GIOVANNI XXI, papa
Sono stati identificati diversi Pietro Ispano - nome di G. prima dell'elezione al pontificato - che hanno operato in Portogallo nella prima metà del sec. XIII: uno di questi è Pietro di Giuliano (cfr. Pontes 1977), che nacque a Lisbona tra il 1210 e il 1220. Non è stato possibile stabilire la famiglia di appartenenza, anche se si ipotizza che abbia avuto una qualche parentela con i Rebolo; inoltre nulla conferma che fosse figlio del cancelliere regio Julião Pais, come alcuni hanno scritto. Secondo un'altra tradizione il suo nome potrebbe derivare dall'essere nato nella parrocchia di S. Giuliano a Lisbona. Sulla carriera accademica di Pietro di Giuliano permangono molti dubbi, data la totale assenza di fonti, ma è unanimemente accettato che abbia ottenuto il titolo di magister a Parigi. La sua carriera ecclesiastica è ormai ben documentata, benché in nessuno dei tanti documenti conosciuti si accenni ad attività scolastiche o letterarie né si chiarisca in che disciplina fosse magister, benché in alcune fonti si elogi la sua alta scienza.
I primi documenti, di varia provenienza e fra i quali non sempre è possibile stabilire una relazione di continuità, che testimoniano l'attività di Pietro di Giuliano legata a funzioni ecclesiastiche e a vicende politiche risalgono al 1250.
Nel primo di questi documenti sottoscritto a Guimarães, nel Nord del Portogallo, l'11 giugno 1250, il maestro Pietro di Giuliano, decano di Lisbona e arcidiacono di Braga, chiamato alla fine del testo anche "Petrus yspanus", è designato da re Alfonso III di Portogallo come suo portavoce nella disputa che il re aveva in corso in quel momento con il clero.
A prima del 1250 risalgono invece alcuni documenti su un certo Pietro Ispano, medico a Siena, che è stato tradizionalmente identificato con papa Giovanni XXI.
Per quel che riguarda le notizie relative a questo Pietro Ispano medico a Siena, l'11 genn. 1245, in questa città, un maestro Pietro medico, detto Ispano, si impegnò a indennizzare Maria Roberti, versandole 50 libbre, se fosse venuto meno all'impegno di non offenderla. Il 5 febbr. 1248 lo stesso maestro Pietro Ispano medico vendette a frate Fantino una splendida Bibbia miniata per 7 libbre: il che suggerisce la proprietà di qualche bene ma porta anche a immaginare possibili difficoltà economiche. Ancora, nel settembre del 1248 Pietro figurava tra i maestri rimborsati per aver pagato emissari, che, in Toscana, avevano cercato di attrarre allievi per lo Studio senese. Infine, nell'aprile del 1250 il Comune gli inviò un pagamento di 20 soldi per un consulto medico e in giugno il cartulario dello Studio registrò un pagamento di 20 libbre come onorario per la sua attività di insegnante. In effetti questo è l'unico documento che attesti espressamente l'attività di Pietro quale docente presso lo Studio comunale di Siena. La presenza del maestro nella città, a quell'epoca nell'orbita d'influenza di Federico II, che pure vi soggiornò per qualche tempo nella primavera del 1247, consente di spiegare il rapporto tra il medico Pietro Ispano e i circoli scientifici della corte degli Hohenstaufen. Due brani dei ricettari De oculo e Diete super cyrurgia testimoniano i legami dell'autore con la città di Siena e con i medici imperiali.
Ammettendo che questo Pietro Ispano medico sia lo stesso Pietro Ispano autore del Tractatus di logica e sia anche il Pietro Ispano autore dei commentari al De anima e al De animalibus di Aristotele, il periodo di insegnamento a Siena dovrebbe rappresentare l'apice di un'intensa carriera accademica. La formazione iniziale del maestro si sarebbe compiuta alla facoltà di arti di Parigi e dovrebbe essere stata seguita da un periodo, tra il 1225 e il 1235, quale insegnante di logica in qualche scuola del Regno di Castiglia e León. Successivamente, tra il 1235 e il 1245, Pietro avrebbe insegnato filosofia naturale, forse a Tolosa. In questo periodo e comunque immediatamente prima di trasferirsi a Siena, per una ipotesi tradizionalmente accettata, avrebbe svolto i suoi studi di medicina, probabilmente a Parigi, o a Montpellier o a Salerno.
Questa ricostruzione ipotetica unifica una carriera accademica che si sarebbe svolta in un breve lasso di tempo, senza che sia possibile stabilire una linea di continuità tra opere di diverso genere. Né cessa di essere un enigma il motivo che possa aver condotto un maestro, con una già lunga attività, a trasferirsi in un piccolo Studio comunale, quale quello senese, fondato solo da un anno.
Le testimonianze disponibili non permettono di stabilire un collegamento certo tra il Pietro Ispano medico e scrittore e il Pietro Ispano ecclesiastico.
Fino al 1277, numerosi documenti forniscono testimonianza della movimentata carriera ecclesiastica e politica di Pietro di Giuliano e consentono di trovarlo alternativamente a Guimarães, a Leiria, a Lisbona, a Braga, a Lione, forse a Parigi e nelle città della Curia pontificia allora itinerante: Orvieto, Anagni, Viterbo.
Nella riunione delle Cortes, assemblee delle categorie sociali, riunite a Guimarães da Alfonso III di Portogallo, Pietro di Giuliano, decano di Lisbona e arcidiacono di Braga, svolse il ruolo di consigliere e portavoce del re in risposta alle lagnanze del clero contro il monarca, accusato di offenderne i diritti ecclesiastici. Nelle Cortes riunite a Leiria nel 1254, Pietro era ancora schierato a fianco del re, circostanza che si ripeté durante la sua permanenza a Guimarães nel 1258. Questa fedeltà costante spinse il re a proporlo, l'11 dic. 1257, come priore della collegiata della chiesa di S. Maria di Guimarães, il priorato più ricco e redditizio del Portogallo, peraltro non vacante. Il titolare del beneficio, invitato a cederlo, rifiutò però di farlo. Ne scaturì una disputa presso la Curia romana che si sarebbe protratta per lungo tempo.
Urbano IV decise infatti in proposito a favore di Pietro con la bolla del 28 ott. 1263, ma neppure allora il problema fu risolto. A quel punto infatti il re e Pietro si trovavano in campi opposti e il primo, che era il patrono del priorato, presentò nel 1264 un altro diacono di Braga per lo stesso posto, in contrasto con le decisioni del papa. All'origine dell'allontanamento tra il re e Pietro sembra esservi stato un grave dissidio causato dall'opposizione di Pietro al favorito del re per il vescovato di Lisbona. Alla morte del vescovo di Lisbona nel 1258, Pietro contese l'elezione a Matteo, magister delle scuole locali, ma questi fu eletto con l'appoggio del re, di cui era un fedele sostenitore. Una fazione del capitolo, capeggiata da Pietro di Giuliano, contestò veementemente l'elezione e denunciò l'intromissione del potere secolare nel procedimento. Le due parti ricorsero alla Curia romana, adducendo ambedue le stesse ragioni. Fu proprio questa l'occasione che, nel 1261 o nel 1262, portò Pietro per la prima volta in Curia. Nonostante il suo appello, la scelta del capitolo non fu cambiata e intorno al 1263 il papa confermò l'elezione di Matteo, l'unico vescovo alleato del re nella contesa che lo opponeva al clero portoghese. Come contropartita Pietro divenne maestro delle scuole (magister scholarum) di Lisbona. Non si ha prova che in questa funzione abbia svolto attività di insegnamento ed è poco verosimile che in questo contesto abbia scritto qualche opera.
La presenza di Pietro di Giuliano presso la Curia papale fu costante per tutti gli anni Sessanta, quando fu impegnato nelle cause per il priorato di Guimarães e il vescovato di Lisbona. Proprio in questo periodo, nel marzo del 1262, a Perugia un "magister Petrus medicus Ispanus" fu condannato, insieme con altri, per falsificazione di moneta e alchimia, ma non è possibile dire se si tratti di Pietro di Giuliano. Successivamente, a seguito delle decisioni papali, nel febbraio del 1273 Pietro di Giuliano, da poco eletto arcivescovo di Braga, fu finalmente investito del priorato di S. Maria di Guimarães.
Durante la lunga e continuativa permanenza in Curia, Pietro partecipò alle attività del cardinale Ottobono Fieschi, futuro Adriano V, nella cui familia, o curia cardinalizia personale, doveva essere entrato. Sicuramente si trovava in Italia quando il capitolo della cattedrale di Braga lo elesse unanimemente arcivescovo nel maggio del 1272. Ed è appunto con la qualifica di "electus Bracarensis" che compare in vari documenti portoghesi del 1273, senza che vi sia stata alcuna convalida. Anche Gregorio X convocò l'"electus Bracarensis" al II concilio di Lione, il 13 apr. 1273, senza citarne il nome.
Il 3 giugno 1273 Gregorio X lo nominò cardinale vescovo di Tuscolo e con questo titolo Pietro figurò nei lavori del II concilio di Lione. Non si ha notizia che vi abbia svolto attività particolari, ma si sa che una volta papa avrebbe adottato gli orientamenti approvati dal concilio e che costituivano allora il fulcro dell'azione di Gregorio X: l'unione tra le Chiese greca e latina, la politica delle crociate e l'istituzione di una pax christiana che garantisse la supremazia del potere papale. Il periodo di cardinalato non è molto noto, ma egli potrebbe avere svolto in quel lasso di tempo alcune missioni diplomatiche che forse lo portarono a Parigi per assistere a una disputa de quodlibet nel 1274. Nonostante un'antica tradizione lo presenti come archiatra e medico personale di Gregorio X, non esistono documenti che registrino Pietro di Giuliano in questa funzione o con il titolo di medico presso la Curia papale.
Pietro di Giuliano fu eletto papa da un conclave che si riunì nel palazzo episcopale di Viterbo, probabilmente il 16 sett. 1276, per scegliere il successore di Adriano V, morto in quella città il 16 agosto. Dovevano essere presenti nove membri del Collegio cardinalizio. Lo stesso papa scrisse in una bolla che, nonostante le importune interferenze dei cittadini di Viterbo, l'elezione ebbe luogo il primo giorno del conclave e all'unanimità, "voto parique concordia […] electio canonica comunis et concors" (Cadier, n. 1, pp. 1 s.). Più di quarant'anni dopo la morte del papa, Bartolomeo Fiadoni (Tolomeo da Lucca) scrisse nella Historia ecclesiastica che il principale artefice dell'elezione di Pietro di Giuliano fu Giangaetano Orsini, decano del Collegio cardinalizio e capo della potente famiglia romana, e appunto il suo successore al soglio pontificio. Questo stesso brano di Tolomeo sembra essere l'unica fonte su cui si basa la reiterata accusa di incapacità governativa rivolta a G., che avrebbe lasciato nelle mani del cardinale Orsini la direzione della Curia papale.
Il nuovo pontefice fu intronizzato nella cattedrale di S. Lorenzo a Viterbo il 20 settembre e prese il nome di Giovanni XXI (per un errore di calcolo non è mai esistito un papa Giovanni XX), scegliendo come motto una sentenza dell'uffizio dei defunti, adattata su un versetto dei Salmi: "Dirige domine Deus meus in conspectu tuo viam meam"(Ps. 5, 9-10).
Questa massima circondava il sigillo pontificio all'interno di due cerchi concentrici, con una croce al centro, e i nomi di Pietro e Paolo nella metà superiore e di Giovanni nella metà inferiore. Non si hanno testimonianze coeve dello stemma di Pietro come cardinale e come papa, ma le edizioni più antiche mostrano uno scudo ovale inquartato: il quarto superiore sinistro e quello inferiore destro con tre crescenti su fondo argentato, il quarto superiore destro e l'inferiore sinistro con tre righe verticali.
I primi due mesi di pontificato furono quelli di maggior attività della Cancelleria papale. Dopo l'intronizzazione G. volle dare immediata soluzione al delicato problema delle procedure per l'elezione del papa. Con la bolla Licet felicis recordationis mise per iscritto la sospensione verbale, pronunciata da Adriano V, della costituzione Ubi periculum, che stabiliva il regolamento del conclave e che era stata approvata dal II concilio di Lione a onta della forte opposizione del Collegio dei cardinali di cui Pietro di Giuliano faceva allora parte. Il papa spiegò che la costituzione era più dannosa che utile e informò che voleva riformularla. Negli stessi giorni ordinò anche l'istituzione di un tribunale canonico che appurasse le responsabilità degli abusi verificatisi nella Curia durante la sedis vacatio.
Queste due decisioni rendevano evidenti i forti conflitti di interesse emersi durante il processo di elezione del pontefice, ma la morte inaspettata di G. impedì la promessa riforma del conclave, il che ripropose successivamente i problemi dell'elezione papale, provocando nuovamente lunghe vacanze finché, nel 1294, Celestino V non riprese la costituzione gregoriana. L'impulso riformatore di Gregorio X sembra si fosse limitato a questo ripensare le norme per il conclave, decisione che gli sarebbe costata l'accusa di disprezzo dei decreti del concilio generale. Il problema della lentezza nelle decisioni era aggravato dalla difficoltà di ottenere consensi nell'ambito del ristretto Collegio dei cardinali elettori, che finivano per essere meno di dieci a causa della vacanza di alcuni titoli, di assenze per malattia o di missioni diplomatiche. Il Collegio si sarebbe ridotto ulteriormente durante il pontificato di G. che non creò nuovi cardinali.
Nelle bolle e nelle lettere apostoliche, G. si richiamò regolarmente a Gregorio X e ad Adriano V, delineando per il suo pontificato gli stessi orientamenti: consolidamento e difesa del potere papale di fronte al potere temporale, mediazione nei conflitti tra i regni cristiani, avvicinamento e integrazione della Chiesa greca, diffusione dello spirito delle crociate. Il registro papale sottolinea la capacità diplomatica con la quale si assecondarono tali orientamenti, coronata dal fatto che durante il pontificato di G. non si scatenò né si consumò alcun grave conflitto. La pax christiana mirava a concentrare gli sforzi dei regni cristiani nella crociata di Gerusalemme e nel rafforzamento della supremazia del potere spirituale.
Tre situazioni critiche e potenzialmente disgregatrici della Cristianità provocarono l'intervento di G.: le controversie tra il re di Francia e il re di Castiglia e León, la disputa per il dominio sulla penisola italiana tra Rodolfo di Asburgo e Carlo d'Angiò, l'opposizione di Alfonso III di Portogallo ai privilegi del clero lusitano. In tutte e tre le vicende il papa invocò la propria autorità spirituale per imporsi sul potere temporale; tuttavia il suo intervento non fu coronato dal successo e, nonostante le sue iniziative, questi dissidi si protrassero ben oltre il suo pontificato.
La riunificazione delle Chiese cristiane, latina e greca, era stata stabilita dal II concilio di Lione, ma il successivo avvicendarsi di papi ne aveva ritardato la realizzazione. Riprendendo l'iniziativa, G. inviò a Costantinopoli i vescovi Giacomo di Ferentino e Goffredo di Torino con i domenicani Ranieri da Viterbo e Salvo da Lucca, che erano stati designati da Innocenzo V, ma non erano riusciti a partire a causa della morte di quel papa e della brevità del successivo pontificato di Adriano V. Essi dovevano proporre l'accordo di unificazione, che prevedeva il riconoscimento del primato del pontefice romano e la sottoscrizione di un simbolo di fede, anch'esso approvato dal concilio di Lione, per sottolineare l'accettazione da parte greca della dottrina trinitaria latina. Le azioni intraprese dai nunzi furono coronate da un parziale successo e l'imperatore Michele VIII Paleologo si inchinò all'autorità del papa. Nonostante le lievi variazioni introdotte, che comunque mitigavano i termini della dottrina trinitaria romana, il simbolo fu approvato dall'imperatore, dal principe Andronico, dal patriarca di Costantinopoli Giovanni Beccos e dai vescovi. Furono inviati ambasciatori alla Curia, ma quando questi giunsero a Viterbo con la lettera di Giovanni Beccos nella quale si accettavano i termini proposti dalla Chiesa romana, G. era appena morto.
La Chiesa bizantina e l'Impero d'Oriente avevano accettato il primato romano anche nella speranza che il papa potesse controllare le ambizioni espansionistiche di Carlo d'Angiò il quale, a quel tempo, stava nuovamente preparando un attacco militare e navale contro Costantinopoli. G., di fronte alla concreta possibilità di unificazione delle due Chiese, si vide obbligato a trattenere Carlo, benché gli servisse la pressione che la minaccia militare esercitava sul basileus. Il papa controllò bene questo gioco di delicati equilibri diplomatici, in cui si inserirono le sue manovre per ritardare l'arrivo di Rodolfo di Asburgo che doveva essere incoronato imperatore, prevenendolo in questo modo anche dall'intervenire nei territori del Ravennate. Ciò aveva anche la funzione di preservare l'intesa con l'imperatore bizantino.
Carlo d'Angiò esercitò un forte ascendente sulla Curia nel corso di vari pontificati, poiché considerato utile a contenere l'imperatore germanico. Il 7 ott. 1276, pochi giorni dopo l'incoronazione di G., Carlo pronunciò dinanzi al papa, nel palazzo pontificio di Viterbo, una promessa di sottomissione all'autorità papale: garantì obbedienza totale e vassallaggio, firmò la rinuncia al titolo di re o d'imperatore dei Romani, della Germania, e si impegnò a fare di tutto per impedire l'unione del Regno di Sicilia con l'Impero (Cadier, n. 163 pp. 52-55). La complementare definizione di chiare norme di successione mirava a garantire la separazione tra l'Impero e il Regno di Sicilia, che lo Stato pontificio considerava cruciale per la propria autonomia e la pace nella penisola italica. Con tali garanzie G. procrastinò la venuta di Rodolfo di Asburgo, usando espedienti come quello di chiedergli di farsi precedere da ambasciatori che, prima del suo arrivo in Italia, firmassero gli accordi stabiliti con Gregorio X e Innocenzo V e relativi alla sua incoronazione.
La controversia tra Filippo III l'Ardito e Alfonso X il Saggio, sovrano di Castiglia, aveva diverse motivazioni, la principale delle quali derivava dalle pretese del secondo sul Regno di Navarra, nonostante la principessa Bianca di Artois avesse dato la figlia in sposa al figlio del re di Francia, il futuro Filippo IV, e i funzionari francesi fossero stati chiamati ad amministrare il Regno. Il 15 ott. 1276 G. inviò a Parigi il generale dei francescani, Girolamo da Ascoli (il futuro Niccolò IV), e il generale dei domenicani, Giovanni da Vercelli, come mediatori per raggiungere la pace tra i due re antagonisti, esortati entrambi a non invadere il territorio dell'altro. Il conflitto si mantenne allo stato latente e quando lo scoppio della guerra apparve di nuovo imminente, G. fece sì che il cardinal legato Simon di Brion, il futuro Martino IV, il 3 marzo 1277, premesse sul re di Francia e i suoi minacciandoli di scomunica nel caso non avessero sospeso immediatamente i piani di attacco contro Alfonso. La minaccia ebbe momentaneamente successo e l'inizio delle ostilità fu rimandato.
Il papa non poteva evitare di interessarsi al dissidio che si trascinava in Portogallo da quando Alfonso III era stato incoronato re nel 1248, con l'appoggio del clero, in sostituzione del deposto Sancio II, suo fratello. Subito dopo l'incoronazione il monarca aveva iniziato a consolidare e a centralizzare il potere dello Stato, adoperandosi a intaccare i privilegi e cercando di disporre a proprio favore del patrimonio del clero, i cui più alti dignitari, al tempo del pontificato di G., erano in esilio a eccezione di Matteo, vescovo di Lisbona. Il papa naturalmente conosceva bene la questione. Per ristabilire finalmente la concordia tra le due parti, con la bolla Felicis recordationis, ordinò a Nicola Ispano, nunzio apostolico in Portogallo, di mettere in atto i provvedimenti presi da Gregorio X per obbligare Alfonso III a cessare di danneggiare la Chiesa lusitana. Le manovre dilatorie del re e la sua indifferenza fecero fallire tutte le iniziative di Nicola; Alfonso non si piegò neppure di fronte alla minaccia di scomunica già pronunciata da Gregorio, che G. ribadì e che, quando era ancora cardinale, aveva già sollecitato di fronte ai procuratori del re. La durezza di queste iniziative contrasta con la delicatezza, encomiastica e retorica, della bolla Iucunditatis et exultationis indirizzata al re del Portogallo, trasmessa dai Dictamina del notaio papale Berardo Caracciolo e che, probabilmente, non fu mai inviata.
Una buona parte delle lettere di G. hanno come tema l'esazione delle decime sui redditi ecclesiastici, istituita dal II concilio di Lione su proposta di Gregorio X e destinata a durare sei anni, al fine di reperire i mezzi finanziari per le spedizioni in Terrasanta. Nonostante l'approvazione, la misura era stata accolta con riserva e contestata da alcuni vescovi già durante il concilio. Tali contestazioni furono, probabilmente, all'origine delle innumerevoli lettere che la Curia si vide costretta a inviare agli esattori designati dai pontefici per la raccolta delle decime: bisognava incitarli a procedere alla riscossione con rigore e costanza, ricordando loro che la misura era stata decisa da Gregorio X per liberare la Terrasanta. Il papa sostenne anche che la crociata era la sua grande preoccupazione: "Cum igitur huiusmodi negotium specialiter insideat cordi nostro et ad liberandam de manibus impii terram ipsam mentis nostre desiderium dirigatur" (Cadier, n. 110 p. 37a). La raccolta si svolgeva più o meno in tutta la Cristianità, e vi sono lettere volte a chiarire gli aspetti della raccolta o a incentivarla, inviate in Catalogna, Norvegia, Francia, Germania, Sicilia e Calabria, Inghilterra, Austria, Toscana, Aragona, Irlanda. Nel corso del pontificato la predicazione della crociata fu strumento ideologico e politico centrale, con il quale si cercava di conseguire la coesione della Chiesa e l'unità tra i regni cristiani, sotto il coordinamento del Papato, che invocava costantemente la necessità di proseguire le ostilità contro gli infedeli e ottenere la loro conversione. La conclusione della raccolta di fondi era ancora ben lontana, ed è per questo che lungo tutto l'arco del pontificato non si registrano reali preparativi per l'avvio della crociata. Però, di fronte alla minaccia araba nella penisola iberica, il papa autorizzò i vescovi di Narbona e di Arles a utilizzare le decime raccolte in Aragona per respingere i Saraceni. Ed è sempre con questo spirito di crociata che il 16 ottobre, con la bolla Laudanda tuorum (ibid., n. 53 p. 20b), il papa autorizzò il re Giacomo di Aragona a fondare il collegio di Miramare a Maiorca, progettato da Raimondo Lullo per creare una scuola di arabo per tredici francescani che, una volta acquisita la padronanza della lingua, sarebbero partiti per diffondere il cristianesimo tra i musulmani.
In campo universitario, l'intervento di G. fu soprattutto associato alla condanna di una raccolta di articuli di argomento filosofico e morale diffusi nello Studio di Parigi.
Pronunciata da Stefano Tempier, vescovo di Parigi, nel marzo 1277, questa condanna rimane uno degli episodi centrali della storia della filosofia medievale. Il 10 dic. 1270 il vescovo di Parigi fece condannare quattordici tesi diffuse nella facoltà di arti, per far fronte alla crescente autonomia dei maestri di arti dell'Università parigina e arginare la diffusione di dottrine filosofiche, alcune segnatamente aristoteliche, che contrastavano con l'ortodossia e ponevano in discussione la supremazia epistemologica della scienza sacra (Cartularium Universitatis Parisiensis, a cura di H. Denifle - E. Chatelain, I, Paris 1889, pp. 486 s.). Negli anni successivi questo dissidio tra le facoltà, con molteplici ramificazioni dottrinali e istituzionali, non smise di accrescersi.
Gregorio X aveva nominato il cardinale Simon di Brion, suo legato in Francia con poteri sull'Università di Parigi e con il compito di appianare quei contrasti e controllare la diffusione delle tesi indesiderabili. G. confermò il legato in queste funzioni, ma il dissidio non diminuì d'intensità e i maestri di arti non arretrarono su posizioni che l'ortodossia potesse accettare, né cessarono di manifestare in pubblico il proprio pensiero eterodosso. Il 18 genn. 1277 il papa inviò al vescovo di Parigi la bolla Relatio nimis implacida, nella quale trovarono eco le notizie che gli giungevano sulla nuova diffusione a Parigi di alcuni errori a danno della fede (ibid., p. 541; sommario in Cadier, n. 160 p. 51). Il vescovo di Parigi non inviò al papa la relazione richiesta; decise invece di costituire una commissione per accertare gli errori contro la fede che gli venivano riferiti. Il 7 marzo 1277 si condannarono 219 (o 220) "errori evidenti ed esecrabili" (Cartularium Universitatis Parisiensis, I, cit., pp. 545-558), raccolti in una lista che, partendo da una logica censoria, riuniva disordinatamente dottrine filosofiche, teologiche, morali e anche opere di carattere più licenzioso (R. Hissette). Contrariamente a quanto sollecitato dal papa, non si riportarono i nomi degli autori dei suddetti errori, né dove fossero scritti o insegnati, anche se l'introduzione identificava la facoltà di arti come centro di diffusione.
Successivamente Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia, che non erano più maestri a Parigi, divennero l'obiettivo principale della condanna, ma alcuni studiosi tendono anche a vedere, forse ingiustificatamente, la censura come parte dell'attacco dei settori conservatori della facoltà di teologia al pensiero di Tommaso d'Aquino e dei suoi seguaci: esso infatti era percepito come una minaccia alle tendenze più agostiniane dei promotori della condanna. Gli storici del XX secolo hanno considerato il papa come personalmente impegnato nella pubblicazione dell'atto di condanna (A. Callebaut, M. Grabmann, E. Gilson), poiché nelle opere che gli venivano attribuite si difendevano posizioni agostiniano-avicenniane. Tuttavia i termini della bolla rivelano chiaramente che il papa reagiva alle notizie che gli giungevano e non per desiderio personale di censura. Una seconda bolla papale, Flumen aquae vivae del 24 apr. 1277, quindi posteriore all'interdizione pronunciata dal Tempier, insisteva sullo stesso tema e sollecitava il vescovo di Parigi a inviargli un resoconto delle tesi contrarie alla fede insegnate nelle facoltà di arti e teologia (A. Callebaut, pp. 459 s.). Questa bolla si potrebbe spiegare solo se il contenuto della censura già emessa non fosse ancora giunto al papa: è inoltre assai ampia e letterariamente molto ornata e ne esiste copia soltanto nei Dictamina di Berardo Caracciolo. Da ciò si può pensare che solo la prima bolla sia stata effettivamente spedita, mentre la seconda (da cui, peraltro, si può ricavare che G. da giovane avesse studiato a Parigi) non sia altro che una rielaborazione letteraria da inserire nella raccolta di bolle esemplari del notaio pontificio. Se la condanna non fu pronunciata con il beneplacito del papa, per lo meno essa dimostra la preoccupazione di questo per il controllo ideologico dell'Università: nel chiedere al vescovo di essere minuziosamente informato, di fatto G. avocava la massima autorità sull'Università. Non considerando il mese che la bolla impiegò per giungere a Parigi, si può concludere che il vescovo e la sua commissione abbiano lavorato in fretta, troppo in fretta, nel delicato compito di raccogliere la lunga lista di errori condannabili. Non è improbabile che il Tempier si fosse affrettato a emettere una censura di propria iniziativa, intuendo che il papa avrebbe avocato a sé il controllo della situazione.
Numerose fonti del sec. XIII testimoniano della scienza e della nobiltà di spirito di G., ma anche della sua mancanza di carattere e di senso pratico. Martino Polono, penitenziere della Curia durante il pontificato di G., gli rimproverò la mancanza di senso comune, ma ne riconobbe la scienza e ne elogiò la preoccupazione di essere accessibile a tutti, ricchi e poveri. Sostenne inoltre che G. aveva favorito moltissimo i giovani desiderosi di studiare e concesso loro benefici. A detta di Francesco Pipino, il papa si dilettava più di questioni di scienza che degli affari del papato. Secondo una tradizione tarda, anteriore alla fine del sec. XV e che non si riscontra nelle fonti più antiche, l'amore di G. per le scienze lo avrebbe spinto a far costruire una dipendenza del palazzo papale, dove si ritirava per dedicarsi a studi solitari, dimentico del governo della Chiesa. In ogni caso, e senza che si possa conoscere il ruolo avuto da G. in questo contesto, la Curia e il suo Studium mostrarono in questa decade un particolare favore per gli studi naturalistici, in particolare sulla luce e la visione, e videro la permanenza a Viterbo di una serie di intellettuali che scrissero sull'argomento: Guglielmo di Moerbeke, cappellano pontificio, Giovanni Peckham, Vitelio e Campano da Novara.
Il 14 maggio 1277 il crollo di un tetto o di una parte dell'appartamento papale coinvolse il pontefice che, estratto dalle macerie ancora in vita, sopravvisse alle ferite solo sei giorni. G. fu sepolto a Viterbo e la sua tomba, in un primo momento posta nella navata sinistra della cattedrale di S. Lorenzo, spostata in seguito sul lato sinistro dell'entrata per poi essere trasferita di nuovo nella navata sinistra, riporta l'iscrizione: "Ioannes Lusitan. XXI. Pont. Max. Pont. sui Mens. VIII. moritur. M.CC.LXIII [!]".
I cronisti contemporanei sfruttarono la morte accidentale del papa, creando una leggenda intorno a essa: la descrissero infatti come il castigo divino per non avere apprezzato i religiosi (questo sostennero, per esempio, i domenicani), o per la magia cui si dedicava, o per la sua cattiva condotta, o per non aver rispettato le decisioni del concilio, o infine perché si vantava di aspettarsi di vivere ancora molti anni. Gli scrittori tedeschi, soprattutto i domenicani, forse perché si consideravano colpiti dalle condanne del 1277 o perché il papa non li aveva protetti, espressero giudizi mordaci sul carattere di G. e sulla sua incapacità di governo e formularono ipotesi fantasiose sulle ragioni della sua morte. Martino Polono, Iacopo da Varazze, Tolomeo da Lucca, Francesco Pipino, Bernardo Guido e i cronisti anonimi di Colmar e di Rottweil, con evidenti contaminazioni testuali, tramandarono le valutazioni più negative sul pontificato di Giovanni XXI. Di contro, la tradizione francescana, per esempio Ognibene de Adam, gli fu ampiamente favorevole. Quest'ultima valutazione apparve subito dopo la morte del papa ed era probabilmente collegata al favore mostrato verso i francescani. Più tardi gli storiografi pontifici conciliarono in modo acritico le due prospettive, quella positiva e quella negativa, lodando il papa per la sua scienza e rimproverando i danni che il suo carattere aveva causato alla Chiesa: su questa linea si muovono per esempio il Liber de vita Christi ac omnium pontificum del Platina o la classica biografia di J.T. Köller. La celebrazione di G. come autore, filosofo, medico e saggio uomo di Chiesa dalla discussa personalità poggia in conclusione sulle testimonianze discordanti e vaghe dei suoi contemporanei, che ne elogiarono la profonda scienza senza asserire mai che avesse composto qualche opera. La ricostruzione storiografica della figura di G. come maestro, scrittore e medico può invece risultare soltanto da una lunga rielaborazione di fatti e documenti resa possibile dalle acquisizioni recenti.
Le fonti più antiche sono unanimi nel valutare la scienza di G.: famoso in discipline diverse (Martino Polono), grande sofista, logico e disputatore, e soprattutto teologo (Ognibene), filosofo, erudito in tutte le scienze (Juan Gil de Zamora), pieno di scienza fisica e naturale (Iacopo da Varazze), illustre filosofo (Francesco Pipino). Ciononostante, nessuna di tali fonti gli attribuisce qualche opera. Solo il presbitero Sifrido nel Compendium historiarum, per drammatizzare la narrazione della morte del papa, afferma che mentre G. stava dettando un libro eretico e perverso la casa in cui stava gli rovinò sopra ferendolo, e in meno di cinque giorni morì miseramente, chiedendo costantemente: "Quid fiet de libello meo? Quis complebit libellum meum?". Nulla si sa di questo libro, ma l'aneddoto dimostra che, dopo la morte del pontefice, qualcuno gli attribuì la composizione di almeno un'opera.
Fu Tolomeo da Lucca che, nella Historia ecclesiastica, basandosi su fonti sconosciute o su sue supposizioni, gli attribuì per la prima volta opere di medicina: egli afferma infatti che G. sarebbe stato conoscitore della medicina, che avrebbe scritto alcuni trattatelli per la cura delle malattie, avrebbe composto un libro intitolato Thesaurus pauperum e ne avrebbe redatto un altro, Problemata, nel modo e nella forma di quello di Aristotele. Da allora in poi una serie di opere attribuite nei manoscritti a "Petrus Hispanus" saranno attribuite al papa. Questo corpus, disperso in circa seicento manoscritti, abbraccia la logica, la filosofia, la teologia, la parenetica, la medicina, ma rimane ancora da chiarire quanto queste attribuzioni siano attendibili e se si abbia a che fare con un solo autore. Se fossero di Pietro di Giuliano e tenendo conto di ciò che si sa della sua vita, la maggior parte di quelle opere potrebbe essere stata scritta solo prima del 1250: la loro forma letteraria - si tratta principalmente di compendi, glosse e lezioni - lascia presupporre un'attività di insegnamento.
G. sarebbe l'autore dei dodici libri del Tractatus, o Summulae logicales, cui Dante si riferisce nella seconda corona degli spiriti sapienti. G. viene collocato tra francescani e domenicani, accanto a Ugo da S. Vittore e Pietro Mangiadore: "[…] e Pietro Spano, / lo qual giù luce in dodici libelli" (Paradiso, XII, 134-135). Non c'è dubbio che l'opera sia di un Pietro Ispano, e se questi fosse davvero da identificare con G., si potrebbe affermare che sarebbe stata la logica a fare dello stesso G. l'unico papa presente nel paradiso dantesco. I dodici trattati che compongono l'opera compendiano i temi della logica degli antichi (proposizioni, predicabili, categorie, sillogismi, topiche, fallacie) e dei moderni sulle proprietà dei termini (supposizione, relazione, ampliamento, denominazione, restrizione, distribuzione), in una forma schematica e di facile assimilazione mnemonica che ne fece il più diffuso manuale di logica delle università dell'Europa continentale fino alla metà del sec. XVI, il che spiega le centinaia di manoscritti, circa duecento edizioni e alcune decine di commentari, con traduzioni in greco ed ebraico prodotti in gran parte già durante il Medioevo. Le Summulae contribuirono così alla costituzione della scolastica e a fissare i contenuti dell'insegnamento della logica nel corso dei secoli. Fornendo schemi, regole, sunti e altri elementi utili per l'arte della discussione, o dialettica, Pietro riorganizzò il corpus logico, coniugando la logica boeziano-aristotelica, centrata sulla proposizione (i trattati I-V e VII contengono la logica antiquorum: concetti introduttivi, predicati, categorie, sillogismi, luoghi, fallacie), con quella della semantica dei termini, articolata nella distinzione tra significatio, o rappresentazione convenzionale di qualcosa attraverso un suono articolato, e suppositio, o uso di un termine sostantivo per qualcosa (pro aliquo; i trattati VI e VIII-XII contengono la logica modernorum, dove sono presenti le teorie, allora diffuse a Parigi, sulle proprietà dei termini: supposizione, relativi, ampliamento, appellazione, restrizione, distribuzione). La logica della proprietà dei termini si articola intorno alla suppositio, una proprietà intraproposizionale, nonostante anche Pietro ammetta, al contrario della generalità degli autori di summae, una supposizione o referenza extraproposizionale del termine (suppositio naturalis). Le restanti proprietà dei termini sono accezioni particolari della supposizione. L'intensa utilizzazione di testi anteriori riduce l'originalità dell'autore ad alcuni dettagli, come l'inclusione della trattazione delle categorie in una summa logica.
L'altra opera di logica di Pietro, i Syncategoreumata, ebbe una diffusione decisamente minore. I sincategoremi sono espressioni cosignificative, che di per se stesse non hanno significato, come "appena", "solo", "altrimenti", "eccetto", che significano cose che non possono fungere da soggetti e da predicati, e per questo da essi dipende la veridicità o la falsità della proposizione. Nel corso dell'opera si discutono circa cinquanta sofismi, o paradossi logici, che sono vere e proprie prove di validità di norme logiche sul funzionamento proposizionale dei sincategoremi. Per esempio, la logica del mutamento è accennata nel trattato VI, sui verbi aspettuali "incipit" e "desinit", la cui norma è provata con la discussione del paradosso "Socrate finisce di esistere, non finendo di esistere" applicato al penultimo istante della sua vita. Per quanto l'analisi interna e la diffusione di queste opere logiche consentano di concludere, esse saranno state scritte in un luogo indeterminato del Nord della Spagna o del Sud della Francia, all'incirca entro il 1240.
Ed è sempre nel Sud della Francia e verso la metà degli anni 1240-50 che sembra sia stato scritto il commentario al De anima attribuito a Pietro Ispano. Si tratta di un ampio testo, che ci è giunto solo nella parte sulla prima metà dell'opera di Aristotele, in cui si combinano l'interpretazione letterale con la determinazione sentenziale della dottrina dello Stagirita e la discussione di questioni relative a temi che nel testo sono appena accennati, ma che erano centrali nella filosofia medievale. Il primo tema studiato è l'organizzazione dei saperi e lo statuto di una scienza dell'anima. Pietro afferma che nel discutere dell'anima, il suo interesse è la natura e non la fede, enumerando le diverse posizioni a proposito di alcuni problemi, senza, per contro, optare per alcuna di esse. In uno di questi casi comincia con il difendere l'unità della sostanza dell'anima, ma più avanti finisce per dire che lo ha fatto per effetto della discussione, optando per la pluralità di forme sostanziali e per l'ilemorfismo assorbito da Ibn Gabirol (Avicebron). L'unica fonte di conoscenza è l'esperienza sensibile, dalla quale è intellettivamente astratta la forma intelligibile che attualizza la conformità tra l'intelletto e le cose.
Opera completamente differente è la Scientia libri de anima, un manuale ampio e sistematico su tutte le facoltà, oggetti e funzioni dell'anima, che nello schema segue il De anima di Avicenna, ma in cui si trovano dottrine di altra provenienza, soprattutto nozioni fisiologiche. L'autoconoscenza dell'anima, per la presenza pura e semplice del pensiero in se stesso, realizza la perfezione spirituale dell'uomo. Attraverso la dottrina del doppio volto dell'anima, si ammettono almeno due possibili origini della conoscenza, l'esperienza sensibile e l'illuminazione contemplativa, vera fonte della certezza. L'opera presenta anche un'ampia classificazione delle facoltà dell'anima e una teoria degli intelletti, conclusa da una difesa frontale di un'intelligenza agente separata come fonte universale delle verità intelligibili, che legittimò l'associazione dell'autore a un tipo particolare di agostinismo avicennizzante.
Il Liber de morte et vita et de causis longitudinis ac brevitatis vite, che segue esattamente lo stile della Scientia libri de anima, con la medesima visione spiritualista dell'uomo e il ricorso ad argomenti tratti dalla medicina, è una parafrasi da opere aristoteliche, e tratta in successione le cause della morte e della vita, la corruzione negli esseri generabili, la longevità e la brevità della vita.
I due commentari al De animalibus aristotelico attribuiti a Pietro Ispano divergono nella forma e nel contenuto, tuttavia va notata una comune preoccupazione per le questioni metodologiche e la presenza di dottrine comuni, oltre all'utilizzazione della stessa traduzione latina, realizzata da Michele Scoto che sotto quel titolo riunì tre opere di Aristotele: la Historia animalium, il De partibus animalium e il De generatione animalium. Uno dei commentari (contenuto nel ms. 1877 della Biblioteca nacional di Madrid) è una sequenza di questioni, spesso semplici quesiti, collocate con un qualche artificio dopo il testo aristotelico diviso in lemmi, senza che a volte abbiano con esso alcuna relazione. La versione del manoscritto di Firenze (Biblioteca nazionale, Conventi soppressi, G.4.853) contiene una Sententia cum quaestionibus, in cui l'analisi del testo aristotelico occupa una parte importante dell'esposizione, integrata con questioni in cui la materia medica figura in misura maggiore rispetto alla versione di Madrid. Si è suggerito che il commentario madrileno sia prova del periodo in cui Pietro insegnava in una facoltà di arti e che quello fiorentino lo sia del periodo in cui insegnava medicina. Dal commentario madrileno fu estratta una raccolta di 127 quesiti, che ebbe circolazione indipendente con il titolo di Problemata, sulle caratteristiche di parti del corpo e sulle forme di vita specifiche degli animali, in cui si risolvono dubbi, spiegati con molto senso comune, ingenuità naturalistica e non senza superstizione popolare, nel quadro di una fisica degli elementi e dei principî attivi contrari: umido e secco, caldo e freddo, liquido e solido, apprezzamento e repulsione. Le virtù degli esseri animali, minerali e vegetali sono anch'esse spiegate nel De rebus principalibus naturarum, di cui rimane il frammento iniziale sulla generazione e sulla gestazione dei processi biologici cui presiedono l'influenza e la congiunzione dei pianeti, responsabili anche degli umori buoni o cattivi caratteristici di ciascuna persona.
Altre opere naturalistiche sono state attribuite a Pietro Ispano, però non sappiamo chi ne sia il vero autore. È oggi definitivamente accertato che la Expositio libri de anima II-III pubblicata da M. Alonso nel 1953 nel terzo volume delle Obras filosóficas di Pietro Ispano non è da attribuire a lui (Pontes, 1972, pp. 159-173), così come non gli appartiene il commentario sul De physiognomonia dello pseudo-Aristotele, scritto da Guglielmo di Aragona (Meirinhos, 1995).
L'opera medica attribuita a Pietro Ispano è la parte più estesa del corpus ed è prevalentemente ancora inedita. I commentari medici abbracciano una versione ampliata dell'articella, che è per la maggior parte contenuta nel ms. 1877 della Biblioteca nacional di Madrid, e che rinnova la medicina salernitana, e in particolare l'insegnamento di Bartolomeo. Tutto indica che questi testi sono stati realizzati in un contesto universitario, e che hanno avuto una diffusione relativamente ridotta: essi comprendono commentari, questioni o glosse sulle opere De urinis, De dietis particolaribus, De dietis universalibus e sul Liber de febribus di Isaac Israeli, sull'Ars minor di Galeno, sulla Isagoge ad artem parvam Galeni di Joannicio, sulla Tegni, il Liber de crisi e il Liber de diebus decretoriis di Galeno, sul De regimine acutorum, il De natura puerorum, i Prognostica e gli Aforismi di Ippocrate, sul De pulsibus di Filarete e sul Viaticum di Costantino Africano. L'omologia microcosmo-macrocosmo accompagna i discorsi interpretativi sull'anatomia e la fisiologia del corpo, e la medicina appare come la scienza che consente di ristabilire preventivamente o terapeuticamente i suoi equilibri o le sue virtù naturali. Le divergenze tra filosofi e medici e le questioni relative alla natura dell'anima e le sue facoltà, il posto e il fine dell'uomo, o i mali spirituali hanno in queste opere notevole rilevanza. Il mal d'amore e la quantificazione degli appetiti e piaceri sessuali secondo i generi sono uno dei temi trattati nel commentario al Viaticum.
L'altra parte dell'opera medica di Pietro Ispano è costituita da ricettari medici e norme di salute nello stile della medicina salernitana: essi sono orientati verso la medicina curativa, ma l'autore insiste sull'importanza delle abitudini sanitarie, specialmente della dietetica, per preservare la salute e prolungare la vita. Ne fanno parte alcune delle opere più diffuse di Pietro medico, come il Thesaurus pauperum, quasi sempre seguito dal De febribus, ma anche il De oculo (che comprende due opere: Tractatus mirabilis acquarum e De aegretudinibus oculorum et curis). Tra gli opuscoli medici si includono anche compilazioni di ricette e diete come le Diete super cyrurgia, la Summa de conservanda sanitate e il De regimine sanitatis, o trattatelli come il De phlebotomia o il De anathomia corporis. Il Thesaurus pauperum, con il De febribus a completarlo, è l'opera più diffusa e popolare di Pietro, con quasi duecento manoscritti, varie decine di edizioni a stampa e traduzioni in diverse lingue volgari e in ebraico. Il Thesaurus contiene ricette, molte delle quali elaborate dallo stesso autore, su tutto il genere di affezioni umane, organizzate in ordine, dai capelli alle unghie dei piedi. L'autore pone l'opera sotto l'egida del "padre dei poveri", cioè Dio, il che erroneamente fu interpretato come una dedica a Gregorio X, al cui servizio sarebbe stato, secondo questa medesima ipotesi, quando l'opera fu scritta. Non è possibile tuttavia sapere in che contesto e in che epoca queste raccolte di ricette siano state scritte, ma i riferimenti a medici salernitani o a medici imperiali ci suggeriscono che siano state composte da Pietro Ispano medico in Siena e iniziate o compilate prima del 1250.
La Expositio librorum beati Dionysii abbraccia la totalità del corpus dionisiano, eccetto le ultime quattro lettere. In effetti questo commento è una parafrasi del commento letterale o Extractio di Tommaso da Gaul, abate di Vercelli. Il pensiero di Dionigi Areopagita è glossato con un linguaggio influenzato dalla scuola di S. Vittore di Parigi, che sottolinea il neoplatonismo e i temi caratteristici dell'autore greco: Dio, trascendenza, partecipazione, gerarchia, illuminazione, eccesso, emanazione e ritorno (redditus). Questa influenza e un riferimento a Federico II sembrano indicare che la Expositio sia stata composta in Italia prima del 1250. L'opera teologica ed esegetica attribuita a Pietro Ispano comprende anche una raccolta di Sermones praedicabiles, per le domeniche dell'anno. I quattro manoscritti esistenti presentano diverse serie o versioni di sermoni che offrono un'interpretazione preferenzialmente morale delle letture della messa. I cronisti più antichi, tutti scrittori ecclesiastici, parlano della scientia del papa, il che in questo contesto sembra indicare la scientia biblica, cui si ricollega esattamente questo tipo di testi teologico-esegetici.
Nei secoli successivi la scientia, cui i cronisti si riferivano, fu interpretata come scienza naturale o fisica, il che sta alla base dell'attribuzione a G. di tutta la produzione di opere, scritte da uno o più Pietro Ispano del sec. XIII. Questa tendenza interpretativa si affermò già alla metà del sec. XIV e l'autore, o gli autori, di quella straordinaria produzione fu progressivamente identificato con Pietro di Giuliano di Lisbona, futuro papa. Ma la biografia documentata di Pietro di Giuliano, la diffusione manoscritta delle opere attribuite a Pietro Ispano, le rispettive differenze di stile e di contenuto, e la complessa ma acritica storiografia su "Pietro Ispano" forniscono elementi che rendono molto problematico l'accettare l'unità dell'autore di tutte queste opere. La parte ascrivibile a Pietro di Giuliano è ancora da determinare con precisione, e non è da escludere che quest'ultimo non sia l'autore di alcuna opera.
Una parte sostanziale delle opere attribuite a Pietro Ispano è ancora inedita. Il manoscritto 1877 della Biblioteca nacional di Madrid è particolarmente importante perché contiene un numero notevole di opere mediche e uno dei commentari al De animalibus. Esistono comunque edizioni integrali di opere o frammenti: nell'Omnia opera Ysaaci (Lugduni, Johannis de Platea, 1515) sono contenuti il Commentarium super Librum dietarum universalium Isaaci (cc. XI-CIII), il Commentarium super Librum dietarum particularium Isaaci (cc. CIII-CLVI), e il Commentarium super Librum urinarum eiusdem (cc. CLVI-CCIII); Die Ophtalmologie (Liber de oculo), a cura di A.M. Berger, München 1899; Scientia libri de anima, in Pedro Hispano, Obras filosóficas, a cura di M. Alonso, I, Madrid 1941; Comentário al De anima de Aristóteles, ibid., II, ibid. 1944; Liber de morte et vita et de causis longitudinis ac brevitatis vite, ibid., III, ibid. 1953, pp. 403-490; De rebus principalibus naturarum (frammento), ibid., pp. 491-502; Expositio librorum beati Dionysii / Exposição sobre os livros do beato Dionísio Areopagita, a cura di M. Alonso, Lisboa 1957; Tractatus, called afterwards Summulae logicales, a cura di L.M. de Rijk, Assen 1972; Obras médicas, a cura di M.H. da Rocha Pereira, Coimbra 1973 (comprende: Thesaurus pauperum e Tractatus de febribus, pp. 76-408; De regimine sanitatis o De dieta (Pseudo) Hippocratis per singulos menses anni observanda, pp. 414-419; Summa de conservanda sanitate, pp. 444-491); Problemata, in M. de Asúa, The organization of discourse on animals in the thirteenth century. Peter of Spain, Albert the Great, and the commentaries on "De animalibus", Notre Dame, IN, 1991, pp. 359-403; Syncategoreumata, a cura di L.M. de Rijk, Leiden-New York-Köln 1992.
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