CLEMENTE XIV, papa
Giovan Vincenzo Antonio Ganganelli nacque il 31 ott. 1705 a Sant'Arcangelo di Romagna (Forlì) nella legazione di Romagna da Lorenzo e da Angela Serafina Macci (o Mazzi) e fu battezzato il 2 novembre nella parrocchia di S. Agata.
Il padre, che tenne la condotta medica in Sant'Arcangelo dal 1699 al 1708, era originario di Borgo Pace o, secondo altre fonti, di Sant'Angelo in Vado (legazione di Urbino), mentre la famiglia della madre, traeva le sue radici da Novilara nel Pesarese, e a Pesaro Tommaso, avo materno del Ganganelli, era stato aggregato nel 1672 alla nobiltà civica. Questa più lontana derivazione familiare dalla legazione di Urbino, e la filiazione religiosa urbinate del Ganganelli, indurranno più tardi Sant'Angelo in Vado a rivendicarne i natali, avendovi la famiglia paterna goduto i "primi onori" sino alla morte (1767) di un Giacomo Ganganelli cavaliere di S. Stefano. Fu il Ganganelli stesso, eletto pontefice, a dirimere definitivamente la questione della "patria" in due brevi, entrambi datati 15 luglio 1769 e indirizzati al gonfaloniere e ai priori di Sant'Angelo in Vado e al Consiglio di Sant'Arcangelo. Del resto, nel 1710, a richiesta di Angela Serafina, la cittadinanza di Sant'Arcangelo, con relativi privilegi, era stata concessa alla donna, ormai vedova, per le benemerenze del marito, e ai suoi discendenti. Un posto nel Consiglio fu allora destinato appunto al Ganganelli, essendo il primogenito Tommaso morto in tenera età ed avendo solo due sorelle, Alessandra e Porzia (Vittoria). Piccolo patriziato, o piuttosto notabilato provinciale, questo del Ganganelli dunque, proveniente tardivamente dalle fila delle professioni liberali secondo un cursus honorum tipico dei piccoli centri dello Stato pontificio nell'età moderna; una sorta di ennoblissement che si completerà quando al Ganganelli, da cardinale, venne concessa la nobiltà urbinate e quella riminese (1759), e poi quella ascolana (1760), prerogative successivamente passate per Rimini, con l'esercizio delle magistrature - una volta asceso il Ganganelli al pontificato -, al nipote Lorenzo Fabbri, figlio della sorella Alessandra.
Scarse le notizie sui suoi primi studi che si compirono prima a Verucchio e poi a Rimini a partire dal 1717, fra comprensibili ristrettezze economiche, con l'ausilio iniziale di un parente materno e di un conte Barnaldi, milanese. Superate, come pare, alcune difficoltà con il suo protettore, il Ganganelli il 15 maggio 1723 vestì l'abito dei francescani conventuali a Mondaino (Forlì), dove dimorava allora la madre, assumendo a ricordo del padre il nome di Lorenzo. Novizio ad Urbino, dove era francescano un cugino, Vincenzo, emise la professione religiosa il 3 maggio 1724, venendo destinato tra il 1724-28 ai conventi di Pesaro, Recanati e Fano, dove compirà gli studi teologici improntati allo scotismo, com'era nella tradizione dell'Ordine. Il modesto orizzonte provinciale comincerà ad aprirsi tra il 1728-31, quando perfezionò gli studi nel collegio romano di S. Bonaventura sotto la guida di Antonio Lucci, futuro vescovo di Bovino, al quale indirizzerà poi una lettera sulla storia minoritica (cfr. Lettere apologetiche a favore dell'Ordine dei minori..., II, Padova 1778, pp. 333-337) e del quale egli conserverà sempre grata memoria, e quando, ottenuto il grado dottorale, prese ad insegnare, per poco meno di un decennio, filosofia e teologia nei conventi dell'Ordine ad Ascoli, a Bologna, a Milano e di nuovo a Bologna. Tappe di una carriera priva, comunque di episodi di rilievo la sua e circoscritta a compiti puramente scolastici o volta in seguito a sporadici interventi interni alla vita dell'Ordine.
I pochi e brevi scritti del Ganganelli editi e inediti (questi ultimi perduti), singolarmente scarsi in una età che conobbe una torrentizia produzione ecclesiastica, sono indicati in Miscellanea francescana, XXIX (1929), pp. 65-68, dove è anche un breve profilo a cura del p. D.M. Sparacio. Si segnalano qui una orazione latina per l'elevazione alla porpora dell'arcivescovo di Milano Carlo Gaetano Stampa, cui sono unite delle tesi discusse, moderatore il Ganganelli, da Angelo Antonio Polesi (Mediolani 1739); una Diatriba theologica historico-critico-dogmatica, dedicata a s. Ignazio di Loyola e discussa, ancora sotto la direzione del Ganganelli, dal p. G. Martinelli (Romae 1742); e un'analoga Diatriba del p. Felice Giro (Romae 1746). L'edizione di un'orazione e di una disputa teologica, sempre guidata dal Ganganelli in occasione del capitolo generale dei minori conventuali, tenutosi sotto la presidenza di Benedetto XIV, apparve a Roma nel 1741. Di altri scritti occasionali e del problema delle sue Lettere si dirà più avanti.
Timidi spunti di buoni rapporti con i gesuiti da parte del Ganganelli nella giovinezza e nella prima maturità, per quanto filtrati da interessate testimonianze posteriori (cfr. El espiritu de D. José Nicolas de Azara..., I, p. 277, e G. Cordara, p. 421), verrebbero confermati dall'assunzione della carica di reggente del collegio di S. Bonaventura, per la presentazione che del Ganganelli, tornato a Roma nel 1740, avrebbe fatto il gesuita Urbani presso il cardinale protettore Albani. Temperamento schivo ed umbratile, il Ganganelli visse gli anni che coincidono con l'inizio del pontificato di Benedetto XIV appartato nel convento dei SS. Apostoli. Si ha soltanto notizia - anche per la dispersione degli archivi dell'Ordine - di un suo fattivo interesse perché il collegio delle missioni francescane venisse trasferito da Assisi a Roma, a S. Antonio ai Monti, e più tardi (nel 1753 e nel 1759) di sollecitazioni a lui rivolte, senza esito, perché assumesse, dopo la carica di definitore, quella generalizia. Una seria, seppure non eccezionale preparazione teologica lo mise tuttavia in contatto, per pareri e consulti, con i cardinali Tanara, Gentili (nella cui "Accademia" pronunzierà, nel 1750, un'orazione sulla Immacolata Concezione edita in Miscellanea francescana, XVI [1916], pp. 41 ss.) e Bolognetti e, secondo quanto ricorda il contemporaneo cardinale Pirelli, soprattutto con l'uditore pontificio, poi cardinale A. Negroni, stretto familiare di Benedetto XIV. A questi rapporti e ad una stima diffusa si devono molto probabilmente la nomina del Ganganelli, nel 1745, a coadiutore del p. Balestracci, consultore del S. Uffizio, e l'anno successivo quella di consultore per il posto riservato, nella Congregazione, ai conventuali.
Questa attività che ci è nota in parte, e unicamente sulla base del materiale reperito al di fuori dell'Archivio della Congregazione, va vista nella svolta maturata all'inizio del secondo decennio del pontificato di papa Lambertini.
Dopo la condanna all'Indice dell'Esprit des lois di Montesquieu (3 marzo 1752), delle tesi dell'abate de Prades (22 marzo) e delle Lettres philosophiques di Voltaire (4 luglio), il successivo 28 agosto il Ganganelli presentava in Congregazione un lungo voto nel quale erano sottoposti a censura i nove volumi sino ad allora apparsi (1748-50) delle opere voltairiane nella cosiddetta edizione di Dresda (Roma, Bibl. dell'Acc. dei Lincei e Corsiniana, Corsiniano 1465, cc. 119r-136v). In realtà, un altro scritto di Voltaire era già incappato nella condanna del S. Uffizio poco avanti le Lettres philosophiques, l'anonimo Voix du sage et du peuple, di cui i censori romani non sospettarono affatto la vera paternità, apparso e diffuso con straordinario successo nello scorcio del 1750 e frettolosamente colpito con decreto del 25 genn. 1751. Il voto del Ganganelli, letto al papa per l'occasione nella seduta del 14 gennaio (cfr. ancora Corsiniano 1465, cc.62r-108r), presenta un qualche interesse nella rigida difesa dell'immunità ecclesiastica posta in discussione dagli editti fiscali del controllore Machault, che Voltaire appoggiava, e dalla richiesta al clero di Francia del pagamento del vingtième, e nella sottolineatura della maggior pericolosità dello scritto voltairiano rispetto ad un opuscolo del Bergeron, Ne repugnate vestro bono, cui la Voix era collegata. La severa richiesta di condanna, formulata secondo i criteri tradizionali, comportava anche l'esemplare rogo pubblico delle opere in questione secondo un rituale simbolico non infrequente nell'ancien règime: proposta, questa del Ganganelli, caduta nella decisione finale e sostituita da parte della Congregazione con l'invito, agli inquisitori locali e ai vescovi, ad una più rigorosa vigilanza su tutti gli scritti che comunque rispecchiassero gli orientamenti censurati. Più complesso evidentemente l'iter della condanna dell'intero corpus voltairiano, per i rapporti intercorsi negli anni precedenti tra Voltaire e il pontefice e per la dichiarata simpatia e protezione che a Voltaire avevano offerto in più occasioni i cardinali D. Passionei e A.M. Querini, quest'ultimo prefetto della Congregazione dell'Indice, ammiratore e traduttore di opere del patriarca di Ferney. La censura del Ganganelli tocca i tomi I-VIII della ricordata edizione di Dresda, esclusi il IV, il V e l'ultimo, cioè il IX, apparso nel 1750. Non v'è dubbio che si tratti di esclusioni volute, contenendo il IV tomo Le fanatisme ou Mahomet le prophète, con la compromettente dedicatoria a Benedetto XIV e la lettera di risposta del pontefice, il V i classici del teatro voltairiano, dalla Zaire alla Mérope, e il IX, accanto a brevi scritti contro la intolleranza e il fanatismo, la Dissertation sur la tragédie ancienne et moderne e la Sémiramis, entrambe dedicate al cardinale Querini. L'evidente disagio dell'istituzione ufficiale cattolica e dei circoli curiali romani di fronte a Voltaire si traduce nel voto del Ganganelli, nella distinzione preliminarmente affermata tra la necessità della condanna delle opere e la sua "forma", che non coinvolgeva la persona dell'autore. Soprattutto di là da una lettura dell'Henriade (tomo I) e del Mélanges de littérature et de philosophie (tomo II), da cui sono ricavate con una certa cura proposizioni censurabili, anche qui riportate al formulario più tradizionale ("scandalosas, impias, erroneas", ecc.), il Ganganelli si mostra preoccupato in senso più generale della diffusione delle più forti e persuasive espressioni della cultura illuministica. La richiesta di una condanna di Voltaire con "peculiare decreto", ma senza il solenne cerimoniale del rogo, e l'esortazione a vincere perplessità ed esitazioni, che egli rivolge alla Congregazione, mostrano come vi fossero ancora solide resistenze a compiere un passo decisivo che infatti avverrà soltanto il 28 febbr. 1753.
Ben maggiore durezza mostra il Ganganelli in un voto di poco successivo (14 aprile del 1753) sullo scritto di Giusto Nave [Giuseppe Giacinto Maria Bergantini], Fra' Paolo Sarpigiustificato, Colonia [Venezia] 1752 (cfr. Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 8379, cc. 33r-41v): "libro perniciosissimo", a suo giudizio, che rappresenta, com'è noto, uno dei recuperi settecenteschi della figura del Sarpi. In questo caso, ad esser presa di mira è la persona stessa del servita, contro il quale il Ganganelli ripropone le vecchie accuse curiali di criptoprotestantesimo. Nel voto sono assenti cenni alla situazione contemporanea, ma la richiesta di una esplicita, rinnovata condanna del Sarpi da parte del S. Uffizio farebbe pensare al tentativo di influire, attraverso un solenne avvertimento, sul nuovo corso giurisdizionalistico che, sulle orme sarpiane, Venezia avviava proprio in quegli anni.
Allo stato delle ricerche ignoriamo l'atteggiamento assunto dal Ganganelli in altri rilevanti momenti della lotta antilluministica né siamo in grado di definire con esattezza i suoi orientamenti nei confronti delle espressioni più avanzate della cultura del tempo, poiché con vaglio maggiore di quanto sinora non sia avvenuto, sono da accogliere i giudizi espressi nelle sue Lettere. Una disponibilità verso taluni fermenti critici della nuova cultura tuttavia collocherebbe il Ganganelli sullalinea di una utilizzazione strumentale di motivi razionalistici e illuministici e di una pietà illuminata di gusto muratoriano, priva forse di più generosi empiti riformatori, ma attiva e operosa come solido reagente nella mentalità e sensibilità ecclesiastica italiana tra la prima e la seconda metà del secolo.
Sotto questo profilo assai interessante, e destinato ad una particolare fortuna, è un rapporto del Ganganelli (approvato dal S. Uffizio il 24 dic. 1759; letto dinanzi al papa il 10 genn. 1760) sulla tradizionale accusa, rivolta contro gli ebrei, di omicidio rituale ai danni di fanciulli cristiani. Occasione determinante fu l'intensificarsi, in quegli anni, del diffuso antisemitismo in Polonia, con esplosioni di violenza e sanguinose repressioni soprattutto nella diocesi di Luck e nelle terre polacche dipendenti dalla giurisdizione diocesana di Kiev. Nell'anno 1758 le comunità ebraiche polacche inviarono un loro rappresentante a Roma nella persona di Jacob Selig o Selek, che presentò un memoriale a Benedetto XIV, dal pontefice stesso trasmesso al S. Uffizio. In risposta a questo, e sulla base di ulteriori informazioni inoltrate dal nunzio a Varsavia, il Ganganelli elaborò il suo rapporto, ricco di informazione storica e di profondo e umano senso di tolleranza cristiana, che attribuisce muratorianamente la persistenza dell'accusa infamante alla "forza della prevenzione", cioè ad antichi e radicati pregiudizi mai suffragati da dati di fatto e da testimonianze certe. Ricordati i numerosi interventi della Chiesa sulla questione sino alla enciclica A quo primum (19 giugno 1752) dello stesso Benedetto XIV ai vescovi polacchi contro gli eccessi del fanatismo religioso; attribuite gravi responsabilità nell'ambito della diocesi al vescovo di Luck che "dovrebbe allora riputarsi felice, quando con pastorale amore potesse condurre qualcuno di questi infelici all'ovile di Gesù Cristo, e non quando per un supposto e mai provato delitto li consegna al carnefice per trucidarli" (Roth, p. 61); sottolineata la prudenza della Chiesa nei casi assai noti dei culti locali ai beati Andrea da Rinn e Simone da Trento, il rapporto si conclude con l'appello al pontefice per la scelta dei mezzi più opportuni "che saranno onorevoli al nome cristiano".
Approvato il documento con notevole tempestività dalla Congregazione e da papa Clemente XIII, succeduto a Benedetto XIV, il Ganganelli stesso, divenuto intanto cardinale, fu incaricato di fornire adeguate istruzioni al nunzio a Varsavia, il che consentì, nello stesso 1760, di ottenere dal re Federico Augusto III l'impegno di più larga tutela delle consistenti minoranze ebraiche polacche. Va ricordato inoltre che, come pontefice e sovrano dello Stato della Chiesa, il Ganganelli all'indomani della sua elezione emanò un breve (5 ag. 1769, confermato il 7 marzo 1772) che sottraeva la comunità ebraica romana alla giurisdizione della Inquisizione, risalente al 1581, e trasferiva al vicariato di Roma la soluzione di ogni controversia non commerciale. Venne anche ampliato, nello Stato, l'elenco delle arti e del mestieri permessi agli ebrei: una breve parentesi, presto liquidata dall'editto gravemente restrittivo di Pio VI "sopra gli ebrei" (5 apr. 1775) e da altre disposizioni contro i libri talmudici (ottobre 1775).
Rimasto sconosciuto per più di un secolo, il rapporto del Ganganelli ha una sua storia postuma di notevole interesse. Pubblicato nel 1888 da Abraham Berliner in traduzione tedesca dal testo italiano esistente negli Archivi della comunità israelitica di Roma, il testo italiano apparve, a c. di J. Loeb, in Revue desEtudes juives, XVIII (1889), pp. 179-212; e fu ripubblicato da Moritz Stern sulla base di un'altra copia (dagli archivi della comunità ebraica di Mantova) nella raccolta Diepäpstlichen Bullen über die Blutbeschuldigung, Berlin 1893. Dalle pubblicazioni accademiche il rapporto divenne improvvisamente di attualità tra il 1911-13, nella Russia zarista, intorno al famoso "caso Beilis", il processo per l'accusa di omicidio rituale intentato a Kiev contro l'ebreo Mendel Beilis, al centro di un appassionato dibattito dell'opinione pubblica europea. Prodotto il testo del Ganganelli durante il processo, e sollevati dubbi sulla sua autenticità, fu lord Rothschild, leader del movimento pro Bellis, a sollecitare un intervento ufficiale della S. Sede. Il segretario di Stato Merry del Val, il 3 ott. 1913, confermò l'autenticità del rapporto del Ganganelli dopo ricerche effettuate nell'Archivio del S. Uffizio, dove era conservato l'originale. Negli anni che precedettero il secondo conflitto mondiale, e nel clima delle persecuzioni antisemitiche da parte del nazismo ormai al potere, il testo del Ganganelli venne ripubblicato con ampio commento (1935) dal noto studioso e storico di origine ebraica, Cecil Roth.
Creato cardinale del titolo di S. Lorenzo in Panisperna (che mutò poi con quello dei SS. Apostoli) il 24 sett. 1759, da Clemente XIII, il Ganganelli non appare nettamente caratterizzato sul piano della politica curiale e del maggiore problema del momento, quello gesuitico. Un suo supposto "gesuitismo" sembrò esplodere, nell'ambito del S. Uffizio, in occasione della condanna (con breve del 14 giugno 1761) della Exposition de la doctrine chrétienne, il catechismo giansenista di F.-Ph. Mésenguy, di cui era apparsa anche una traduzione italiana a Napoli sotto il patrocinio del governo borbonico. Il Ganganelli, che in una lettera al Tanucci l'agente napoletano a Roma, G. Centomani, bolla come "misterioso e politico", si pronunziò allora, con la esigua maggioranza "rezzonica", per la condanna; anzi si dovrebbero in parte al suo consiglio la ristampa e la diffusione del catechismo romano che il pontefice raccomandò con enciclica datata lo stesso giorno.
Ascritto a varie Congregazioni - Indice, Propaganda, Correzione dei libri orientali, Riti -, soprattutto in quest'ultima si adoperò per le cause del beato Odorico da Pordenone (di cui aveva già curato gli Acta postulationis apparsi a Roma nel 1754), della beata Angela da Foligno della quale compose le lezioni proprie del Secondo Notturno (cfr. D. M. Faloci-Pulignani, La beata Angela da Foligno. Mem. e docc., Gubbio 1929, pp. 79 ss.), del ven. Antonio Lucci, suo antico maestro, e del ven. Angelo Antonio Sandreani (materiale da studiare in Arch. Segr. Vaticano, Congreg. dei Riti,Indice dei Processi,sub nominibus). La causa per la beatificazione del ven. J. Palafax y Mendoza, il cui risultato positivo stava particolarmente a cuore alla corte spagnola, e di cui il Ganganelli fu nominato "ponente" nel 1768; la sua amicizia personale con l'ambasciatore spagnolo a Roma, E. Roda, e le trattative, che rappresentarono vere e proprie pressioni politico-diplomatiche, con forte connotazione antigesuitica, intorno a questo episodio (cfr. lettera del Ganganelli a Carlo III di Spagna, Roma, 16 sett. 1767, in El espiritu..., I, p. 269), fanno maturare indubbiamente in lui un certo distacco dalle maggiori direttrici politiche degli ultimi anni del papato Rezzonico. Distacco che, già marcato nel 1764, l'anno della carestia, dalla opposizione del Ganganelli alla politica del segretario di Stato L. M. Torrigiani e al progetto di prelievo di denaro dal Tesoro di Sisto V in Castel Sant'Angelo, culminò, nel 1768, nell'aperto dissenso nei confronti del monitorio papale contro il duca di Parma e nelle successive intese che il Ganganelli mantenne con il "partito" borbonico, tanto con l'ambasciatore francese a Roma quanto con il ministro Du Tillot (cfr. Pastor, XVI, 2, p. 72 n. 7), sì da essere escluso dalle congregazioni cardinalizie deputate per l'"affare".
Con questo alone sia pur recente di chi non si identificava con la fase conclusiva dell'età di Clemente XIII e si mostrava disponibile verso le corti borboniche, il Ganganelli entrava in conclave il 15 febbr. 1769, all'indomani della morte del pontefice.
Caduti gli schieramenti tradizionali per lo stretto rapporto che ormai intercorreva tra la Francia e la Spagna borboniche - che fu il carattere peculiare di questo conclave -, il Collegio cardinalizio si frantumava in gruppi facenti capo a singoli cardinali più influenti: il Torrigiani, cui si aggregava il "partito" rezzonico, Giovan Francesco Albani, leader di un altro gruppo curiale che cercava il suo spazio tra il partito rezzonico e quello delle corone, infine il partito delle corone, non del tutto compatto, guidato dal Bernis per la Francia, Orsini per Napoli e successivamente dai cardinali spagnoli de Solis e La Cerda. In sostanza, la linea discriminante fu rappresentata dalla volontà delle corti borboniche coalizzate di ribaltare la politica di Clemente XIII - l'"affare" di Parma aveva intanto portato alla occupazione di Avignone e del Contado Venassino da parte della Francia, e di Benevento da parte di Napoli - e di avviare a definitiva soluzione il problema gesuitico. La stessa visita che in conclave fece l'imperatore Giuseppe II col fratello Pietro Leopoldo di Toscana in quei giorni a Roma (16 marzo), pur non rappresentando una pressione diretta sul Collegio cardinalizio, alluse chiaramente ad un diverso tipo di rapporti da instaurare tra la Chiesa romana e gli Stati europei, e non ebbe affatto quel carattere improvviso e occasionale che si cercò poi di attribuirle.
La complessità e l'incertezza della situazione politico-religiosa, il relativo equilibrio di forze tra i gruppi e la mancanza di un orientamento preciso nella maggioranza del cardinali spiegano la durata del conclave che, se fu più breve di quello che vide eletto Benedetto XIV, lo superò per numero di scrutini (centottantacinque rispetto a centoquattro). In effetti, profilatesi varie candidature (Fantuzzi, Stoppani, Delle Lanze, Colonna), la candidatura Ganganelli incominciò a delinearsi, con alterno gioco di voti, il 19-20 marzo, anche se un'anonima informazione parla di "eccellente accortezza" del Ganganelli già dal 20 febbraio (Pastor, p. 76 n. 134). La situazione di stallo incominciò a spostarsi tra il 6-10 maggio per la presenza di Pozzobonelli e dei cardinali de Solis e La Cerda giunti in ritardo in conclave. Tramontata la candidatura Pozzobonelli, che giunse alle soglie della elezione, per l'irrigidimento dei cardinali spagnoli, il successo del Ganganelli si dovette alla decisione con cui il de Solis e il La Cerda puntarono sul suo nome, convincendo il Bernis, il gruppo Albani e l'esitante gruppo rezzonico. Proposto non dai cardinali delle corone, ma dagli altri gruppi, il Ganganelli riuscì eletto alla unanimità il 19 maggio 1769, assumendo il nome di Clemente a ricordo del predecessore cui doveva la porpora.
È certo che più che alla politica del Bernis, che pure contribuì largamente alla elezione con la sua tattica temporeggiatrice e di logoramento, l'elezione di C. XIV si dovette soprattutto alla forte pressione deil porporati spagnoli. Gravò su di essa, variamente discussa poi in sede storiografica, il polemico sospetto di patteggiamenti del Ganganelli con i suoi elettori per la soppressione dei gesuiti. Più che la tesi del Pastor, che parla di promesse e dichiarazioni verbali da parte del Ganganelli o di tentativi che pure vennero fatti dalle corone (Spagna) durante il conclave, caduti per l'opposizione del cardinale Orsini è da tenere in considerazione la coeva testimonianza del cardinale Pirelli (cfr. L. Berra, Il diario del conclave..., p. 318) circa la sicurezza dei cardinali spagnoli riguardo alla posizione del Ganganelli sul problema gesuitico.
Consacrato vescovo il 28 maggio, fu incoronato pontefice il 4 giugno successivo. Il mutamento rispetto al pontificato Rezzonico fu immediato e sensibile, sebbene C. XIV fosse candidato di compromesso e non di punta di uno schieramento. Eletto sulla base di pressioni diplomatiche e politiche, e non in seguito a unmutamento di idee e di indirizzi della Curia; unico membro del S. Collegio proveniente da una famiglia religiosa in un momento in cui andava accentuandosi da parte degli Stati italiani ed europei la lotta agli Ordini regolari, e primo pontefice di estrazione "borghese" dopo una lunghissima serie di papi provenienti dallegrandi famiglie aristocratiche italiane, l'impressione forse esagerata che se ne ricavò fu quella di un uomo "accortissimo" e della eccezionalità della sua ascesa al soglio pontificio, come di un nuovo corso nella politica romana e di nuovi rapporti con il potere politico. In realtà, C. XIV, privo di esperienza pastorale e diplomatica e di legami precisi con il S. Collegio, timoroso di influenze esterne, inevitabilmente fu indotto a trattare personalmente gli affari (cfr. El espiritu..., I, p. 305), riducendo il peso del segretario di Stato L. O. Pallavicini, già nunzio aMadrid, o delle tradizionali Congregazioni cardinalizie, e preferendo servirsi di uomini di sua diretta fiducia, in genere prelati o curiali di rilievo minore, come il Macedonio, segretario dei Memoriali e dei Riti, M. Marefoschi, che divenne poi cardinale, I. Buontempi, suo confessore e segretario privato. Neppure più tardi, cresciuto l'isolamento di C. XIV nei confronti del S. Collegio, della Curia e della nobiltà romana, cui gran parte dei cardinali di Curia apparteneva, C. XIV si creò tra i porporati - fossero difficoltà interne o più generali ostacoli politici esterni - un "partito" ganganelliano che potesse appoggiarlo nel problema gesuitico o condizionare la scelta del successore. I cardinali da lui creati furono complessivamente solo diciassette: altri undici, riservati in pectore nell'ultima promozione del 1773, non venneromai pubblicati, nonostante le insistenze su C. XIV in punto di morte. Senza che C. XIV ne fosse programmaticamente consapevole, si accentuarono perciò da un lato quel verticismo papale e dall'altro quella svalutazione del Collegio cardinalizio, già evidenti dai tempi di Benedetto XIV, e che vengono criticamenterilevati nel diario del cardinale Pirelli, insieme con quel senso di "silenzio" e di "segretezza" che circondò sempre ogni decisione pontificia, motivo di curiosità o di irritazione da parte di politici e di diplomatici e persino di ambigua celebrazione da parte della contemporanea poesia arcadica (cfr. L'Oracolo Giuoco Olimpicocelebrato dagli Arcadi..., Roma 1774).
Della sincera volontà papale di pacificazione sono testimonianza non solo il motto della medaglia coniata in occasione della incoronazione ("Fiat pax in virtute tua"), ma i primi gesti distensivi verso Parma, con la concessione della dispensa di grado proibito per le nozze di Ferdinando I con Maria Amalia d'Asburgo, senza sollevare la questione del monitorio, e verso Venezia, col ritorno in diocesi del vescovo di Brescia cardinale Molino, ostile alla politica giurisdizionalistica della Repubblica, senza toccare il problema dei conventi e monasteri soppressi. Seguirono il silenzio di C. XIV riguardo all'abolizione del diritto di asilo in Toscana, nello scorcio del 1769, e la estensione, ai primi del 1770, del concordato con la Francia del 1516 alla Corsica, di recente occupata, e ai cosiddetti "paesi di conquista", nella speranza che ciò consentisse un migliore avvio di trattative per la restituzione di Avignone alla S. Sede. Molto chiara sin da ora si profila in C. XIV l'idea di discutere i problemi più difficili direttamente con i sovrani (cfr. El espiritu..., I, p. 314, sotto la data 3 ag. 1769) sino a vagheggiare un viaggio che rapidamente "agiustarebbe ogni cosa" (ibid., II, p. 84, 26 luglio 1770), dove è da scorgere in germe quella che sarà la più famosa iniziativa di Pio VI.
Se già nell'editto per il giubileo della elezione non fu nominata l'avversatissima bolla In Coena Domini - che non sarà più pubblicata e letta a partire dal giovedì santo 1770 - per estendere il giubileo a tutto il mondo cattolico, secondo la tradizione, non venne emanata una bolla sull'esempio di quanto si era fatto sotto i precedenti pontificati, ma il testo fu inviato come enciclica (12 dic. 1769) ai vescovi insieme alla enciclica Cum summi apostolatus (dello stesso giorno), che traccia le linee maestre del nuovo governo della Chiesa.
In un momento di contrasti e di possibili ritorsioni nei confronti della S. Sede era, questo della enciclica, e non della bolla solenne, un modo per evitare lo scoglio dell'exequatur nei diversi Stati italiani ed europei, lasciando ai singoli vescovi la possibilità di risolvere, caso per caso, eventuali difficoltà con i rispettivi governi (cfr. El espiritu..., I, pp. 377 s., 21 dic. 1769). Quello che potrebbe sembrare, a prima vista, un gesto profondamente innovatore si lega perciò a condizioni storiche specifiche e alle particolari difficoltà del momento, anche se la Cum summiapostolatus contiene elementi non trascurabili di orientamento generale, di governo pastorale e di riflessione sui rapporti tra il potere ecclesiastico e quello politico. Vi è, ad esempio, in senso antifebroniano un caldo appello ai vescovi perché sia tutelato il legame del corpo mistico della Chiesa nella sua unità col vicario di Cristo, suo capo visibile, e perché sia mantenuto integro il deposito della fede, soprattutto tra le difficoltà del momento, attraverso una rinnovata preoccupazione per la cura delle anime, insidiate dalla corrosiva diffusione delle idee illuministiche, e attraverso l'accordo tra la Chiesa e i sovrani. Nei confronti del quali C. XIV richiama con vigore le caratteristiche tradizionali di ministri di Dio e di figli e protettori della Chiesa stessa, esortando i sudditi alla obbedienza e i vescovi a farsi strumento di una nuova coesione tra trono ed altare, improntato il primo a ideali di equità, di pace e di giustizia, e il secondo agli esempi di carità, di mansuetudine e di umiltà del fondatore.
Parole di lealismo dinastico e di adesione al quadro politico-religioso dell'antico regime che cadevano nel pieno della politica giurisdizionalistica europea, dalla Napoli borbonica a Venezia, alla Toscana leopoldina, alla Francia gallicana, alla inquieta Polonia, alla vigilia della sua prima spartizione, mentre pareva aprirsi un momento di "attesa" per l'affare di Parma, e qualche segno positivo sembrava giungere dalla Spagna, dove Carlo III aveva derogato il 9 giugno 1769 alle dure prammatiche del 1762 e 1768 limitative della circolazione di bolle e rescritti papali e delle prerogative della nunziatura. Di fronte a questa complessa situazione, acuita dagli ultimi gesti di Clemente XIII, C. XIV, anche per una serie di elementi che lo favorirono, fu indotto a muoversi d'anticipo verso quello che poteva essere considerato, sul piano europeo, l'anello più debole, il Portogallo.
La ripresa del rapporti col Portogallo conclusasi con la nomina del nunzio (26 nov. 1769) nella persona di mons. I. Conti, frutto di un accordo diretto tra C. XIV, la corte di Lisbona e l'onnipotente ministro Carvalho, futuro marchese di Pombal, suonò come una novità cospicua nell'intreccio dei problemi politico-religiosi del momento. Tanto più che le relazioni tra Roma e il Portogallo erano interrotte da circa un decennio, dopo la cacciata dei gesuiti e la conseguente espulsione del rappresentante pontificio (1759-60), e la Chiesa portoghese si era intanto sempre più strutturata su basi episcopaliste-regaliste per effetto delle iniziative del governo e degli apporti teorici di J. Pereira Ramos e A. Pereira de Figueiredo. Più che la presenza a Roma dell'inviato speciale portoghese Almeida (che era in Italia già dallo scorcio del pontificato Rezzonico), furono i rapporti epistolari tra C. XIV e Giuseppe I e alcuni segnali antigesuitici del pontefice (o interpretati come tali) a superare la frattura mediante una serie di intese che trovarono il loro coronamento, come si è detto, nella nomina del nunzio e nella concessione del cappello cardinalizio a Paolo Carvalho, fratello del ministro, morto però di lì a poco. Riconosciuti i vescovi nominati durante la lunga "rottura"; riaperti la nunziatura e il suo tribunale, ma senza pregiudizio alla vigente legislazione del regno; sanata, per il passato, la questione delle dispense matrimoniali che tornarono alla nunziatura; approvate nuove circoscrizioni diocesane, rimasero però quasi intatte dure forme di controllo e di intervento dello Stato nei confronti della S. Sede e della Chiesa "nazionale": condizioni accolte da C. XIV, che, anche per motivi di prestigio personale e di pressione politica sulle trattative in corso con la Spagna, la Francia e lo stesso Portogallo riguardo al problema gesuitico, diede ampio risalto in concistoro e in manifestazioni religiose pubbliche ai primi positivi risultati raggiunti e alla ritrovata concordia con la monarchia lusitana.
Lo scoglio più serio era certamente il problema gesuitico, per il quale C. XIV avvertì subito l'esigenza di un consenso più ampio da parte dell'opinione pubblica europea (Impero, Prussia, Polonia, Sardegna, Venezia), se non in senso attivo, almeno neutrale di fronte alle più concitate pressioni borboniche e a una qualsiasi eventuale decisione da parte della S. Sede. Accolti memoriali spagnoli e francesi sulla questione, e scritta una generica lettera personale a Luigi XV (25 sett. 1769), in effetti solo con la lettera del 30 novembre successivo a Carlo III di Spagna C. XIV menziona esplicitamente la preparazione di un motu proprio giustificativo dell'operato del sovrano nei confronti dei gesuiti e ipotizza un piano per la "totale abolizione" della Compagnia, impegnandosi apertamente in questa prospettiva. A nuove pressioni della Spagna, che ha ormai la leadership della iniziativa (lettera di Carlo III a C. XIV, 16 ott. 1770) segue una fase di grande esitazione, evidente nella risposta di C. XIV al re (14 nov. 1770) e nelle indicazioni fornite dal Bernis (febbraio 1771), allorché il motu proprio, elaborato con l'intervento diretto del pontefice, era pronto per essere inviato alle corti borboniche, ma persistevano motivi di profonda perplessità, mancando espliciti accordi in merito con altri paesi europei, e decisioni riguardo ai seminari e alle missioni, nonché restando aperto il problema dell'uso fatto in Spagna dei beni dei gesuiti espulsi. L'incertezza della linea da seguire è confermata dal fatto che tra il marzo e il maggio 1771hanno inizio le "visite" a due delle maggiori istituzioni culturali rette in Roma dai gesuiti, il Collegio irlandese e il Seminario romano, seguite dal divieto alla Compagnia di continuare a tenerne l'amministrazione, e dalla proibizione ai gesuiti spagnoli in particolare di dedicarsi alla cura delle anime attraverso la confessione, la predicazione e la catechesi.
Nello scorcio dell'anno, la prudenza di C. XIV, già lodata dal Bernis, che difende il pontefice dall'accusa di "artificiosa accortezza", viene tradotta dalla mediazione segreta del Buontempi e dalle più disparate voci diplomatiche in un "profondo mistero", mentre si fa strada l'ipotesi, non del tutto errata, di una "riforma" della Compagnia, e non già di una vera e propria soppressione. Ipotesi che matura tra la ripresa del processo Palafox presso la Congregazione dei Riti (luglio 1771) - che potrebbe essere intesa come una manovra diversiva da parte di C. XIV almeno nei confronti della Spagna - e dal rifiuto da parte della Francia e del Portogallo del progetto del motu proprio papale (gennaio 1772). Le quasi contemporanee dimissioni dell'ambasciatore spagnolo a Roma, mons. T. Azpuru, malato e amareggiato per le difficilissime trattative e la mancata attribuzione della porpora, segnano l'acme della crisi tra C. XIV e la corte spagnola. In realtà C. XIV era alla ricerca di un compromesso, come apparve evidente allorché giunse a Roma (marzo 1772) il nuovo rappresentante spagnolo, J. Moñino, già fiscale del Consiglio di Castiglia e uomo di punta del regalismo e dell'antigesuitismo borbonici. Al futuro conte di Floridablanca C. XIV nella seconda e terza udienza (23 e 30 ag. 1772) propose appunto i termini essenziali del compromesso, che prevedeva da un lato un sostanziale decentramento della struttura della Compagnia, col trasferimento ai provinciali dei poteri del padre generale, e dall'altro un suo contenimento, con la proibizione alla Compagnia di accogliere altri novizi nonché il divieto agli attuali membri di essa di confessare e predicare. Respinto il progetto dal Moñino, che presentò in risposta, il 30 agosto, un piano in diciotto punti (cfr. Theiner, III, pp. 81 ss.), non restò a C. XIV, tra le pressioni e le lusinghe dell'energico inviato spagnolo, che affidare al fidato Marefoschi e all'abile curiale mons. Zelada la elaborazione della bolla di soppressione.
In effetti, quali siano state le pressioni su C. XIV per giungere ad una "totale abolizione" della Compagnia, e quali i graduali cedimenti del pontefice in questo senso, per riportare, come si dirà nel breve di soppressione, la pace nella Chiesa, il convincimento più reale di C. XIV dovette essere quello di una "riforma" dei gesuiti, che si inseriva tanto in una più lontana, e più volte ripetuta esigenza politico-ecclesiastica - dallo scorcio del '500 all'età di Benedetto XIV - all'interno della Chiesa cattolica, e nei suoi rapporti con gli Stati europei, quanto in unprogetto di più generale "riforma" degli istituti regolari, problema al quale C. XIV, proveniente da una delle più numerose famiglie religiose del tempo, non si era mostrato affatto indifferente. Già sull'onda delle "riforme" in Francia, promosse dalla Commissione per i regolari e dalla ordinanza reale del 1768, C. XIV autonomamente aveva unito con un breve (9 ag. 1771) approntato personalmente le otto province osservanti (duecentottantasette conventi e duemila religiosi) alle tre province conventuali. Confermò poi modifiche alle regole dei carmelitani (30 maggio 1772), degli agostiniani (4 luglio 1772) e dei francescani riformati (1773) e consentì la riorganizzazione delle province cappuccine in Germania e in Belgio e dei minori conventuali in Spagna e in Baviera. Iniziative e modifiche strutturali che sarebbero da studiare nel quadro degli sconvolgimenti che la organizzazione regolare andava subendo in quegli anni, e delle relative "resistenze" da parte della Chiesa cattolica, e come preludio ad un piano più organico di "riforma" della professione dei voti religiosi (1773). Progetto, questo, col quale C. XIV intendeva rispondere in senso complessivo alle continue richieste di riduzione allo stato secolare avanzate nell'ambito dei diversi Ordini, richieste alle quali sembra che C. XIV, consapevole del momento di crisi che la Chiesa sotto questo profilo attraversava, abbia risposto flessibilmente e realisticamente con relativa larghezza. Un piano abbozzato dallo Zelada, con l'intervento dell'ormai onnipresente Moñino - e quindi tra la metà del 1772 e la primavera-estate 1773 - prevedeva in sostanza sia per gli Ordini maschili sia per quelli femminili l'eliminazione del carattere solenne dei voti e la loro trasformazione in voti semplici, venendosi così generalmente ad applicare a tutte le famiglie religiose una disposizione che, guarda caso, era particolare della Compagnia di Gesù. Fu appunto questa apparenza di "gesuitismo", una volta soppressa la Compagnia, a rendere esitante lo Zelada, mentre C. XIV rimaneva favorevole alla proposta, e a far tramontare il progetto che naufragò completamente di lì a poco con la morte del pontefice.
Contraddizioni e difficoltà a parte, cadevano nel frattempo quei margini ai quali C. XIV si era affidato per dilazionare la sua decisione: in una famosa lettera all'Alembert, dell'8 dic. 1772 (in realtà 4 dicembre), che ebbe ovviamente, ripercussione europea, Federico II lasciava chiaramente intendere che la Prussia non avrebbe frapposto ostacoli alla soppressione della Compagnia; presa di posizione seguita di lì a poco (aprile 1773), grazie alle pressioni spagnole su Maria Teresa, da un'analoga dichiarazione di non ingerenza da parte austriaca. Tuttavia, neppure a questo punto l'atteggiamento di C. XIV segue un andamento univoco, se nel febbraio 1773 autorizzò il cardinale V. Malvezzi, arcivescovo di Bologna, a compiere una visita apostolica dei gesuiti bolognesi - che ebbe luogo in effetti tra il marzo e il giugno - conclusasi con una serie di interdizioni, e consentì che misure analoghe fossero prese a Ferrara e a Ravenna, e sequestri di beni gesuitici avvenissero a Urbino e Pesaro. Non è chiaro se simili iniziative intendessero essere un diversivo o non piuttosto un modo per saggiare eventuali reazioni: vero è che il Moñino ne ottenne presto la sospensione.
Intanto l'abbozzo della bolla, inviato nel febbraio a Madrid per un'approvazione di massima, aveva subito una ulteriore elaborazione: la bolla con la data 18 maggio 1773 veniva trasformata, il 7 giugno, in breve - evidentemente per consentirne una più facile accettazione da parte dei diversi Stati italiani ed europei - e il breve, dalla cui ultima elaborazione non sono esclusi interventi personali di C. XIV, mentre le disposizioni esecutive ricalcano il piano del Moñino, venne notificato ai gesuiti e diffuso a partire dal 17 agosto, pur portando la data del 21 luglio.
Di là dalle ripercussioni che il breve Dominus ac Redemptor ebbe e delle difficoltà o addirittura impossibilità di applicazione che incontrò, particolarmente in Prussia e in Russia largamente analizzate dalla storiografia il documento è non solo il punto di coagulo di una crisi vastissima nei rapporti tra la Chiesa cattolica e il potere politico nel '700 e di una tensione politico-religiosa e culturale-dottrinale, che percorre variamente la storia del cattolicesimo moderno dal Tridentino alla Rivoluzione, ma rappresenta anche il discrimine tra due momenti storici essenziali. Forse in sede storiografica si è dato sinora importanza prevalente alla pubblicistica filo- o antigesuitica, alle polemiche giornalistiche e pamphletistiche e al dibattito politico-diplomatico, pur significativo, finendo col lasciare in ombra le pieghe più riposte e sotterranee di un movimento che investiva ormai non solo larghissimi settori dell'opinione pubblica, ma la mentalità collettiva. Col problema "gesuitico", diversamente dal più elitario problema "giansenistico" sei-settecentesco, erano investiti appunto un costume e un intero modo d'essere della coscienza politico-religiosa europea del 1700. Lo mostrano controluce le preoccupazioni di C. XIV per la predicazione, la confessione e la catechesi gesuitica, e le stesse ricerche di un più generale consenso che, nel suo isolamento e nella sua "segretezza", il pontefice pure confusamente avvertì. Ma dal suo limitato osservatorio curiale, chiuso - anche per forza di cose - in una visione sostanzialmente politico-diplomatica della questione, assai poco C. XIV poté condizionare quelle forze nuove che si andavano sprigionando dal tessuto della Chiesa e della società settecentesca, inalveando ormai intorno ad una "pietra di paragone" le più vivaci opzioni, almeno da un cinquantennio, entro e fuori la Chiesa cattolica, tra razionalismo, giansenismo e illuminismo. Quel che il cattolicesimo settecentesco andò allora perdendo nelle sue articolazioni e diversificazioni, rielaborava e trasformava in omogeneità conformistica e in emotività popolare, preludendo agli anni rivoluzionari e alle cariche forme romantiche del cattolicesimo della Restaurazione.
Il controllo su varie forme di "protesta", come il divieto di cura d'anime ai gesuiti dello Stato pontificio (1º sett. 1773), 0 gli interventi per togliere alla Compagnia margini di autonomia e di direzione, come l'imprigionamento del padre generale L. Ricci e di altri autorevoli superiori e membri dell'Ordine in Castel Sant'Angelo, non impedirono che subito dilagasse la "leggenda" ostile alla figura del pontefice, alimentata da profezie e da apocrifi, come più tardi, e più debolmente, dopo la morte di C. XIV, si tentò d'altra parte di svilupparne un culto attraverso suoi presunti miracoli. Presto si accentuarono le profezie sulla prossima morte di C. XIV, prima della celebrazione del giubileo del 1775 - profezie che avevano preso a circolare dal 1771, all'indomani delle "visite" al Seminario romano e dei primi provvedimenti restrittivi contro i gesuiti, e che facevano capo ad una stigmatizzata di Valentano, nel Viterbese, la domenicana Maria Teresa del Cuore di Gesù (al secolo Anna Teresa Poli) e ad una contadina del luogo, Bernardina Bensi, coinvolgendo piccoli gruppi di ecclesiastici, tra cui ex gesuiti, e di laici tra Valentano, Orvieto, Montefiascone e Palestrina, nuclei presto dispersi da processi celebrati durante il pontificato dello stesso C. XIV e poi di Pio VI. Profezie che, dopo la morte di C. XIV, avvenuta in effetti prima del giubileo del 1775, muteranno ovviamente di segno, per condensarsi nella leggenda "nera" del pontefice simoniaco (cfr. dell'abate J.-F. Georgel, Mémoires, I, p. 123), morto disperato per il rimorso di quanto aveva compiuto, leggenda che avrà lunga vita, tanto da essere ricordata ancora da Chateaubriand nei suoi Mémoires d'outre-tombe a proposito dei "rimorsi" di Pio VII dopo il concordato di Fontainebleau con Napoleone, e che si accompagnerà alla leggenda, più blanda, ma sempre filogesuitica, di un nuovo breve, del 29 giugno 1774, col quale C. XIV, alla vigilia della morte, avrebbe revocato il primo, ricostituendo la soppressa Compagnia: apocrifo che troverà posto in opere filogesuitiche del tardo '700 che contrassegnano la "diaspora" della Compagnia e l'attesa della "rinascita", come quella di P. Ph. Wolf, Allgemeine Geschichte der Jesuiten von dem Ursprunge ihres Ordens bis auf gegenwärtige Zeiten, Lissabon 1792, III, pp. 296 ss.
Uno sfondo cupo caratterizza dunque lo scorcio del pontificato di C. XIV, aggravato nelle sue preoccupazioni religiose, oltre tutto, dai problemi posti sullo scacchiere dell'Europa orientale dalla prima spartizione della Polonia. Non tale tuttavia da fargli perdere di vista possibili risultati positivi, sul piano politico-diplomatico, dopo la soluzione del problema gesuitico, come diretta conseguenza dei buoni rapporti che ora si erano instaurati con le potenze borboniche. Già il 14 genn. 1774 C. XIV poteva annunziare in concistoro la prossima restituzione dei territori pontifici occupati durante la "crisi" di Parma, il che avvenne per Benevento il 23 marzo e per Avignone e il Contado Venassino il 25 aprile.
Se i rapporti con le potenze borboniche furono condizionati dalproblema gesuitico, e se C. XIV poté assistere solo all'inizio di un "anticlimax" (Venturi), cioè all'indebolimento temporaneo del fronte riformatore, furono proprio le difficoltà legate ad un rapporto che la Chiesa aveva ritenuto per secoli preferenziale con talune potenze europee (Spagna, Portogallo e Francia) a indurre C. XIV, seguendo in questo l'esempio di Benedetto XIV, a talune aperture con la Prussia di Federico II, culminate nel completamento e nella consacrazione della chiesa cattolica di S. Edvige a Berlino (1773), o a contatti con le piccole corti protestanti tedesche attraverso le quali C. XIV intese cautamente bilanciare, dopo gli accordi di Coblenza del 1769, la politica febroniana ed episcopalista, in clima di Aufklärung, dei grandi principi elettori ecclesiastici, primo fra tutti quello di Magonza. Ma una maggiore novità è riscontrabile nell'atteggiamento di C. XIV verso il mondo inglese, che travalica ampiamente quel "disgelo" che su un piano di interesse e simpatia per la figura del pontefice si era già delineato al tempo di Benedetto XIV. Le grandi accoglienze tributate da C. XIV ai maggiori esponenti della corte e della politica hannoveriana, al duca di Gloucester, fratello di Giorgio III, giunto a Roma nel marzo 1772, al duca di Cumberland (nella quaresima del 1774) e alla duchessa di Kensington, segnano, se non il totale abbandono, certo la fortissima attenuazione della linea sino ad allora seguita dalla S. Sede con la protezione morale e materiale accordata agli esuli Stuart (uno dei quali, il cardinale di York, era tuttora mero influente del S. Collegio), cui per altro rimase fedele - altro segno dell'isolamento di C. XIV - gran parte della nobiltà romana.
L'atteggiamento papale dovette spianare la strada ad un viaggio a Londra (luglio 1772) del nunzio a Colonia G. B. Caprara Montecuccoli al quale si dovrebbe togliere, come sembra, quel carattere che gli è stato attribuito di "missione" per un esame diretto delle condizioni dei cattolici inglesi, per ridurlo ad una più generica, ma non insignificante esperienza da parte del Caprara, a metà tra curiosità e cultura di diplomatico settecentesco. Viaggio che però destò sorpresa e reazioni non tutte positive a livello di opinione pubblica europea, per i suoi eventuali risvolti politici, tanto che le indiscrezioni e le illazioni di gazzette e di violenti pamphlets antipapali decretarono rapidamente la fine del tentativo - se mai vi fu - che avrebbe mirato in sostanza a ottenere un migliore status e maggiori garanzie per i cattolici in Inghilterra.
Ricerca di nuovi spazi di azione, sia pure in modo discontinuo, questa di C. XIV, determinata più da una situazione di fatto e dai condizionamenti negativi della politica giurisdizionalistica e regalistica dei paesi tradizionalmente cattolici in Italia e in Europa, dal "nuovo corso" che andava profilandosi nella politica asburgica e dagli orientamenti che emergevano nei territori tedeschi che da un progetto complessivo, più aperto, di politica ecclesiastica. Anche se C. XIV non mancò di una sincera, e più benevola e tollerante attenzione verso il mondo protestante - come lo era verso quello ebraico - sia pure espressa nei termini tradizionali di un ritorno degli erranti nel grembo della Chiesa cattolica.
Tale atteggiamento di relativa disponibilità C. XIV mostrò non solo nei confronti del mondo non cattolico o non cristiano, alimentando così il mito illuministico del papa "filosofo", di cui si dirà più avanti, ma anche all'interno del cattolicesimo, nei confronti delle contemporanee correnti rigoriste e filogianseniste. Queste ebbero modo di consolidarsi, di collegarsi e di uscire allo scoperto nella stessa Roma, se non altro godendo, negli anni del papato clementino, di una notevole tranquillità e dell'atteggiamento personale di neutralità da parte del pontefice.
In effetti, C. XIV non prese mai apertamente posizione sui vecchi e nuovi problemi sollevati dal giansenismo, impegnato dalla più vasta questione gesuitica, alieno come fu da orientamenti teologici spiccati e definiti - il lontano episodio del Mésenguy sembra restare davvero un episodio - e forse non ostile a garantire, sulla linea di Benedetto XIV, per quanto possibile una sorta di convivenza e di pluralismo intracattolico nel confronto con i "lumi". Che egli da pontefice abbia continuato a tenere la "ponenza" del processo per la beatificazione del ven. Palafox è da interpretare piuttosto nel suo significato strumentale, come un possibile elemento di pressione sulla corte spagnola riguardo al problema gesuitico. Analogamente, il riserbo mantenuto da C. XIV verso la "nuova" devozione al Cuore di Gesù, terreno di scontro tra gesuiti da un lato e giansenisti e rigoristi dall'altro, non è da rapportare a una presa di posizione implicitamente ostile ai primi e favorevole ai secondi quanto ad un tenue, ma sincero rigorismo devozionale presente in lui sin dalla giovinezza. In questo senso è da intendere l'appoggio accordato da C. XIV alla pubblicazione dell'opera del riminese (un conterraneo dunque) Camillo Blasi, De festo Cordis Iesu dissertatiocommonitoria, Romae 1771, cui collaborò l'agostiniano Giorgi, sotto il patrocinio del futuro cardinale Marefoschi, opera che in forma per lo meno ufficiosa ci fa cogliere la misura prudenziale di C. XIV e del suo più diretto entourage sulla questione, dopo le concessioni di Clemente XIII (1765) e prima delle più larghe manifestazioni di culto consentite da Pio VI (1775).
Più lungo discorso merita l'orientamento di C. XIV nei confronti della Chiesa giansenista scismatica di Utrecht. L'invio di un fiduciario della Chiesa utrettina a Roma nella persona di A.-J.-Ch. Clément (novembre 1769) e una lettera che l'arcivescovo di Utrecht farà giungere a C. XIV nel maggio 1770, l'uno e l'altra volti a facilitare una composizione dell'antica frattura, sono alla base di quelle preoccupazioni di possibili cedimenti di C. XIV che contrassegnano la Memoria presentata a C. XIV nel secondo anno del suo regno dal cardinale G. M. Castelli, prefetto di Propaganda Fide (cfr. Arch. Segr. Vaticano, Cardinali 172 B, cc. 122 ss., cit. in Dammig, p. 394), nella quale si insiste sulla necessità di mantenere l'atteggiamento dei precedenti pontefici. Al fallimento di questo primo tentativo presso C. XIV avrebbero contribuito però, oltre alle proccupazioni del Castelli, le perplessità del generale degli agostiniani F.S. Vazquez e soprattutto le informazioni giunte da Propaganda Fide e appoggiate dai cardinali Bernis e La Rochefoucault, secondo le quali la "pace utrettina" avrebbe rinnovato i torbidi sopiti, ma non spenti, del giansenismo francese. Il tentativo di pacificazione verrà ripreso nel 1774, in un clima profondamente mutato dopo la soppressione dei gesuiti, e sarà ben altrimenti preparato. Nel giugno intraprese il viaggio verso Roma un altro autorevole "agente" della Chiesa di Utrecht, il canonico lionese conte G. Dupac de Bellegarde, che raccolse adesioni alla iniziativa da parte di numerose alte personalità ecclesiastiche, ad Anversa, Malines, Liegi, Colonia, Magonza, Fulda, Vienna. Qui il viaggio assunse un aspetto semiufficiale, con la consegna da parte del Bellegarde di un mémoire al nunzio Visconti e con l'avvio di una operazione diplomatica ispano-austriaca che avrebbe consentito al Bellegarde di essere affiancato a Roma da persone influenti e sicure, tra le quali il Moñino, fresco dei successi ottenuti nella questione gesuitica. Contatti a Roma, nell'estate 1774, con vari esponenti del filogiansenismo e della politica romana (Foggini, Carafa di Colubrano, Almada, Herzan) inducono all'attesa, mentre le buone disposizioni del Papa sono avvolte nel "secret impénétrable" che egli intendeva mantenere sul problema, stando ad un colloquio del Bellegarde con l'archiatra pontificio Adinolfi. Le prevenzioni di Propaganda e le esitazioni del cardinale Marefoschi sembrarono superate dalla concessione di una udienza papale al Bellegarde, fissata, grazie anche all'intervento del Bernis, per l'11 settembre, ma la malattia di C. XIV iniziatasi il 7 settembre e la morte che poi sopraggiunse il 22 dello stesso mese di settembre furono fatali a questo secondo ed ultimo tentativo.Il quadro senza dubbio mosso in questa direzione, dove si palesano le incertezze della Chiesa romana nello scorcio del '700, presenta un bilancio fortemente negativoper quanto riguarda la situazione polacca, dopo la prima spartizione del 1772. A poco valse - anche per le obiettive difficoltà della situazione - l'azione politico-diplomatica del nuovo nunzio G. Garampi, che godeva la piena fiducia di Clemente XIV. Tuttavia, grazie ai diretti interventi papali presso Maria Teresa e Giuseppe II, ma anche presso i sovrani di Francia e di Spagna, si ottenne da Giuseppe II l'impegno a tutelare gli interessi cattolici nelle province polacche passate alla Russia e alla Prussia, impegno sancito in linea di principio con la clausola del rispetto dello statu quo ante 1772 nel trattato del 18 sett. 1773. Ma da un lato la Russia prese subito ad incorporare gli uniati nella Chiesa ortodossa e a modificare la gerarchia cattolica latina, incurante delle proteste di C. XIV, varando la istituzione di un unico vescovo cattolico per tutti i territori occupati - tentativi di composizione, avviati nel maggio 1774, furono interrotti dalla morte del pontefice - e dall'altro il governo prussiano si avviò rapidamente con decisione, in armonia con la sua logica statalista, a intervenire nel settore delle immunità e della disciplina ecclesiastiche delle istituzioni cattoliche delle ex province polacche.
Difficoltà che furono cospicue, anzi aumentarono nelle zone più propriamente di missione, soprattutto in Estremo Oriente, dopo la soppressione dei gesuiti. Ma all'organizzazione missionaria, e non solo per questo avvenimento contingente, si fu significativamente attenti, in una sorta di rilancio ecumenico del cattolicesimo, combattuto in Europa, durante il pontificato di Clemente XIV.
Le missioni in India furono affidate ai carmelitani scalzi, mentre per quelle della Cocincina e del Tonchino C. XIV nel 1773 accolse le richieste francesi e spagnole che consentirono in prospettiva legami più stretti tra gli aspetti religiosi e le vicende coloniali europee. Missioni francescane furono organizzate in Messico e nella California meridionale, qui poi sostituite da missioni domenicane. Ma l'attenzione di C. XIV fu particolarmente viva nei rapporti con le confessioni cristiane orientali: durante il suo pontificato riconobbe l'autorità della Sede romana il patriarca dei nestoriani di Persia (1771), seguito l'anno successivo dai tre patriarchi dei siro-orientali, e vennero contemporaneamente risolti alcuni contrasti con i maroniti. La tipografia di Propaganda Fide conobbe in questo periodo, grazie alla presenza di G. C. Amaduzzi, amico personale e conterraneo del pontefice, e alla generosità di C. XIV, un eccezionale sviluppo tecnico-editoriale, mentre quasi emblema di una diversa sensibilità, nel trionfante neoclassicismo piranesiano e mengsiano, si arricchivano a Roma di nuovo materiale "orientale" le collezioni del segretario di Propaganda, S. Borgia.
Da parte sua C. XIV, pur non avendo reale vocazione di mecenate, non trascurò la Biblioteca Vaticana e le raccolte papali. Si devono a lui l'acquisto dei papiri della collezione Vettori posti in locali affrescati da Mengs (1770-74) e l'arricchimento della collezione numismatica pontificia attraverso acquisti e doni, tra i quali uno rilevante da parte di Luigi XV. Notevole impulso ebbe sotto C. XIV la museografia vaticana, dopo che, dietro consiglio dell'abate G. B. Visconti e del figlio Ennio Quirino (1770), C. XIV emanò norme miranti a ridurre l'esodo di opere di arte antica da Roma. Tra il 1771-73, secondo una idea del tesoriere Braschi, sarà creato e organizzato dagli architetti A. Dori e M. Simonetti il Museo Clementino (poi Pio-Clementino, quando alla iniziativa di C. XIV seguirà il più fastoso mecenatismo del successore), col trasferimento di pezzi celebri e con l'avvio della collezione epigrafica: un momento non trascurabile nella storia della cultura romana del tardo 1700, della quale C. XIV in effetti fu più traduttore sollecito che simbolo munifico o interprete convinto.
Allo stato di progetto rimase infatti un "Piano di riforma" della università di Roma che l'Amaduzzi indirizzò a C. XIV nel 1773 (cfr. Arch. Segr. Vat. Instr. Miscell. 6680), mentre per la riorganizzazione dello Studio di Ferrara - segno di una specifica attenzione per la realtà "provinciale" dello Stato - C. XIV aveva emanato un particolare breve il 7 febbr. 1771. Forse più che alle arti figurative, all'antiquaria e alle scienze in senso lato, l'interesse di C. XIV fu rivolto alla musica, della quale, stando a testimonianze contemporanee, fu discreto "dilettante". Lo attestano i suoi rapporti col confratello in religione G. B. Martini, uno dei maggiori musicologi e storici della musica del '700 italiano, e il famoso episodio che caratterizzò il primo viaggio di Mozart in Italia, la trascrizione a memoria del Miserere dell'Allegri ascoltato, nella cappella Sistina durante la settimana santa del 1770. A Mozart C. XIV conferì l'ordine dello Speron d'oro.
Altri erano in realtà i veri interessi di C. XIV tant'è che limitò spese di fasto e di mecenatismo per elargire elemosine ai poveri dell'ospedale di S. Giovanni in Laterano e dell'arcispedale di S. Spirito, per creare nuove manifatture in Roma e per ingrandire Civitavecchia, inserendosi sulle linee di un blando riformismo, di un benevolo assolutismo illuminato che, celebrato oltre misura dai suoi biografi ed elogiatori, fu più ricco di buone intenzioni che di realizzazioni e finì, per il suo respiro limitato e per la sua incapacità di far presa su forze tradizionali o di suscitarne nuove, coll'essere avvertito dai contemporanei come una forma di sottile "tirannide" (cfr. Lettere... di Gaetano Marini, II, pp. 69 s.), privo di quel coinvolgimento della pubblica opinione che arriderà più tardi al riformismo di Pio VI.
Tra le prime importanti preoccupazioni di C. XIV fu quella di tentare di ristabilire la "economia" della Camera apostolica (cfr. El espiritu..., I, p. 302), per passare presto (ibid., pp. 336 s.) alla elaborazione, con l'apporto del tesoriere Braschi, di un piano di riforma generale di tutte le gabelle, che prevedeva la loro abolizione, con la esclusione di una imposta sul sale e sulla farina, la formazione di un catasto generale dei beni fondiari rustici e la creazione di una rete di dogane per tutte le frontiere dello Stato, che sono in nuce i principî informatori sui quali si baserà di lì a poco il riformismo di papa Braschi. Ma C. XIV dovette limitarsi ad abolire il dazio del 5%, e del 10% sulla farina e ad ordinare che una certa quantità di grano fosse sempre depositato nei magazzini pubblici e che incentivi ed aiuti in grano fossero erogati, attraverso il tribunale dell'Annona, ai più poveri lavoratori agricoli della Campagna. Che Claudio Todeschi abbia dedicato a C. XIV i suoi Saggi di agricoltura,manifattura e commercio (1770) è testimonianza di una esigenza che non riuscì a trovare in C. XIV una reale forza propulsiva, esaurendosi il suo impegno - anche per i gravi problemi politico-religiosi che lo assillarono - in interventi occasionali, come quelli diretti alla costruzione, presso Fermo, della borgata di Castel Clementino, al posto dell'antica Servigliano distrutta da un terremoto, e della borgata di San Lorenzo Nuovo, al posto di San Lorenzo Vecchio, sul lago di Bolsena, in una zona spopolata e paludosa, o nei rapporti, spesso non felici, con finanzieri e speculatori, come quel N. Bischi, che sposò una nipote di C. XIV, e che, nominato nel 1769 amministratore generale delle provviste dei grani, fu accusato di malversazioni e travolto dalla reazione seguita alla morte del pontefice. E fu appunto un esponente di questi operatori nel settore del commercio statale, un "mercante di campagna", Carlo Giorgi, e non, come voleva la consuetudine, i cardinali creati da C. XIV, a commissionare al Canova il monumento funebre ai SS. Apostoli (1783-87), dove la salma di C. XIV fu traslata da S. Pietro nel 1802.
Se poco incisivo fu quindi l'intervento di C. XIV nei problemi dello Stato, più caratterizzato e continuo, e in sostanza più avvertito, fu sotto il suo pontificato l'orientamento teso a contrastate la diffusione delle idee illuministiche, e sul piano della politica ecclesiastica, di quelle giurisdizionalistiche e anticuriali.
Già nella ricordata prima enciclica del pontificato Cum summi apostolatus è presente con chiarezza questa visione dello scontro con una cultura e una ideologia diverse, che sarà centrale poi nella prima enciclica di Pio VI del 25 dic. 1775. Su questa linea sono le lettere di apprezzamento indirizzate da C. XIV ai maggiori controversisti cattolici del momento, che erano per altro i plumbei e farraginosi Bergier (5luglio 1769), Gauchat (20dic. 1769) e Valsecchi (6 genn. 1770), e i pressanti inviti rivolti a Luigi XV (21 marzo e 26 sett. 1770), prima e dopo l'Assemblea del clero di Francia, che prese dura posizione contro la stampa "nociva". Atteggiamento confermato, lo stesso 26 settembre, in una lettera al cardinale Ch.-A. de la Roche-Aymon, arcivescovo di Reims, nella quale C. XIV sottolinea, a scanso di equivoci, la decisa linearità dei suoi orientamenti sin dagli inizi del pontificato. E in effetti durante il papato di C. XIV, e quasi contemporaneamente a queste espressioni epistolari, nel 1770, furono poste all'Indice, tra l'altro, tutte le opere del La Mettrie sulla base dell'edizione berlinese del 1764, il Système de la nature dell'Holbach, le Riflessioni di un italiano di C. A. Pilati, opuscoli e scritti voltairiani (1º marzo e 29 nov. 1770), per alcuni dei quali furono invocate misure repressive severe; seguirono il Vero despotismo del Gorani, l'Elogio storico di A. Genovesi del Galanti (1773), nonché la Histoire philosophique di Raynal-Diderot e il postumo De l'homme di Helvétius (1774), cioè i classici maggiori e minori del "lumi" e del movimento riformatore apparsi in quegli anni o in quelli immediatamente precedenti. Un capitolo a parte presenta la lotta contro Febronio e il febronianesimo, particolarmente radicato ormai nelle terre tedesche, che C. XIV condusse attraverso una serie di lettere (all'arcivescovo elettore di Treviri, 14 ott. 1769; all'arcivescovo di Salisburgo, 6 giugno 1770; al decano della facoltà teologica di Colonia, 17 ag. 1771) eattraverso la condanna del secondo volume del De statu Ecclesiae (14maggio 1771, ma senza iscrizione all'Indice) e del terzo (3 marzo 1773).
Contemporaneamente a questa linea di chiusura C. XIV andava sviluppando una posizione più duttile che in parte veniva incontro alle esigenze da tempo maturate nella società europea settecentesca e in parte proponeva risposte religiose e sociali, e nonsolamente di politica ecclesiastica, alla crisi della Chiesa cattolica nei suoi rapporti con gli Stati. Abbiamo così da un lato, per varie diocesi tedesche, la riduzione dei giorni festivi e l'autorizzazione alle attività lavorative nelle giornate delle festività soppresse (cfr. le lettere all'arcivescovo di Magonza e al vescovo di Worms., 7 febbr. 1770; al vescovo di Bamberga e a quello di Würzburg, 20 giugno 1770), nonché analoghe concessioni per le diocesi austriache extra Italiam (al nunzio Visconti, 22 giugno 1771); incontriamo così autorizzazioni a che frutti decorsi di abbazie e pensioni venissero destinati a ospedali, ospizi e opere pie (al re di Sardegna, 28 giugno 1770) o a che, per utilità dei poveri, fosse effettuata l'unione dell'Ordine di S. Rufo con quello di S. Lazzaro (a Luigi XV, 28 ag. 1771) o a che infine le prime soppressioni teresiane di olivetani e geronimiti in Lombardia, secondo accordi del potere politico con i vescovi locali, andassero a vantaggio dei non abbienti (a Maria Teresa, 4marzo e 24 ott. 1772) . Ma d'altra parte abbastanza costante è da parte di C. XIV - contro il richiamo del secolo - l'elogio delle vere virtù cristiane, esemplarmente vissute nella vita monastica (lettera al presidente della Congregazione benedettina bavarese, 11 maggio 1771) ed emblematicamente accettate da Maria Luisa di Francia, figlia di Luigi XV, con la sua professione religiosa fra le carmelitane scalze, al quale avvenimento C. XIV diede una convinta sottolineatura che va ben oltre la occasionale partecipazione. Ed è insieme molto evidente da parte sua l'incremento della pietà mariana, con la concessione di indulgenze alle effigi più venerate della Vergine, come quella del santuario di Maria Plain presso Salisburgo (all'arcivescovo, 10 nov. 1770), con la tutela delle festività dell'Annunciazione e della Concezione, nonostante i ritocchi al calendario delle festività in Austria, e soprattutto con la maggior solennità attribuita alla festa del Rosario in Spagna (al confessore del re, 15 nov. 1770) 0 con l'impulso dato, sempre in Spagna, al culto della Immacolata (a Carlo III, 5 sett. 1771). Elementi che configurano un tournant già nella prospettiva della devozione mariana ottocentesca. Più debole invece l'attenzione ad una devozione cristocentrica (ma si veda tuttavia una lettera a Luigi Eugenio di Württemberg, 11 genn. 1772), poiché nell'assenza di un interesse per la devozione francescana della Via Crucis, che proprio in quegli anni si andava largamente diffondendo in Italia (ma era devozione degli osservanti, non dei conventuali), possiamo riscontrare in C. XIV solo un chiaro impegno per gli ideali e l'opera missionaria dei passionisti, con l'approvazione della Congregazione (16 dic. 1769), l'amicizia personale verso s. Paolo della Croce (lettera del 21 apr. 1770) e l'attenzione al progetto di dar vita ad un ramo femminile della Congregazione stessa.
Logorato da un pontificato non facile, C. XIV, che aveva spesso sofferto di fastidi cutanei e di forme erpetiche mal curate, mostrò un improvviso declino fisico nel marzo 1774. Dimagrimento e debolezza grave precedettero una "infiammazione" (probabilmente una forma tumorale intestinale) che portò C. XIV alla morte, avvenuta a Roma il 22 sett. 1774.
Per taluni fenomeni che accompagnarono la morte di C. XIV (ad esempio la rapida decomposizione del corpo) corseimmediatamente la fama, alimentata per opposte ragioni da gesuiti e antigesuiti, cui credettero anche il Bernis e altri contemporanei, dell'avvelenamento del pontefice, fama che neppure una relazione dei medici curanti P. Adinolfi e N. Saliceti contribuì a fugare del tutto. L'intensa emotività dei giorni della malattia e della scomparsa del pontefice è comunque confermata dall'episodio sostanzialmente filogesuitico e curiale, discusso nel quadro del processo di canonizzazione e poi in sede di ricerca storica, della "bilocazione" di s. Alfonso Maria de' Liguori, che avrebbe in spirito assistito il tormentato pontefice morente al fine di garantirgli un sereno trapasso.
La leggenda "nera" della morte per veleno, o comunque disperata, di C. XIV è ampiamente bilanciata dal mito illuministico del pontefice tollerante e "filosofo" elaborato da Voltaire. In effetti, il mito, per quanto in modo ambiguo, si era andato profilando vivente C. XIV nelle lettere intercorse soprattutto tra Voltaire, Bernis, Federico II e Caterina II (cfr. in particolare Besterman, nn. 14782, 14940, 15007, 15415, 15484, 15575, 15764, 15794, 17493). Sono, questi, tasselli epistolari che si compongono in un pastiche filosofico di Federico II, di intervento nella politica austro-russo-turca nei Balcani, la Lettre de monsieur Nicolini à monsieur Francouloniprocurateur de S. Marc,traduit de l'italien, la quale finge di accompagnare una Lettredu pape Clément XIV au Mufti Osman Mola,traduit du latin (entrambe, Cologne 1771). L'anno successivo appare una non benevola Lettre de mr. l'abbé Pinzo au surnommé Clement XIV,son ancien camarade de Collège (s. l.), la cui paternità (voltairiana) è oggetto di discussione tra Voltaire e Bernis (cfr. Besterman, nn. 16845, 16846, 16851). Immediatamente dopo la morte di C. XIV, un suo conterraneo, il poeta Aurelio de Giorgi Bertola, gli dedicherà Le notti,Canti due, Roma 1775 (Tre Notti…, Napoli 1775), destinate a celebrare, nel sensibile gusto "notturno" del tempo, la "bella pace" clementina, la "soave amistade ai grandi ignota" e la figura del pontefice campione della giustizia e della fede. Nello stesso 1775 apparve ad Amsterdam L'Esprit du pape Clément XIV mis aujour par le R.P.B. ***,confesseur de ce souverain pontife..., par l'abbé C. [Joseph Lanjuinais], trad. tedesca, Londra [ma Norimberga], 1775; trad. italiana, 1777, uno scritto nel quale l'autore, ex benedettino, collega elementi deistico-illuministici a motivi accentuatamente gallicani. Ancora nel 1775 sono pubblicati di J. P. Costard, Le génie dupontife,ou Anecdotes,pensées et traits historiques de Ganganelli,pape Clément XIV, e l'Orazione funebre in morte di C. XIV pronunziata a Friburgo il 15 novembre dell'anno precedente dall'ex gesuita Simone Mattzell, che ebbe traduzioni in quasi tutte le lingue europee, dove si completa il ritratto del saggio, indulgente e pio Ganganelli.
In realtà, dietro gli scritti del Costard e del Mattzell vi era l'opera del maggior biografo ed apologeta di C. XIV, l'ex oratoriano L.-A. Caraccioli, discendente da un ramo, emigrato in Francia, della nobile famiglia napoletana. La sua Vie du pape Clément XIV, che presenta la figura di C. XIV in chiave illuministica, cosmopolitica ed irenica tipica del giansenismo franco-olandese dello scorcio del secolo, apparve a Parigi nel 1775, rist. nel 1776; 4 ed. rivista, Paris 1781, ecc.; in ital., Firenze 1775 (2 ed.), 1776 (3 ed.) arricchita di aggiunte e correzioni; in inglese 1776 e 1778; in tedesco 1775; un compendio, in senso antigesuitico, Leipzig 1847; in spagnolo 1777, per non parlare dei rifacimenti e dei ragguagli che derivano dagli schemi e dalle notizie del Caraccioli. Si vedano ad es. l'Elogio del sommo pontefice C. XIV di A. L. Loschi (2 ed. accresciuta, Firenze 1777), che accentua le tinte illuministiche ed ireniche del modello, e l'anonimo Tableau historiquede Laurent Ganganelli,souverain pontife sous le nom de Clément XIV,par un membre de l'Académie des Arcades de Rome, Rotterdam 1776, che pure mostra in qualche modo di prendere le distanze dal tentativo del Caraccioli (cfr, pp. 17 s.). Al Caraccioli però va riferita soprattutto l'edizione delle Lettres intéressantes du pape Clément XIV,traduites de l'italien et du latin..., Paris 1776, tomi 2; poi ampliata e corretta, Paris-Liège 1776-77, 2 voll., ecc.; in inglese, tre edizioni nello stesso anno 1777, una 5 ediz. 1781; trad. spagnola dal francese (2 ed. Madrid 1778); in italiano, Venezia 1778, 4 voll., retroversione dal francese, mentre un quinto volume molto raro, Venezia 1779, e non più ripubblicato raccoglierebbe lettere italiane e latine dai mss. originali. A testimonianza dell'enorme interesse europeo per la figura di C. XIV apparve più tardi, dopo che dalle Lettres furono tratte anche delle Pensées... sur différents sujets (Paris 1780), sempre a cura del Caraccioli una edizione di Nouvelles lettres (2 parti, Paris 1787). L'edizione Caraccioli fu alla base delle edizioni e ristampe italiane ottocentesche, da parte di R. Zotti, Londra 1815 e Londra [Firenze?] 1829, Milano 1831, sino a quella "illustrata" da C. Frediani, Firenze 1845, e a quella torinese del 1852.
Indipendente da queste edizioni è la pubblicazione più recente di centotrentuno lettere di carattere privato, ma non prive di qualche interesse, indirizzate dal Ganganelli tra il 1743 e il 1769 al cugino Mario Maffei, vescovo di Foligno, che il Faloci Pulignani ricavò dagli originali conservati presso gli eredi Maffei a Macerata Feltria e passati poi in possesso del curatore (cfr. D. M. Faloci Pulignani, Lettere del cardinale Ganganelli min. conv., in Miscell. francescana, XXIX [1929], pp. 7-49). Inedito resta invece un gruppo di lettere autografe al p. G. B. Martini e ad altri confratelli scritte tra il 1738 e il 1767, di interesse privato e con riferimenti alla vita interna dell'Ordine, tuttora conservate nella Biblioteca del Civico Museo bibl. musicale G. B. Martini di Bologna sotto la segnatura I.15.71 ss. (cfr. Padre Martini's Collection of Letters in the Civico Museo Bibliografico Musicale in Bologna,An annotated Index, a cura di A. Schnoebelen, New York 1979, nn. 2124-2174).
L'operazione del Caraccioli è esemplare di un'epoca e del punto cui era giunto il mito, pronto per altro ad essere potentemente rilanciato. Il filone illuministico derivava largamente da Voltaire che aveva pubblicato nel 1775 un Eloge historique de la Raison (nell'edizione di Kehl, Voyage de la Raison), dove la celebrazione "filosofica" del pontefice è definitiva. Non a caso perciò il Caraccioli, nel Discours préliminaire alle Lettres, pone sotto gli auspici di Voltaire le meditazioni e gli insegnamenti di C. XIV, mentre intende al tempo stesso confermare, con una nuova, ampia documentazione, la biografia ganganelliana pubblicata l'anno precedente, ritenuta dai primi interventi critici opera più di panegirista che di storico. L'edizione delle lettere di C. XIV ha fatto sorgere un problema filologico e storico-critico non ancora pacificamente risolto. Sin dalla prima edizione si pensò ad una contraffazione. Dubbioso sull'attendibilità delle lettere si mostra il Fréron (Année littéraire, 1776, n. 8), mentre di un vero e proprio "brigandage littéraire" parlerà l'ex gesuita Grosier di lì a poco successore del Fréron nella direzione del periodico. Seguirono, con pari violenza di linguaggio e non minore impegno critico, gli interventi del domenicano Richard (Préservatif nécessaire, 1776, e Diatribe clémentine, 1777) e dell'anonimo (in realtà l'ex gesuita J.-J. Bonnaud) Le Tartuffe épistolaire démasqué, Liège 1777. Nella polemica intervenne persino Voltaire (maggio 1776), sollecitato dall'articolo di Fréron e dall'indiscreto riferimento del Caraccioli al suo Eloge. L'attenzione che Voltaire aveva già mostrato per il problema degli apocrifi (riguardo al "testamento" del cardinale di Richelieu, ad esempio) si esprime ora nella lettera Sur les prétendues lettres du pape Ganganelli Clément XIV, pubblicata verso la metà del 1776 nel Commentaire historique sur les oeuvres de l'auteur de la Henriade (ma cfr. Besterman, XCIV, Genève 1964, n. 18958). Non solo Caraccioli rispose il successivo 9 settembre a Voltaire confermando l'autenticità delle lettere, da lui copiate in massima parte durante un viaggio in Italia, nel 1758, ma ripropose più in generale le proprie ragioni sotto il "falso" nome del "chevalier de Béthune" (cfr. Lettres à l'éditeur des lettres de Clément XIV,sur la crainte qu'on a que ce Pontife n'en soit pas l'auteur, e Reponse de l'éditeur…, entrambi Paris 1776). Tenterà infine di confutare i più temibili Fréron e Grosier nel Remerciement à l'auteur de l'Année littéraire (1777) e continuerà imperterrito la sua attività di "ganganellologo" dando una diffusa parafrasi francese delle Notti del Bertola (1778). Il colpo finale che avrebbe dovuto spegnere definitivamente ogni critica fu affidato infine dal Caraccioli alla edizione delle Lettere originali del R. P. Maestro Ganganelli (Parigi 1777), che Voltaire giudicò a ragione "sottes lettres et ridicules", trattandosi di una maldestra retroversione dell'edizione francese.
A metà '800 tutto il problema critico è sintetizzato da A. von Reumont in Ganganelli-Papst Clemens XIV. Seine Briefe und seine Zeit,vom Verfasser der Römisch. Briefe, Berlin 1847. Il Reumont, condividendo il giudizio del Ranke sulla sostanziale autenticità delle lettere (cfr. ora L. von Ranke, Storia dei papi, Firenze 1959, p. 1031 n. 54), non manca però di osservare come vi siano veri e propri falsi, totali o parziali, e sospetti di interpolazioni (cfr. in part, p. 40 n. 2). Più netta condanna risuona nella Storia dei papi di L. von Pastor. Recentemente sono tornati sull'argomento L. Dal Pane, R. Schiltz e F. Venturi. Il primo, utilizzando alcune lettere del già ricordato Amaduzzi al noto musicologo bolognese e padre conventuale G. B. Martini, del 1777-785 e un'altra lettera dello stesso Amaduzzi all'erudito parmense Bernardo De Rossi, intende dimostrare come anche dopo la prima edizione delle Lettres si continuasse a raccogliere materiale, tra i corrispondenti italiani del Caraccioli, per arricchire la raccolta ganganelliana. Copia di quattro lettere del Ganganelli giunsero infatti all'Amaduzzi che ne ringraziava il Martini il 15 ag. 1778. Qui aggiungiamo che quasi contemporaneamente, tramite Isidoro Bianchi allora a Parigi, il Caraccioli era in rapporto epistolare, per le stesse ragioni, con il bibliotecario fiorentino A. M. Bandini (cfr. Bianchi a Bandini, Parigi, 30 luglio 1776: Firenze, Bibl. Marucelliana, Carteggio Bandini, B. II. 27, XXXII, c. 225r, e Caraccioli al Bandini, Parigi, 15 sett. 1776, ibid., cc. 244r-245v). Se da queste testimonianze non si può dubitare almeno della serietà di alcune ricerche per la pubblicazione delle lettere del Ganganelli, si ha motivo d'altra parte di ritenere con buoni fondamenti che alle lettere stesse siano stati apportati tagli e soprattutto ritocchi ed aggiunte e talora persino rifacimenti sostanziali, per meglio adattarle agli intenti apologetici e "politici" caldeggiati dal Caraccioli e dal gruppo degli estimatori del Ganganelli che a lui così si collegava, al fine di fornire il ritratto di un papa illuminato e tollerante, impegnato da religioso e da cardinale nella pietà e negli studi e da pontefice pronto a ricostituire la pace nella Chiesa dilaniata e a riconciliare i "philosophes" con la religione. In questo senso, mentre F. Venturi si limita a sottolineare il falso sostanziale operato dal Caraccioli, lo Schiltz più diffusamente ne chiarisce le ragioni, sottolineando, accanto alla insostituibilità delle Lettres quale fonte per la comprensione di un tournant storico, la genesi della celebre contraffazione. Impegnato a dare una vita di Benedetto XIV (che apparve in effetti solo nel 1783), il Caraccioli la sostituì abilmente, nel clamore delle polemiche aperte dalla soppressione della Compagnia di Gesù, con l'operazione su C. XIV, più idonea certo in quel momento a propagandare una politica di collegamento tra i gruppi antigesuiti e filogiansenisti italiani ed europei, da Roma a Firenze a Parigi a Utrecht, che il Caraccioli impersonava, in una ecumene giansenisteggiante e tollerante, dove lo stridore delle polemiche sulla grazia e sul "gesuitismo" finiva appunto col dissolversi nel mito illuministico creato da Voltaire. Un falso ancora più smaccato è la corrispondenza di C. XIV con Carlo Bertinazzi detto Carlino, uno dei migliori "Arlecchini" della Comédie-Italienne di Parigi, compagno in gioventù del Ganganelli nel seminario di Rimini (Clément XIV et Carlo Bertinazzi,Correspondance inédite, Paris 1827; 3 ed. Paris 1828; ancora Bruxelles 1840; trad. tedesca, Stuttgart 1827; ecc.). Facitore del pastiche fu H.-J.-A. Thabaud de Latouche, probabilmente dopo la pubblicazione della corrispondenza di M.me d'Epinay (Paris 1818, II, p. 97, dove figura una lettera di F. Galiani). In effetti, la prima idea di una corrispondenza tra C. XIV e il Bertinazzi era nata tra M.me d'Epinay e Galiani nel corso del 1774 (cfr. Gli ultimi anni della Signora d'Epinay, pp. 80, 88 ss., 91, 95, 122, 255, 257) probabilmente per suggestione della voltairiana Lettre de mr. l'abbé Pinzo, presentato anch'egli come compagno di studi del Ganganelli. Dalle lettere scambiate tra la d'Epinay e il Galiani in questa occasione si può ricostruire la trama di un episodio che nel suo gioco mondano e malizioso resta indubbiamente una pagina interessante della facile popolarità raggiunta da C. XIV negli ambienti illuministici. Il progetto per il quale si pensò a Marmontel e poi a Grimm - ma circolò un piano "délicieux" dello stesso Galiani - tramontò presto per la morte del pontefice, nonostante l'entusiasmo della d'Epinay, che nei panni di Arlecchino giunse persino ad elaborare un abbozzo di finta lettera (cfr. Gli ultimi anni pp. 89 s.) al Galiani (Ganganelli) da servire come prima pietra di un suggestivo romanzo epistolare, riproposto dalla tardiva, ma fortunata operazione del Latouche, con patine romantiche, alla sopravvivenza di un mito.
Confluita intanto nella polemica illuministica, la figura di C. XIV aveva perduto i suoi precisi segni storici per divenire un'ombra, ma simbolo del buon senso e della ragione, tra le ombre di Loyola, Scoto, Berkeley e s. Teresa, nelle anonime (ma dell'abate Bastos) Entrevues du pape Ganganelli (1777), per fornire spunti etici stoicizzanti sul concetto della felicità umana a P. Verri nel Discorso sulla felicità (ed. ampl., Milano 1781) o per trasformarsi in richiamo polemico nelle contese tra giansenisti e curialisti, nell'anonimo Ganganelli e Braschi o sia Dialogo fra C. XIV e PioVI, Tibet-Antica 1784, all'indomani del viaggio di Pio VI a Vienna. Utilizzato con luci simpatetiche dalla storiografia moderata (Botta) e cattolico-liberale (Balbo), nei primi decenni dell'800, nonché recuperata con tinte positive nell'opera storica del Ranke, la figura di C. XIV e la sua opera di pontefice finirono con l'essere investiti, nel 1847 - lo stesso anno in cui il Reumont pubblicava le sue precisazioni - dalla larghissima crisi dell'assetto politico-religioso strutturatosi in Europa con la Restaurazione. Ne sono testimonianza soprattutto le diffuse opere del prolifico giornalista e storico, vandeano e legittimista, J.-A.-M. Crétineau-Joly (1803-75), autore di un'opera in sei volumi sulla Compagnia di Gesù (Paris 1845-46) e di un più specifico Clément XIV et les jésuites (Paris 1847; 2 ed. 1848), da un lato, e dall'altro le pagine (III, 66-161) dedicate al "carattere storico" di C. XIV da Vincenzo Gioberti ne Il gesuita moderno, apparso a Losanna tra il 1846-47. Inevitabilmente, l'immediata replica del Crétineau-joly (Défense de Clément XIV et réponse à l'abbé Gioberti, Paris 1847) tendeva perciò a trasformarsi in una violenta requisitoria contro il programma neoguelfo del Primato e contro tutte le tendenze cattolico-liberali europee, dalle quali C. XIV veniva "déifié toutes les fois que les révolutionnaires s'affublent d'un air de componction pour arriver plus vite à leurs fins" (p. 39). E altrettanto inevitabilmente, in una silloge dove viene ristampata la Vita del Caraccioli insieme ad altri scritti giobertiani (Vita di fra Lorenzo Ganganelli… nuova ed. illustrata da scritti importanti intorno i gesuiti e da una lettera di Vincenzo Gioberti all'editore romano, Roma-Losanna 1847), sotto la penna del Gioberti C. XIV per il breve di soppressione della Compagnia di Gesù, che "contiene in germe l'idea fondamentale del Cristianesimo civile accomodato all'età moderna", diviene "l'autore che fondò il pontificato moderno e civile" che pareva "quasi per miracolo" rinascere col pontificato di Pio IX (pp. 283 e 285).
La polemica politico-religiosa stimolò tuttavia ricerche storiche anch'esse però polemicamente intessute, se di lì a poco, nel 1852, verrà pubblicata sulla linea di una "riabilitazione" di C. XIV la Histoire du pontificat de Clément XIV dell'oratoriano A. Theiner, cui ovviamente rispose il Crétineau-Joly con due successive Lettres (1853). Una revisione storiografica dell'opera del Theiner, alla luce di una concezione di cattolico conservatore, sarà proposta da L. von Pastor nella parte seconda del volume XVI della sua Storia dei papi. Dopo l'opera del Pastor, e le polemiche che seguirono alle soglie degli anni '30 del nostro secolo, non si può dire che la personalità storica di papa C. XIV e il momento storico del Papato da lui impersonato abbiano ricevuto sostanziali approfondimenti né in opere generali né in ricerche specifiche. In effetti, la lunga polemica sulla soppressione della Compagnia di Gesù e sul "gesuitismo", e le interpretazioni politiche e storiografiche otto-novecentesche da questa condizionate, hanno impedito che venisse formulato su C. XIV un più valido e articolato giudizio storico, assorbendo negli avvenimenti la figura stessa del pontefice e togliendole ogni sia pur minima caratterizzazione atta ad individuare concretamente la fisionomia di C. XIV tra una valutazione moralistica e astorica di un irresoluto e timido strumento mosso da forze più grandi di lui e quella astratta, e altrettanto astorica, di un saggio "filosofo" aperto alle nuove esigenze politico-religiose e iniziatore di un nuovo corso nella Chiesa cattolica. Anche le indagini più recenti in occasione del secondo centenario della soppressione della Compagnia di Gesù non hanno fornito indicazioni di rilievo in proposito. Spunti nuovi e degni di attenzione offrono invece le ricordate ricerche di Venturi e di Schiltz per la riconsiderazione di una personalità sfumata nel quadro del Settecento riformatore e delle tensioni del mondo cristiano settecentesco. In realtà, quali siano state la fortuna e la sfortuna pubblicistica e storiografica di C. XIV, egli resta una figura volenterosa ed accorta, forse non dotata di qualità spiccate e di vere capacità politiche, ma non priva di un senso istintivo e, tutto sommato, di una percezione duttile del momento storico in cui si trovò ad operare. Di fronte al compito immane che lo attendeva, asceso al soglio pontificio, con pochi e deboli strumenti a disposizione, pur pagando un prezzo indubbiamente alto seppe spezzare il fronte borbonico e provocare un riflusso del movimento riformatore e dell'anticurialismo italiano ed europeo, sulla soglia degli anni '70. Anche senza una visione organica e agendo piuttosto d'intuito e sulla difensiva, fu in grado così di porre su nuove basi i rapporti col potere politico e di aprire prospettive sia pure incerte di nuovi sviluppi, presto chiuse dal curialismo di Pio VI e dal dispiegarsi del riformismo ecclesiastico leopoldino e giuseppino. Ma con la soppressione dei gesuiti, come si è accennato, si era posto in più rapido movimento un processo irreversibile sino alla Rivoluzione ed oltre. La prima crisi dell'antico regime, di cui il gesuitismo era uno dei cementi, ricevette, per l'atto di C. XIV, una spinta eccezionale. Solo a tratti, e più per forza di cose che per scelte determinate, sembra però che C. XIV abbia compreso le nuove direzioni verso le quali si volgevano i problemi politico-religiosi e le correnti di idee della società europea settecentesca. E in questi limiti, che esprimono al tempo stesso, in un momento di crisi, la inadeguatezza storica, i rifiuti, le mancate o parziali risposte dei vertici della Chiesa e di una struttura giunta quasi al termine di una sua parabola, è il dramma esemplare di un pontefice, alla cui figura mancò forse quella più grande rifrazione tra personalità storica e avvenimenti coevi tale da renderla, nonostante tutto, protagonista di una complessa età di scontri e di mutamenti.
Fonti e Bibl.: Punti importanti di riferimento restano ancoral'opera di A. Theiner, Storia del Pontificato di C. XIV…, I-III, Milano 1855; e quella di L. von Pastor, Storia dei papi, XVI, 2, Roma 1933 (le citazioni sono tratte dall'ediz. del 1955), alla quale fece seguito la polemica tra P. L. Cicchitto, in Miscell. francescana, XXXIV (1934), pp. 189-231, 313-321, e i gesuiti P. Leturia in La Civiltà cattolica, LXXXIV (1934), 4, pp. 225-240, ed E. Rosa, ibid., LXXXV (1935), I, pp. 17-35. La posizione gesuitica è ripresa e ampliata in G. Kratz-P. Leturia, Intorno al "Clemente XIV" del barone von Pastor, I, Sulla opera del Pastor; II, Sulla paternità del volume, Roma 1935. Più tardivo, sulla linea del Cicchitto, O. Montenovesi, Un pontificato da riabilitare,il papa C. XIV e il volume a lui dedicato da L. von Pastor, in Archivi, VIII (1941), pp. 98-121. Al Theiner si deve anche l'edizione di Clementis XIV Pont. Max. Epistolae et brevia selectiora ac nonnulla alia acta pontificatum eius illustrantia…, Parisiis 1852 (ma per tutti i docc. del pontificato di C. XIV cfr. Bullarii Romani continuatio..., IV, continens pontificatus Clementis XIV, Romae 1841). Notizie su C. XIV e sulla famiglia in Bibl. Ap. Vaticana, Borg. lat. 804. Per l'attegg. verso gli ebrei e il rapporto presentato al S. Uffizio: The Ritual Murder Libel and the Jew. The report by Cardinal Lorenzo Ganganelli (Pope Clement XIV), a cura di C. Roth, London s. d. [ma 1935]; P. Rieger, Geschichte der Juden in Rom, II, 1420-1870, Berlin 1895, pp. 246 ss.; L. Poliakov, Storia dell'antisemitismo, I, Firenze 1974, p. 282 e n. 43. Per la posizione del Ganganelli nella condanna del Mésenguy: P. Sposato, Per la storia del giansenismo nell'Italia meridionale. Amici e corrispondenti di Alberto Capobianco arcivescovo di Reggio Calabria (con Appendice di documenti inediti), Roma 1966, partic. pp. 42 s. n. 107. Per un giudizio su Ganganelli cardinale: L'Abbé Richard [Jérome], Description histor. et critique de l'Italie…, V, Dijon-Paris 1766, p. 60. Sul conclave cfr. L. Berra, Il diario del conclave di C. XIV del card. Filippo Maria Pirelli, in Arch. della Soc. romana di storia patria, s. 3, XVI-XVII (1962-63), pp. 25-97, 98-319 (docc.); L. Szilas, Konklave und Papstwahl Clemens XIV. (1769). Vorspiel zur Aufhebung der Gesellschaft Jesu am 21. Juli 1773, in Zeitschrift für kath. Theologie, XCVI (1974), pp. 287-299. Per i rapporti con gli Stati europei: col Portogallo, S. J. Miller, Portugal and Rome c. 1748-1830. An Aspect of the Catholic Enlightenment, Roma 1978; con la Francia, e più in generale con le corti borboniche, F. Masson, Le cardinal de Bernis depuis son ministère 1758-1794, Paris 1884, partic. pp. 77-112, 140-173, 267-299; per i rapporti con la Spagna, ma fondamentale per tutti i momenti politico-religiosi del pontificato, El espiritu de D. José Nicolas de Azara,descubierto en su Correspondencia epistolar con don Manuel de Roda, I-II, Madrid 1846; per i rapporti con l'Austria, ma anche per i riferim. alla situazione polacca, cfr. Chotkowski, Maria Theresia's Korrespondenz mit Klemens XIV. und Pius VI., in Hist-polit. Blättern für das kath. Deutschland, t. CXLV (1919), pp. 31-48, 81-99; importanti ora: Der Josephinismus. Quellen zu seiner Geschichte in Österreich 1760-1790, a cura di F. Maass, II, 1770-1790, Wien 1953, pp. 10-13, 21, 23, 28, 61, 165 s.; A. Ellemunter, A. E. Visconti und die Anfänge des Josephinismus, Graz-Köln 1963, passim. Per la soppressione della Compagnia di Gesù e l'atteggiamento di C. XIV si rinvia al Pastor e alle opere ivi indicate. Una recente rassegna di studi è di M. Batllori, Entre la surpresión y la restauraciòn de la Compañía de Jesús. 1773-1814, in Arch. hist. Soc. Iesu, XLIII (1974), pp. 364-393; ma per i giudizi dei contemporanei sulla questione e su C. XIV presentano notevole interesse le lettere e gli scritti dell'ex gesuita G. C. Cordara: Lettere di G. C. Cordara a F. Cancellieri(1772-1785), pubbl. sugli autografi del British Museum, a cura di G. Albertotti, Modena 1912, e G. Cordara, De suis ac suorum rebus ... Commentarii…, a cura di G. Albertotti-A. Faggiotto, in Miscell. di storia italiana, s. 3, XXII (1932), partic, pp. 361 s.; cfr. anche Lettere ined. di G. Marini, II, Lettere a G. Fantuzzi, a cura di E. Carusi, Città del Vaticano 1938, pp. 21, 43, 66, 69 s. e J.-F. Georgel, Mémoires pour servir à l'histoire des événements de la fin du XVIIIe siècle, I, Paris 1817, Per le profezie su C. XIV: Bibl. Apost. Vat., ms. Vat. lat. 9718: Storia della vita e del governo di Pio VI…, I, Cesena 1781, pp. 32, 36 ss., 75 s., 159. Per i rapporti col giansenismo cfr. Coup-d'oeil sur l'ancienne Eglise catholique de Hollande et récit de ce qu'on a fait,sous Clément XIV,pour concilier cette Eglise avec la cour de Rome, a cura di R. J. Hooijkaas, La Haye 1890; E. Dammig, Il movimento giansenista a Roma nella seconda metà del sec. XVIII, Città del Vaticano 1945, pp. 392 ss. e passim; P. Poiman, Vredespogingen Utrecht-Rome onder Clemens XIV(1769-1774), in Archief voor de Geschiedenis van de Katholieke Kerk in Nederland, III (1961), pp. 249-268; P. Hersche, Die österreichischen Jansenisten und die Unionsverhandlungen der Utrechter Kirche mit Rom, in Zeitschrift für Kirchengeschichte, LXXXII (1971), pp. 314-343. Per le missioni durante il pontificato di C. XIV cfr. Sacrae Congr. de Propaganda Fide memoria rerum..., II, 1700-1815, Rom-Freiburg-Wien 1973, passim. Per i rapporti con la Russia cfr. J. J. Zatko, The organisation of the Catholic Church in Russia,1772-1774, in The Slavonic and East European Review (London), XLIII (1964-65), pp. 303-313. Per il mecenatismo di C. XIV cfr. C. Pietrangeli, Il museo Clementino Vaticano, in Atti della Pontificia Accademia romana di archeologia,Rendiconti, s. 3, XXVII (1951-52), pp. 87-109; S. Howard, G. B. Visconti's Projected Sources for the Museo Clementino, in The Burlington Magazine, CXV (1973), pp. 735 s.; per l'episodio di Mozart, A. Greither, Mozart, Torino 1968, pp. 27, 152. Per i problemi dello Stato cfr. L. Dal Pane, Lo Stato pontificio e il mov. riformatore del Settecento, Milano 1959, ad Indicem; S. Bordini, Il piano urbanistico di un centro rurale dello Stato Pontificio. La ricostruziore settecentesca di San Lorenzo Nuovo e l'attività di A. Dori e F. Navone, in Storia dell'arte III (1971), pp. 179-210. Sulla morte del pontefice e sulla "bilocazione" di s. Alfonso: O. Montenovesi, La malattia e la morte del papa C. XIV, in Rass. nazionale, s. 3, XXIV (1936), pp. 291-295; O. Gregorio, La bilocazione nella vita di s. Alfonso, in Spicilegium hist. Congr. SS. Redemptoris, XVIII (1970), pp. 93-106. Sul "mito" di C. XIV e sul problema delle Lettere cfr. Voltaire's Correspondence, a cura di Th. Besterman, LXXII-LXXXIX, Genève 1962-63, ad Indices; Gli ultimi anni della signora d'Epinay. Lettere ined. dell'abate Galiani(1773-1782), a cura di F. Nicolini, Bari 1933, pp. 80, 88 ss., 91, 95, 122, 255, 257; L. Dal Pane, Intorno alle lettere di C. XIV, in Atti d. Acc. delle scienze dell'Ist. di Bologna, cl. di sc. morali, LXII (1973-74), pp. 24-35; R. Schiltz, Voltaire,le mythe de Ganganelli et les lettres apocryphes de Clément XIV, in Mélanges de littérature française offerts à RenéPintard, Strasbourg 1975, pp. 599-612; F. Venturi, Settecento riformatore, II, La Chiesa e larepubblica dentro i loro limiti,1758-1774, Torino 1976, pp. 326-342, che presenta anche il più recente profilo complessivo di C. XIV nel quadro delle tensioni politico-ecclesiastiche contemporanee.