GIOVANNI XI, papa
Uno dei papi più giovani della storia, venne eletto e consacrato nel marzo 931 appena ventenne, quand'era cardinale presbitero di S. Maria in Trastevere. La sua scelta venne imposta dalla madre Marozia, assoluta e al momento incontrastata signora di Roma, che già aveva abilmente manovrato i due pontificati precedenti, facendo eleggere Leone VI e Stefano VII, in attesa che suo figlio uscisse dalla minorità. L'elezione aveva certamente carattere strumentale e Marozia intendeva servirsi del figlio papa per accrescere il proprio potere ed estenderlo anche oltre i confini dello Stato pontificio, secondo un disegno politico da tempo perseguito.
Se la maternità di Marozia è certa e confermata da tutte le fonti, incerto resta chi fosse il padre di Giovanni. Le liste di pontefici, che costituiscono per il secolo X la continuazione più attendibile del Liber pontificalis, riferiscono che G. era figlio di Marozia e di papa Sergio III; la stessa notizia è riportata anche dalla Antapodosis (III, 43) di Liutprando da Cremona ma l'accentuata partigianeria, e quindi la sospetta inaffidabilità, di quest'ultima fonte ha fatto più volte mettere in discussione la veridicità dell'informazione. L'ipotesi che la notizia della paternità di papa Sergio sia da attribuire esclusivamente alle interessate invenzioni di Liutprando è stata sostenuta con vigore (Fedele, 1910), ma la base paleografica su cui si reggeva è stata smantellata da ulteriori studi (Duchesne, 1913) sicché rimane una radicale incertezza nell'interpretazione delle fonti e gli studi più recenti non hanno chiarito il punto. Date, ambiente e circostanze tendono tuttavia a rendere verosimile piuttosto che a escludere la nascita di G. da una relazione tra la giovanissima Marozia e il maturo papa Sergio III e il fatto che l'illecita relazione sia stata ritenuta vera dai contemporanei, e come tale registrata non solo in fonti interessate ma addirittura nei cataloghi pontifici, è una testimonianza che non può essere sottovalutata.
Il primo atto noto del pontificato di G., già nel marzo 931, fu di grande rilevanza per il futuro. Si tratta di un privilegio rilasciato a Oddone abate di Cluny con il quale, facendo riferimento al testamento di Gugliemo I duca d'Aquitania che aveva fondato l'insediamento benedettino più di vent'anni prima donandolo "ai santi Pietro e Paolo", si conferma al monastero borgognone l'esenzione da ogni potere religioso e civile, l'immunità, la protezione del papa e la diretta dipendenza dalla Sede di Roma.
Alcune espressioni usate nel documento ("sanctae Romanae […] aecclesiae subiectum", "liberum a dominatu cuiuscunque regis aut episcopi sive comitis aut cuiuslibet ex propinquis ipsius Uilelmi", "immunitatem […] vobis concedimus", "coenobium sanctae apostolicae sedi ad tuendum atque fovendum pertineat", cfr. Papsturkunden, pp. 107 s.) saranno riprese nei documenti pontifici (già nel 938 da Leone VII) e sistematicamente utilizzate dagli abati cluniacensi nei secoli successivi. Il privilegio di G. consentiva inoltre a Oddone, per la prima volta, di prendere sotto la propria autorità altri monasteri per riformarli secondo le consuetudini di Cluny ("Si […] cenobium aliquod […] ad meliorandum suscipere consenseritis, nostram licentiam ex hoc habeatis", ibid., p. 108); permettendo a Oddone di essere contemporaneamente abate di diversi monasteri, a ciascuno dei quali venivano poi concessi i medesimi privilegi e statuti, il documento dava un pieno riconoscimento e un forte incoraggiamento a quel movimento di riforma monastica che stava muovendo i suoi primi passi. Conferme immediate si trovano in un altro documento di G., sempre datato marzo 931, con cui si estendono i privilegi di Cluny al monastero di Déols, che allo stesso Oddone era stato affidato perché vi introducesse la riforma, e in un documento del giugno 932, con il quale viene affidato a Cluny anche il monastero di Charlieu, in Borgogna.
Al servizio della politica materna, nel luglio 931 G. inviò il pallio a Ilduino arcivescovo di Milano, gesto accomodante nei riguardi del re d'Italia Ugo di Provenza, che lo aveva chiesto. Con lui Marozia stava cercando di instaurare rapporti amichevoli, dopo averlo osteggiato per anni, in vista di un accrescimento del proprio potere in Italia. Con ogni probabilità all'influenza della madre deve essere ricondotta anche una decisione presa da G. nei confronti della Chiesa orientale. Marozia era in trattative per il matrimonio tra la propria figlia Berta e uno dei figli di Romano I Lecapeno, imperatore a Costantinopoli. Questi era intenzionato a nominare patriarca il proprio figlio Teofilatto, ancora minorenne, e chiese l'approvazione di G. con una lettera nella quale si esprimeva anche il desiderio di instaurare buoni rapporti tra la famiglia di Marozia e quella imperiale. G. inviò molto prontamente due vescovi come suoi legati, e questo intervento del papa di Roma nella scelta del patriarca di Costantinopoli suscitò le accese proteste della Chiesa d'Oriente. Prima che i legati pontifici partecipassero - come avvenne nel febbraio 933 - alla consacrazione e all'intronizzazione di Teofilatto, accaddero però a Roma grandi rivolgimenti.
La disinvolta politica di Marozia, già sposa di Alberico marchese di Spoleto e di Camerino, e poi di Guido marchese di Toscana, aveva anche in passato suscitato più di un malcontento nella popolazione e nell'aristocrazia romana. Nell'estate 932, poco più di un anno dopo l'elezione al pontificato di G., si sposò in terze nozze con Ugo di Provenza, re d'Italia, scontentando vivamente i Romani; nel corso della cerimonia nuziale - probabilmente officiata dallo stesso G. - si ebbe addirittura un violento alterco fra lo sposo e il giovane Alberico di Roma, figlio di primo letto di Marozia. Questi seppe abilmente provocare e manovrare una rivolta popolare appoggiandosi alla formale ragione dell'illegalità di quell'unione secondo il diritto canonico dell'epoca (gli sposi erano fra loro cognati) e soprattutto al concreto timore dei Romani di dover sottostare al dominio del conte di Provenza e di vedere dunque spostato fuori dalla città il centro decisionale della politica romana. Nel dicembre, un assalto a Castel Sant'Angelo riuscì a mettere in fuga Ugo, e Alberico, imprigionati la madre e il fratellastro papa, si fece proclamare princeps di Roma, senatore, conte e patricius omnium Romanorum, dando inizio al proprio governo, che manterrà assoluto fino alla morte (954).
Di Marozia non si sa più nulla. G. da allora e solo per qualche anno esercitò il suo ministero praticamente agli arresti domiciliari nel palazzo Laterano e limitandosi ad attività liturgiche e religiose.
Fra gli atti di G., non sempre databili con precisione, si devono ancora ricordare l'invio del pallio ad Artaldo arcivescovo di Reims; alcuni privilegi e benefici concessi ai monasteri di Vézelay e di S. Silvestro in Capite a Roma, cui venne dato il diritto di avere un mulino sul Tevere; una lettera all'arcivescovo Teodolo di Tours relativa al monastero di S. Giuliano della stessa città; la conferma alla Chiesa di Autun del diritto di libera elezione del proprio vescovo; la condanna di Silvio di Clérieux a ricostruire la chiesa del monastero di Romans, nella diocesi di Vienne, che aveva incendiato. Dubbio è invece un privilegio a favore del monastero di S. Maria e S. Martino a Poitiers e certamente falso un altro privilegio a favore del monastero di Brogne.
G. morì probabilmente nei primissimi giorni del 936, all'età di venticinque anni; non è noto il luogo della sepoltura, ma non è fondata la notizia di una sua inumazione in Laterano nella stessa tomba di Sergio III.
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