GIOVANNI XXIII, papa
GIOVANNI XXIII, papa. – Angelo Giuseppe Roncalli nacque a Sotto il Monte (Bergamo) il 25 nov. 1881, quartogenito di Giovanni Battista e di Marianna Mazzola, che ebbero dopo di lui altri nove figli, in una famiglia mezzadrile a struttura patriarcale di modeste risorse economiche, composta, alla sua nascita, da una trentina di persone.
Alla famiglia di origine il Roncalli restò sempre legatissimo, soccorrendola come poteva con limitati aiuti finanziari, intrattenendo con diversi suoi membri una continua e affettuosa corrispondenza e ritornando nel suo seno per i brevi periodi che gli furono concessi dalle circostanze.
Con l'aiuto anche economico del parroco F. Rebuzzini - alla cui morte, avvenuta nel 1898, ebbe in ricordo il libretto dell'Imitazione di Cristo, fonte centrale della sua spiritualità - nel 1892 il Roncalli entrò nel corso ginnasiale del seminario di Bergamo, durante l'episcopato di G.C. Guindani, e vestì l'abito clericale nel 1895, anno d'inizio delle sue "note spirituali" intitolate più tardi, nel 1902, Il giornale dell'anima (prima ed. a cura di L.F. Capovilla, Roma 1964; ed. critica a cura di A. Melloni, Bologna 1987). Nel 1900 fu inviato, con una borsa di studio, a continuare gli studi teologici presso il pontificio seminario romano dell'Apollinare, interrotti tra il 1901 e il 1902 per il servizio di leva a Bergamo.
Al seminario romano ebbe come maestri, tra gli altri, U. Benigni e C. Salotti, e come compagno, per un breve periodo, E. Buonaiuti.
Fu ordinato sacerdote il 10 ag. 1904 nella chiesa di S. Maria in Monte Santo; dal 1902 la sua direzione spirituale era stata assunta dal padre redentorista F. Pitocchi, che gli consentì di affrontare con serenità d'animo i primi fermenti modernistici, definiti più tardi, con implicito riferimento autobiografico, "una tentazione per tutti".
Il Roncalli non era rimasto insensibile ai problemi posti dalle nuove tendenze critiche, pur non intendendo "azzardare proposizioni, anche di un apice difformi dal retto sentire della Chiesa" (Giornale dell'anima, 9-18 dic. 19o3, 1987, p. 311), in uno spirito di completa obbedienza.
Il 13 luglio 1904 si laureò in teologia, iscrivendosi subito dopo ai corsi di diritto dell'Apollinare; ma prima di concluderli, nel 1905, fu richiamato a Bergamo, in qualità di segretario del nuovo vescovo G. Radini Tedeschi.
Iniziò da allora un periodo della sua esistenza, protrattosi per nove anni, in cui la vicinanza alla persona e la diretta partecipazione all'attività di Radini Tedeschi - figura di rilievo nazionale e internazionale del movimento cattolico, rinnovatore, sul modello borromaico, della Chiesa di Bergamo, propugnatore di riforme liturgiche e di un aggiornamento della cultura dei seminari - si ripercossero profondamente sul profilo umano e religioso del Roncalli.
Divenuto collaboratore del giornale L'Eco di Bergamo e del settimanale della diocesi La Vita diocesana, docente di storia ecclesiastica presso il seminario locale dal 1906 al 1914 e, per periodi più brevi, di patrologia, di apologetica e di teologia fondamentale, il Roncalli ebbe modo di scoprire e coltivare il suo interesse per la storia della Chiesa.
In particolare si dedicò, con la collaborazione di don P. Forno, allo studio dell'inedita visita pastorale di Carlo Borromeo del 1575, pubblicata molto più tardi (Gli atti della visita apostolica di s. Carlo Borromeo a Bergamo, I-V, Firenze 1936-57) e con altri lavori sulle istituzioni di beneficenza e sul seminario di Bergamo. Il 4 dic. 1907, all'indomani della promulgazione della Pascendi, tenne, per incarico del vescovo, la celebrazione del terzo centenario di Cesare Baronio, in cui non esitò ad accennare all'importanza degli studi positivi e all'opportuna armonizzazione dell'irrinunciabile tomismo "colle nuove esigenze dei tempi e coi postulati della scienza contemporanea" (Il cardinale C. Baronio, Roma 1961, p. 43; già edito in La Scuola cattolica, XXVI [1908], pp. 1-29); approvò poi incondizionatamente i "provvedimenti pontifici intesi a salvaguardare specialmente il clero dall'infezione degli errori moderni (cosiddetti modernistici), che in modo subdolo e affascinante tentano di demolire i fondamenti della dottrina cattolica", ringraziando il Signore di averlo "mantenuto illeso in mezzo a tanto ribollire ed agitarsi di cervelli e di lingue" (Giornale dell'anima, 2-8 ott. 1910, 1987, p. 385); ma espresse al suo vescovo dissenso dall'esasperazione dei toni polemici, degli attacchi personali e delle denunce, che non mancarono di riguardarlo direttamente. Nel 1912, anno in cui entrò come "esterno" nella congregazione diocesana dei preti del S. Cuore, ebbe parte di rilievo nella redazione della lettera collettiva dei vescovi lombardi, che ne avevano affidato la stesura al Radini Tedeschi, per il XVI centenario dell'editto di Milano. Alla morte del suo vescovo, il 22 ag. 1914, il Roncalli ne scrisse una biografia (Mons. G.M. Radini Tedeschi, vescovo di Bergamo, Bergamo 1916, poi Roma 1963).
Chiamato alle armi nel maggio 1915, prestò servizio nella sanità in veste di sottufficiale e, dal 28 marzo 1916, come cappellano militare, ma non fu mai sul fronte di guerra. Non sembra, comunque, che l'esperienza bellica, durante la quale interruppe anche le sue annotazioni spirituali, lasciasse nel Roncalli tracce profonde, a differenza di quanto accadde per altri cappellani.
In una lettera scritta dopo Caporetto al fratello Giuseppe, a sua volta chiamato alle armi, manifestava i propri sentimenti patriottici frammisti a una vena antiliberale, annotando che "molti soldati purtroppo a sentir parlare di patria scrollano le spalle, ridono, oppure bestemmiano e maledicono. Noi no. Noi facciamo il nostro dovere guardando in alto. Gli uomini che ci hanno governato e ci governano non meritano i nostri sacrifici, ma la patria oggi in pericolo li merita tutti. Gli uomini passano e la patria resta" (Lettere alla famiglia, a cura di E. Roncalli - M. Roncalli, Milano 1988, p. 51).
Chiamato nel dopoguerra dal vescovo L. Marelli, succeduto al Radini Tedeschi, a presiedere la Casa dello studente fondata dalla diocesi di Bergamo, e alla direzione spirituale del seminario vescovile, posto di fronte all'eventualità di ricevere un'onorificenza ufficiale per i meriti acquisiti durante il conflitto, se ne schermì per il timore di essere identificato come un liberale. Al principio del 1921, superati laceranti dubbi, accettò di abbandonare Bergamo per assumere la carica di presidente del consiglio romano della Pia Opera per la propagazione della fede, destinata a occuparsi delle missioni, alle dipendenze della congregazione di Propaganda Fide. Il ritorno a Roma, in contatto con l'apparato di governo della S. Sede e con lo stesso pontefice Benedetto XV, che il 7 maggio 1921 lo nominò prelato domestico, impresse un nuovo corso alla sua esistenza. Già nel 1921, in ragione della nuova carica, intraprese un lungo viaggio in Francia, Belgio e Germania, con lo scopo di assicurare un miglior coordinamento romano delle attività locali a favore delle missioni, e avviò una serie di visite nelle diocesi italiane per promuoverne l'impegno missionario. L'Opera divenne "il respiro della sua anima e della sua vita". Scarsamente coinvolto dalle vicende politiche del dopoguerra, adottò al riguardo un atteggiamento di distacco, pur asserendo, in una lettera ai familiari del 24 febbr. 1924, di restare "fedele al Partito popolare" e, in altra missiva del 4 aprile, di non sentirsela di votare per i fascisti "in coscienza di cristiano e di sacerdote."
E proseguiva: "Padroni tutti di pensarla come credono. Vedremo in fine chi ha ragione; voi fate come vi pare. Il mio avviso sarebbe questo: dare il voto alla lista popolare, se c'è libertà di votazione. Se invece c'è pericolo di noie, stare a casa propria e lasciare che il mondo vada come vuole. Di una cosa state sicuri, cioè che la salute d'Italia non può venire neanche da Mussolini per quanto sia un uomo d'ingegno. I suoi fini sono forse buoni e retti, ma i mezzi sono iniqui e contrari alla legge del Vangelo" (Lettere alla famiglia, pp. 68 ss.).
Designato alla carica di visitatore apostolico in Bulgaria, fu ordinato vescovo il 17 marzo 1925, ponendosi sotto il patronato di s. Giuseppe, nonché di "san Francesco Saverio, san Carlo, san Francesco di Sales, i protettori di Roma e di Bergamo, il beato Gregorio Barbarigo" e assumendo come motto quello del Baronio (ma con i due termini invertiti) "Oboedientia et pax".
Improntò la sua missione a rapporti di amicizia e di collaborazione con la Chiesa ortodossa autocefala bulgara, e all'opera di soccorso ai profughi bulgari provenienti dalla Tracia e dalla Macedonia, acquisite dalla Grecia; adottò grande cautela, in accordo con la S. Sede, di fronte alle numerose richieste avanzate da seminaristi ortodossi di completare gli studi in istituti cattolici, e si adoperò per la realizzazione del controverso progetto di fondazione di un seminario cattolico in Bulgaria - sostenuto dai fautori dell'"unionismo" in contrasto con la linea della latinizzazione delle Chiese orientali - che poté inaugurare soltanto nel 1934.
Nel 1929 salutò con esultanza la firma dei Patti lateranensi, scrivendone alle sorelle: "Tutto ciò che la massoneria cioè il diavolo, aveva fatto in 60 e più anni contro la Chiesa e contro il Papa in Italia, tutto è stato rovesciato […]. Non mancheranno altre pene. Ma intanto bisogna avere il coraggio della lealtà e riconoscere che ciò che è avvenuto ha del prodigio e può portare un bene incalcolabile all'Italia nostra e a tutto il mondo. Ora chi aveva un po' studiato e non andava in chiesa, e non era praticante in nome del patriottismo, ha perduto ogni scusa" (ibid., p. 113).
Coinvolto in delicate vicende diplomatiche, per esempio in occasione del matrimonio di re Boris con la cattolica Giovanna di Savoia, incorrendo anche in frizioni con la legazione francese da lui giudicata esasperatamente nazionalista, il Roncalli vide ritardare oltre le attese, sino al settembre 1931, l'elevazione della sede di Sofia a delegazione apostolica e la propria conseguente promozione a delegato: il che confermò una sua intima impressione di essere stato emarginato dalla S. Sede e acuì il suo senso di solitudine.
Nominato da Pio XI delegato apostolico a Istanbul alla fine del 1934, s'insediò con il titolo di arcivescovo di Mesembria nel gennaio 1935, in un momento di grandi tensioni tra il governo laicizzatore di Kemal Atatürk e tutte le comunità religiose, a loro volta divise da vecchi e nuovi antagonismi.
Costretto dalle leggi locali all'abito civile e avviato da parte sua l'apprendimento della lingua turca, che incominciò a usare anche nella lettura del Vangelo e nella benedizione conclusiva della messa - sebbene la comunità cattolica locale di rito latino, di cui era ordinario, fosse plurinazionale e prevalentemente francofona -, approfondì la conoscenza della tradizione patristica d'Oriente, delle Chiese ortodosse e del mondo islamico. A più riprese, non senza incontrare difficoltà e ostilità, visitò la Grecia, alla quale si estendeva la sua funzione di delegato. Nell'Epifania del 1939 accennò, in una predica, prendendo spunto dalle reliquie dei magi conservate nel duomo di Colonia, alle persecuzioni razziali.
Allo scoppio della guerra, che nel marzo 1940 il Roncalli prevedeva catastrofica per tutte le parti belligeranti, la sede di Istanbul, in ragione della neutralità turca, divenne un nodo centrale della diplomazia e dello spionaggio internazionali.
Il Roncalli, attenendosi a un tradizionale paradigma ecclesiastico, scorse "nel terrore e nell'orrore che ci avvolgono, le terribili sanzioni che la legge divina riceve anche sulla terra" (Giornale dell'anima, 25-31 ott. 1942, 1987, p. 593), appellandosi, come rimedio, "ai principii base dell'ordine sociale cristiano"; indicò nel laicismo e nel nazionalismo "i due grandi malanni che attossicano oggi il mondo", caratteristico il primo "degli uomini di governo e dei laici", il secondo condiviso anche dagli ecclesiastici (ma con la convinzione che "gli italiani, specialmente i sacerdoti secolari, ne fossero meno contaminati"), assegnando a se stesso, come rappresentante della Chiesa "madre delle nazioni, di tutte le nazioni", il dovere di tenersi al riparo da tale contagio.
Sul piano diplomatico adottò effettivamente una regola di equidistanza tra i rappresentanti degli Stati in conflitto, ma attivò, anche a fini umanitari, rapporti molto cordiali con le autorità militari italiane in Grecia dopo l'occupazione italo-germanica del paese. Nel 1939-40 aveva contato sulla non belligeranza italiana, attribuendone il merito a Mussolini, e salutandola come la ricompensa divina per la stipula della conciliazione; poi, fino all'inizio del 1943, aveva creduto nel "felice esito" del conflitto per l'Italia, accennando nei suoi dispacci a valutazioni azzardate sull'andamento della guerra in Nordafrica e in Russia (e destando per questo commenti non benevoli del segretario degli Affari ecclesiastici straordinari, D. Tardini). Alla notizia della caduta del regime fascista, ne scrisse ai familiari con tono di prudenza, giudicando favorevolmente l'evento come un passaggio avvenuto senza scosse "da una costituzione politica all'altra" (Lettere alla famiglia, p. 219).
Allacciò una relazione di fiduciosa amicizia con l'ambasciatore del Reich in Turchia, F. von Papen, stimato dal Roncalli in quanto fervente cattolico, e con il collaboratore di questo K. von Lersner, ritenendoli entrambi desiderosi di pace e occulti oppositori del regime nazista, in quanto eredi della vecchia Germania; pur con qualche cautela, accreditò nella sua corrispondenza diplomatica gli inviti e le calcolate sollecitazioni provenienti da quella fonte per l'assunzione da parte della S. Sede di un ruolo attivo di pacificazione, nel quadro di un disegno, tanto ambiguo quanto pretenzioso, coltivato da Papen, in senso prevalentemente antisovietico.
Il principale campo di attività del Roncalli in epoca bellica fu, peraltro, quello umanitario, per il quale poté avvalersi delle sue buone relazioni con quasi tutte le parti in lotta contribuendo, direttamente o indirettamente, alla salvezza di molti ebrei nei territori dell'Europa balcanica occupati dai Tedeschi o alleati dei Tedeschi.
Affrontò con particolare determinazione il problema dei profughi in fuga, tenendo contatti con la Jewish Agency, provvedendo allo scambio di informazioni e cercando di favorire il passaggio e l'asilo degli israeliti, "parenti e […] concittadini di Gesù", in territori neutrali senza tralasciare d'investire della questione la segreteria di Stato, che informò altresì circa "episodi raccapriccianti nel trattamento verso gli ebrei". Al momento della rottura delle relazioni tra Turchia e Germania (agosto 1944), il Roncalli rivolse le sue cure anche ai numerosi cittadini tedeschi deportati e internati dal governo turco.
Nel dicembre 1944 fu raggiunto improvvisamente dalla notizia della sua designazione, avvenuta per diretta volontà di Pio XII, alla nunziatura apostolica di Parigi, donde il predecessore, V. Valeri, in quanto accreditato presso il governo di Vichy, era stato allontanato dal generale Ch. de Gaulle che richiedeva anche un'ampia epurazione nelle file dell'episcopato francese accusato di collaborazionismo. Il Roncalli si sottopose a un tour de force aereo per giungere prima della fine del '44 nella capitale francese, passando per Ankara, Il Cairo, Bengasi, Roma, dove fu ricevuto dal papa ed ebbe in consegna il testo dell'indirizzo di auguri che doveva pronunciare il primo giorno del nuovo anno come decano del corpo diplomatico.
Sbalzato di colpo e inaspettatamente, quand'era "incamminato decisamente verso la vecchiaia", in una delle più importanti sedi diplomatiche pontificie, proiettato dall'Oriente nel cuore dell'Occidente, in un ambiente fortemente secolarizzato e in un momento decisivo della guerra, portò anzitutto a buon fine la questione insorta a proposito dei membri dell'episcopato sgraditi al governo francese, sulla base di volontarie dimissioni di tre di loro e della contemporanea nomina di nuovi vescovi da parte della S. Sede.
Si immerse, con letture, colloqui e frequenti viaggi per il paese, che suscitarono malumori nelle sfere governative e alla segreteria di Stato, nella realtà multiforme e dinamica del cattolicesimo francese incontrando di persona alcuni dei suoi esponenti più significativi, come padre L.-J. Lebret, l'abate G. Michonneau e il filosofo J. Maritain, sul punto di diventare ambasciatore presso la S. Sede. Concentrò la sua vita spirituale, alimentata da ritiri in comunità conventuali come Solesmes, sulla meditazione "del messale, del breviario, della Bibbia", dell'Imitazione di Cristo e delle Méditations sur l'Évangile di J.-B. Bossuet, con il proposito di coltivare, sull'esempio di s. Francesco di Sales, l'esercizio "dell'amabilità con tutti, della indulgenza, del garbo e della pazienza", della simplicitas evangelica contrapposta alla furbizia e alla "cosiddetta destrezza diplomatica", inclusa quella della diplomazia vaticana. Nel manifestare sincera ammirazione per la nobilissima Gallorum gens e apprezzamento di "questi valorosi e cari cattolici di Francia", avvertiva tuttavia come dovere di coscienza "di non coprire, per puro complimento o per tema di recare dispiacere, la constatazione di quelle che sono pure le deficienze e lo stato vero della primogenita della Chiesa circa la pratica religiosa, il disagio per la questione scolastica insoluta, l'insufficienza del clero, la diffusione del laicismo e del comunismo" (Giornale dell'anima, 8-13 dic. 1947, 1987, pp. 610 s.). Dalla documentazione disponibile non sembra che il nunzio Roncalli cogliesse appieno le implicazioni della Mission de Paris e dell'esperimento dei preti operai francesi, cui tuttavia, almeno agli inizi, manifestò incoraggiamento: non ebbe comunque parte significativa negli sviluppi successivi della vicenda. Nelle ricorrenti udienze pontificie espresse, in linea generale, un atteggiamento di cauta fiducia verso i fermenti espressi dal cattolicesimo francese.
Interpellato dal sostituto della segreteria di Stato G.B. Montini, nel novembre 1952, circa la propria disponibilità al trasferimento nella sede patriarcale di Venezia, il Roncalli rispose positivamente, citando il proprio motto episcopale. Creato cardinale nel concistoro del 12 genn. 1953 - la berretta gli fu imposta dal presidente della Repubblica francese il 15 gennaio - fece l'ingresso a Venezia il 15 marzo dello stesso anno, dopo una sosta a Roma per il prescritto giuramento nelle mani del presidente italiano L. Einaudi. A 72 anni, il Roncalli iniziava il suo primo autentico ministero pastorale, proponendosi di seguire le orme di Pio X, suo predecessore, del cardinale A. Ferrari e di Radini Tedeschi.
Nei cinque anni di servizio patriarcale ebbe modo di manifestare non solo le proprie doti personali, ma gli aspetti distintivi, non consueti nel panorama italiano e maturati in mezzo secolo di meditazioni, della propria concezione della Chiesa, dei suoi rapporti con la storia e con il mondo presente, giudicato senza preclusioni apocalittiche o preconcette avversioni. Sebbene all'epoca pochi mostrassero di accorgersene, le innovazioni introdotte dal Roncalli nel governo della diocesi andarono oltre i tratti di bonomia propri della sua indole. Si trattò principalmente di uno stile pastorale, che nella cornice delle tradizioni e prescrizioni tridentine, assumeva come regola quella d'agire "con affetto, con rispetto, in forma paterna", come disse nell'inaugurare, il 28 febbr. 1954, la visita della diocesi; e come confermò nella lettera pastorale per la Quaresima del 1955 Per un rinnovamento pastorale: ove esprimeva ottimismo verso il presente e confidenza nell'efficacia della fede anche "innanzi allo spettro del trionfo del marxismo ateo e materialista" (Scritti e discorsi 1953-1958, I-IV, Roma 1959-62, II, pp. 28-42). Nel discorso dedicato all'Eucarestia fondamento di solidarietà e di pace sociale, pronunciato al congresso eucaristico di Torino il 1° sett. 1953, il Roncalli aveva ripreso l'esortazione agostiniana "interficite errores, diligite errantes". In occasione delle celebrazioni del centenario di s. Lorenzo Giustiniani, nel 1956, pubblicò una pastorale di ampiezza inconsueta, incentrata sul tema del ritorno alla Bibbia e del suo insegnamento al popolo: tema già affrontato nella lettera all'Azione cattolica diocesana dell'agosto 1955, dove si parlava di un ritorno della Chiesa alle "note caratteristiche della Chiesa primitiva e cioè: studio e conoscenza del Cristo e del Vangelo, esposizione catechistica e non polemica delle verità rivelate" (ibid., II, p. 165). In occasione del sinodo diocesano, tenuto nel novembre 1957 a compimento della visita pastorale, una speciale attenzione volle fosse dedicata all'insegnamento della religione e alla pratica liturgica. Nell'omelia per l'Ascensione del 1958, il Roncalli sintetizzò la propria concezione della Chiesa non "ordinata a procurare il benessere terreno, e a dare le esatte indicazioni circa gli ordinamenti umani", e nemmeno essenzialmente destinata "a reprimere eresie, a battezzare neonati, e a impedire che gli uomini si perdano eternamente", ma "istituita perché si avveri il voto contenuto nella prima pagina del Vangelo di san Giovanni "a quanti l'hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio"" (ibid., III, pp. 251 s.).
Nei confronti della situazione politica locale, movimentata dalle aperture della sinistra democratico-cristiana capeggiata da W. Dorigo verso il partito socialista, che portarono nel 1956 alla costituzione di una giunta amministrativa di centrosinistra, il Roncalli intervenne per moderare le reazioni ostili dell'episcopato triveneto (e del S. Uffizio), ma prese netta posizione contro l'apertura a sinistra "ad ogni costo": già in precedenza aveva condannato i contrasti in seno all'Azione cattolica locale, stigmatizzando le posizioni più innovatrici della federazione universitaria cattolica. Nel gennaio 1957, rifacendosi all'immagine delle cinque piaghe del Crocifisso, le faceva corrispondere al liberalismo, al marxismo, al democratismo, alla massoneria e al laicismo. Ma poco dopo inviò al congresso nazionale dei socialisti, riunito a Venezia, un messaggio che fece molto scalpore e suscitò interpretazioni strumentali, tanto da indurlo a una successiva precisazione.
Partito il 12 ott. 1958 per il conclave convocato in seguito alla morte di Pio XII, vi entrò il 25 ottobre e ne uscì il 28 dello stesso mese eletto papa, dopo undici scrutini. Assunse il nome di Giovanni XXIII, con l'intento di riferirsi ai due Giovanni, il Battista e l'Evangelista, "qui propinquiores fuerunt, et sunt, Christo Domino, universi mundi Redemptori divino et ecclesiae Fundatori" (e dando implicitamente per accertata la discussa illegittimità di quel Giovanni XXIII elevato al soglio pontificio nel 1410, nel pieno dello scisma d'Occidente).
L'elezione, avvenuta in un momento critico per la Chiesa cattolica (che, al termine del drammatico pontificato di papa Pacelli, era attraversata da molteplici fermenti teologici e disciplinari duramente contrastati dagli ambienti curiali e dagli episcopati più tradizionalisti) e per l'ordine internazionale (sul quale pesavano i tragici eventi del 1956, che avevano fatto seguito al XX congresso del Partito comunista dell'Unione Sovietica e alle prime avvisaglie di distensione), colse di sorpresa G., ormai convinto di finire i suoi giorni a Venezia. In ragione dell'età dell'eletto, che aveva compiuto i 77 anni, del suo profilo pastorale, di non agevole definizione secondo gli schemi correnti, e della sua variegata carriera ecclesiastica, la scelta del conclave, su cui aleggiò il nome di un grande assente, l'arcivescovo di Milano G.B. Montini non insignito della porpora cardinalizia, venne universalmente interpretata sotto il segno della mediazione tra le diverse tendenze cardinalizie e della transitorietà. Viceversa si rivelò un pontificato di eccezionale rilievo storico, per quanto interpretato in modi diversi e contrastanti.
G. enunciò sin dal discorso dell'incoronazione, il 4 novembre, lo spirito che intendeva imprimere al suo nuovo servizio, contraddicendo "chi aspetta nel pontefice l'uomo di Stato, il diplomatico, lo scienziato, l'organizzatore della vita collettiva, ovvero colui il quale abbia l'animo aperto a tutte le norme di progresso della vita moderna, senza alcuna eccezione", e richiamando invece come primo suo compito quello del "pastore di tutto il gregge" modellato sull'"immagine del buon Gesù" (Discorsi, messaggi, colloqui, I-VI, Città del Vaticano 1960-67; I, pp. 10-14). Con l'intento di far risaltare la radice episcopale della potestà pontificia, dette rilievo alla cerimonia del proprio insediamento quale vescovo di Roma, nella basilica di S. Giovanni in Laterano, il 23 novembre, e incominciò a dedicare visite alla diocesi, privilegiando i luoghi di sofferenza, ospedali o carceri.
Nello stesso tempo G. avviò una normalizzazione degli organi centrali del governo ecclesiastico, dopo l'immobilismo e la paralisi dell'ultimo scorcio del pontificato pacelliano: il 17 nov. 1958 nominò segretario di Stato, carica rimasta vacante dalla morte del cardinale L. Maglione nel 1944, D. Tardini, uno dei più stretti collaboratori di Pio XII; il 15 dicembre provvide alla creazione di 23 nuovi cardinali, tra i quali, oltre allo stesso Tardini, G.B. Montini, G. Urbani, C. Confalonieri, A. Cicognani, l'austriaco F. König, il tedesco J. Döpfner.
In seguito G. creò, a varie riprese, altri 22 cardinali, producendo un notevole ricambio e una ragguardevole estensione e internazionalizzazione del S. Collegio. Impose infine ai cardinali di Curia l'obbligo di ricoprire un solo incarico.
Ma la decisione più significativa, che doveva conferire un senso inatteso al suo pontificato, riconducibile alla sua personale iniziativa e da lui stesso rivendicata come atto preminente della propria giurisdizione, fu quella di convocare un concilio ecumenico della Chiesa. Ne dette l'annuncio il 25 genn. 1959, nella basilica di S. Paolo fuori le Mura, ai cardinali ivi riuniti a conclusione di una settimana di preghiere per l'unità dei cristiani, esprimendo anche l'intenzione di convocare un sinodo diocesano e di provvedere successivamente alla riforma del codice di diritto canonico. Sebbene le reazioni del Collegio cardinalizio a quel disegno risultassero alquanto fredde e preoccupate, a differenza di quelle prevalenti nell'opinione pubblica, G. procedette sulla sua strada con determinazione.
Costituì il 16 maggio una commissione antepreparatoria composta da esponenti di Curia e presieduta da Tardini, con il compito di realizzare una consultazione dell'intero episcopato cattolico; e introdusse, il 14 luglio, una cesura nei confronti dell'incompiuto concilio Vaticano I, con lo stabilire che il futuro concilio si sarebbe denominato Vaticano II, smentendo l'opinione di chi riteneva ormai superata al vertice della Chiesa ogni dinamica conciliare. In altra occasione definì il progettato concilio una "novella Pentecoste", rimarcandone il significato di evento soprannaturale e rinnovatore affidato all'azione misteriosa dello Spirito.
Il 5 giugno 1960 pubblicò un motu proprio per la preparazione materiale del concilio; il 14 novembre insediò le nove commissioni preparatorie, istituite il 4 giugno e presiedute dai vertici delle congregazioni pontificie, delineando come compito precipuo del concilio quello "di rimettere in valore e splendore la sostanza del pensare e del vivere umano e cristiano di cui la Chiesa è depositaria e maestra nei secoli" (Discorsi…, III, p. 18). Con analoga decisione procedette alla convocazione del sinodo romano, che si svolse dal 24 al 31 genn. 1960, nella cattedrale di S. Giovanni.
Era il primo sinodo locale dell'età moderna, ma i suoi atti, approvati il 28 giugno dello stesso anno, non presentarono aspetti di rilievo, se non come segno di un'auspicata rivitalizzazione della dimensione diocesana.
In margine alla preparazione del concilio, ma in diretta connessione con lo spirito e le finalità che intendeva imprimergli, G. sviluppò un'intensa iniziativa di natura ecumenica e interreligiosa, intervenendo altresì in molte occasioni sul tema della pace, uno degli argomenti dominanti della sua prima enciclica Ad Petri cathedram, del 29 giugno 1958.
Intrecciò relazioni con il patriarca ortodosso di Costantinopoli, Atenagora, e ricevette la visita del primate anglicano G.F. Fisher (2 dic. 1960). Affidò al gesuita tedesco A. Bea, appena elevato alla porpora ed esponente di spicco della linea di rinnovamento dell'esegesi biblica cattolica - sottoposta nel triennio 1959-62 a virulenti attacchi da parte degli ambienti tradizionalisti -, la costituzione e la presidenza di un organismo interamente nuovo, indipendente dagli apparati di Curia e incaricato delle relazioni con le Chiese e denominazioni non cattoliche, il segretariato per l'Unità dei cristiani. Volle, infine, che fossero espunte le espressioni offensive per gli israeliti presenti nella liturgia cattolica della settimana santa e nelle rubriche del breviario e del messale.
Un altro aspetto della fase preparatoria del concilio, e di grande risalto istituzionale e simbolico, fu la spinta impressa dal pontificato di G. allo sviluppo autonomo delle Chiese extraeuropee, in conformità e indiretto sostegno al processo di rapida, e spesso drammatica, decolonizzazione, che stava specialmente interessando il continente africano.
Tra il 1959 e il 1961 G. dette vita alle Chiese autoctone, rette da episcopati indigeni, del Congo, del Burundi, del Vietnam, della Corea e dell'Indonesia, provvedendo personalmente alla consacrazione di vescovi locali e approvando l'istituzione di nuove diocesi, che alla fine del pontificato furono circa 300, nella quasi totalità situate in aree non europee.
Ma l'attenzione di G. al cosiddetto Terzo Mondo si spingeva oltre il campo strettamente ecclesiastico e trovò una sua autorevole verifica magisteriale e dottrinale il 15 maggio 1961, in occasione del 70° anniversario dell'enciclica Rerum novarum, con la pubblicazione dell'enciclica Mater et magistra.
Collocandosi sul tronco tradizionale del magistero sociale della Chiesa, con richiami all'insegnamento di Leone XIII, di Pio XI e di Pio XII, la Mater et magistra affrontava tuttavia i "nuovi e più importanti problemi del momento" e conteneva spunti ed enunciazioni impegnative, come quelle concernenti il doveroso collegamento del salario all'apporto dei lavoratori alla produzione nazionale e l'opportuna assunzione, da parte delle "classi lavoratrici" e delle loro rappresentanze, di più ampie responsabilità nelle imprese e, più in generale, sul piano politico. Ma il testo dell'enciclica presentava il suo punto più originale quando individuava nel sottosviluppo e nei suoi rapporti con il mondo industrializzato "il problema dell'epoca moderna". La proclamazione dei rischi neocolonialistici, il senso della pari dignità di tutti i popoli, l'idea dell'interdipendenza come connotato della storia mondiale, la denuncia dello scandalo della corsa agli armamenti e dello scarto tra le "forze gigantesche messe a disposizione dalla tecnica" e il loro utilizzo per fini disumani, qualificavano l'enciclica come un documento aderente alle più scottanti questioni planetarie, concepito, cioè, alla luce di una lettura dei "segni dei tempi", su cui si sarebbe incardinato l'ulteriore magistero di G. e, per sua volontà, lo spirito del concilio. Tali elementi giustificavano l'accoglienza positiva tributata all'enciclica da molti settori dell'opinione pubblica, e che contribuirono ad accreditare l'immagine di G. come di un papa molto sensibile ai problemi del mondo contemporaneo.
Sebbene potesse risultare sin troppo agevole attribuire agli atti e al magistero di G. un significato o almeno un rilievo politico, egli era per parte sua vigile nella distinzione delle sfere e delle responsabilità, e convinto che la propria opera dovesse collocarsi oltre la cura degli "affari terreni" e la sua parola avere come unica guida il Vangelo, che si leva "al di sopra di tutte le opinioni e i partiti che agitano e travagliano la società e l'umanità intera".
La citazione era tratta da una "pagina inattesa" di una raccolta di scritti spirituali e ascetici di A. Rosmini, in cui G. si era imbattuto nell'agosto 1961, in ritiro spirituale a Castel Gandolfo, e che aveva interamente riprodotto nel Giornale dell'anima, con marginali correzioni e aggiunte, e dunque facendola propria: "Il compito sublime, santo e divino, del Papa per tutta la Chiesa e dei vescovi per la diocesi di ciascuno, è predicare il Vangelo, condurre gli uomini alla salute eterna, con la cautela di adoperarsi perché nessun altro affare terreno impedisca, o intralci, o disturbi questo primo ministero. L'intralcio può sorgere soprattutto dalle opinioni umane in materia politica, che si dividono e si contrariano in vario sentire e pensare" (Giornale dell'anima, 10-13 ag. 1961, p. 714).
L'11 apr. 1961, rivolgendosi al presidente del consiglio A. Fanfani, alla guida di un governo che poteva contare sulla benevola astensione del Partito socialista italiano e che appariva propedeutico a una fase politica di centrosinistra fermamente osteggiata dalla maggioranza dall'episcopato italiano e da prestigiosi esponenti di Curia, G. aveva rilevato che "la singolare condizione della Chiesa cattolica e dello Stato Italiano […] suppone una distinzione ed un tal quale riserbo di rapporti, pur fatti di garbo e di rispetto" (Discorsi…, III, p. 205); analoghi concetti avrebbe enunciato ricevendo, l'anno successivo, in Vaticano, il presidente della Repubblica, A. Segni. Questo stesso stile di riserbo nei confronti di "contese interne di carattere politico-sociale tra i suoi figlioli che rispetta ed ama in eguale misura di comprensione", G. si sarebbe poi imposto in occasione delle controversie suscitate dai provvedimenti del primo governo di centrosinistra, nonostante le sollecitazioni che gli furono rivolte a influire sulla scena politica italiana.
Insediata il 12 giugno 1961 la commissione centrale preparatoria del concilio presieduta dallo stesso pontefice - che si astenne tuttavia dall'intervenire in maniera significativa sui testi degli "schemi" presentati dalle singole commissioni - ne fissò l'indizione per l'anno successivo, con la costituzione apostolica Humanae salutis del Natale 1961.
Vi risuonava un'aperta riprovazione per le "anime sfiduciate che non vedono altro che tenebre gravare sulla faccia della terra" e un vibrante richiamo agli "indizi non pochi che fanno bene sperare sulle sorti della chiesa e dell'umanità", e alla "raccomandazione di Gesù di saper distinguere i segni dei tempi (Matteo, 16, 3)" (Discorsi…, IV, pp. 867-876).
Stabilita definitivamente, con il motu proprio del 2 febbr. 1962, l'apertura del concilio per l'11 ottobre, festa della Divina Maternità di Maria, G. ne ribadì in molteplici circostanze le prerogative di effettiva collegialità, di reale universalità e di libera responsabilità; e ne approvò in agosto il regolamento.
Esso prevedeva tra l'altro l'uso esclusivo del latino come lingua del concilio, sulla falsariga della lettera apostolica del 22 febbr. 1962, Veterum sapientia, che per il suo rigore tradizionalista nella delicata e controversa materia linguistica suscitò qualche sorpresa.
Dopo aver ottenuto, mediante trattative riservate condotte in prevalenza dal nunzio apostolico in Turchia - e precedute da un inusuale scambio di auguri con il leader sovietico N.S. Chruščëv nel novembre 1961 - il nulla osta del governo di Mosca alla partecipazione all'assise sinodale di vescovi cattolici dell'area comunista, G. rivolse, a un mese dall'apertura del concilio, un radiomessaggio al mondo, nel quale tornava ad affrontare, in un'ampia prospettiva cristologica, il tema dei rapporti tra la missione della Chiesa e i problemi dell'umanità, con speciale riguardo all'unità dei cristiani e alla questione della pace; e indicava, come natura costitutiva della Chiesa, il suo essere "la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri" con riferimento esplicito al mondo sottosviluppato.
In uno stato di salute già gravemente compromesso da un tumore, G. intraprese, alla vigilia del concilio, una peregrinazione apostolica, densa di richiami simbolici e dottrinali, al santuario di Loreto e alla tomba di s. Francesco ad Assisi, accompagnato e accolto da grandi manifestazioni popolari di affetto. Era il primo viaggio di un papa fuori dalle mura romane dopo la caduta del potere temporale. Quindi, l'11 ottobre, alla presenza di circa duemila vescovi e di una cinquantina di "osservatori" appartenenti a Chiese ortodosse e protestanti, raccolti nella navata centrale della basilica di S. Pietro - e di fronte a un apparato di diffusione radio-televisiva che contribuì a rendere sin dall'esordio il concilio Vaticano II un evento mondiale di straordinaria risonanza - proclamò aperta l'assise conciliare con l'allocuzione programmatica Gaudet Mater Ecclesiae.
Si trattò di un discorso denso di spunti, di indicazioni e di propositi, nel quale vennero a concentrarsi, in una sintesi efficace, i motivi ispiratori del pontificato giovanneo, e gli obiettivi preminenti che il papa attribuiva al concilio. L'allocuzione si sviluppava lungo due principali assi. Da un lato, con allusione agli ambienti ostili o critici nei riguardi del concilio, esprimeva totale dissenso per i "profeti di sventura, che annunziano eventi sempre infausti, quasi che incombesse la fine del mondo", e "nei tempi moderni non vedono che prevaricazione e rovina […] e si comportano come se nulla abbiano da imparare dalla storia, che è maestra di vita", mentre nel presente momento storico, in cui "la società degli uomini sembra entrare in un nuovo ordine di cose", s'impone più che mai il saper riconoscere gli arcani disegni della Provvidenza, che "tutto dispongono per il maggior bene della Chiesa". Dall'altro lato, l'allocuzione indicava come compito primario del concilio "non la discussione di questo o quel tema della dottrina fondamentale della Chiesa", ma un magistero "a carattere preminentemente pastorale", consistente nella formazione delle coscienze improntata a una più ampia e più profonda conoscenza della "certa ed immutabile dottrina", investigata ed esposta "nel modo richiesto dal nostro tempo". Al concilio G. indicava come metodo non la via delle condanne e degli ultimatum, bensì "la medicina della misericordia", e la distinzione tra "il deposito stesso della fede, vale a dire le verità contenute nella nostra veneranda dottrina" e "il modo in cui esse vengono enunciate", rispettandone il senso originario. L'allocuzione si concludeva con un richiamo all'unità rivolto ai cattolici, ai "cristiani separati dalla Sede Apostolica" e a "coloro che seguono forme religiose ancora non cristiane": un richiamo che, nell'originale stesura giovannea, conteneva vibrazioni ecumeniche più marcate di quelle presenti nel testo poi effettivamente pronunciato.
A conclusione della memorabile giornata, rivolgendosi alla folla radunata in piazza S. Pietro e ai milioni di tele e radioascoltatori che avevano seguito lo svolgersi delle cerimonie e dei riti conciliari, G. pronunciò, improvvisandolo, un discorso ai "figliuoli di Roma", ma rivolto in realtà agli uomini, alle donne e ai bambini di tutto il mondo, rimasto celebre per la sua straordinaria carica emotiva (e pure interessante come testimonianza indiretta della convinzione del pontefice che il concilio potesse concludersi in tempi relativamente brevi).
Le sette settimane di durata della prima sessione del concilio non portarono tuttavia all'approvazione di alcun documento, ma furono decisive per la definizione di una metodologia di lavoro collegiale e per la messa in discussione degli "schemi" preparatori, considerati dalla maggioranza dell'assemblea come inadeguati alle finalità del concilio: ciò vanificò sin dall'inizio il disegno accarezzato da taluni settori ecclesiastici di attribuire al concilio un compito meramente sanzionatorio.
Per entrambi questi aspetti ebbe un peso determinante la scelta di G. di interferire in misura marginale sullo svolgimento dei lavori sinodali, "per lasciare ai Padri la libertà di discussione e la possibilità di trovare la giusta via da sé", limitandosi a intervenire sulle procedure e sull'articolazione degli organi conciliari: per esempio equiparando il segretariato per l'Unità dei cristiani alle commissioni del concilio; o disincagliando l'assemblea sinodale da una delicata situazione determinata dal voto della maggioranza dei padri contrario allo schema De fontibus revelationis, presentato dalla commissione dottrinale presieduta dal cardinale A. Ottaviani; o a proposito della creazione di una commissione di coordinamento, composta da membri del S. Collegio e dell'episcopato e destinata, tra l'altro, a garantire la continuità del concilio durante la sospensione dei lavori decretata l'8 dic. 1962, e in vista di una seconda sessione prevista per il settembre 1963.
In coincidenza con l'evento conciliare si stagliò più nitidamente il ruolo di G. sulla scena internazionale. L'apertura del concilio avvenne nel pieno della gravissima crisi tra Stati Uniti e Unione Sovietica, nota come crisi di Cuba, che aveva fatto aleggiare sul mondo la minaccia di un conflitto atomico. In quell'occasione G. mise in gioco tutta la propria influenza sulle due parti, il presidente americano di religione cattolica J.F. Kennedy, e il premier sovietico Chruščëv, e sull'opinione pubblica mondiale, per favorire una soluzione pacifica e consensuale della crisi; e salutò con esultanza il superamento del massimo punto di tensione con il radiomessaggio del 25 ottobre rivolto anche a "tutti gli artefici della pace, a tutti coloro che di cuore sincero lavorano per l'autentico bene degli uomini". Da quell'episodio prese le mosse una più intensa attività pontificia di relazioni con l'Est europeo volta ad attenuare il persistente stato di oppressione in cui giacevano le comunità cattoliche del mondo comunista, e sfociata all'inizio del 1963 nella liberazione del metropolita ucraino J. Slipyj. Il 7 marzo G. ricevette in udienza particolare A.I. Adžubej, direttore del giornale di Mosca Izvestija e genero di Chruščëv, con la moglie Rada.
Il fatto suscitò enorme sensazione, dissensi nella stessa segreteria di Stato, e pesanti attacchi personali al pontefice; questi, alieno da cedimenti o confusioni ideologiche, ma, convinto assertore del dialogo come metodo, ne restò amareggiato, definendo quegli attacchi, in un appunto personale, "giochi innominabili". Poco prima G. era stato insignito del premio della Fondazione Balzan per la pace.
Il 9 aprile licenziò il testo dell'enciclica Pacem in terris, pubblicata l'11 successivo, indirizzata all'episcopato, al clero e ai fedeli di tutto il mondo, "nonché a tutti gli uomini di buona volontà", documento cardine del suo pontificato.
Nella Pacem in terris il discorso di G. si sviluppava su tre piani interconnessi: i rapporti tra i cittadini e le autorità politiche, i rapporti tra le comunità politiche, e i rapporti dei cittadini e delle comunità nazionali con la comunità mondiale. Il nocciolo dell'enciclica era l'affermazione di un ordine giusto voluto da Dio, incentrato sulla dignità dell'uomo, e gradualmente riflesso nella storia dall'evoluzione delle istituzioni umane. La struttura del testo ricordava quella di una dichiarazione dei diritti, ma di portata e dimensione sovranazionale. Definiti i diritti fondamentali della persona, da quelli elementari (il cibo, il vestiario, l'abitazione, il riposo, le cure mediche) fino ai "diritti a contenuto politico", e i corrispondenti doveri, il documento delineava un sistema di rapporti tra le comunità politiche basato sulla loro uguaglianza "per dignità di natura", sul loro diritto a un'esistenza indipendente, sulla tutela delle minoranze, sull'accoglienza dei profughi politici, sulla solidarietà e sulla reciproca fiducia come unica possibile alternativa alla corsa agli armamenti, convenzionali e nucleari. Ne discendeva il profilo di un ordine giuridico e politico mondiale corrispondente al "bene comune universale", e necessitante di adeguati "poteri pubblici", istituiti consensualmente e finalizzati al riconoscimento, al rispetto, alla tutela e alla promozione dei diritti della persona, fatto salvo il principio di sussidiarietà.
Motivo di fondo dell'enciclica era il riferimento ad aspetti salienti del mondo contemporaneo, mediante un continuo richiamo ai "segni dei tempi". Venivano evocati, come segni dei tempi, l'ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici, l'ingresso della donna nella vita pubblica, l'emancipazione politica dei popoli ex coloniali, la coscienza dei diritti civili e politici espressa negli ordinamenti costituzionali, la diffusa "persuasione che le eventuali controversie tra i popoli non dovessero essere risolte con il ricorso alle armi, ma invece attraverso il negoziato", e, infine, l'opera delle Nazioni Unite: la cui Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo era additata come una tappa importante "nel cammino verso l'organizzazione giuridico-politica della comunità mondiale".
Nell'ultima parte dell'enciclica, dedicata ai "richiami pastorali", si rifletteva più distintamente lo stile personale del pontefice. Richiamati i doveri dei fedeli a "partecipare attivamente alla vita pubblica", a elevare la propria competenza scientifica, tecnica e professionale, a rispettare, operando nel temporale, le leggi e i metodi propri di tale sfera in una sintesi vitale di "elementi scientifico-tecnico-professionali e di valori spirituali", il documento sollecitava i credenti a perlustrare un vasto campo di intese e di incontri "tanto con i cristiani separati da questa Sede Apostolica", quanto con i non credenti "nei quali è presente la luce della ragione ed è pure presente ed operante l'onestà naturale". Come regola metodica di tale atteggiamento dialogante e cooperante l'enciclica indicava - in un passo destinato a richiamare l'attenzione degli esegeti e a sollevare acute controversie, in quanto vi si lesse una specifica allusione al comunismo - il principio di non identificazione tra "false dottrine filosofiche sulla natura, l'origine e il destino dell'uomo" e "i movimenti storici a finalità economiche, sociali, culturali e politiche" da quelle generati, in ragione della intrinseca diversità tra la staticità delle dottrine e la natura dinamica dei movimenti soggetti all'influsso delle mutevoli condizioni storiche; e senza escludere che quei movimenti potessero contenere "elementi positivi e meritevoli di approvazione", se conformi ai dettati della retta ragione e alle giuste aspirazioni della persona umana. Sul piano operativo, il documento riconosceva la possibilità che un "avvicinamento o un incontro di ordine pratico", ritenuto nel passato inammissibile, potesse divenire opportuno e fecondo, nel rispetto della norma della prudenza e della responsabilità di "coloro che vivono ed operano nei settori specifici della convivenza, in cui quei problemi si pongono"; fatto salvo il dovere-diritto della Chiesa di intervenire autoritativamente anche nella sfera temporale quando si trattasse di giudicare dell'applicazione dei principî di natura etica e religiosa in relazione a casi concreti.
Sebbene radicata nel precedente magistero pontificio, specialmente in quello di Pio XII, a cui erano riservate nell'enciclica oltre trenta citazioni o richiami, la Pacem in terris presentava potenti tratti evolutivi sul piano pastorale, della mentalità, dei paradigmi culturali e spirituali che la percorrevano. Essa fu avvertita come il segno di un mutamento attinente, in special modo e con conseguenze imprevedibili, alla prassi ecclesiastica, promosso e fatto proprio dal vertice papale; e come una fuoriuscita dai rigidi steccati dell'età della "guerra fredda" in nome di un ordine mondiale incardinato sulle ragioni della pace e della convivenza cooperante, anziché sulla contrapposizione tra potenze e ideologie irreparabilmente ostili. In questo senso la Pacem in terris diede voce all'anelito di un'umanità gravata dal terrore dell'olocausto nucleare, interpretandone i sentimenti profondi. Ma non mancò chi vi scorse un ingenuo cedimento alle arti subdolamente aggressive del comunismo.
Nei due mesi seguenti alla pubblicazione dell'enciclica, che videro tra l'altro una visita del papa al Quirinale (11 maggio), le condizioni di G. si aggravarono rapidamente, mentre un'ondata di consenso e di affettuosa partecipazione alle sofferenze del pontefice spingeva con sempre maggior frequenza masse di credenti e non credenti a riunirsi spontaneamente in piazza S. Pietro, a condividere le ultime ore della sua esistenza terrena, a offrire testimonianza silenziosa della straordinaria popolarità attinta da quell'uomo morente, quasi sconosciuto ai più all'atto della sua elezione, durante i quattro anni e mezzo del suo pontificato.
G. morì nella Città del Vaticano il 3 giugno 1963, giorno di Pentecoste per il calendario liturgico della Chiesa cattolica. Fu beatificato il 3 sett. 2000.
Gli autografi originali, editi e inediti, del Roncalli, poi G., si trovano sparsi in numerosi archivi, tra cui i principali sono: gli Archivi del seminario e della curia vescovile di Bergamo, l'Archivio segreto Vaticano e l'Archivio corrente della segreteria di Stato, l'Archivio della curia patriarcale di Venezia e l'Archivio storico del Vicariato di Roma, l'Archivio Roncalli presso L.F. Capovilla a Sotto il Monte e la Postulazione generale dei frati minori a Roma. Quasi tutta questa documentazione è disponibile in copia microfilmata presso l'Istituto per la scienze religiose di Bologna, dove è possibile consultare anche una Cronotassi degli scritti di A.G. Roncalli - G. XXIII. Incipitario e regesto, Bologna 1993, che consta di 9612 titoli, e una concordanza verbale computerizzata di tutti gli scritti italiani editi o comunque accessibili.
Le opere edite, oltre a quelle già citate nel testo, comprendono: La Misericordia Maggiore di Bergamo e le altre istituzioni di beneficenza amministrate dalla Congregazione di Carità, Bergamo 1912; Gli inizi del seminario di Bergamo e s. Carlo Borromeo, ibid. 1939; La propagazione della fede nel mondo, Roma 1958; Appunti per la storia, in I preti del S. Cuore di Bergamo nel 50° della fondazione, Bergamo 1959, pp. 1-22; Scritti e discorsi (1953-1958), I-IV, Roma 1959-62; Encicliche e discorsi, I-V, ibid. 1960-63; Souvenirs d'un nonce. Cahier de France (1944-1953), ibid. 1963; Pensieri dal Diario, Vicenza 1963; Memorie e appunti 1919, in Humanitas, XXVIII (1973), pp. 419-473; La Sacra Scrittura e s. Lorenzo Giustiniani, introd. di A. Melloni - F. Della Salda, Reggio Emilia 1989; Questo è il mistero della mia vita, a cura di L.F. Capovilla, I-III, Bergamo 1990; La predicazione a Istanbul. Omelie, discorsi e note pastorali (1935-1944), a cura di A. Melloni, Firenze 1993.
Piuttosto cospicuo l'epistolario: Lettere ai familiari 1901-1962, a cura di L.F. Capovilla, I-II, Roma 1968; Lettere dall'Oriente, a cura di C. Valenziano, Brescia 1969; Lettere ai vescovi di Bergamo 1931-1961, Bergamo 1973; Lettere 1958-1963, a cura di L.F. Capovilla, Roma 1978; La sapienza del cuore. Giovanni XXIII. Corrispondenza con mons. G.B. Filippucci, a cura di M. Marchiandi Pacchiola, Pinerolo 1981; Giovanni e Paolo due papi. Saggio di corrispondenza (1925-1962), a cura di L.F. Capovilla, Roma 1982; Il Pastore. Corrispondenza dal 1911 al 1963 con i preti del Sacro Cuore di Bergamo, a cura di G. Busetti, Padova 1982; Ottima e reverenda madre. Lettere di papa G. alle suore, a cura di G. Busetti, Bologna 1990; Lettere familiari, a cura di G. Farnedi, Casale Monferrato 1993; Fiducia e obbedienza. Lettere ai rettori del seminario romano 1901-1959, a cura di C. Badalà, Cinisello Balsamo 1997.
Scritti e atti di G. si trovano nei seguenti giornali e periodici: L'Eco di Bergamo e La Vita diocesana (Bergamo), I-IV (1909-14); Vita catholica (Istanbul, settimanale), 1935; Boll. diocesano del patriarcato di Venezia, XLIV-XLIX (1953-58); Boll. del clero romano, XXXIX-XL (1958-59); Rivista diocesana di Roma, I-IV (1960-63).
Fonti e Bibl.: Tra il 1964 e il 1983 il segretario di G., mons. L.F. Capovilla, ha curato la pubblicazione di una serie di volumetti commemorativi contenenti memorie e documenti inediti relativi a tutti i periodi della vita del pontefice. Oltre agli Acta Apostolicae Sedis dal 1958 al 1963, contengono fonti roncalliane: Vicariatus apostolicus Costantinopolitanus, Additiones et variationes in kalendario Ecclesiae universali pro anno d.ni 1936 de mandatu e.mi Roncalli, Istanbul 1935; Actes et documents du St-Siège relatifs à la deuxième guerre mondiale, I-XI, Città del Vaticano 1965-81; B. Bertoli, La questione romana negli scritti di papa G., Brescia 1970; V.U. Righi, Papa G. XXIII sulle rive del Bosforo, Padova 1971; G. Battaglia, Il papa buono nei miei ricordi di discepolo, di collega, di amico, Faenza 1973; L. Algisi, PapaG. XXIII, Torino 1981; F. Della Salda, Obbedienza e pace. Il vescovo A.G. Roncalli tra Sofia e Roma (1925-1934), Genova 1989; G. XXIII nel ricordo del segretario L.F. Capovilla. Intervista di M. Roncalli con documenti inediti, Cinisello Balsamo 1994.
L'approfondimento critico della figura e dell'opera di G. ha conosciuto fin dall'inizio, ma soprattutto negli ultimi anni, un rapido sviluppo e tende a intrecciarsi con le vicende del concilio Vaticano II: A. Lazzarini, G. XXIII - A.G. Roncalli, Roma 1958; F. Olgiati, L'alba serena di un pontificato: G. XXIII, Milano 1958; L. Bedeschi, Il papa che piace a tutti, G. XXIII, Torino 1959; S. Beltrami, L'opera della propagazione della fede in Italia, Roma 1961; R. Aubert, Jean XXIII. Un "pape de transition" qui marquera dans l'histoire, in Revue nouvelle, XXXVIII (1963), pp. 3-33; J.-Y. Calvez, Église et société économique. L'enseignement social de Jean XXIII, Paris 1963; G. XXIII in alcuni scritti di G. De Luca, a cura di L.F. Capovilla, Brescia 1963; N. Fabretti, G. XXIII e il Concilio, Vicenza 1963; R. Rouquette, Le mystère Roncalli, in Études, 1963, n. 318, pp. 4-18; X. Rynne, La révolution de Jean XXIII, Paris 1963; E. Balducci, Papa G., Firenze 1964; E venne un uomo chiamato Giovanni. Papa G. XXIII, a cura di L. Covatta - G. Rocchi, Milano 1964; A. Hatch, Giovanni XXIII. Un uomo chiamato G., Milano 1964; M. de Kerdreux, Papa G. e s. Teresa, Torino 1964; D. Cugini, Papa G. nei suoi primi passi a Sotto il Monte, Bergamo 1965; R. Guariglia, Ricordi 1922-1946, Napoli 1965; G. Lercaro, G. XXIII. Linee per una ricerca storica, con un'appendice di G. De Rosa, A. Roncalli e Radini Tedeschi, Roma 1965; L. Chaigne, Ritratto di G. XXIII, Modena 1966; Beatificationis et canonizationis servi Dei Ioannis XXIII papae… articuli, seu positiones ad processum informativum construendum, Città del Vaticano 1967; D. Aimé-Azam, L'extraordinaire ambassadeur, Paris 1967; C. Falconi, I papi del ventesimo secolo, Milano 1967; J. Gritti, Jean XXIII dans l'opinion publique. Son image à travers la presse et les sondages d'opinion publique, Paris 1967; A. 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