotto C. XIII: egli del resto viene ricordato non come mecenate, ma per aver fatto coprire le nudità delle statue in Vaticano. Comunque durante il suo pontificato venne completata a Roma la fontana di Trevi.
La questione gesuitica, che aveva tanto sconvolto gli anni del pontificato di C. XIII, ha finito con il condizionare il giudizio che non solo i contemporanei, ma anche gli storici hanno dato di lui. I suoi contemporanei G. C. Cordara e il filogesuita conte M. Fantuzzi hanno espresso su di lui un giudizio sostanzialmente simile: del papa viene sottolineata, da un lato, la mitezza e la suggestionabilità, dall'altro la fermezza e l'inflessibilità nel l'attaccamento alla Chiesa. "Aveva il card. Rezzonico - scrive il Fantuzzi - l'opinione di un pio Vescovo, ma nulla più. Quando però spiegò un carattere di dignità, e fermezza sacerdotale ottenne generalmente applauso, ed in seguito fuori de' Giansenisti, e loro Partitanti riscosse l'universale venerazione" (DellaCompagnia di Gesù e sua abolizione, f. 113v). Mostrandosi più fine politico, il Cordara dà del pontificato di C. XIII un giudizio più critico "minus ego certe amicum sed acque rectum, paulo callidiorem, multo animosiorem Pontificem co rerum nostrarum statu maluissem" (Commentarii..., p. 234). Già il biografo di Clemente XIV, L. A. Caraccioli, nella sua opera pubblicata nel 1775, dava corpo ad una sorta di leggenda nera del Torrigiani, considerato il vero responsabile di tutti i mali del pontificato di papa Rezzonico, ed affermava che il pontefice, prima di morire, era intenzionato ad abolire la Compagnia di Gesù: non è un caso che una traduzione italiana dell'opera, pubblicata nel 1847, recasse una lettera introduttiva del Gioberti. Proprio gli anni intorno alla metà del sec. XIX, in cui la questione gesuita tornò di attualità, assistono alla comparsa, nell'ambito della storiografia cattolica intransigente, di opere denigratorie nei confronti di papa Ganganelli e francamente apologetiche e acritiche verso papa Rezzonico: quelle del Ravignan e, soprattutto, del Crétineau-Joly. Il Ravignan riconosce in C. XIII "les caractères les plus vrais de grandeur et de gloire qui aient jamais appartenu aux plus illustres pontifes. Il me retrace les nobles traits d'Innocent III, de saint Grégoire VII, de saint Pie V, de Clément XI. Comme eux, il dut lutter; comme eux, résister aux puissances de la terre liguées contre l'Eglise; comme eux, il sut à la modération la plus patiente unir la fermeté la plus inflexible" (Clément XIII etClément XIV, p. 235). Invece, il Theiner diede di C. XIII un giudizio articolato; ne riconobbe la pura religiosità, ma considerò fondamentalmente errata la politica di attaccamento alla Compagnia di Gesù e di coinvolgimento dell'intera Chiesa nel destino della Compagnia: "La grandeur d'âme elle même que Clément XIII et son sécrétaire d'Etat manifestèrent dans ces jours lamentables et amers, porte une empreinte de douloureuse et touchante tristesse, plutôt qu'un caractère de grandeur, parce qu'elle était accompagnée de vues étroites et d'une complète ignorance des besoins de son temps" (Histoire du pontificat de Clément XIV..., p. 146). Molto simile è il giudizio del Ranke, che sottolinea, sia nel papa sia nel Torrigiani, il prevalere del momento religioso su quello politico, e individua nel loro attaccamento alle tradizioni della Chiesa la causa prima dei disastri che sconvolsero la Chiesa e distrussero la Compagnia di Gesù. La parte dedicata a C. XIII nella Storia dei papi di L. von Pastor riprende la tradizione cattolica conservatrice: grandezza d'animo e bontà, scarsa conoscenza degli uomini, suggestionabilità, fermezza erano le caratteristiche del pontefice; ma "una tale mitezza aveva i suoi limiti: quando erano in questione il dovere e la coscienza, egli mostrava una fermezza che nessuna minaccia e nessun pericolo potevano scuotere, cosicché lo si è detto il Gregorio VII del secolo XVIII" (p. 996). Nel Dictionnaire d'Hist. et de Géogr. Eccl. (XII, col. 1409) R. Mols, pur riconoscendogli qualità umane e pastorali, gli rimprovera che la sua fedeltà alla Chiesa si fosse messa troppo spesso "au service d'un juridisme immobiliste et étriqué, incapable de faire le départ entre les positicns à defendre coûte que coûte et celles qui s'avèrent dépassées".
C. XIII, eletto, in circostanze assai difficili, proprio per contrastare il giurisdizionalismo, finì, con una strategia politica poco accorta, per indebolire ulteriormente la posizione della S. Sede. Ma a parte il giudizio sulle capacità diplomatiche sue e dei suoi collaboratori, ci sembra che una revisione critica del giudizio sul suo pontificato, basata sulle fonti, debba soprattutto tener conto di quanto la causa che egli difendeva, cioè il mantenimento integrale della Chiesa postridentina, fosse condivisa o criticata all'interno dello stesso mondo cattolico. Quel che è certo è che C. XIII rifiutò qualsiasi confronto con le istanze autocritiche e riformatrici che pure erano vive in seno alla Chiesa.
Fonti e Bibl.: Non esiste una biografia recente di C. XIII, per cui il punto di riferimento fondamentale resta l'opera di L. von Pastor, Storia dei papi, XVI, 1, Roma 1953, pp. 465-1053 (redatta tuttavia, sugli appunti da lui lasciati, da P. Kneller, W. Wühr e W. Kratz), che costituisce fra l'altro un'utile guida soprattutto per i fondi dell'Arch. Segreto Vaticano e dell'Arch. general di Simancas. Sui primi cfr. anche: F. Dörrer, Der Schriftverkehr zwischen dem päpstlichen Staatssekretariat und der apostolischen Nuntiatur Wien in der zweiten Hälfte des 18. Jahrhunderts, in Römische historische Mitteilungen, I V (1960-1961), pp. 63-246; W. Wagner, Die Bestände des Arch. della Nunziatura Vienna bis 1792,ibid., II (1957-1958), pp. 82-203. Utili indicazioni si possono trovare nelle seguenti opere di carattere generale: G. Piatti, Storia critico-cronologica de' romani pontefici, XII, Napoli 1768, pp. 430-432; G. Oggieri Vincenti, Annali d'Italia..., continuati sino ai giorni nostri, Roma 1789, XIII, 1, pp. 213-216, 225-243; XIII, 2, passim; XIV, 1, passim; L. Cardella, Mem. storiche de' cardinali..., VIII, Roma 1794, pp. 285-287; M. P. Picot, Mémoires pour servir à l'histoire ecclésiastique pendant le dix-huitième siècle, II, Paris 1815, pp. 341-549; G. de Novaes, Elementi della storia de' sommi pontefici, XV, Roma 1822, pp. 1-148; G. Cappelletti, Le Chiese d'Italia, X, Venezia 1854, pp. 558-561; V. Forcella, Iscrizioni delle chiese... di Roma, Roma 1869-1884, ad Indicem; C. Justi, Winckelmann und seine Zeitgenossen, II-III, Leipzig 1923, ad Indicem; E. Préclin-E. Jarry, Les luttes politiques et doctrinales au XVIIe et XVIIIe siècles, in Histoire de l'Eglise..., XIX, 2, s. l. 1956, ad Indicem; L. von Ranke, Storia dei papi, Firenze 1968, pp. 950-959; V. E. Giuntella, Roma nel Settecento, Bologna 1971, ad Indicem; Storia della Chiesa, a cura di H. Jedin, VII, La Chiesa nell'epoca dell'assolutismo e dell'illuminismo, Milano 1978, ad Indicem. Centrate in modo più specifico sul pontificato di C. XIII e su quello del suo successore sono le seguenti opere: Vita di Clemente XIII…, Venezia 1769, pubbl. in appendice alla Storia del Piatti; [L. A. Caraccioli], La vie du Pape Clément XIV (Ganganelli), Paris 1775; J. Crétineau-Joly, Clément XIV et les jesuites…, Paris 1848; A. Theiner, Histoire du pontificat deClément XIV…, I, Paris 1852, pp. 23-147; X. de Ravignan, Clément XIII et Clément XIV, Paris 1854; si veda inoltre l'esauriente biografia di R. Mols, nel Dict. d'Hist. et de Géogr. Ecclés., XII, Paris 1953, coll. 1381-1410. Una fonte preziosa per l'intero pontificato di C. XIII è l'opera del gesuita G. C. Cordara, De suis ac suorum rebus aliisquesuorum temporum usque ad occasum Societatis Iesucommentarii, a cura di G. Albertotti-A. Faggiotto, in Misc. di storia ital., s. 3, XXII (1933), pp. 189-382. Il Cordara è autore anche di una biografia di C. XIII, scritta su incarico del nipote del papa G. B. Rezzonico, tuttora inedita: Clementis vitaeab ortu usque ad pontificatum lib. I., in Arch. Rom. Societatis Iesu, Opp. NN 199. Questa biografia, di cui non è mai stata scritta la parte riguardante il pontificato, è la fonte più preziosa che si possiede su questo periodo della vita di Clemente XIII. Utili indicazioni anche in: Roma, Biblioteca nazionale, Fondo Ges. 196 (24), ff. 348-356: Carattere di C. XIII e d'altri personaggi [1766]; Ibid., Biblioteca Casanatense, ms. 3177, ff. 97-182: M. Fantuzzi, Della Compagnia di Gesù e sua abolizione (L. Dal Pane ne ha pubblicato ampi stralci, in Mem. ined. del conteM. Fantuzzi sui tempi di C. XIII, in Boll. delMuseo del Risorg. di Bologna, VII [1962], pp. 91-100); G. Sforza, Papa Rezzonico stud. ne' dispacci ined. d'un diplom. lucchese, in Mem. della R. Accad. delle scienze di Torino, s. 2, LXV (1916), 6, pp. 29-54; B. Betto, Papa Rezzonico attraversole lettere ined. del confessore apostolico, in Riv. di storia della Chiesa in Italia, XXVIII (1974), pp. 388-464. Sulla famiglia Rezzonico si veda la geneal. fantasiosa e cortigiana [di S. Ballerini], in Lettera a mons. G. B. Rezzonico... sopra l'anticaorigine della ecc.ma fam. Rezzonico Della Torre, Roma 1768. Tra le fonti edite, particolarm. importanti quelle dei documenti ufficiali del suo pontificato: A. Barberi-A. Spetia, Bullarii Romani continuatio..., Romae 1835-1838; Raccolta di concordati su materie ecclesiastiche tra la S. Sede ele autorità civili, a cura di A. Mercati, I, Città del Vaticano 1954, pp. 454-482. Importanti sono i seguenti epistolari: Elespiritu de D. José Nicolasde Azara descubierto a su correspond. epistolar conD. Manuel de Roda, I, Madrid 1846, pp. 1-219, che riguarda, però, solo l'ultimo anno del pontificato di C. XIII; E. de Heeckeren, Correspondance de Benoît XIV, II (1750-1756), Paris 1912, ad Indicem; B. Tanucci, Lettere a F. Galiani, a cura di F. Nicolini, Bari 1914, ad Indicem; Lelettere di Benedetto XIV al card. de Tencin, a cura di E. Morelli, Roma 1955-1965, ad Indicem. Sul periodo dell'episcopato padovano si veda: N. A. Giustiniani, Serie cronol. dei vescovi diPadova, Padova 1786, pp. CLVIII-CLX; Il seminario di Padova, Padova 1911, pp. 227-231; e soprattutto la recente monografia di C. Bellinati, Attività pastorale del card. Carlo Rezzonico vescovo di Padova poi C. XIII(1743-1758), Padova 1969. Sul conclave indicazioni generali, da usarsi però con estrema cautela, in F. Petruccelli della Gattina, Histoire diplom. des conclaves, III, Paris 1865, pp. 139-169. Particolarmente importante la citata vita del Cordara, e a Roma, Bibl. Corsiniana, ms. 2521, fasc. 8: N. Corsini, Diario e documenti sul conclave di C. XIII. Si veda anche Bibl. Apost. Vaticana, Vat. lat. 9202, ff. 96-111: Il breve ma compendiosissimo Conclaveper l'elezzione [sic] del nuovo Sommo PonteficeC. XIII nell'anno 1758, su cui si basa D. Gravino, Per la storia del conclave di C. XIII (contributo alla storia delle pasquinate), Genova 1898. Su aspetti particolari del conclave si vedano G. P. Grimani, Sull'elezione del card. Carlo Rezzonico..., Padova 1875 e A. Moschetti, Venezia e la elezione di C. XIII, Venezia 1890. Importanti memoriali dello Choiseul in vista del conclave del 1758 in M. Boutry, Choiseul à Rome. Lettres et mémoires inédits(1754-1757), Paris 1895, pp. 219-312. Sui problemi collegati alla questione dei gesuiti, oltre alle opere già citate, si veda J. Crétineau-Joly, Histoire religieuse,politique et littéraire de la Compagnie de Jésus…, V, Paris 1846, pp. 114-248; P. Dudon, De la suppression de la Compagnie de Jésus(1758-1773), in Révue des quest. hist., LXVI (1938), 3, pp. 75-107; e soprattutto F. Venturi, Settecento riformatore, II, Torino 1976, ad Indicem. Le carte del Ricci sull'espulsione dalla Francia e dalla Spagna sono conservate nell'Arch. Rom. Soc. Iesu, Hist. Soc. 247 (Generalatus P. Ricci eiusque captivitatis, fascc. I-II). Sull'espulsione dei gesuiti dalla Francia, utile il recente libro di D. van Kley, The Jansenists and the Expulsion of the Jesuits from France(1757-1765), New Haven-London 1975, ad Indicem. Sui gesuiti nel Regno di Napoli si veda P. Colletta, Storia del reame di Napoli, a cura di N. Cortese, I, Napoli 1957, pp. 175 ss. Sui rapporti tra S. Sede e Venezia: B. Cecchetti, La Repubblica di Venezia e la corte di Roma, Venezia 1874, ad Indicem; E. Pesenti, Roma e Venezia(1754-1769)..., in Ateneo veneto, XXXIII (1910), 3, pp. 375-455; XXXIV (1911), 1, pp. 167-243; F. Seneca, La fine del Patriarcato aquileiese(1748-1751), Venezia 1954. Sulle relazioni con Genova e la questione corsa si veda: F. Fonzi, Le relazioni fra Genova e Roma al tempo di C. XIII, in Annuario dell'Istituto storico italiano per l'età mod. e cont., VIII (1956), pp. 81-272; F. Venturi, P. Paoli e la rivoluzione di Corsica, in Riv. stor. ital., LXXXVI (1974), 1, pp. 5-81 (specialmente pp. 60 ss.); C. Bordini, Rivoluzione corsa e illuminismo italiano, Roma 1980, ad Indicem. Una biografia del Torrigiani, basata peraltro soltanto su materiale edito, è l'articolo di W. Baum, Luigi Maria Torrigiani(1697-1777)Kardinalstautssekretär Papst Klemens XIII., in Zeitschrift für katholische Theologie, XCIV (1972), pp. 46-78. Sulle relazioni con l'Austria e con la Germania si vedano in partic.: A. von Arneth, Geschichte Maria Theresia's, IX, Wien 1879, ad Indicem; F. Maass, Vorbereitung und Anfänge des Josephinismus im amtlichen Schriftwechsel des Staatskanzlers Fürsten von Kaunitz-Rittberg mit seinem bevollmächtigten Minister beim Governo generale der österreichischen Lombardei,Karl Grafen von Firmian,1763-1770, in Mitteil. des Österreich. Staatsarchiv, I (1948), pp. 289-444; Id., Der Josephinismus. Quellen zu seiner Geschichte in Österreich 1760-1790, I-II, Wien 1951-53, ad Indices; A. Ellemunter, Antonio Eugenio Visconti und die Anfänge des Josephinismus. Eine Untersuchung über das theresianische Staatskirchentum unter besonderer Berücksichtigung der Nuntiaturberichte 1767-1774, Graz-Köln 1963, ad Indicem; H. Raab, Clemens Wenzeslaus von Sachsen und seine Zeit 1739-1812, 1, Wien-Basel-Freiburg 1962, ad Indicem; G. Klingenstein, Staatsverwaltung und kirchliche Autorität im 18. Jahrhundert. Das Problem der Zensur in der theresianischen Reform, Wien 1970, ad Indicem. Per i problemi polacchi si veda: F. Venturi, Settecento riformatore, III, Torino 1979, ad Indicem. Sui problemi religiosi si vedano: N. Nilles, De rationibus festorum Sacratissimi Cordis Iesu et Purissimi Cordis Mariae…, I, Oeniponte 1885, pp. 87-162, 352 s., 467-484; A. C. Jemolo, Il giansenismo in Italia prima della Rivoluzione, Bari 1928, ad Indicem; E. Dammig, Il movim. giansenista a Roma nella seconda metà del sec. XVIII, Città del Vaticano 1945, ad Indicem; E. Codignola, Illuministi,giansenisti e giacobini nell'Italia del Settecento, Firenze 1947, ad Indicem; E. Appolis, Entre jansénistes et zelanti. Le "tiers parti" catholique au XVIIIe siècle, Paris 1960, ad Indicem; M. Caffiero, Lettere da Roma alla Chiesa di Utrecht, Roma 1971, ad Indicem; Sacrae Congregationis de Propaganda Fide memoria rerum, II, Rom-Freiburg-Wien 1973, ad Indicem. Per l'iconografia si veda: A. Haidacher, Geschichte der Päpste in Bildern, Heidelberg 1965, pp. 692-701. Un catalogo delle medaglie in A. Patrignani, Le medaglie pontificie da Clemente XII (1730) a Pio VI(1799), Bologna 1939, pp. 83-106. Sulla politica interna, nell'Arch. di Stato di Roma, Camerale II, Paludi pontine, 10: Mem. del cardinale Bonaccorsi per la bonificazione delle paludi Pontine stesa nel giugno del 1764; Roma, Arch. Caetani, ms. 1144/176: Operazioni nelle Paludi Pontine seguite negli anni 1762-1763-1764-1765; E. Bolognini, Mem. dell'antico,e presente stato delle paludi pontine,rimedi,e mezzi per diseccarle a publico,e privato vantaggio, Roma 1759; [F. Campilli], Racconto stor. della penuria de' grani accaduta in Italia,ed in più nelle provincie del dominio temporale della S. Sede negli anni MDCCLXIII,e MDCCLXIV, Roma 1783; N. M. Nicolai, De' bonificamenti delle terre pontine, Roma 1800, pp. 152-154; Id., Memorie, leggi ed osservazioni sulla Campagna e sull'Annona di Roma, III, Roma 1803, pp. 125-127; U. Benigni, Die Getreidepolitik der Päpste, Berlin 1898, pp. 87-93; C. De Cupis, Le vicende dell'agricoltura e della pastorizia nell'Agro romano. L'Annona di Roma…, Roma 1911, pp. 319-325, 668-673; P. Pantanelli, Notizie istoriche... appartenenti alla terra di Sermoneta, Roma 1911, II, ad Indicem; E. Piscitelli, La riforma di Pio VI e gli scrittori economici romani, Milano 1958, ad Indicem; L. 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