GREGORIO X, papa
Tedaldo Visconti nacque a Piacenza agli inizi del XIII secolo e appartenne alla famiglia cittadina dei Visconti, non imparentata con l'omonima casata milanese.
Poco sappiamo dei suoi genitori, anche se si ritiene che il padre sia stato il podestà Oberto Visconti, legato da vincoli di sangue ai Contardo e ai Pelavicino di Pellegrino. Guglielmo Visconti, nipote di Tedaldo, fu rettore del Ducato di Spoleto; apparteneva alla stessa famiglia l'Enrico Visconti in favore del quale Carlo I d'Angiò fece versare la somma di 480 libbre, 5 soldi e 10 tornesi, allorché Tedaldo divenne pontefice.
Quasi nulla conosciamo dell'infanzia e della giovinezza di Tedaldo di cui le fonti, unanimi, evidenziano l'atteggiamento mite e sereno che, unito alla grande fede, costituì la peculiarità della sua indole. Poco sappiamo altresì della sua formazione culturale; senza dubbio divenne presto chierico e poi diacono e con molta probabilità godette di una prebenda canonicale presso la basilica piacentina di S. Antonino.
Secondo una radicata tradizione, basata sul fatto che egli compare con il titolo di magister e che il suo nome è presente in antiche matricole del Collegio dei dottori e giudici di Piacenza, si è pensato che completasse la sua prima formazione culturale nella città natale. P.M. Campi ritenne poi che egli fosse stato allievo del teologo aretino Antonio Boncompagni, ed è probabile che avesse seguito i corsi del trivio e del quadrivio presso la cattedrale di S. Donnino a Piacenza.
Intorno al 1236 entrò in contatto con il cardinale vescovo di Palestrina Giacomo Pecorara, anch'egli piacentino, che probabilmente conobbe allorché questi fu inviato quale legato a Piacenza. Qualche anno dopo, prima comunque del 1240, Tedaldo, modificando radicalmente il corso della sua vita, entrò al servizio di Giacomo Pecorara. Quando poi, dopo la scomunica lanciata da Gregorio IX contro Federico II nel 1239, il cardinale fu inviato dal pontefice in Francia quale legato della Sede apostolica, con l'intento di trovare un successore a Federico II, alla missione partecipò anche Tedaldo. Questi nel settembre del 1239 era ancora in Piacenza e, una volta raggiunto colà da Giacomo Pecorara, lasciò in gran fretta la città in quel momento minacciata dall'imperatore. I due dovettero porsi in cammino travestiti da pellegrini e in tal foggia proseguirono fino a Genova. L'ambasceria durò poco, dalla fine del 1239 ai primi mesi del 1240, e fu tutt'altro che risolutiva, pur contribuendo a dare un orientamento preciso e deciso alla vita di Tedaldo. Infatti Giacomo Pecorara gli fece concedere un canonicato in Lione e un arcidiaconato nella diocesi di Liegi.
Nella stessa occasione Giacomo Pecorara organizzò un concilio a Senlis cui partecipò anche il neoarcidiacono per ottenere a favore della Sede apostolica l'approvazione della "ventesima" sulle rendite del clero della provincia di Reims. Il cardinale prese quindi la via del ritorno, onde assistere al concilio generale indetto per l'aprile 1240 in Roma da Gregorio IX, ma la nave, mentre solcava il Tirreno alla volta di Civitavecchia per farvi sbarcare con Giacomo Pecorara anche il cardinale Ottone di S. Nicola in Carcere, legato pontificio in Inghilterra, e numerosi altri prelati, il 3 maggio 1240 fu catturata dalla flotta pisana, alleata di Federico II, presso l'isola del Giglio. Giacomo e Ottone furono allora tradotti in carcere prima in Pisa, poi in San Miniato. Anche Tedaldo avrebbe subito identica sorte se avesse seguito Giacomo Pecorara, sennonché, ammalatosi, dovette fermarsi in Francia.
Ristabilitosi, Tedaldo nel 1241 tornò in Italia e si impegnò per ottenere la liberazione del suo protettore, che poté così essere presente all'elezione di Innocenzo IV nel giugno 1243. Gli restava un anno di vita: nel giugno 1244, stanco e ammalato, Giacomo morì in Roma assistito da Tedaldo. Prima di morire il presule propose di elevare il suo fido "famiglio" al vescovato piacentino, ma Tedaldo rifiutò.
Nella seconda metà del 1244 Tedaldo lasciò l'Italia per recarsi nella sua sede canonicale di Lione, città nella quale fervevano i preparativi del concilio ecumenico convocato da Innocenzo IV, e lì si fermò presso il nuovo arcivescovo Filippo di Savoia, cui era stata affidata l'organizzazione dell'assise. Quest'ultimo, incontrato Tedaldo, pensò subito di avvalersi dell'esperienza politico-diplomatica da lui conseguita al seguito di Giacomo Pecorara, e gli chiese con successo di rimanere al suo fianco per aiutarlo a sbrigare i complessi preparativi.
Il nuovo incarico, oltre a giovare alla sua formazione spirituale e politica, mise Tedaldo in buona luce presso il papa, i cardinali, i vescovi e i numerosi diplomatici presenti al concilio. Terminata l'assise in maniera drammatica con la scomunica rinnovata e la deposizione di Federico II di Svevia, verso la fine del 1245 Tedaldo lasciò Filippo di Savoia e la diocesi lionese per recarsi presso la sua residenza arcidiaconale di Liegi.
Negli anni 1248-52 Tedaldo frequentò l'Università di Parigi, press'a poco nello stesso periodo in cui vi si trovarono Matteo Rosso Orsini, Tommaso d'Aquino e Guy Foucois, il futuro papa Clemente IV, vicino alla famiglia reale e a Luigi IX che probabilmente Tedaldo conobbe in quel momento. Inoltre nello stesso quinquennio entrò in contatto con Pietro di Tarantasia, destinato a diventare molto più tardi suo immediato successore con il nome di Innocenzo V.
Fra il 1252 e il 1253 Tedaldo rientrò a Liegi, ove rimase in prevalenza sino al 1266 quando abbandonò l'arcidiaconato. Dopo il 1266, oltre al rapporto con la casa reale francese, approfondì la conoscenza con il re inglese Enrico III.
In Inghilterra infatti Tedaldo fu inviato da Clemente IV in aiuto al legato, cardinale Ottobono Fieschi, poi papa Adriano V, in precedenza mandato nell'isola per svolgervi un delicato incarico. La nuova missione si svolse nel biennio 1267-68. Già però nel 1260 Tedaldo si era recato presso Alessandro IV per informarlo su affari importanti relativi al Regno inglese.
Nell'autunno del 1268 Tedaldo rientrò in continente: nel dicembre 1269 fu a Parigi e nel 1270 a Liegi e di questi anni non abbiamo altre notizie, tranne che nel 1267, prima di recarsi in Inghilterra, dovette prendere in Parigi la croce, onde recarsi, al pari di Luigi IX e di Tebaldo II di Navarra, in Terrasanta.
Con tale atto il futuro papa attestò di aver posto fra i suoi primi propositi la liberazione della Terrasanta. Così, ripreso l'attacco musulmano contro le parti della Palestina e della Siria rimaste ancora cristiane - e furono occupate Giaffa, Cesarea e Antiochia -, fra il 1265 e il 1268 si profilò l'opportunità di una nuova crociata invocata da Clemente IV e organizzata ancora da Luigi IX con Enrico III d'Inghilterra e suo figlio Edoardo.
Alla morte di Luigi IX, avvenuta il 25 ag. 1270, Edoardo d'Inghilterra si recò a San Giovanni d'Acri per consolidare le posizioni crociate in Palestina. Tedaldo, che non aveva avuto tempo di partecipare alla campagna tunisina con il sovrano francese, raggiunse allora il principe Edoardo. Qui strinse nuovi e importanti contatti: per esempio conobbe Guglielmo da Tripoli, l'autore del Tractatus de Statu Saracenorum e Fidenzio da Padova.
L'episodio più importante di questi mesi fu l'incontro fra Tedaldo e i fratelli Polo, di cui si riferisce nel Milione. I Polo avrebbero conosciuto "Adaldo" a San Giovanni d'Acri prima che diventasse pontefice, e gli chiesero consigli nell'imminenza del loro ritorno presso il gran khān Qūbīlāy. Tedaldo parlò lungamente con loro, senza essere però in grado di fornire indirizzi precisi, considerato lo stato della perdurante vacanza papale. I Polo appresero in viaggio che il nuovo papa era stato eletto proprio nella persona del loro ultimo interlocutore. Così tornarono immediatamente indietro per rincontrarlo e il nuovo papa ebbe proprio con i Polo uno dei primi contatti nella nuova veste. Egli affidò ai fratelli veneziani una missione speciale consistente nell'invito rivolto al gran khān di inviare a Roma suoi emissari onde potere stabilire un primo contatto con l'Occidente. Per condurre a termine un incarico così delicato e insolito i Polo furono accompagnati da due domenicani: Guglielmo da Tripoli e Nicola da Piacenza.
Il conclave che, morto nel 1268 Clemente IV, determinò l'elezione di Tedaldo assunse toni drammatici. I contrasti fra cardinali francesi e italiani portarono a una situazione di stallo che si protrasse per due anni. Il popolo viterbese si vide allora costretto ad adottare un rimedio estremo, quello di rinchiudere i porporati nel palazzo papale, scoperchiandone il tetto onde - come fu riportato in termini maliziosi da Giovanni da Toledo vescovo di Porto - facilitare la discesa dello Spirito Santo che avrebbe dovuto illuminare le menti dei membri del S. Collegio e affrettare la designazione del nuovo vicario di Cristo.
Lo scopo fu infine conseguito: i porporati delegarono sei fra loro cui affidare la tractatio, ovvero l'elezione del papa. Si concluse così una elezione di compromesso e la scelta cadde su Tedaldo (1° sett. 1271), estraneo al conclave e dotato solo degli ordini minori. Tedaldo era ben visto per rettitudine di temperamento e per purezza di intenti e soprattutto per l'esperienza politico-diplomatica lungamente maturata.
La notizia dell'elezione lo raggiunse in San Giovanni d'Acri, donde partì per sostare a Gerusalemme in preghiera. Di lì egli si congedò dal principe inglese e, accompagnato dagli ambasciatori pontifici che lo avevano raggiunto, partì alla volta di Viterbo.
Il 1° genn. 1272 Tedaldo sbarcò a Brindisi e nel suo attraversamento del Regno meridionale fu scortato da Carlo I d'Angiò. Al confine di Ceprano venne ricevuto da una rappresentanza del S. Collegio. Il 10 febbraio entrò finalmente in Viterbo e qui pronunciò un appassionato discorso ai cardinali, cui fece presente la triste situazione dei luoghi santi, ponendo immediatamente in luce l'importanza per lui assunta dal problema della liberazione della Terrasanta. Presso il palazzo dei papi egli ricevette il fratello, Visconte Visconti, allora podestà di Milano, e nominò persone di fiducia per incarichi significativi.
Sempre in Viterbo Tedaldo, che assunse il nome di Gregorio X, ricevette l'ordinazione sacerdotale e fu consacrato vescovo. L'incoronazione avvenne invece, significativamente, a Roma, il 27 marzo in S. Pietro. Si diede così inizio, di fatto, a quella riforma del cerimoniale da usare in occasione dell'elezione di un nuovo pontefice che fu in seguito ratificata negli atti del concilio di Lione. All'incoronazione seguì la cavalcata sino al Laterano ove ebbe luogo il banchetto, cui parteciparono Carlo I d'Angiò, che servì il papa, e l'ex imperatore latino di Costantinopoli, Baldovino I. Il 28 marzo G. X annunciò Urbe et orbi l'avvenuta elezione con un convinto appello all'unione e alla pace. Celebrate le feste di Pasqua, il pontefice rimase in Laterano fino a giugno. Il 31 marzo da Roma indisse un nuovo concilio ecumenico, non indicando però ancora la città in cui si sarebbe riunita l'importante assise.
Chiara e lucida fu invece la visione programmatica enunciata da Gregorio X. Anzitutto egli evidenziò il fallimento della crociata e la fragilità del negoziato concluso con il sultano d'Egitto in merito alla concessione fatta ai cristiani di proseguire i loro commerci per un numero limitato di anni a San Giovanni d'Acri; poi mise in risalto i pericoli corsi dalla pace nelle città dell'Italia settentrionale turbate da accanite lotte tra guelfi e ghibellini. L'Impero bizantino, riconquistato da Michele VIII Paleologo che lo aveva tolto a Baldovino di Fiandra, gli sembrava inoltre direttamente minacciato dai Turchi e quindi, per rinsaldarne la compagine, gli parve necessario garantire l'unione fra la confessione romana e la costantinopolitana. Nell'ambito della Chiesa, poi, la disciplina del clero non era certo perfetta e la crisi del cardinalato e la conseguente lunghezza dei conclavi costituirono altrettanti aspetti di grave disfunzione su cui ritenne opportuno intervenire. Bisognava inoltre contrastare e combattere le nuove correnti ereticali in vario modo rafforzatesi. Di tutti questi elementi di turbamento il papa ebbe netta percezione.
Apparve peraltro chiaro a G. X che un programma così impegnativo e ambizioso avrebbe potuto realizzarsi solo in un contesto di pacificazione universale, raggiungibile con l'elezione di un nuovo imperatore, con l'eliminazione delle lotte tra le fazioni cittadine, con la pacificazione dei contrasti all'interno degli ordini religiosi, con la scelta di vescovi degni. Tutto ciò fu posto alla base della futura assise ecumenica.
Con questo bagaglio di buoni propositi e con il fermo intendimento di realizzarli, G. X si mosse da Roma all'inizio dell'estate del 1272 per recarsi a Orvieto, ove rimase per circa un anno, fino all'estate del 1273. Di lì il papa cominciò a svolgere un ampio lavoro di riorganizzazione della Chiesa e fissò a Lione la sede del concilio.
Il 5 giugno 1273 uscì da Orvieto, volto verso Firenze e lì giunse alla fine di giugno, per prendervi stanza presso il palazzo dei Mozzi a ponte Rubaconti. Scopo della sosta fu quello di riconciliare guelfi e ghibellini in lotta fra loro e tenuti divisi da Carlo I d'Angiò, anch'egli presente in città con il proposito manifesto di rendere onore al papa e con l'intenzione riposta di contrastare i suoi propositi pacificatori.
G. X partecipò personalmente a estenuanti assemblee politiche, cercando di ottenere garanzie per gli esuli ghibellini. Alla fine venne raggiunto un accordo cui Carlo d'Angiò spinse i suoi fautori con l'intento di "prometter lungo con l'attender corto", ossia di siglare i patti e di venir meno agli impegni contratti, una volta che il papa si fosse allontanato dalla città. Il 12 luglio 1273 si solennizzò la pacificazione cittadina, per ricordare la quale G. X pose la prima pietra di una chiesa dedicata a S. Gregorio Magno.
Malespini e Villani aggiungono poi che non erano passati tre giorni che i ghibellini furono consigliati di abbandonare Firenze per aver salva la vita. Il minaccioso consiglio tutt'altro che pacificatore venne direttamente da Carlo I, ragion per cui, al colmo dell'amarezza, G. X il 16 luglio abbandonò la città senza prendere congedo dall'Angiò. Giunto al castello di Santa Croce al Mugello, presso la famiglia amica degli Ubaldini, parenti del cardinale che più degli altri si era impegnato a eleggerlo pontefice, colpì con l'interdetto la città e il governo guelfo che avevano osato ingannare la maestà del papa, sottoscrivendo un accordo subito contravvenuto.
A quel punto G. X ebbe ben chiaro quanto fosse complesso il suo piano di pacificazione cittadina e quanto poco fosse disposto concretamente ad attuarlo Carlo I d'Angiò. Anche per questo, dunque, il pontefice si rifiutò di appoggiare la candidatura imperiale di Filippo III l'Ardito, zio di Carlo, che avrebbe finito per diventare una pedina nelle mani del sovrano, desideroso di esercitare un dominio incontrollato sull'Italia, la Grecia e il Mediterraneo.
Lasciato il Mugello e passati gli Appennini, G. X si fermò a Bologna, riuscendo a riconciliarla con i Veneziani. Poi giunse a Milano e qui cercò di ottenere dalla famiglia guelfa dei Torriani il permesso di far rientrare dall'esilio un loro nemico, il vescovo Ottone Visconti, che egli aveva al suo seguito e che prudentemente aveva lasciato a Piacenza. I Torriani però, nonostante le pressioni papali, rifiutarono ogni proposta pacificatrice e anzi, proprio negli stessi giorni, cercarono persino di far uccidere il vescovo Ottone.
Avuta così conferma dello stato di crisi in cui versava l'Italia del Nord, in cui le nobili casate erano fra loro in contrasto e le città, lacerate da lotte intestine, erano nemiche le une delle altre, G. X pensò che la miglior cosa da fare fosse recarsi subito a Lione per organizzare e realizzare il concilio, perché solo quell'evento avrebbe potuto, concludendosi positivamente, rappresentare un concreto deterrente, capace di riportare la pace in Toscana e in Lombardia.
Passate le Alpi, ai primi di novembre 1273, accolto da Filippo III l'Ardito e da un suo drappello di soldati, egli giunse a Lione.
Il concilio lionese del 1274 fu tra i più imponenti e maestosi della storia della Chiesa medievale. Vi presero parte numerosi cardinali, circa cinquecento arcivescovi e vescovi, sessanta abati e oltre mille prelati, teologi, procuratori e oratori laici. Altre migliaia di persone del seguito, di componenti della "famiglia" del papa, di quelle cardinalizie e vescovili, completarono la numerosa compagnia, destinata ad animare per circa due anni il centro urbano.
Fra i componenti di maggior spicco della grande manifestazione deve annoverarsi Bonaventura da Bagnoregio, che G. X promosse cardinale nel giugno del 1273; a Lione era atteso anche Tommaso d'Aquino che avrebbe dovuto presentare, se non lo avesse fermato la morte, il suo trattato Contro gli errori dei Greci, composto su richiesta di Urbano IV.
Il concilio si inaugurò il 7 maggio, dopo tre giorni di digiuno, e si svolse in sei sessioni. La grande riunione ebbe scopi pratici ed emise un solo decreto dommatico, relativo alla processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio, e inoltre pose l'accento sulla concreta realizzazione della crociata, sull'unione con la Chiesa greca, sulla riforma della disciplina ecclesiastica e sulla pacificazione, questioni su cui G. X insisteva sin dal primo giorno del suo pontificato. Proprio per approfondire questi temi, incontrare i delegati e per leggere relazioni e analizzare proposte, G. X era giunto in Lione con cinque mesi di anticipo rispetto all'inizio dei lavori.
Nella prima sessione del 7 maggio G. X fece una relazione introduttiva sugli scopi della riunione, mentre nella seconda sessione del 18 maggio l'argomento dominante risultò quello della crociata. Fu anzitutto stabilita un'intensa predicazione in tutti i paesi cristiani. Circa il finanziamento fu predisposta una decima universale della durata di sei anni (1274-80); la cristianità fu ripartita in ventisei collettorie e per ciascuna fu nominato un collettore generale che avrebbe dovuto disporre di appositi sottocollettori, quattro per ogni diocesi, onde organizzare la raccolta dei contributi.
La parte strategico-militare del piano di conquista dell'Oriente cristiano fu affidata a Fidenzio da Padova, un francescano già conosciuto da G. X in San Giovanni d'Acri, e al quale aveva commissionato per il concilio la stesura del Liber recuperationis Terrae Sanctae. Nel suo scritto Fidenzio ribadì la necessità di garantire ai crociati una condizione di pacificazione generale nell'Occidente, tale da consentire un proficuo svolgimento dell'azione militare in Terrasanta, azione che non avrebbe potuto conseguire duraturi successi se non debitamente supportata dall'unità dei cristiani, i quali avrebbero dovuto una volta per tutte superare divisioni politiche ed egoismo economico. Proprio a questo argomento si rifece G. X allorché da Lione, in nome della suddetta unità, proibì in modo tassativo alle città e ai Regni di commerciare in armi, stoffe e derrate alimentari con i nemici di Cristo e, per converso, concesse l'indulgenza plenaria a tutti i futuri crociati.
Mentre massiccia fu la presenza dei religiosi al concilio, praticamente assenti si mantennero i sovrani, eccezion fatta per Giacomo I d'Aragona. Ma tutti si fecero comunque rappresentare e decisero tramite i loro ambasciatori di favorire la guerra santa. G. X, per parte sua, li appoggiò con entusiasmo e sin dall'inizio del pontificato lavorò a tal fine, tentando di promuovere la pacificazione degli Stati cristiani e di entrare in contatto in Oriente con i legati del khān dei Tatari del Levante e con l'imperatore Michele VIII Paleologo, bisognoso dell'aiuto di Roma contro Carlo I d'Angiò, pronto a espandere la sua influenza nel Mediterraneo orientale, in Macedonia, in Albania e nel Montenegro. Quindi, a concilio ultimato, il papa programmò di incontrarsi con l'imperatore bizantino.
La terza sessione del concilio fu dedicata ai problemi disciplinari del clero secolare e, soprattutto, regolare. In quella stessa occasione G. X concluse il suo più significativo intervento politico, ossia la designazione imperiale di Rodolfo d'Asburgo che, pur non presentandosi come il candidato più forte, era certo il più affidabile tra gli aspiranti alla corona (Alfonso X di Castiglia, Federico di Meissen, Ottocaro II di Boemia e Filippo III di Francia). Fin dal 1273 il pontefice aveva fatto in proposito conoscere ai grandi elettori il suo pensiero e aveva dichiarato con fermezza che se essi non si fossero accordati sul nome di un imperatore, lo avrebbe scelto egli stesso con i cardinali; gli elettori allora, quasi unanimi, designarono a Francoforte il 22 sett. 1273 Rodolfo d'Asburgo, incoronato re di Germania il 24 ottobre ad Aquisgrana. Essenziale apparve a questo punto, in Lione, resistere alle reazioni dei contendenti delusi, i più pericolosi fra i quali erano Alfonso X di Castiglia e Ottocaro di Boemia, senza provocare gravi reazioni destinate a compromettere il concilio e il progetto di pace.
La sessione conciliare più significativa fu la quarta del 6 luglio. Fin dal 24 giugno giunsero a Lione, dopo aver subito naufragio, gli ambasciatori greci, accolti dai padri conciliari con grande pompa. Il 29 giugno, festa dei Ss. Pietro e Paolo, G. X celebrò una messa durante la quale furono cantati in greco l'Epistola, il Vangelo e il Credo: per tre volte i greci pronunciarono le parole "qui ex Patre Filioque procedit" e Bonaventura da Bagnoregio tenne il discorso che sanzionò la pacificazione fra le due confessioni divise dal tempo dello scisma di Michele Cerulario del 1054. Nella cattedrale di Lione il 6 luglio, alla presenza di circa cinquemila persone, venne solennemente e ufficialmente annunciata l'unione fra la Chiesa greca e la latina. Venne così confermata quell'unione che Michele VIII già prima di allora aveva cercato per motivi politici, e che quindi ora appariva deciso a sostenere pur contro la consistente frazione del clero greco contrario all'avvicinamento a Roma.
G. X fu consapevole di tutto ciò, ma tentò ugualmente di realizzare un'unità intimamente precaria, divenuta comunque un'arma possente per cominciare un piano generale di pace, essenziale per realizzare la riconquista della Terrasanta. A questo fine, pertanto, il papa sacrificò ogni altro progetto. Intervenne infatti autorevolmente a favore di Bisanzio, invitando il sovrano angioino a concludere una vera pace con l'Impero d'Oriente. Da parte sua Michele fece arrestare i più decisi avversari di Roma e sostituì il patriarca dimissionario, Giuseppe, con Giovanni Veccos, a quel punto divenuto sostenitore del pontefice. Al Paleologo, che gli chiedeva di spostare il futuro esercito crociato in Asia Minore, per potersi liberare col suo ausilio della presenza turca, G. X rispose che egli stesso si sarebbe posto a capo di un contingente di crociati che sarebbero partiti da Brindisi in occasione della Pasqua del 1276, per collegarsi con le forze del Paleologo, concentrate in Valona. G. X, inoltre, non volle appoggiare il deposto Baldovino II che in quello stesso tempo intendeva ricostituire a Costantinopoli l'Impero latino d'Oriente, oramai nella più completa disgregazione; sostenne invece il Paleologo, che era rientrato in possesso del trono bizantino, nella speranza che questi si sforzasse di realizzare un'unione delle due confessioni, fondata sulla comune fede.
Il 14 luglio 1274 furono accolti in solenne udienza dai partecipanti al concilio gli ambasciatori del khān dei Tatari del Levante, i quali presentarono a G. X lettere contenenti due proposte: l'istituzione di un'alleanza tatarico-cristiana contro i musulmani, contro il comune pericolo rappresentato dal sultano d'Egitto, e il rafforzamento delle missioni cattoliche fra i Tatari. Il 16 luglio, durante la quinta sessione del concilio, il cardinale Pietro di Tarantasia concesse il battesimo a uno degli ambasciatori. In tal modo l'operazione avviata a Lione fu meno effimera del prevedibile: difatti da allora in poi i Tatari si accostarono alla fede cristiana e nel 1275 invasero i territori saraceni. Nel 1275, poi, G. X si impegnò ulteriormente con il khān tataro per inviargli prima dell'inizio della crociata una missione diplomatica, orientata a coordinare un'azione comune contro l'Egitto.
G. X compì in tal modo due utili mosse per la riuscita della crociata: la collaborazione con l'Impero greco di Michele VIII e quella con l'Impero dei Tatari. Alla festa del 14 luglio fece seguito il doloroso lutto per la morte di Bonaventura da Bagnoregio, avvenuta la mattina del 15 luglio. G. X presiedette agli imponenti funerali, celebrò messa e ricordò il defunto. Prima di spirare Bonaventura aveva fatto in tempo ad aiutare G. X a far approvare due complesse costituzioni: quella relativa al conclave e quella relativa agli Ordini mendicanti.
Nella quinta sessione del 16 luglio, aperta con la commemorazione ufficiale di Bonaventura da Bagnoregio pronunciata dal papa, furono anche approvate quattordici costituzioni legate alla riforma interna della Chiesa. Particolare rilievo, fra i materiali proposti alla discussione, assunsero le considerazioni critiche nei confronti degli Ordini mendicanti. In un primo momento sembrò che a Lione dovessero prevalere le ipotesi di abrogazione della "povertà" dei mendicanti; ma G. X, per intervento di Bonaventura oltre che per convinzioni personali, respinse il parere di coloro che pretendevano la soppressione degli Ordini mendicanti e il 17 luglio 1274 emanò la bolla Religionum diversitate sostanzialmente favorevole ai francescani e ai domenicani. Furono soppressi invece altri ordini di frati girovaghi, per esempio quello dei saccati, poco radicati nel territorio e oggetto di critiche generalizzate.
Sorte del tutto particolare fu riservata invece alla Congregazione di Pietro del Morrone, il futuro Celestino V, già confermata nel 1263 da Urbano IV ma posta in pericolo dalle decisioni lionesi. Pietro infatti si recò personalmente a Lione a concilio ultimato, nell'inverno del 1274-75, e a nome dei monaci chiese a G. X che il monastero della Maiella e le fondazioni a esso connesse fossero poste "sub protectione Sancti Petri". Con un apposito privilegio del 22 marzo 1275 la Congregazione abruzzese, pur rimanendo autonoma, venne collegata all'Ordine benedettino.
Ancor più importante fu la costituzione Ubi periculum, destinata a scoraggiare le lunghe vacanze della Sede pontificia e a stabilire norme precise per l'organizzazione del conclave. Questa costituzione si impose come la più importante del concilio e costituì un atto decisivo del pontificato di G. X, destinata come fu a instaurare praticamente il moderno conclave. Essa tuttavia non fu affatto gradita ai cardinali che videro molto ridotto il loro potere durante il periodo di sede vacante. G. X riuscì comunque, attraverso trattative serrate con i cardinali e i vescovi, a far approvare il decreto. Fra le disposizioni più caratterizzanti relative all'elezione dei pontefici va menzionata quella rivolta all'organizzazione delle solennità legate alla consacrazione e alla intronizzazione papale da svolgersi inderogabilmente a Roma, con solenni cerimonie da attuarsi in parte lungo le strade cittadine, mentre le funzioni decisive avrebbero dovuto aver luogo all'interno dei più significativi monumenti ecclesiastici dell'Urbe. Le cerimonie stesse furono poi connesse alla località ove sarebbero avvenuti le esequie del papa e il conclave. Così, se il nuovo eletto fosse giunto nella sede di Pietro da una città del Nord, sede del conclave, la prima sosta importante sarebbe stata a S. Pietro e la successiva al Laterano. In caso invece di una provenienza del corteo papale da un centro urbano del Sud dove si fosse svolta la riunione del S. Collegio, la prima parte del cerimoniale sarebbe stata prevista in Laterano, la successiva nella basilica costantiniana.
Infine, la sesta e ultima sessione conciliare, del 17 luglio, approvò l'unica costituzione da considerarsi di carattere dogmatico: ai teologi bizantini, che muovevano ai latini il rilievo di considerare il Padre e il Figlio due principî distinti dallo Spirito Santo, il concilio rispose che lo Spirito Santo stesso procedeva eternamente dal Padre e dal Figlio non come da due principî, ma da uno e uno solo, e non per mezzo di due ma per opera di una sola ispirazione.
A concilio ultimato il papa si trattenne in Lione per altri dieci mesi allo scopo di tradurre in azione concreta le decisioni relative alla preparazione della crociata e alla riscossione delle decime.
Durante e dopo le tornate conciliari G. X volle dedicarsi alla questione imperiale, cercando di rafforzare la non salda posizione di Rodolfo d'Asburgo, che dette al pontefice le più ampie garanzie circa la separazione della Corona siciliana da quella imperiale; inoltre Rodolfo garantì massima correttezza nei rapporti tra imperium e sacerdotium e si dichiarò disponibile a partecipare alla crociata. A questo punto il papa, con il decreto del 26 sett. 1274 Te regem Romanum nominamus, confermò ufficialmente l'elezione del sovrano germanico. Nello stesso tempo continuò una delicata azione nei riguardi dei candidati esclusi: Ottocaro II di Boemia rifiutò però di incontrarsi con il pontefice, mentre Alfonso X di Castiglia si convinse a incontrare il papa che voleva coinvolgerlo nel grande piano pacificatore da concludersi con la proclamazione della crociata.
Per dar luogo all'importante colloquio G. X lasciò Lione negli ultimi giorni dell'aprile 1275, si fermò a Valence e il 2 maggio fu a Orange, ove presumibilmente si trattenne sino al 12 dello stesso mese; il 14 sostò a Beaucaire e qui finalmente si incontrarono il papa e il sovrano castigliano. G. X parlò secondo il suo solito, ispirandosi ai principî della pacificazione universale, da premettere "porro unum ac necessarium" alla conquista dell'Oriente cristiano. Proprio per garantire l'esito della grande impresa, sottolineò, si vedeva costretto ad accantonare soluzioni politiche che avrebbe forse preferito, ma che avrebbero potuto creare più condizioni di divisioni e di guerra che prospettive di pace, essenziali per la riuscita della crociata. Per tal motivo dunque, continuava, doveva rinunciare a candidature imperiali forti come la castigliana, la francese e la boema, in favore di quella dell'Asburgo, intesa come fonte d'equilibrio tra i numerosi signori territoriali di quelle regioni e come momento di stabilità tra gli opposti interessi degli Stati nazionali.
Alfonso, a sua volta, espose il suo programma fondato su un quasi brutale rapporto di forza. Egli si sentiva imbattibile, sostenuto com'era dalle città settentrionali italiane, pronte a scendere in lotta per fiancheggiarlo, nonché da Carlo I d'Angiò che in base ad accordi segreti lo avrebbe aiutato allo scopo di indebolire la candidatura asburgica. Pertanto: non solo non si mostrò disponibile, in vista della crociata, a rinunciare al suo progetto imperiale, ma si proclamò pronto a venire in Italia settentrionale per animare una ribellione congiunta di ghibellini e di guelfi contro il papa e Rodolfo.
Al termine dei colloqui i due si lasciarono nella più completa discordia e Alfonso scrisse alla città di Pisa il 21 maggio 1275 per comunicare che a Beaucaire il papa lo aveva trattato duramente ma che, nonostante ciò, egli, lungi dal rinunciare ai suoi progetti, li avrebbe potenziati, organizzando una discesa in Italia. E senza alcun dubbio Alfonso avrebbe attuato il suo piano, se una momentanea riscossa musulmana nella Spagna meridionale conclusasi con la sua sconfitta in Eciya, avvenuta il 7-8 sett. 1275, e la prematura morte dell'infante Ferdinando verificatasi alla fine di luglio dello stesso anno, non gli avessero impedito di mantenere la linea intransigente assunta nei riguardi del papa e di Rodolfo.
A incontro ultimato tuttavia G. X, che non poteva prevedere i futuri risvolti della questione spagnola, pensò di rafforzare la situazione predisponendo un incontro con Rodolfo. Tale convegno, nel corso del quale il futuro imperatore avrebbe dovuto dare garanzie al papa, si svolse a Losanna fra il 18 e il 21 ott. 1275, allorché l'ormai avvenuta crisi di Alfonso, già nota al pontefice e al re dei Romani, sdrammatizzò molto la situazione.
L'incontro ufficiale si iniziò con la consacrazione del duomo di Losanna. Rodolfo giurò fedeltà al vicario di Cristo, ai cardinali e a tutta l'assemblea con le stesse formule utilizzate da Ottone IV e da Federico II. Egli promise inoltre, con un atto che ebbe importanza politica e vasta risonanza, di proteggere la Chiesa romana e di conservare integralmente i suoi possessi.
Lasciata Losanna il 27 ott. 1275, G. X prese la via del ritorno. A metà dicembre si fermò nel castello di Santa Croce al Mugello, dove, al pari di due anni prima, fu ospitato dagli Ubaldini.
Qui G. X si concesse un giorno di riposo di cui aveva bisogno, essendo già stato infermo nei mesi precedenti e in particolare prima della partenza da Losanna. Lo stesso G. X scrisse dello stato cagionevole della sua salute a Carlo d'Angiò senza preoccuparsi, anzi in certa misura quasi ostentando che egli era ospite di una famiglia di fede ghibellina come gli Ubaldini, forse per mettere in mora Carlo che, come guelfo, avrebbe dovuto sentirsi obbligato a essere ancor più vicino e generoso col capo della Chiesa. Nella stessa lettera, inoltre, avvertì il sovrano del suo desiderio di soggiornare in Arezzo prima di riprendere la strada per Roma, ove avrebbe dovuto incontrarsi con Rodolfo d'Asburgo e dare il via ai preparativi finali per la crociata e ove chiedeva un immediato colloquio chiarificatore a Carlo che, in risposta al messaggio del pontefice, giunse nell'Urbe l'8 genn. 1276.
Il 17 dicembre G. X lasciò il Mugello in direzione di Arezzo. Il suo piano era quello di non toccare Firenze, posta sotto interdetto dal 1273, ma per escludere la città dal viaggio sarebbe stato necessario guadare a monte della stessa l'Arno allora in piena. G. X dovette perciò entrare a Firenze e attraversare l'Arno da ponte Rubaconti. Il Villani ci narra che i magistrati cittadini gli si fecero incontro per ossequiarlo e per pregarlo di togliere loro la scomunica, quindi di liberare definitivamente la città dall'interdetto, solo momentaneamente sospeso, onde consentire il passaggio del corteo papale che altrimenti non avrebbe potuto aver luogo in un territorio sconsacrato. G. X fu però fermissimo con le autorità e infatti, pur benedicendo il popolo che si inginocchiava in pianto al suo passaggio, appena uscito da porta S. Niccolò rinnovò l'interdetto su Firenze.
Proseguì dunque il suo percorso che prevedeva il passaggio per Arezzo. Sulle ultime giornate di G. X sappiamo poco. Dopo la sosta a Santa Croce dovette sentirsi ristabilito, allorché scrisse ancora a re Carlo circa i suoi propositi relativi alle settimane successive. Continuando il viaggio, invece, lo colse di nuovo il male di cui già da tempo soffriva e del quale informò anche Rodolfo d'Asburgo, per ricordargli come già a Losanna si fossero aggravate le sue condizioni fisiche.
G. X giunse ad Arezzo fra il 19 e il 20 dicembre e lì, febbricitante, prese dimora nel palazzo vescovile, sperando di riprendersi per le imminenti festività. Un progressivo peggioramento ne provocò infine la morte il venerdì 10 genn. 1276.
La scomparsa di G. X compromise il progetto di crociata. In sedici mesi, inoltre, si successero quattro pontificati, cosicché della crociata non si parlò più, mentre nel 1291 cadde San Giovanni d'Acri, ultimo avamposto cristiano in Terrasanta. Anche l'unificazione della Chiesa greca con la latina si manifestò come un progetto irrealizzabile e Rodolfo d'Asburgo a sua volta non scese più a Roma per ricevervi la corona dalle mani del papa, dando invece inizio alla guerra contro Ottocaro II di Boemia.
La personalità di papa Visconti fu fortemente intrisa di ideali spirituali, tanto che ben presto la sua memoria divenne oggetto di culto, specialmente nelle città con le quali aveva avuto contatti in modo continuativo: Piacenza, Lione, Liegi, Arezzo. La sua città natale e Arezzo, che conservò il suo corpo in un mausoleo marmoreo situato nella cattedrale a partire dal pontificato di Urbano VIII, presentarono comuni richieste per la sua canonizzazione. Nel 1713 Clemente XI ne confermò il culto ab immemorabili e Benedetto XIV lo fece inserire nel Martyrologium Romanum il 16 febbraio.
Fonti e Bibl.: Si rinvia a L. Gatto, G. X, in Enciclopedia dei papi, II, Roma 2000, pp. 421 s. da integrare con S. Dichtfield, How not to be a counter-reformation Saint: the attempted canonization of pope Gregory X, 1622-1645, in Papers of the British school at Rome, LX (1992), pp. 379-422; P. Herde, I papi tra G. X e Celestino V. Il papato e gli Angiò, in Storia della Chiesa, XI, La crisi del Trecento e il papato avignonese (1274-1378), a cura di D. Quaglioni, Cinisello Balsamo 1994, pp. 23-91; B. Roberg, Der Kanonist Franciscus de Albano als Zeitzeuge. Eine Nachlese seiner lectura der Konstitutionen Gregors X., in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtgeschichte, Kanonistische Abteilung, LXXXI (1995), pp. 340-351; B. Roberg, Che cosa è guelfo in Florenz 1273, in The ancient history Bulletin, XXVII-XXVIII (1995-96), pp. 303-323; W. Maleczek, Das Frieden stiftende Papsttum im 12. und 13. Jahrhundert, in Träger und Instrumentarien des Friedens im Hohen und späten Mittelalter, a cura di J. Fried, Sigmaringen 1996, pp. 249-332; S. Domínguez Sánchez, Documentos de Gregorio X (1272-1276) referentes a España, León 1997; P.A. Linehan, A papal constitution in the making: "Fundamenta Militantis Ecclesie" (18 July 1278), in Life, law and letters. Historical studies in honour af Antonio García i García, a cura di P.A. Linehan - A. Pérez Martin - M. Sanz González, Bologna 1998, pp. 575-591.