FELICE IV, papa
Figlio di un Castorio, era originario del Samnium ma faceva parte del clero della Chiesa romana. Lo si può probabilmente identificare con il diacono che nel 519-520 partecipò alla legazione inviata a Bisanzio dal papa Ormisda per mettere fine allo scisma di Acacio. Nell'estate del 526, a poco meno di due mesi dalla morte del papa Giovanni I, venne innalzato al soglio pontificio per ordine di Teodorico, re degli Ostrogoti in Italia.
Alla fine del 525 o agli inizi dell'anno successivo Teodorico aveva ordinato a Giovanni I di recarsi a Costantinopoli alla testa di una delegazione fonnata da cinque vescovi e da quattro senatori, con l'incarico di ottenere dall'imperatore Giustino I l'abrogazione delle misure contro gli ariani decise in Oriente. Il vecchio re, che sin dal 523 nutriva una grande diffidenza nei confronti di Bisanzio e di quanti in Italia erano ad essa favorevoli, si inasprì per gli onori di cui l'imperatore fece oggetto il pontefice, e, d'altro canto, rimase insoddisfatto dei risultati raggiunti dalla missione; perciò, quando furono di ritorno a Ravenna, fece arrestare ed imprigionare il papa ed i tre senatori superstiti (uno di essi era infatti morto nel'corso del viaggio). Già malato al momento della sua partenza per Costantinopoli, Giovanni I morì poco dopo, in carcere, il 18 maggio 526. Nel corso dei furterali grandi dimostrazioni di pietà e di omaggio furono rese alla sua salma, dalle cui vesti la folla strappò lembi da conservare come reliquie: già egli appariva ai più come un martire della fede. Questa manifestazione non fece che aumentare la diffidenza del re goto nei confronti dei cattolici.
Tali preoccupazioni indussero Teodorico, dopo la scomparsa di Giovanni I, ad intervenire proprio a Roma, dove, alla fine, egli riuscì a fare in modo che fosse scelto il candidato che godeva della sua fiducia: il diacono F., appunto.
In una delle versioni della biografia di F. IV - quella contenuta nei cosiddetti Compendi feliciano e cononiano, tratti dalla prima redazione del Liber pontificalis della Chiesa romana, che proprio con la vita di quel papa si concludeva - si afferma che F. IV "ordinatus est iusso Theoderici regis". La notizia è confermata da alcune espressioni contenute in un messaggio, che indirizzò al Senato di Roma poco dopo la morte di Teodorico (30 ag. 526), il nipote ex filia di questo, Atalarico, succedutogli ancora minorenne come re degli Ostrogoti sotto la reggenza della madre Amalasunta. Composto da Cassiodoro secondo quello spirito di pacificazione e di concordia che fu caratteristico dei primi tempi della reggenza della figlia di Teodorico, il testo del messaggio esprimeva la soddisfazione del nuovo sovrano, "quod gloriosi domni avi nostri respondistis in episcopatus electione iudicio". Atalarico si congratulava con i senatori per il fatto che essi si fossero uniformati "arbitrio boni principis", il quale, "sapienti deliberatione pertractans, quamvis in aliena religione" aveva saputo scegliere, per la Sede romana, un pontefice di tali qualità, "ut nulli merito debeat displicere". Li invitava inoltre a promuovere un'opera di pacificazione: non si voglia perseverare nei contrasti solo per rimanere fedeli a una persona la cui candidatura - o, forse, la cui avvenuta designazione - era stata superata dai fatti. "Nullus adhuc pristina contentione teneatur; pudorem non habet victi, cuius votum contingit a principe superari". Buona è stata la scelta voluta dal suo avo e dunque, "etsi persona summota sit, nihil tamen a fidelibus amittitur, cum optatum sacerdotium possidetur" (Cassiodori Variae, VIII, 15).
I passi qui ricordati del documento ci spiegano - anche se per allusioni oggi non sempre facilmente decifrabili - perché la Sede apostolica sia rimasta vacante per quasi due mesi. A Roma, subito dopo la scomparsa del pontefice, dovettero iniziare i maneggi in vista dell'elezione del suo successore ed il contrasto tra le diverse fazioni dell'elettorato dovette essere aspro. I candidati furono certo più d'uno; si giunse forse ad una designazione precisa. Atalarico ci parla infatti di una "persona summota" in seguito all'intervento di Teodorico. Ignoriamo, per la voluta laconicità del testo, chi fosse il candidato - o il vescovo eletto - rimosso per ordine del sovrano goto e sostituito col diacono Felice. Alcuni studiosi hanno avanzato l'ipotesi che egli sia da identificare nel diacono Dioscoro, il quale, dopo la morte di F. IV, fu eletto ed ordinato in contrapposizione all'arcidiacono Bonifacio.
F. IV venne consacrato papa il 12 luglio 526. Probabilmente dovette subito far fronte all'ostilità - se non addirittura alla dissidenza - di una parte del clero romano, nell'ambito del quale compì forse una vera e propria epurazione.
È stato infatti osservato che il numero dei sacerdoti ordinati nei quattro anni del suo pontificato fu anormalmente alto: cinquantadue o cinquantacinque a seconda delle redazioni del Liber pontificalis. Il che non impedì tuttavia alla maggioranza dei sacerdoti romani di contestare, dopo la morte di F. IV, il modo con cui questi aveva regolato la propria successione.Intorno al 527 un rescritto di Atalarico indirizzato al clero romano rimise in vigore, e forse allargò, l'antico privilegio di esenzione dalla giurisdizione secolare. Il papa tornò così ad essere - o divenne - praticamente l'unico giudice di prima istanza dei chierici dell'Urbe. Il rescritto di Atalarico, rilasciato verosimilmente in seguito a richiesta di F. IV, segnò la ripresa delle buone relazioni tra i sovrani ostrogoti residenti in Ravenna e la Chiesa di Roma. Questo miglioramento di rapporti permise - o almeno facilitò - l'arbitrato di F. IV nel conflitto che in quegli anni opponeva una parte del clero ravennate al suo arcivescovo, Ecclesio (cfr. voce in questo Dizionario).
Il constitutum feliciano, che pose fine al conflitto, fu il risultato di un compromesso. In esso infatti, per quanto riguardava la ripartizione dei redditi della Chiesa di Ravenna, il papa si pronunziò in favore delle rivendicazioni dei chierici, mentre, per quanto riguardava le questioni di ordine amministrativo e disciplinare, si pronunziò nel senso auspicato da Ecclesio.
Anche un altro fatto sta a testimoniare i buoni rapporti che legarono F. IV al re Atalarico ed alla reggente Amalasunta: il trasferimento alla Chiesa di Roma di due strutture pubbliche sul limitare del Foro Romano, un'aula ed un edificio ad essa adiacente, sito sulla via Sacra.
L'aula, identificata da alcuni studiosi nella biblioteca del Foro della Pace e da altri nella sala delle udienze del praefectus Urbi, e l'edificio adiacente - piuttosto che il vestibolo dell'aula stessa come alcuni hanno ritenuto -, probabilmente il tempio di Romolo poi di Giove Statore, furono ristrutturati da F. IV, nella chiesa che dedicò ai Ss. Cosma e Damiano due santi taumaturghi assai venerati a Costantinopoli. Questa dedica potrebbe riflettere il miglioramento dei rapporti tra le corti di Ravenna e di Bisanzio, verificatosi all'epoca della reggenza di Amalasunta.
Lo splendido mosaico dell'abside mostra il Cristo tra s. Pietro, s. Paolo ed i due santi patroni, accompagnati da s. Teodoro e da F. IV, la cui figura distrutta nel tardo Cinquecento è stata rifatta nel restauro eseguito sotto il pontificato di Alessandro VII, su commissione di Francesco Barberini. Il mosaico dell'arco trionfale risale probabilmente all'epoca di F. IV e non alla fine del sec. VII, come pure è stato scritto.
A F. IV il Liber pontificalis attribuisce anche il merito di aver fatto restaurare, dopo un incendio, la basilica di S. Saturnino sulla via Salaria.
Come risulta da altre fonti, egli fu attivo anche nel campo canonico e dottrinale. Nel 528 ratificò un canone promulgato dal concilio di Arles del 524, canone che prescriveva che i laici proposti al diaconato, al presbiterato e all'episcopato dovessero compiere un anno di probandato prima di ricevere l'ordinazione sacra.
La conferma pontificia di questo canone era stata chiesta a F. IV dal suo vicario nella Gallia meridionale, il vescovo Cesario d'Arles, il quale, come metropolita, aveva riunito e presieduto il concilio provinciale del 524. Egli si era rivolto al papa nel 527 quando il concilio provinciale di Carpentras aveva condannato il vescovo di Antibes, che non aveva rispettato il canone del concilio di Arles.
F. IV intervenne pure, rispondendo ancora a sollecitazioni di Cesario d'Arles, nella lotta contro il semipelagianesimo, la corrente teologica che, sviluppatasi soprattutto nella Gallia meridionale durante il sec. V, cercava di mitigare il radicalismo della concezione agostiniana dell'assoluta gratuità della salvezza, affermando che anche senza la grazia l'uomo può cominciare l'opera di conversione e di salvezza. A F: IV e agli ambienti romani debbono infatti essere fatti risalire almeno in parte i venticinque capitula che posero fine alla disputa e che furono promulgati nel concilio provinciale di Orange del 529, promosso e presieduto da Cesario d'Arles.
Alcuni studiosi ritengono, a proposito dell'origine di questi capitula, che il vescovo di Arles avesse inviato a F. IV una bozza contenente una serie di proposizioni dogmatiche sul problema della grazia e sul sernipelagianesimo, che intendeva sottoporre all'approvazione di un prossimo concilio provinciale. A Roma la bozza sarebbe stata studiata, corretta e completata e avrebbe assunto l'aspetto di un documento costituito da otto canoni, che condannavano il semipelagianesimo fondandosi probabilmente su uno scritto del monaco scita Giovanni Massenzio, e da sedici proposizioni dogmatiche sulla grazia, desunte dal florilegio agostiniano di Prospero di Aquitania. In questa sua nuova forma la bozza di Cesario sarebbe stata rispedita in Gallia, al vescovo di Arles. Secondo altri studiosi, invece, Cesario avrebbe ricevuto il documento in questione direttamente da Roma, senza aver presentato a F. IV alcuna bozza pregiudiziale sul problema.
Ad ogni modo, all'approvazione dei vescovi convenuti ad Orange nel 529 Cesario sottopose un documento che - quale ne fosse la prima origine - gli era giunto da Roma e che da lui era stato rimaneggiato. Il vescovo di Arles aveva infatti ritoccato alcune delle sedici proposizioni dogmatiche e ve ne aveva aggiunta una diciassettesima, ottenendo così quel testo di venticinque capitula che fu discusso e approvato dal concilio di Orange e per il quale egli stesso chiese a F. IV la ratifica pontificia. Quest'ultima venne concessa nel 531, quattro mesi dopo la scomparsa di F. IV, dal successore Bonifacio II.
Nel settembre del 530, quando era già gravemente ammalato, F. IV designò il suo successore con un solenne atto simbolico: alla presenza di membri del clero romano e del Senato - "praesentibus presbyteris et diaconis et senatoribus atque patriciis filiis meis, quos interesse contigit" scrive egli nel praeceptum relativo (Schwartz, p. 97) - impose il proprio pallio, simbolo della sua autorità, all'arcidiacono Bonifacio, "qui ab ineurite aetate sua in nostra militavit Ecclesia" (ibid.), precisando tuttavia che esso doveva venirgli restituito se le sue condizioni di salute fossero migliorate. Subito dopo si preoccupò di dare notizia dell'accaduto al governo di Ravenna e di renderlo di pubblica ragione mediante il praeceptum indirizzato "dilectissimis fratribus et filiis episcopis et presbyteris, diaconis vel cuncto clero, senatui et populo", affisso nelle chiese parrocchiali di Roma.
La prassi della designazione non era sconosciuta alla Chiesa dell'Urbe: il concilio romano del 1º marzo 499 ne aveva perfino ammesso la legittimità. Tuttavia, mai prima di allora un papa aveva dato alla sua indicazione il carattere di una vera e propria investitura e, di conseguenza, mai prima di allora un papa aveva dimostrato di tenere in così poco conto il valore ed il significato dell'istituto della elezione dei vescovi. Nel praeceptum - nel quale, se esprimeva la sua convinzione che essi si sarebbero attenuti al suo "iudiciuni", comminava però la scomunica per quanti avessero osato contravvenire alla sua volontà sollevando opposizioni col rischio di provocare uno scisma - F. IV forniva al clero, al Senato e al Popolo romano le ragioni che erano state alla base del suo provvedimento. Scriveva infatti di aver inteso salvaguardare la "quies vestra" e la "pax Ecclesiae" in un momento in cui quest'ultima era oppressa da difficoltà finanziarie così gravi, che egli aveva dovuto contrarre debiti per poter assicurare, come di tradizione, "clericis et pauperibus solemnes erogationes". Egli aveva inteso evitare, cioè, che la già critica situazione economica della Chiesa romana potesse peggiorare ulteriormente in seguito ai maneggi connessi con una nuova competizione per l'elezione al soglio di s. Pietro. Tuttavia, timori di ben altro ordine dovevano essersi aggiunti a queste preoccupazioni del pontefice.
L'arcidiacono Bonifacio apparteneva a una famiglia di origine germanica, ma con ogni probabilità era nato a Roma, e aveva percorso la sua carriera proprio in seno al clero dell'Urbe. Nell'aspirare al pontificato egli aveva però un antagonista: il diacono Dioscoro, un greco di Alessandria, che si era rifugiato a Roma e che aveva sostenuto un ruolo di primo piano nell'ambasceria inviata a Costantinopoli dal papa Ormisda nel 519. Anche se si esita a vedere nel primo un candidato dei partito favorevole alla collaborazione con gli Ostrogoti, e nel secondo il candidato di un partito filoimperiale, si può tuttavia pensare che Bonifacio, per via della sua origine e della sua carriera, sia potuto apparire agli occhi di F. IV come la persona più adatta per vegliare, come papa, sugli interessi della Chiesa romana e per mantenere nel contempo buoni rapporti con i sovrani goti di Ravenna. La scelta di F. IV si giustificherebbe ancora meglio se Dioscoro fosse da identificare nella "persona summota" di cui si parlava nel 526 in seguito ad un ordine di Teodorico, per consentire l'ascesa proprio di F. IV al soglio papale; ma l'ipotesi non è, allo stato attuale delle nostre conoscenze, dimostrabile.
Nel medesimo periodo di tempo, secondo una parte della letteratura storica, il Senato avrebbe indirizzato al clero di Roma una contestatio, che nella traffizione manoscritta segue immediatamente il praeceptum feliciano. Si tratta di un breve testo, con cui il "Senatus amplissimus" comminava la confisca della metà dei beni a chi "vivo papa de alterius ordinatione tractaverit" e la confisca dell'intero patrimonio e l'esilio a chi, aspirando al pontificato, fosse risultato coinvolto in "tam inprobum ambitum" (Schwartz, p. 97).
Il fatto che nella contestatio del Senato non compaia una formula di datazione e che in essa non si faccia alcun cenno né al praeceptum di F. IV né dell'arcidiacono Bonifacio rende assai difficile stabilire la cronologia e, di conseguenza, il valore e il significato storico di questo documento. Se lo si attribuisce agli ultimi tempi del pontificato di F. IV, esso risulta talmente ambiguo che la critica storica lo ha potuto interpretare tanto come atto di sostegno della decisione di quel pontefice, quanto - all'opposto - come una sua sconfessione ufficiale. D'altro canto alcuni studiosi, come O. Bertolini, hanno ritenuto che la contestatio debba identificarsi con il documento di analogo contenuto, che, secondo quanto si trae da Cassiodoro (Variae, IX, 15, 3), fu approvato dal Senato poco più tardi, all'epoca di Bonifacio, II.
F. IV morì a Roma il 20 o il 22 settembre 530.
Se, con il suo praeceptum, F. IV aveva inteso evitare uno scisma, non raggiunse lo scopo. Alla sua morte, infatti, la maggioranza dei presbiteri romani e una parte del Senato, dimostrando di non voler rinunziare alle loro prerogative, elessero alla cattedra di s. Pietro il diacono Dioscoro, che venne ordinato vescovo di Roma lo stesso giorno in cui fu ordinato papa Bonifacio, il designato del defunto pontefice. Fu ad ogni modo scisma di breve durata. Il 14ott. 530 Dioscoro morì improvvisamente.
La commemorazione, che non si fonda su alcuna antica tradizione, di F. IV, indicato come papa terzo di questo nome, venne inserita sotto il 30 gennaio nell'edizione del 1586 del Martirologio romano; fu trasferita sotto il 22 settembre nell'edizione del 1922.
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