GREGORIO XIII, papa
Ugo Boncompagni nacque a Bologna il 1° genn. 1501, da Cristoforo e da Angela Marescalchi. Studiò giurisprudenza a Bologna, dove conseguì il dottorato in utroque iure nel 1530 e insegnò tra il 1531 e il 1539. Il 23 febbraio e il 2 marzo 1539 ebbe rispettivamente l'ufficio di abbreviatore del parco maggiore e di sollecitatore delle lettere apostoliche, due cariche venali. Il 1° giugno successivo ricevette a Bologna la prima tonsura.
È probabile che alla fine del 1540 il Boncompagni si stabilisse a Roma, dove da subito esercitò l'attività nell'amministrazione della giustizia con la nomina a secondo collaterale di Campidoglio, uno dei due giudici del tribunale civile. La sua carriera progredì rapidamente grazie anche al sostegno del cardinale Pier Paolo Parisio, che consentì al Boncompagni di essere nominato, il 7 genn. 1545, referendario utriusque signaturae. Considerato esperto eminente di diritto canonico, il Boncompagni fu coinvolto nel concilio di Trento, già dal 20 genn. 1547, sulle capitali questioni dell'obbligo della residenza dei vescovi e della riforma disciplinare. In seguito alla decisione di spostare il concilio a Bologna (11 marzo 1547), il Boncompagni si trasferì nella sua città, da dove tornò a Roma nel marzo del 1548, in qualità di giurista del concilio, per discutere e difendere la traslazione, fortemente osteggiata da Carlo V.
A Bologna l'8 maggio 1548 ebbe da una donna nubile, Maddalena Fulchini, un figlio naturale, Giacomo. Il desiderio di garantirsi un erede (il padre, ricco mercante morto nel 1547, gli aveva lasciato una parte della cospicua eredità, che comprendeva metà del palazzo di famiglia) dovette essere il motivo - indubbiamente più vicino al modello del cardinale rinascimentale che ai dettami tridentini - della sua paternità. Giacomo fu legittimato il 5 luglio 1548 e alla madre fu assegnata una dote per il suo matrimonio con il muratore Simone Scamni.
Giulio III, asceso al soglio pontificio il 7 febbr. 1550, non gli conferì incarichi nella seconda fase del concilio di Trento (aprile 1551 - aprile 1552), periodo nel quale il Boncompagni si dedicò alla sua carriera in Curia e nel governo acquistando un'altra carica, quella di segretario pontificio (bolla del 7 apr. 1552) e ottemperando, anche se per soli otto mesi, all'incarico di prolegato affidatogli nel 1554 dal cardinale Giovanni Battista Cicada, legato di Campagna e Marittima, con il quale aveva collaborato nel concilio fino al 1548. Fu con Paolo IV Carafa che il Boncompagni tornò a dedicarsi allo studio della riforma della Chiesa almeno dal gennaio 1556, quando fu inserito nella commissione a ciò dedicata, senza tuttavia tralasciare le relazioni politiche internazionali - nel maggio di quell'anno accompagnò infatti il cardinale nipote Carlo Carafa alla corte di Francia e, in autunno, presso Filippo II a Bruxelles - né il suo contributo di eminente giurista: nel maggio 1558 fece parte della commissione incaricata di esaminare la legittimità della successione imperiale da parte del fratello di Carlo V, Ferdinando I.
Con il pontificato Carafa il Boncompagni poté rafforzare la sua posizione in Curia con la nomina a vicereggente della Camera apostolica (la carica di reggente era stata creata da Paolo IV per concedere lucrosi benefici al pronipote, il diciannovenne cardinale Alfonso). Nel gennaio 1559 il Boncompagni fu inoltre chiamato dal pontefice a far parte del Consiglio di Stato da poco eretto. Nominato vescovo di Vieste il 20 luglio in vista della nunziatura in Germania, il Boncompagni aveva già resignato il vescovato all'inizio del pontificato di Pio IV (eletto il 26 dic. 1559).
La scelta non è da considerarsi segno di difficoltà dovute all'ostilità del nuovo pontefice verso i Carafa (nel giugno 1560 il papa fece incarcerare i nipoti di Paolo IV, Carlo e Giovanni Carafa, in seguito giustiziati): il Boncompagni fu infatti autorizzato a fregiarsi ancora del titolo di vescovo e sia il papa sia il cardinale nipote, Carlo Borromeo, gli riconobbero un ruolo decisivo nel concilio di Trento, nuovamente indetto con la bolla del 29 nov. 1560, ma apertosi solo il 18 genn. 1562.
Nella Curia era prevalsa dall'inizio la preoccupazione di difendere le tradizionali prerogative pontificie e di moderare le proposte dei fautori di un impegno riformistico più radicale, come avvenne sul problema della natura giuridica della residenza vescovile. La soluzione era gravida di implicazioni, dal momento che ritenere la residenza un principio fondato sul diritto divino avrebbe privato il papa della prerogativa, consolidata dalla prassi, di accordare dispense in materia. Il rischio che prevalesse tale partito era piuttosto elevato, ma fu scongiurato dall'abilità del Boncompagni, il quale, durante la congregazione generale del 20 apr. 1562, assunse una posizione certamente gradita a Roma, sostenendo che una formale dichiarazione del concilio sulla questione non appariva necessaria.
Era un modo elegante di aggirare l'ostacolo, senza entrare nel merito dello spinoso problema, lasciando così impregiudicata la soluzione e soprattutto la prassi. Il cardinale C. Borromeo si preoccupò di fare sapere al piccolo gruppo dei vescovi e dei prelati sostenitori delle posizioni romane - fra i quali era segnalato il Boncompagni - che il papa si sarebbe ricordato di loro al momento opportuno.
Rientrato a Roma dopo la conclusione del concilio (5 dic. 1563), il Boncompagni fu chiamato alle dirette dipendenze del cardinale nipote: il 12 marzo 1565 gli fu conferita la porpora e nel concistoro del 13 luglio Pio IV lo nominò legato a latere in Spagna. Scopo principale della missione era concludere il processo per eresia avviato dall'Inquisizione spagnola, sin dal 1558, contro l'arcivescovo di Toledo e primate di Spagna Bartolomeo Carranza. La decisione di Paolo IV di riservarsi la sentenza, confermata da Pio IV, determinò un conflitto con Filippo II, che considerava tale posizione come una lesione alla sua sovranità. La scelta del Boncompagni mirava dunque a far accettare la scelta del papa concludendo il processo in Spagna.
Partito da Roma nel mese di settembre, il Boncompagni fece il suo ingresso solenne a Madrid il 13 novembre. La missione si rivelò subito complessa perché si dovette affrontare la dura posizione di Filippo II, che sin dall'inizio avanzò la pretesa di aggregare ai prelati venuti da Roma (con il Boncompagni erano l'arcivescovo di Rossano Giovan Battista Castagna e l'uditore di Rota Giovanni Aldobrandini) tutti i membri del Consiglio generale dell'Inquisizione spagnola, oltre a un numero imprecisato di altri giudici. Il Boncompagni non poteva prendere tale decisione e Filippo II rifiutò di fargli consegnare gli incartamenti processuali fin tanto che il pontefice non avesse accolto le sue richieste. La conclusione della missione fu inoltre accelerata dalla notizia della morte del pontefice, giunta a Madrid il 27 dicembre: due giorni più tardi il Boncompagni lasciò la corte per partecipare al conclave. L'annuncio dell'elezione di Pio V, avvenuta il 7 genn. 1566, lo doveva raggiungere sulla via del ritorno, ad Avignone. La missione era fallita, ma aveva comunque offerto al Boncompagni l'occasione di farsi conoscere da Filippo II, che aveva potuto apprezzare le sue doti di intelligenza e di carattere: circostanza che avrà peso decisivo nel momento della sua candidatura al soglio pontificio.
Durante il nuovo pontificato, il Boncompagni non ebbe incarichi di particolare rilievo: l'unica nomina fu alla Segnatura dei brevi, ruolo prestigioso e di fiducia ma che non implicava la partecipazione a responsabilità di governo. La lontananza dalla Curia valse comunque a rafforzare la sua fama di uomo retto ed equilibrato e alla morte di Pio V, il 1° maggio 1572, il nome del Boncompagni figurava tra i papabili.
La sua candidatura non generava opposizioni dichiarate nelle corti cattoliche, né all'interno del S. Collegio. A suo favore giocavano la solida preparazione giuridica e la lunga esperienza maturata in Curia. Insieme col sostegno spagnolo ciò consentì la sua elezione tra il 12 e il 13 maggio 1572. Il neoeletto, elevato alla porpora il giorno di S. Gregorio Magno, scelse il nome di Gregorio XIII.
Con il nuovo papa mutò profondamente il ruolo del cardinale nipote, usualmente a capo degli affari politico-religiosi. Pur se formalmente incaricò il nipote Filippo Boncompagni, la direzione della politica pontificia fu affidata al cardinale Tolomeo Gallio (breve del 24 giugno 1572), con il quale G. XIII aveva lavorato nell'ultima fase del pontificato di Pio IV.
Uomo capace ed esperto, Gallio svolse, durante l'intero pontificato di G. XIII, le funzioni che poi saranno del segretario di Stato. L'altro nipote del papa, Filippo Guastavillani, fu creato cardinale soltanto il 5 luglio 1574 e relegato a un ruolo marginale, mentre un terzo nipote, Cristoforo, fu nominato governatore di Ancona nell'ottobre del 1572 e il 15 ott. 1578 fu eletto arcivescovo di Ravenna senza mai ricevere la porpora.
Se G. XIII si dimostrò poco incline a favorire i nipoti, cui assegnò rendite non cospicue, orientò la sua protezione verso il figlio per favorirne l'ascesa sociale, ma non l'inserimento nell'attività del governo. Nel maggio 1572 lo nominò castellano di Castel Sant'Angelo e il 17 apr. 1573 gonfaloniere generale di Santa Romana Chiesa, la più alta carica militare. Nel febbraio 1576 lo fece sposare con la ricca ereditiera Costanza Sforza di Santa Fiora e l'anno successivo provò ad assicurare a Giacomo, senza successo, il marchesato di Saluzzo, che doveva essere ceduto da Enrico III di Francia. Nello stesso anno gli donò il marchesato di Vignola, acquistato per 70.000 scudi ferraresi da Alfonso II d'Este e poi il Ducato di Sora, nel Regno di Napoli, costato 100.000 scudi d'oro. La relativa investitura fu concessa da Filippo II il 27 dicembre. A questo già considerevole patrimonio si aggiunse, in data imprecisata, la contea d'Arpino.
G. XIII era solito seguire da vicino la trattazione delle singole questioni, che, come dimostrano gli appunti autografi, usava talvolta studiare di persona. Pur riponendo intera fiducia in Gallio, riservava a sé la decisione finale, dopo avere acquisito il parere di esperti e di cardinali particolarmente autorevoli, come Giovanni Morone, Girolamo Sirleto o C. Borromeo. Questo suo costume si trasferì nelle riforme istituzionali, orientate verso il potenziamento degli organi centrali di governo, come le congregazioni cardinalizie permanenti erette dai suoi predecessori (dell'Inquisizione, del Concilio, dell'Indice e dei Vescovi) e dalla creazione di congregazioni cardinalizie temporanee.
Alcune delle congregazioni temporanee rimasero in vita durante l'intero pontificato: è il caso della congregazione germanica, le cui origini risalivano a Pio V, ma che sarà riportata in piena attività soltanto nel 1573, o della congregazione dei Greci d'Italia; altre svolsero invece un'attività limitata nel tempo e funzionale allo scopo da raggiungere, come la commissione cardinalizia per la riforma del calendario.
Il nuovo sistema istituzionale - già in atto dai pontificati di Pio IV e di Pio V - era destinato a trovare la sua definitiva configurazione con le congregazioni di Sisto V e doveva comportare l'accentramento dei poteri decisionali nelle mani del papa sottraendo prerogative al concistoro, organo collegiale di origine medievale ormai in fase di declino. L'obiettivo era inoltre il coinvolgimento nell'attività burocratica ordinaria di porporati ai quali affidare incombenze circoscritte al loro settore di competenza.
Il rafforzamento, in senso verticistico, del potere centrale, insieme con l'ampliamento del raggio d'azione internazionale del Papato postridentino, richiedeva anche la disponibilità di altri strumenti d'azione, come la nunziatura apostolica, della quale si ampliarono le competenze. A G. XIII si deve fare risalire, direttamente o indirettamente, la creazione delle nuove nunziature di Lucerna, di Graz e di Colonia. Durante il suo pontificato fu inviato il primo nunzio nelle Fiandre spagnole, anche se l'istituzione di una nunziatura permanente a Bruxelles avverrà soltanto sotto Clemente VIII.
Molti erano i problemi che la morte di Pio V aveva lasciato irrisolti. Contro le aspettative, dato il temperamento meno rigoroso del neoeletto, sin dal 30 maggio, nel suo primo concistoro, il pontefice dichiarò di volere seguire le orme del predecessore. In effetti, l'attuazione della riforma postridentina attraverso la sistematica applicazione dei decreti conciliari, la lotta contro eretici e infedeli saranno, come sotto Pio V, gli obiettivi prioritari della sua azione.
Una delle prime preoccupazioni del papa era il mantenimento e possibilmente l'ampliamento della coalizione antiturca che aveva conseguito la vittoria di Lepanto (1571); le aspettative del pontefice si dovevano presto rivelare infondate, ma ciò non fermò la sua azione in quel campo.
Perno dell'alleanza cristiana non poteva che rimanere la Spagna, con la quale T. Gallio manteneva stretti rapporti. La strategia di Filippo II era però in quel momento indirizzata verso un attacco contro i Barbareschi dell'Africa settentrionale. L'ordine da lui impartito a don Giovanni d'Austria, comandante della flotta spagnola a Messina, di non muoversi suscitò l'immediata reazione di Gregorio XIII. La lettera del papa, scritta il 30 giugno 1572, si incrociò con un contrordine del sovrano, ma la flotta salpò comunque troppo tardi e l'operazione navale spagnola, veneziana e pontificia nel Mediterraneo orientale fu inefficace.
La lotta contro i Turchi continuò a essere fonte di delusione per Gregorio XIII. Neppure la Francia mostrava di volere dare il suo contributo, e il Portogallo non disponeva di mezzi finanziari per inviare navi nel Mediterraneo. Il 7 marzo 1573, infine, la Repubblica di Venezia, timorosa di non potere fare fronte all'avversario, firmò una svantaggiosa tregua con il sultano. Anche la conquista spagnola di Tunisi, nel 1573, fu un traguardo effimero, perché la città fu perduta l'anno successivo. Le sollecitazioni di G. XIII a Filippo II, nell'estate del 1577, tese a respingere la minaccia turca contro il possedimento veneziano di Corfù non ottennero che delle risposte generiche.
Il sovrano spagnolo aveva già autorizzato contatti con la Porta in vista di un armistizio. La tregua fu firmata due anni più tardi, il 21 marzo 1580, e dinanzi alla severa condanna di G. XIII, Filippo II si limitò a giustificarsi con la crisi finanziaria e la necessità di concentrare lo sforzo bellico nella lotta contro i ribelli delle Fiandre. In realtà, essendosi nel frattempo aperto il problema della successione alla corona di Portogallo, le trattative con i Turchi avevano anche lo scopo di rendere disponibili le forze militari per un intervento armato a difesa dei diritti vantati su quella corona.
La situazione spingeva il papa a un mutamento di strategia militare, orientando le operazioni sul fronte terrestre. A tale scopo, nel 1582 G. XIII nominò legato pontificio alla Dieta imperiale di Augusta il cardinale Ludovico Madruzzo, che avrebbe dovuto indurre Rodolfo II ad aderire alla lega e a impedire che facesse concessioni ai protestanti in cambio del loro sostegno finanziario. Al coinvolgimento dell'Impero nella lega non si arrivò, ma grazie all'azione di Madruzzo Rodolfo II seppe resistere alle pressioni dei protestanti: ciò gli costò uno stanziamento della Dieta inferiore alle sue richieste; tuttavia, come apprezzamento per la fermezza mantenuta, agli inizi del 1583 G. XIII decise di assegnare all'imperatore 100.000 fiorini. Non migliori esiti ebbero i reiterati tentativi di coinvolgere Venezia, il re di Polonia Stefano Báthory e ancora Madrid.
Nella maggior parte delle corti europee era diffusa la convinzione che dopo la sconfitta di Lepanto la potenza turca non rappresentasse più un'incombente minaccia; grande era inoltre il peso delle tensioni religiose interne all'Impero, dello spostamento degli interessi strategici di Filippo II dal Mediterraneo all'Atlantico (i Paesi Bassi, il Portogallo e, in certa misura, l'Inghilterra), e incisiva la debolezza della Repubblica veneta.
Attenzione particolare fu rivolta da G. XIII alla situazione della Francia, per l'impegno militare contro gli ugonotti e la sua decennale alleanza con la Porta. Poco dopo l'ascesa al soglio pontificio di G. XIII, si verificò a Parigi il massacro di ugonotti della notte di S. Bartolomeo (23-24 ag. 1572). Si trattò di una decisione presa dalla regina madre, Caterina de' Medici, dopo che il fallimento dell'attentato, da lei ordito, contro il principale esponente ugonotto, l'ammiraglio Gaspard de Coligny, acuì lo scontro tra cattolici e calvinisti. Il papa non ne fu avvertito, ma quando la notizia della strage giunse a Roma, G. XIII celebrò l'avvenimento come una vittoria dei cattolici.
Nella prima fase del pontificato, G. XIII sperava ancora di ottenere l'adesione francese alla lega antiturca e di favorire il riavvicinamento tra Francia e Spagna attraverso il matrimonio del fratello minore del re, il duca d'Angiò (il futuro Enrico III) con una delle figlie di Filippo II. Il progetto fallì per l'evidente reticenza della Francia ad aderire ai piani antiturchi del papa. Ma in quel momento la massima preoccupazione del papa era l'atteggiamento, considerato remissivo nei confronti degli ugonotti, di Carlo IX e Caterina de' Medici, la vera detentrice del potere.
Con la morte di Carlo IX (30 maggio 1574) e l'ascesa al trono di Enrico III, G. XIII tentò di riproporre la sua strategia antiugonotta e antiturca, basata sull'alleanza franco-spagnola. Affidò le sue speranze al nunzio straordinario Fabio Mirto Frangipani, inviato a Parigi nel giugno 1574, ma la missione non produsse i risultati voluti. Non ne produsse, del resto, neanche quella successiva, sempre affidata al Frangipani, verso la fine del 1575, quando il fratello del re, François-Hercule, duca d'Alençon, si era unito ai protestanti. Enrico III, condizionato dalla madre, si mostrava disponibile solo per ottenere sussidi finanziari, cosa che gli riuscì con la concessione da parte di G. XIII di 200.000 lire tornesi nell'agosto 1574.
Due anni dopo, però, Enrico III sottoscrisse la pace di Beaulieu (6 maggio 1576), che attribuiva agli ugonotti la libertà di culto in tutto il Regno, eccetto Parigi.
Al biasimo di G. XIII verso l'accordo si aggiunse la formazione della Lega cattolica sotto la guida dei duchi di Guisa. Si riaprì così una nuova fase delle guerre di religione che convinse G. XIII a sostenere ancora il re di Francia con un donativo di 50.000 scudi, inviati nel luglio 1577. Il conflitto si concluse alla fine dell'estate con la pace di Bergerac (17 sett. 1577), i cui termini erano, questa volta, assai meno favorevoli agli ugonotti. Ciò malgrado la notizia provocò una cocente delusione a Roma, dove la cessazione delle ostilità fu giudicata prematura.
Nell'estate del 1578, a F.M. Frangipani fu affidata una terza missione straordinaria sempre nel tentativo di impedire contrasti franco-spagnoli e orientare le due potenze verso la lotta agli Ottomani. Il Frangipani doveva dissuadere l'irrequieto fratello del re, François-Hercule, che nel frattempo era divenuto duca d'Angiò, dal recarsi nei Paesi Bassi per sostenere con le sue truppe le province rivoltatesi contro la Spagna. L'unico risultato della missione fu la dissociazione di Enrico III, quanto meno sul piano ufficiale, dalle iniziative del fratello.
L'altra questione decisiva della politica pontificia in Europa era rappresentata dalle pericolose relazioni franco-inglesi. Gli interventi pontifici erano tesi a impedire il matrimonio tra il duca d'Angiò ed Elisabetta I d'Inghilterra e favorire, invece, il progetto di dargli in sposa una delle infantas di Spagna, iniziativa fallita per la prematura morte del duca (10 giugno 1584).
Con la scomparsa del fratello del re si apriva il delicato problema della successione al trono: non avendo Enrico III discendenza, il pretendente era l'eretico "relapso" Enrico di Borbone, re di Navarra. Alla diplomazia pontificia in Francia fu quindi affidato il compito di favorire un forte partito cattolico costituito dall'alleanza tra i cattolici della famiglia di Borbone e la famiglia di Guisa.
Un'altra fonte di possibili tensioni fu la successione sul trono di Portogallo. Il 4 ag. 1578 morì, durante una spedizione contro i Mori del Nordafrica, il giovane re del Portogallo Sebastiano I. A questo successe un suo prozio anziano e malato, il cardinale Enrico, ultimo legittimo discendente della casa d'Aviz. Si aprì dunque la lotta per la successione tra molti pretendenti: in primo luogo Filippo II, come figlio e marito di principesse portoghesi, quindi la duchessa Caterina di Braganza, dom António, figlio naturale di un fratello del cardinale, e persino, facendo valere più remoti vincoli di parentela, Caterina de' Medici.
G. XIII vedeva nel successo di Filippo II la possibilità che una Spagna più forte divenisse decisiva per la lotta contro i Turchi, ma il rischio di acutizzare lo scontro tra pretendenti cattolici lo spinse a un atteggiamento neutrale. Quando, dopo la morte del cardinale Enrico (31 genn. 1580), risultò chiaro che Filippo II si preparava a intervenire militarmente in Portogallo, G. XIII decise di inviare presso di lui il cardinale Alessandro Riario, come legato a latere, per scongiurare un possibile conflitto.
Il legato incontrò il sovrano quando l'esercito spagnolo aveva già occupato il Portogallo, dopodiché G. XIII non esitò a riconoscere il fatto compiuto, ma le speranze che Filippo II avrebbe finalmente appoggiato la S. Sede contro la potenza ottomana e contro l'Inghilterra dovevano però presto rivelarsi infondate. G. XIII sin dal luglio 1572 aveva inviato alla corte di Madrid un nunzio straordinario, il vescovo di Padova Niccolò Ormaneto, per sollecitare la Spagna a un massiccio attacco navale contro il Turco e a preparare la conquista dell'Inghilterra. Anche questa missione, come quelle del 1573 e del 1574, non ebbe esito positivo: non solo Filippo II evitò di assumere impegni concreti sulla partecipazione all'offensiva antiturca, ma nell'estate del 1577 diede inizio alle trattative con la Porta al fine di arrivare a una tregua. G. XIII espresse la sua indignazione e cercò di blandire il re spagnolo attraverso la concessione del "subsidio de las galeras", il privilegio pontificio in forza del quale la Corona poteva tassare il clero per finanziare le operazioni navali contro gli infedeli, ma nulla riuscì a impedire la firma dell'armistizio.
Anche il disegno del Papato sull'Inghilterra aveva bisogno della Spagna e anche in questo caso l'azione diplomatica di G. XIII perseguiva un obiettivo concepito da Pio V: l'invasione dell'isola, la deposizione di Elisabetta I e la restaurazione del cattolicesimo. Lo strumento per realizzare il progetto doveva essere il matrimonio tra il duca d'Angiò e l'infanta di Spagna, che secondo G. XIII dovevano salire al trono inglese.
Filippo II orientava invece la sua politica su un altro disegno, che non favorisse un fratello del re di Francia. Il re spagnolo preferiva sul trono la regina di Scozia Maria Stuarda (in quel momento prigioniera di Elisabetta I), che pensava di unire in matrimonio con un esponente dell'aristocrazia cattolica inglese, mentre il figlio di Maria, Giacomo, sarebbe stato inviato in Spagna, educato nel cattolicesimo e dato in sposo a un'infanta.
G. XIII non poteva forzare gli Spagnoli perché l'uscita di Venezia dalla lega antiturca rendeva necessaria la loro presenza navale nel Mediterraneo. Nel 1575, quando la minaccia di un'offensiva ottomana sembrava allontanarsi, le trattative furono riprese a Roma con la partecipazione di un rappresentante dei cattolici irlandesi, Patrick O'Hely, che spinse a prendere in considerazione anche la conquista dell'Irlanda. In un primo momento si pensò di conferire la corona irlandese a don Giovanni d'Austria, mentre quella inglese sarebbe andata a Maria Stuarda, a sua volta destinata a sposare un principe italiano. Il pontefice finì poi per propendere verso un'altra soluzione, il matrimonio tra don Giovanni e Maria.
Il piano coincideva con le ambizioni del fratellastro di Filippo II, il quale aspirava a divenire governatore dei Paesi Bassi per potere da lì preparare la spedizione e salpare alla conquista dell'Inghilterra. Nella primavera del 1576 Filippo II decise la nomina di don Giovanni a governatore, ma non sostenne l'immediata invasione perché temeva di distogliere dai Paesi Bassi le forze necessarie per reprimere la rivolta e le possibili ritorsioni degli Inglesi, che già sostenevano i ribelli. L'atteggiamento temporeggiatore di Filippo II e le gravi difficoltà incontrate da don Giovanni nella sua opera di pacificazione indussero G. XIII, nel 1577, a rinunciare all'impresa contro l'Inghilterra e a puntare su una spedizione in Irlanda, per prendere gli Inglesi alle spalle. L'azione, affidata all'avventuriero T. Stuckley e all'irlandese James Fitzmaurice Fitzgerald, si risolse in un disastro. Una volta giunto a Lisbona (la base delle operazioni) Stuckley seguì re Sebastiano nella sfortunata campagna africana; Fitzgerald fallì il suo primo tentativo di raggiungere l'Irlanda nel 1578 e fu costretto a tornare in Portogallo. Vi riuscì nel luglio 1579, attestando il suo contingente spagnolo nella regione di Smerwick.
Ricevuta la notizia dello sbarco in Irlanda, G. XIII mise a disposizione 350.000 scudi e sollecitò l'intervento di Filippo II, il quale, a sua volta, fornì 4000 uomini, armi, munizioni e vettovaglie. Nell'estate del 1580 approdò in Irlanda una squadra di sei navi al comando del capitano italiano Bastiano di San Joseppi (San Joseffo). Fitzgerald riuscì a fomentare la rivolta antinglese e ottenne l'adesione di importanti esponenti dell'aristocrazia cattolica irlandese, ma il nuovo corpo di spedizione, assediato a Smerwick da soverchianti forze inglesi, dovette arrendersi il 9 novembre.
L'iniziativa pontificia in Irlanda spinse Elisabetta I a una nuova ondata repressiva anticattolica, in particolare contro gli esuli che, con l'appoggio di Roma, erano riusciti a tornare in Inghilterra: alcuni, come il gesuita Robert Parsons, furono costretti a fuggire, altri persero la vita, come il gesuita Edmond Campion, giustiziato il 1° dic. 1581.
Dopo il fallimento del progetto di unione delle corone inglese, scozzese e irlandese con a capo la regina Maria Stuarda e del suo matrimonio con don Giovanni d'Austria, nel 1578 G. XIII partecipò al piano dei duchi di Guisa, parenti di Maria, per rapire l'erede al trono di Scozia, Giacomo, e trasferirlo in un paese dove avrebbe potuto essere educato nel cattolicesimo. Il papa si dichiarò disposto a contribuire con un sussidio finanziario e cercò di coinvolgere Filippo II nell'impresa. Tuttavia, ancora nel 1584 il sovrano spagnolo non aveva preso alcuna decisione e il piano non ebbe attuazione.
La Spagna era ancora l'asse attorno al quale ruotava tutta la politica europea di G. XIII in funzione della lotta contro Turchi e protestanti. Per questa ragione G. XIII ebbe sempre un atteggiamento flessibile nei frequenti conflitti giurisdizionali tra potere laico e potere ecclesiastico in particolare nei domini spagnoli d'Italia e - nonostante qualche eccezione - sostenne Filippo II nei Paesi Bassi. All'inizio del suo pontificato, G. XIII proseguì nella politica del suo predecessore, fornendo sostegni, anche finanziari, alla repressione manu militari attuata dal governatore spagnolo, il duca d'Alba, ma il regime di terrore doveva risolversi in un fallimento, che alla fine del 1573 portò alla sostituzione del duca d'Alba con don Luis de Requesens.
G. XIII mutò il suo atteggiamento, offrendo ai ribelli il perdono, da estendersi a Guglielmo d'Orange e agli altri capi della rivolta, senza imporre loro conversioni. Il realismo del papa non fu però condiviso da Filippo II, che il 6 giugno 1574 concesse l'amnistia senza estenderla a quanti si fossero rifiutati di rientrare nella Chiesa cattolica. La pacificazione di Gand (5 nov. 1576), conclusa tra le province cattoliche da un lato e l'Orange, l'Olanda e la Zelanda dall'altro, rendeva palese il fallimento della politica di Filippo II.
Nella primavera del 1576 don Giovanni d'Austria prese il posto di Requesens con l'incarico di congedare le truppe spagnole ma di mantenere esclusivamente il culto cattolico. Fu perciò emanato l'Editto perpetuo del 12 febbr. 1577, accolto con grande favore da G. XIII, convintosi che il ritiro delle truppe spagnole e un loro reimpiego nell'impresa d'Inghilterra avrebbe favorito i suoi disegni. Impartì quindi, tra il 1577 e il 1578, istruzioni ai vescovi dei Paesi Bassi affinché esortassero i cattolici a non sostenere i ribelli. L'invio presso don Giovanni del nunzio Filippo Sega aveva come obiettivo la pace con gli Stati generali e la pressione sul principe affinché decidesse l'intervento in Inghilterra, ma gli ostacoli incontrati da don Giovanni furono tali da impedire definitivamente l'impresa d'Inghilterra, che G. XIII cominciò a ritenere possibile solo se affidata ai fuorusciti inglesi. La situazione peggiorò ulteriormente dopo la rottura con gli Stati generali, seguita alla presa di Namur da parte di don Giovanni, e con la comparsa nello scenario dei Paesi Bassi dell'arciduca Mattia, fratello dell'imperatore Rodolfo II, e del duca d'Angiò. Mentre predisponeva passi diplomatici presso le corti di Parigi e di Vienna per ottenere il richiamo dei due principi, il papa, nel luglio 1578, faceva intimare ai cattolici dei Paesi Bassi il divieto di partecipare alle riunioni degli Stati generali e inviava il nunzio G.B. Castagna alla Dieta imperiale, convocata a Colonia il 29 marzo 1578 per sostenere la mediazione di Rodolfo II.
Il 1° ott. 1578 morì don Giovanni d'Austria. Gli succedeva nell'incarico il nipote, il duca Alessandro Farnese. Avendo le province dell'Hainaut e dell'Artois cercato di formare una confederazione cattolica al fine di contrastare l'avanzata del calvinismo (Unione di Arras, 6 genn. 1579), il duca seppe abilmente convincerle ad aderire alla pace di Arras (17 maggio 1579) insieme con gli Stati di Lilla, Douai e Orchies. Pur comportando concessioni sul piano politico, la pace rappresentava un successo per la causa cattolica e consentiva, inoltre, al Farnese di proseguire l'offensiva militare, coronata dalla conquista dell'importante piazzaforte di Maastricht (29 giugno 1579), nel momento in cui la rigidità dei negoziatori spagnoli imponeva lo scioglimento della Dieta di Colonia.
Le relazioni con l'imperatore Massimiliano II e poi con il figlio, Rodolfo II, erano complicate dalla questione turca, nella quale l'Impero non voleva essere coinvolto: Massimiliano II temeva di essere abbandonato dagli alleati e di trovarsi a fronteggiare da solo il potente nemico. La defezione della Repubblica veneta, nel marzo 1573, confermò i suoi timori, e quindi la tregua firmata con la Sublime Porta sin dal 1568 non fu rimessa in discussione. Anche sul secondo fronte della politica europea del pontefice, la lotta antiprotestante, G. XIII non ebbe disponibilità da Massimiliano. Sotto questo profilo, l'ascesa al trono, nel 1576, di Rodolfo II destò nuove speranze.
Educato alla corte di Filippo II, nella fase iniziale del suo regno il nuovo imperatore si dimostrò convinto difensore degli interessi cattolici e rifiutò di confermare le concessioni del padre a favore dei protestanti dell'Austria Superiore; due anni più tardi proibì l'esercizio del culto riformato a Vienna, provvedimento lodato da G. XIII in un breve del 13 luglio 1578. Rodolfo II si preoccupava però di non urtare la sensibilità dei principi protestanti dell'Impero, tanto che, in occasione della missione inviata a G. XIII per il tradizionale discorso di obbedienza, l'imperatore si rifiutò di fare inserire il termine "oboedientia" nel testo preparato per il concistoro del 2 luglio 1577, lasciando soltanto l'espressione "oboedientissimus filius". Al papa non rimase che rassegnarsi e promulgare la richiesta bolla di approvazione.
La complicata situazione faceva temere dei cedimenti e la possibile promulgazione, fino ad allora mai avvenuta, della cosiddetta Declaratio Ferdinandea, sottoscritta da Ferdinando I il 24 sett. 1555. Sostanzialmente la Declaratio concedeva, in deroga alla normativa sancita dalla pacificazione di Augusta, la libertà di culto ai luterani sudditi di principi cattolici.
Con l'azione svolta dal cardinale Morone nella Dieta di Ratisbona (1572), e dal cardinale Cristoforo Madruzzo alla Dieta di Augusta (1582) furono evitati cedimenti dell'imperatore. Madruzzo riuscì anche a fare escludere dalle sedute il luterano, e coniugato, margravio Gioacchino Federico di Brandeburgo, rappresentante dell'amministratore dell'arcivescovado di Magdeburgo. Il rilevante successo permise in seguito l'esclusione dalle Diete imperiali degli amministratori protestanti di altre diocesi.
Necessariamente condizionata dai rapporti con l'imperatore fu la posizione del Papato sulle elezioni al trono di Polonia del 1573 e del 1575. Sin da prima della morte di Sigismondo II Augusto (7 luglio 1572), G. XIII aveva garantito il suo appoggio al figlio secondogenito di Massimiliano, l'arciduca Ernesto, e quella fu l'istruzione data al cardinale legato Giovanni Francesco Commendone al momento dell'elezione. L'altro candidato, Enrico di Valois, non offriva le necessarie garanzie in ordine a una decisa azione antiturca. Nonostante ciò, G. XIII adottò un atteggiamento decisamente non lineare e, dinanzi all'opposizione che incontrava la soluzione asburgica tra i nobili polacchi, finì per appoggiare il candidato francese (16 maggio 1573). Nel 1574 l'ascesa di Enrico al trono di Francia, dopo la scomparsa del fratello Carlo IX (30 maggio 1574), doveva riproporre il problema del trono polacco. Questa volta da parte asburgica si candidarono l'arciduca Ernesto, l'arciduca Ferdinando del Tirolo e lo stesso Massimiliano II, anche stavolta con il pieno appoggio di Gregorio XIII. Rafforzava ora tale scelta il fatto che il più temibile concorrente, il voivoda di Transilvania Stefano Báthory, non sembrava dare alcun affidamento quanto all'impegno antiturco e antiprotestante. Al momento dell'elezione, però, una parte della nobiltà elesse Massimiliano II, e l'altra, formata dalla piccola nobiltà ("szlachta") si pronunciò a favore del Báthory, il quale riuscì a farsi incoronare re di Polonia il 1° maggio 1576.
La morte dell'imperatore trasse il papa dall'imbarazzo. Accantonando le riserve sul Báthory, G. XIII accolse la legazione inviata a Roma e riconobbe il re di Polonia. Si trattò di una scelta felice, perché, contrariamente alle previsioni, il nuovo sovrano si doveva rivelare prezioso nella lotta contro i Turchi e nell'opera di restaurazione del cattolicesimo in Polonia.
Deludenti furono invece le relazioni con il re di Svezia, Giovanni III Vasa, sposato con la cattolica Caterina Jagellone, sorella del re di Polonia Sigismondo II Augusto. Nella primavera del 1577, il sovrano svedese inviò un'ambasceria con l'incarico di prestare obbedienza ("in nome del re, non in nome del Regno", precisa Pastor, IX, p. 699 n. 1) al pontefice. La ricerca di buone relazioni con il Papato da parte di Giovanni III era chiaramente finalizzata a ottenere l'appoggio di Roma alla sua aspirazione di sedere sul trono polacco e al recupero della cospicua eredità italiana della moglie, discendente di Bona Sforza.
Sebbene non gli sfuggissero le reali motivazioni del sovrano svedese, G. XIII pensava alla possibilità del ritorno della Svezia al cattolicesimo e, a tale scopo, inviò alla corte di Giovanni III il gesuita Antonio Possevino, che, nel maggio 1578, ottenne la segreta conversione del sovrano. Per ristabilire la piena obbedienza a Roma, Giovanni III poneva però una serie di condizioni, alcune delle quali - in particolare la comunione sotto le due specie e il matrimonio dei chierici - furono giudicate inaccettabili da un'apposita commissione nominata dal papa. A nulla valse un secondo soggiorno del Possevino a Stoccolma tra l'agosto del 1579 e l'agosto del 1580: l'irremovibilità del re portò al fallimento del piano di Gregorio XIII.
Nel governo dello Stato pontificio le difficoltà incontrate dall'amministrazione papale nel controllare i contrasti tra fazioni cittadine scoppiati in alcuni centri urbani quali Rimini, Cesena o Fano indicano come il processo di rafforzamento del potere centrale fosse lungi dall'avere raggiunto la piena attuazione. Tuttavia la riorganizzazione delle istituzioni, la revisione della normativa municipale e dei titoli feudali furono aspetti decisivi del governo di Gregorio XIII. In tale quadro si devono considerare i provvedimenti miranti a esercitare un più oculato controllo sulle entrate della Camera apostolica e a migliorare il funzionamento dell'apparato fiscale ovvero l'ampliamento della giurisdizione dei funzionari pontifici a scapito dell'amministrazione municipale sancita nei nuovi statuti di Roma, elaborati dal giurista Luca Peto e approvati dal pontefice nel 1580.
La revisione dei titoli feudali, decisa da G. XIII il 1° giugno 1580, non andava nel senso del rafforzamento del potere centrale a spese del potere signorile. Essa si inquadra invece nello sforzo complessivo di riordinamento della gestione finanziaria, in quanto la concessione dei feudi rappresentava una fonte di entrate per la Camera apostolica. La revisione dei titoli, peraltro avviata prima del 1580, portò alla confisca di possedimenti feudali, ma non si tradusse in una politica antisignorile, come dimostra il consolidamento del potere politico ed economico delle élites aristocratiche in città quali Ravenna o Macerata, ovvero il mantenimento dei tradizionali privilegi in materia di esportazione delle granaglie e di esercizio della giurisdizione feudale.
La reazione violenta delle province contro la tendenza accentratrice del governo temporale e contro la crescente pressione fiscale è stata interpretata come motivo della recrudescenza del fenomeno del banditismo, che condizionò il governo di Gregorio XIII. Anche la protezione non di rado accordata da taluni nobili ai banditi, a tal punto palese da suscitare sospetti di collusione, è stata spiegata alla luce della supposta politica antifeudale del papa. Queste interpretazioni sono oggi rimesse in discussione poiché non vi fu, sotto G. XIII, né rafforzamento del processo di accentramento nell'ambito dell'amministrazione temporale, né aumento del peso fiscale e nemmeno un sistematico atteggiamento antisignorile.
Il carattere endemico del fenomeno e la scarsa energia con cui esso fu affrontato possono essere le ragioni per cui, sotto G. XIII, la lotta non diede gli esiti sperati. Successi soltanto effimeri riscosse, nel 1580, il legato contro il banditismo nello Stato pontificio Alessandro Sforza. Non ebbero migliori risultati i commissari generali, uno dei quali fu il figlio del papa, Giacomo. Si aggiungeva, inoltre, la mancata collaborazione dei principi confinanti, in particolare del granduca di Toscana, Francesco de' Medici, sul cui territorio si rifugiavano bande operanti nella zona settentrionale dello Stato al termine delle loro scorrerie.
G. XIII non mancò di affrontare il problema della povertà e delle crisi alimentari: nel 1576 il pontefice fece emanare precise direttive in materia annonaria al fine di impedire speculazioni sul prezzo del frumento nei periodi di penuria e a partire da quell'anno furono presi particolari provvedimenti a favore del Monte di pietà in modo da abbassare gli interessi sui prestiti. Scarsi risultati ebbero le iniziative prese sulla mendicità a Roma: nel 1581 G. XIII affidò alla Confraternita della Trinità dei Pellegrini il compito di assistere i mendicanti della città, ma la Confraternita non fu in grado di arginare il fenomeno.
Di notevole rilevanza furono gli interventi urbanistici, edilizi e artistici voluti da Gregorio XIII. Con la costituzione Quae publice utilia del 1° ott. 1574 si tentò di migliorare la viabilità e stimolare l'edilizia a Roma.
I più importanti interventi riprendevano progetti non portati a termine da Pio IV. Un esempio sono le opere realizzate per l'anno santo del 1575 nell'area della basilica di S. Giovanni in Laterano. L'erezione, su progetto di Giacomo Del Duca, di una porta nelle mura Aureliane, dove Pio IV aveva già fatto aprire una breccia, e la costruzione, in corrispondenza di essa, di una nuova via d'accesso alla città (l'attuale via Appia Nuova); l'apertura di due strade destinate a collegare la basilica, rispettivamente a S. Maria Maggiore e alla porta S. Sebastiano. In tal modo S. Giovanni veniva a trovarsi al centro di un sistema viario che si irradiava verso le principali mete di pellegrinaggio. L'antico ponte Emilio (il ponte Rotto) fu ricostruito a opera di Matteo Bartolini (Matteo da Castello), a Giacomo Della Porta fu affidata la creazione di quattro fontane a piazza Colonna (1575), piazza del Pantheon (1578) e alle due estremità di piazza Navona (1575-76) e Martino Longhi il Vecchio progettò la trasformazione dell'antico "planetarium" delle terme di Diocleziano in deposito di grano. A G. XIII si deve anche l'inizio, nel 1583, dei lavori di erezione del palazzo del Quirinale su un primo progetto di Ottaviano Nonni (il Mascherino); assai significativi furono inoltre i lavori di abbellimento eseguiti in edifici sacri e la costruzione di nuove chiese, come il restauro del Battistero e l'erezione della cappella del Santissimo nella basilica lateranense, la committenza del ciclo delle trentaquattro scene di martirio affrescate in S. Stefano Rotondo da Niccolò Circignani, detto il Pomarancio, Matteo da Siena e altri, o come la costruzione, nel 1578, della cappella gregoriana in S. Pietro e, nel 1580, della Madonna dei Monti, capolavoro di Giacomo Della Porta. Notevoli, infine, furono gli interventi promossi in Vaticano: gli affreschi della sala Regia affidati a Giorgio Vasari e Federico Zuccari, quelli della volta della sala di Costantino, dipinti da Tommaso Laureti, o la galleria delle Carte geografiche, progettata, lungo il cortile del Belvedere, dal Mascherino: gli affreschi topografici, disegnati da Ignazio Danti, noto architetto, astronomo e matematico, furono eseguiti dal fratello Antonio. A G. XIII si deve infine la costruzione della torre dei Quattro Venti, affrescata da Niccolò Circignani, Matteo e Paolo Brill.
Se sul piano politico-diplomatico e su quello dell'amministrazione dello Stato pontificio, le iniziative di G. XIII non furono sempre coronate da successo, il suo pontificato riveste fondamentale importanza sotto il profilo religioso. La sistematica applicazione dei decreti del concilio di Trento diede impulso al rafforzamento del centralismo romano e ciò fu possibile attraverso le congregazioni romane, le nunziature e i nuovi centri di formazione sacerdotale.
All'inizio del 1573, fu resa operativa la congregazione dei Vescovi, formalmente istituita da Pio V il 13 genn. 1572. Inizialmente alla congregazione fu affidato soprattutto il compito di seguire e coordinare il programma delle visite apostoliche, attuato dal 1573 per le diocesi dell'Italia centrosettentrionale. Nel giro di pochi anni furono ampliate le sue attribuzioni e rientrarono progressivamente nelle sue competenze i problemi derivanti dall'attuazione dei decreti tridentini, le questioni connesse con il governo spirituale delle diocesi e, in particolare, quelle relative alle comunità religiose femminili soggette all'autorità dell'ordinario diocesano.
Nel concistoro del 10 giugno 1573 fu eretta la congregazione per i Greci d'Italia. Compito principale del nuovo organismo era il governo spirituale dei Greci d'Italia e dei monasteri dell'Ordine di S. Basilio nonché l'elaborazione di un provvedimento generale che recepisse le direttive tridentine, soprattutto in materia disciplinare e liturgica. La congregazione non raggiunse i suoi obiettivi e a partire del 1581 registrò una stasi della sua attività. Risultati ben più rilevanti e significativi produsse per contro la decisione del pontefice di riattivare, verso la fine del 1572, i lavori della congregazione Germanica, eretta anch'essa da Pio V nel 1568, ma da tempo scarsamente attiva. L'efficacia dell'azione svolta dall'organismo cardinalizio fu determinata anche dall'oculata designazione dei suoi componenti, porporati appartenenti all'area tedesca, come Otto von Truchsess, Marco Sittich von Altemps, Ludovico Madruzzo, vescovo di Trento, o italiani esperti di problemi di quell'area, come G. Morone, G.F. Commendone, nonché T. Gallio. A differenza della congregazione dei Vescovi, la congregazione Germanica si occupò non soltanto delle questioni religiose, ma anche dei problemi politico-ecclesiastici del mondo tedesco.
Accanto al lavoro svolto dagli organismi centrali della Chiesa, di fondamentale importanza fu l'azione dei nunzi, il cui numero sotto G. XIII si accrebbe insieme con l'efficienza della loro organizzazione. Nella Spagna di Filippo II i nunzi svolsero una parte fondamentale nel promuovere l'applicazione del concilio (in ciò si distinse particolarmente Niccolò Ormaneto, già vicario generale dell'arcivescovo di Milano C. Borromeo). I rappresentanti pontifici dovevano far osservare ai vescovi l'obbligo di residenza, sollecitandoli ad adempiere gli obblighi pastorali previsti dal concilio. G. XIII fu molto attento in particolare all'istituzione dei seminari diocesani e alla riforma del clero regolare, soprattutto maschile, portata a termine nel 1577 da N. Ormaneto nei confronti dei premonstratensi. Parziali furono invece i risultati ottenuti da F. Sega con i mercedari, i francescani e i certosini.
In Francia, dove lo stato di generale confusione provocato dalle guerre civili non consentiva interventi così sistematici, le preoccupazioni di G. XIII si concentrarono sulla pubblicazione, sotto forma di legge del Regno, dei decreti del concilio di Trento. Tale richiesta, reiteratamente presentata attraverso i nunzi, doveva incontrare un'opposizione che non consentì a G. XIII di vedere realizzati i suoi obiettivi. Il potere regio temeva la lesione delle libertà gallicane, delle quali si considerava difensore e custode e i capitoli cattedralizi difendevano in tal modo le antiche esenzioni dall'autorità vescovile.
Nei territori dell'Impero G. XIII istituì, su indicazione della congregazione Germanica, due nuove nunziature con compiti di natura religiosa, simili a quelli di un visitatore apostolico, i cui titolari non erano accreditati presso una singola corte, come avveniva di solito, ma presso tutti i principi di una determinata area geografica.
Nel 1573, il papa nominò nunzio nella Germania Superiore l'abate Bartolomeo Portia, coadiuvato dal domenicano Feliciano Ninguarda, e nunzio nella Germania Inferiore l'uditore di Rota Caspar Gropper, affiancato dal francescano Francesco Sporeno e dal sacerdote secolare Nicolas Elgard. Le due nunziature non ebbero vita lunga: la prima fu soppressa nel 1583, dopo l'erezione, nel 1580, della nunziatura di Graz; la seconda si estinse nel 1578, ma ebbe un ideale prolungamento con l'istituzione, nel 1584, della nunziatura di Colonia.
Sin dagli inizi, gli inviati di Roma si adoperarono per ottenere la convocazione dei concili provinciali e dei sinodi diocesani. Così, nel 1573, il Portia riuscì a fare celebrare un concilio nella provincia di Salisburgo; grazie agli sforzi del Ninguarda fu ottenuta anche la riunione di un sinodo diocesano nel 1576 e avviato il progetto di erezione di un seminario, portato a termine tra il 1582 e il 1583. Laddove non fu possibile erigere seminari, si promossero collegi dei gesuiti, come avvenne nel 1580 nella diocesi di Strasburgo, a Molsheim, e nella diocesi di Augusta. Proficua si rivelò l'opera riformatrice del Ninguarda, al quale G. XIII aveva conferito l'incarico di visitatore, dapprima dei conventi degli Ordini mendicanti della provincia ecclesiastica di Salisburgo e degli Stati degli arciduchi Carlo e Ferdinando d'Asburgo e, nel 1574, dei conventi della Boemia e della Moravia.
Il problema più delicato che si poneva nei territori dell'Impero era la presenza di elementi filoprotestanti nei capitoli cattedralizi, ai quali competeva l'elezione dei vescovi. In alcuni casi l'intervento degli inviati romani risultò determinante ai fini della designazione di un candidato cattolico, come Cristoforo A. von Spaur a Gurk e, nel 1575, Jacob C. Blarer a Basilea. Altrove, allo scopo di ostacolare candidature protestanti, G. XIII fece procrastinare l'elezione: fu il caso di Münster, il cui seggio episcopale rimase vacante tra il 1576 e il 1585. In altre situazioni si optò per soluzioni di ripiego: in deroga al divieto tridentino di cumulo dei benefici, Ernesto di Baviera - amministratore, di costumi non irreprensibili, della diocesi di Frisinga - fu confermato vescovo di Hildesheim (1573), di Liegi (1581), e arcivescovo principe elettore di Colonia (1583).
Analoghi risultati, sotto il profilo della riforma ecclesiastica, furono ottenuti in Polonia, grazie all'azione dei nunzi Giovanni Andrea Calligari e Alberto Bolognetti, e nella Confederazione Elvetica, dove nel 1579 G. XIII inviò come nunzio e visitatore il vescovo di Vercelli Gianfrancesco Bonomini.
G. XIII attribuì grande importanza ai centri di formazione sacerdotale. L'applicazione del decreto tridentino che imponeva l'erezione di un seminario in ogni diocesi urtava ovunque contro ostacoli organizzativi ed economici, specialmente nei paesi in cui le posizioni cattoliche erano più minacciate. Il pontefice diede dunque l'avvio a un programma orientato in due direzioni: a Roma, rafforzamento delle istituzioni già operanti e creazione di nuovi collegi per chierici provenienti da particolari aree geografiche; a Nord delle Alpi, erezione di seminari nei centri considerati nevralgici.
A Roma furono potenziati due collegi retti dai gesuiti: nel 1573 dotò il Collegio germanico - fondato nel 1552 in vista della formazione dei chierici originari dei territori dell'Impero - di una rendita annua di 10.000 scudi e l'anno seguente gli assegnò una nuova sede nel palazzo di S. Apollinare, mentre nel 1580 univa a esso il Collegio ungarico, eretto due anni prima; assicurò, inoltre, una cospicua dotazione al Collegio romano, operante dal 1551, e ne fece ampliare la sede. G. XIII fu, dunque, di fatto il secondo fondatore di quella che sin da allora fu, in suo onore, denominata anche Università Gregoriana. Frattanto, il pontefice aveva eretto il Collegio greco nel 1577, il Collegio inglese nel 1578, mentre nel 1584, per suo diretto interessamento, apriva i battenti il Collegio maronita.
Roma divenne così il luogo privilegiato per la formazione dei futuri sacerdoti, in particolare di quelli destinati a rientrare nei paesi d'origine, ma non fu nemmeno trascurata la creazione di istituzioni analoghe fuori d'Italia, in particolare nell'Europa centrale. All'interessamento del pontefice si deve l'erezione dei seminari o collegi di Vienna nel 1574, Praga nel 1575, Graz nel 1578, Olmütz nel 1579, Klausenburg nel 1583, Fulda nel 1584, Dillingen nel 1585.
La politica di riforma ecclesiastica di G. XIII ebbe un ruolo decisivo nel consolidamento delle posizioni cattoliche soprattutto nell'Europa centrale e nel mondo germanico, che solo quaranta anni prima sembrava definitivamente perso per la Chiesa romana.
G. XIII dedicò particolari cure anche al clero regolare. La sua attenzione si concentrò sul ripristino della disciplina regolare negli antichi Ordini religiosi. Intenzionato a proseguire l'azione avviata da Pio V, il pontefice emanò provvedimenti di riforma ispirati alle direttive tridentine nei confronti, per esempio, dei vallombrosani d'Italia, nel 1573 e nel 1574, degli eremiti di S. Girolamo nel 1574, dei trinitari di Spagna e Portogallo nel 1576, dei cistercensi nel 1578. Una serie di misure, in particolare una costituzione del 13 giugno 1575, mirò invece a ristabilire l'osservanza della clausura in seno alle comunità femminili.
Nel quadro del suo programma di rinnovamento religioso, il papa favorì l'espansione degli ordini recenti, quali i barnabiti, i teatini, i cappuccini e in particolar modo la Compagnia di Gesù: a molti gesuiti - Pietro Canisio, Antonio Possevino, L. Norvegus (Lauritz Nilssön), Pietro Skarga - furono affidati importanti incarichi.
Il nome di G. XIII rimane anche legato alla storia della riforma carmelitana promossa da Teresa d'Ávila e della Congregazione dei preti secolari dell'oratorio, che ottenne il riconoscimento canonico nel 1575. Veniva così formalmente eretta a Ordine religioso quella comunità di ecclesiastici costituitasi intorno alla figura carismatica di Filippo Neri, al quale il papa era personalmente legato. Più guardingo fu inizialmente l'atteggiamento di G. XIII nei confronti della riforma carmelitana. Nella prima fase del pontificato, verosimilmente per effetto delle informazioni ostili al movimento di rinnovamento promosso da Teresa d'Ávila ricevute dal generale dell'Ordine Giovan Battista Rossi, G. XIII approvò l'iniziativa di quest'ultimo di inviare da Roma un frate per visitare le nuove fondazioni spagnole. Successivamente, il pontefice si convinse dell'importanza della riforma teresiana e, di conseguenza, della necessità di riconoscere al nuovo istituto dei carmelitani scalzi una maggiore autonomia: con breve del 22 giugno 1580, eresse i rami maschile e femminile dei "descalzos" in un'unica Congregazione autonoma.
Nel conflitto tra le giurisdizioni ecclesiastiche e quelle del potere civile G. XIII mantenne una linea di maggiore flessibilità rispetto al predecessore Pio V. Egli intendeva evitare che le tensioni prodotte da conflitti locali tra autorità laiche e autorità ecclesiastiche finissero con l'incrinare i rapporti tra il Papato e le potenze cattoliche e con l'ostacolare il raggiungimento di obiettivi di più ampio respiro. All'inizio del pontificato, la necessità della formazione della lega antiturca fu alla base della moderazione di G. XIII nei confronti di Venezia, che pretendeva di sottomettere alla sua giurisdizione la diocesi di Ceneda e ritardava l'assenso ducale all'insediamento degli ecclesiastici nei loro benefici.
Le controversie più acute si verificarono nei Regni e domini di Filippo II. Il re pretendeva di imporre la presenza di un rappresentante regio durante i lavori del concilio provinciale di Toledo del 1582-83 e il Consiglio reale si inseriva nei conflitti insorti negli anni precedenti tra i vescovi di Calahorra e di Cadice e i rispettivi capitoli cattedralizi.
Forti tensioni si crearono a Napoli nel 1572 e nel 1573, e soprattutto a Milano, dove le rivendicazioni in materia giurisdizionale del cardinale Borromeo si scontrarono ripetutamente contro l'opposizione delle autorità spagnole. Nel 1573 i rapporti si erano a tal punto deteriorati che l'arcivescovo non aveva esitato a fulminare la scomunica contro il governatore L. de Requesens. In quell'occasione, G. XIII, nonostante il parere contrario del Borromeo, concesse al rappresentante di Filippo II l'assoluzione in considerazione del fatto che era stato nel frattempo nominato governatore dei Paesi Bassi, dove non era opportuno giungesse nella condizione di scomunicato.
La maggiore flessibilità delle posizioni del papa rispetto a quelle dell'arcivescovo di Milano è da inserirsi nel quadro politico-ecclesiastico generale. Sebbene G. XIII si dimostrasse fermo nella difesa dei principî giuridici, il desiderio di non compromettere il clima d'intesa con la Spagna lo indusse ad avallare soluzioni di compromesso sull'esercizio dell'exequatur a Napoli, e di quel complesso di diritti d'intervento rivendicato dalla Corona nelle questioni ecclesiastiche del Regno di Sicilia noto con il nome di Legazia apostolica o Monarchia sicula. Tuttavia la trattativa, condotta per gli Spagnoli dagli inviati a Roma Alvaro Borja, marchese di Alcañices, e Francisco de Vera, si concluse con una rottura.
Conflitti dello stesso tenore non mancarono in Francia. Quando, con decreto del 4 ott. 1580, il Parlamento di Parigi proibì la pubblicazione e l'applicazione della bolla In Coena Domini, le forti pressioni di G. XIII su Enrico III ottennero, nel dicembre 1581, la revoca della decisione e la distruzione materiale del decreto regio. Anche sugli ordini del 1582 e del 1583 con i quali si dispose, senza il consenso della S. Sede, la riscossione di decime sulle rendite del clero il Papato riuscì a far valere le sue ragioni.
Anche nei confronti della Corona francese G. XIII seppe tuttavia mostrarsi accomodante sulle questioni di natura religiosa. In cambio dell'eliminazione di numerosi abusi introdotti nelle provviste regie ai vescovati, nel 1582 il pontefice accettò che i benefici ecclesiastici fossero gravati da pensioni a favore di laici.
Un aspetto importante del pontificato di G. XIII fu la comprensione dell'importanza della cultura nell'applicazione dei decreti tridentini.
Furono proseguiti i lavori per una nuova edizione dei "Settanta" (il testo greco della Bibbia) a opera di una commissione di cui facevano parte il cardinale Antonio Carafa, studiosi quali Fulvio Orsini e i gesuiti Roberto Bellarmino e Francisco Toledo; la revisione dei libri corali fu affidata, nel 1577, al compositore G. Pierluigi da Palestrina e ad Annibale Zoilo, poi tradottasi in una rielaborazione dei testi musicali che non ricevette l'approvazione pontificia; nel 1582 fu pubblicato il Corpus iuris canonici, con l'emendazione del Decretum di Graziano; furono stampati catechismi nelle lingue dell'Europa orientale e dell'Oriente cristiano e fu sostenuta la Tipografia Orientale fondata dal cardinale Ferdinando de' Medici nel 1584, il cui primo lavoro fu l'edizione della traduzione araba dei Vangeli in 4000 esemplari.
G. XIII era convinto della necessità di una risposta cattolica alle luterane Centurie di Magdeburgo, e nel 1578 con questo intendimento commissionò una storia della Chiesa a un celebre studioso suo concittadino, Carlo Sigonio. Filippo Neri individuò invece nel più giovane confratello Cesare Baronio il soggetto in grado di affrontare la notevole impresa: il primo tomo degli Annales ecclesiastici uscì però dopo la morte di Gregorio XIII. In quello stesso quadro sta l'interesse di G. XIII per la scoperta, nel 1578, delle catacombe dei Giordani.
I dipinti murali ivi conservati - fatti riprodurre dal domenicano spagnolo Alfonso Chacón (Ciacconio) - dimostravano che la venerazione delle immagini sacre, condannata dai calvinisti, risaliva ai primi secoli dell'era cristiana. La disponibilità di nuovi dati forniti dalla nascente archeologia paleocristiana ridiede slancio al progetto di un'edizione emendata del Martyrologium Romanum. Il lavoro di revisione, inizialmente affidato a una commissione presieduta dal cardinale Sirleto, fu poi portato a termine da Baronio nel 1586.
Collegata alla correzione del Martyrologium Romanum e alla precedente revisione dei libri liturgici (breviario e messale) promossa da Pio V, è la riforma del calendario, che doveva rimanere indissolubilmente associato al nome di G. XIII. La principale ispirazione dell'iniziativa fu una preoccupazione di carattere religioso: l'esigenza di far coincidere il calendario solare con il calendario ecclesiastico. Già da tempo era noto agli esperti che l'errore nella stima della durata dell'anno, in base alla quale era stato elaborato il calendario giuliano, comportava un ritardo dell'anno civile rispetto all'anno solare. Nella seconda metà del Cinquecento lo scarto aveva ormai raggiunto i dieci giorni, e quindi l'equinozio di primavera - in relazione al quale si fissa la data della Pasqua - cadeva l'11 marzo.
Per risolvere il problema del calendario, G. XIII nominò una commissione in data non posteriore al 1575. Nella fase iniziale essa fu presieduta dal vescovo di Sora, Tomaso Giglio, cui successe - a partire, sembra, dal 1576 -, il cardinale Sirleto. Ne facevano parte giuristi, teologi e matematici: fra questi ultimi il domenicano I. Danti e il gesuita tedesco Cristoforo Clavius.
I lavori procedettero con lentezza. Soltanto alla fine del 1577, il progetto poté essere elaborato nella forma di un Compendium. G. XIII lo inviò, per mezzo dei nunzi pontifici, ai principi e alle Università del mondo cattolico, affinché a loro volta lo trasmettessero ai matematici più competenti dei rispettivi paesi. Tenendo conto dei giudizi pervenuti, la commissione elaborò una relazione (14 sett. 1580), nella quale si proponeva di procedere alle necessarie correzioni nell'ottobre del 1581, ma l'entrata in vigore del nuovo calendario slittò di un anno. Il 24 febbr. 1582, G. XIII emanò la bolla Inter gravissimas con la quale stabiliva che al giovedì 4 ottobre di quell'anno seguisse il venerdì 15 ottobre e che non fossero considerati bisestili gli anni centenari non multipli di 400.
Nei paesi cattolici la riforma fu accolta quasi immediatamente; i paesi protestanti invece tardarono nell'adottarla, anche a motivo dei termini imperativi ("mandamus") con i quali la bolla papale la imponeva.
Il sostegno della causa cattolica attraverso le attività culturali non escludeva, né poteva escludere, l'esercizio del controllo sulla stampa attraverso gli strumenti della censura ecclesiastica. Con la costituzione Ut pestiferarum opinionum del 13 sett. 1572, G. XIII rese esecutiva la decisione presa da Pio V nel concistoro del 5 marzo 1571 di erigere una congregazione cardinalizia permanente dell'Indice dei libri proibiti. La congregazione lavorò a un Indice espurgatorio e a una nuova edizione dell'Indice tridentino del 1564. Nessuna delle due iniziative vide però la luce durante il pontificato di Gregorio XIII.
In quegli anni si andava affermando una tendenza contraria alle traduzioni in volgare della Sacra Scrittura, come attesta la proibizione promulgata nel 1575 da G. XIII della versione francese della Bibbia curata da René Benoist. La censura non era peraltro che un aspetto del più generale impegno nella lotta contro l'eresia; nonostante l'attività dell'Inquisizione romana sembri allentare l'azione repressiva di Pio V, l'altro importante strumento fu comunque il tribunale del S. Uffizio, come dimostrano i tredici imputati condannati alla pubblica abiura - e uno di essi al rogo - il 24 maggio 1573 o i diciassette penitenziati il 13 febbr. 1583, fra i quali era il domenicano Giacomo Massilara (Paleologo), destinato a salire sul patibolo due anni più tardi.
Durante il pontificato di G. XIII i processi di maggiore risonanza furono quello all'arcivescovo di Toledo, B. Carranza, del quale G. XIII da cardinale si era occupato in occasione della sua legazione in Spagna, e quello del teologo Michele Baio (Michael de Bay).
Nel 1566, Pio V aveva avocato a sé la causa Carranza e, superando le resistenze spagnole, aveva imposto il trasferimento a Roma dell'imputato. Il papa era convinto dell'innocenza dell'arcivescovo, ma morì prima della fine del procedimento. Un esito del processo favorevole all'imputato era però osteggiato dall'inquisitore generale, F. de Valdés, acerrimo avversario di Carranza, e da Filippo II, che si preoccupava della possibile diminutio dell'autorità spagnola perché l'imputato era già stato processato in Spagna. Per questo motivo, dopo l'elezione di G. XIII, crebbero le pressioni sul papa, e fu invocata una condanna esemplare. G. XIII, che aveva partecipato personalmente all'ultima fase del processo romano, non tenne conto delle richieste del sovrano e il 14 apr. 1576 fu emessa una sentenza relativamente mite. Con essa Carranza era giudicato "vehementer suspectus" d'eresia per diciassette proposizioni contenute nelle sue opere e condannato ad abiurarle "ad cautelam" prima di essere scarcerato.
Il teologo Michele Baio era dal 1575 cancelliere dell'Università di Lovanio. Alcune sue tesi in materia di grazia e libero arbitrio erano state già condannate da Pio V con una bolla del 1° ott. 1567, ma Baio continuò a esprimere le sue posizioni, e in particolare i suoi dubbi circa l'infallibilità dottrinale del papa. Filippo II e l'Università di Lovanio si appellarono perciò al nuovo pontefice. Con la bolla Provisionis nostrae del 29 genn. 1579, G. XIII accolse la richiesta e confermò, riportandone il testo integrale, la bolla del predecessore. Quindi, per assicurarsi la piena sottomissione di Baio, inviò a Lovanio, nel marzo 1580, il teologo gesuita F. Toledo, che ottenne una piena ed esplicita ritrattazione. Le tesi di Baio trovavano, però, accesi sostenitori tra i suoi seguaci e quindi, nel 1584, G. XIII incaricò il nunzio G.F. Bonomini di studiare, d'intesa con l'arcivescovo di Malines Johannes Hauchinus, il modo di sradicare "l'errore". La soluzione individuata fu quella di affidare alla facoltà di teologia di Lovanio una trattazione sistematica degli argomenti controversi, ma il documento vide la luce soltanto nel 1586.
Con le Chiese dissidenti d'Oriente, la politica di G. XIII fu orientata al dialogo. L'inaspettato arrivo, tra la fine del 1577 e gli inizi del 1578, del più alto esponente della Chiesa siro-giacobita, il patriarca d'Antiochia Ignazio Na'mattalah, accese le speranze di un ritorno all'unione con Roma delle Chiese monofisite (la sira, innanzitutto, nonché la copta, l'abissina e l'armena). Convinto assertore dell'unione, Ignazio aveva rinunciato alla dignità patriarcale facendo eleggere in suo luogo il nipote Dawudšah. G. XIII lo accolse benevolmente, ma preferì trattare direttamente con il patriarca in carica. Nel marzo 1583 il papa inviò una missione guidata dal gesuita Leonardo Abel, per l'occasione promosso vescovo in partibus di Sidone, allo scopo di confermare l'elezione di Dawudšah, conferirgli il pallio e riceverne la piena professione di fede. L'auspicata unione non fu, però, raggiunta.
Nell'estate del 1582 furono inviati in Egitto i gesuiti Giovan Battista Eliano e Francesco Sasso nel tentativo di promuovere l'unione anche con la Chiesa copta. Nonostante le favorevoli disposizioni inizialmente dimostrate dal patriarca Giovanni al-Manfaluti, il progetto di unione fu respinto dal sinodo del 1° febbr. 1584. La morte del patriarca, avvenuta nel settembre successivo, segnò il definitivo fallimento della missione. Così, alla morte di G. XIII l'unione con le Chiese monofisite non si realizzò; solo alcune isolate comunità caldee e armene accettarono di pronunciare la professione di fede.
Sin dagli inizi del suo pontificato, G. XIII rivolse anche alla Chiesa ortodossa la sua attenzione e ritenne di poter trovare nel patriarca di Costantinopoli Geremia II Tranos un interlocutore aperto al dialogo. I primi contatti furono stabiliti per mezzo del vescovo dalmata Pietro Cedolini, che soggiornò a Costantinopoli tra l'ottobre del 1580 e l'aprile del 1581. Una seconda missione, affidata al cavaliere L. Cellini, finalizzata all'adesione del patriarca e della sua Chiesa alla revisione del calendario, fallì il suo obiettivo: la proposta fu respinta dal sinodo di Costantinopoli del 20 dic. 1582.
Sebbene Geremia II non avesse mancato di manifestare il suo risentimento per una riforma unilateralmente decisa da Roma, egli continuava a dimostrarsi disponibile a un proseguimento dei contatti. G. XIII gli inviò, nell'estate del 1583, gli emissari M. Eparco e G. Buonafè. Questa volta la missione riuscì: Geremia II si dichiarò disposto a consultare gli altri patriarchi per adottare entro due anni il nuovo calendario. La lettera con la quale comunicava a G. XIII le sue intenzioni, inviata con reliquie e doni preziosi, lasciava presagire ulteriori sviluppi. Nel marzo 1584, tuttavia, su denuncia di esponenti dell'alto clero costantinopolitano ostili a ogni intesa con Roma, il patriarca fu arrestato dalle autorità turche e deposto. Quando, più tardi, tornò sul trono patriarcale, trovò un pontefice, Sisto V, poco incline al dialogo con le Chiese orientali.
Quelli con il patriarca Geremia II non furono gli unici contatti allacciati da G. XIII con il mondo ortodosso. Un'occasione inattesa si presentò nel 1581, quando lo zar Ivan IV il Terribile fece chiedere al papa di interporre i suoi buoni uffici presso re Stefano Báthory al fine di giungere alla conclusione di una pace tra la Polonia e la Moscovia. Per quanto la richiesta dello zar non facesse alcun riferimento a questioni di natura religiosa, G. XIII sperava di aprire uno spiraglio verso una possibile unione con Roma della Chiesa ortodossa russa. Per la delicata missione fu scelto A. Possevino. Le trattative furono irte di difficoltà, ma la mediazione pontificia, condotta con destrezza dal Possevino, produsse i suoi frutti, concretatisi con la firma della tregua decennale di Jam Zapolski del 15 genn. 1582. I colloqui svoltisi a febbraio tra il gesuita e Ivan IV evidenziarono invece l'insanabile divario delle posizioni e l'impossibilità di giungere all'unione delle Chiese.
L'affermazione del cattolicesimo era per G. XIII inserita nel più ampio quadro della evangelizzazione delle popolazioni non cristiane. Di grande rilevanza fu infatti l'impulso dato all'espansione missionaria: fu una delle prime risposte all'esigenza di adeguare l'azione della Chiesa alla funzione universale cui il concilio l'aveva richiamata. Lo strumento principale di questa operazione fu la Compagnia di Gesù. G. XIII confermò e ampliò facoltà e privilegi a essa già concessi: nel 1573 accordò la licenza di predicare a tutti i suoi membri delle Indie Occidentali e Orientali che in qualunque occasione avessero ricevuto l'approvazione del loro generale o di un vescovo, senza dovere richiedere una nuova autorizzazione; nel 1577 stabilì che ai gesuiti potevano essere conferiti gli ordini sacri un anno prima del compimento dell'età fissata dal concilio di Trento e anche fuori dai tempi stabiliti; nel 1576 autorizzò i gesuiti della Nuova Spagna a erigere ovunque, anche nelle vicinanze delle missioni di altri Ordini religiosi, chiese, case e collegi; nel 1583 intervenne presso Filippo II affinché consentisse loro di predicare, confessare e insegnare la dottrina cristiana senza restrizione alcuna, raccomandando però che non fosse a essi assegnata la cura spirituale dei colonizzatori, ma unicamente degli indigeni. Nel 1585, infine, riservò ai soli membri della Compagnia l'evangelizzazione della Cina e del Giappone.
È proprio in Estremo Oriente, grazie soprattutto all'opera di Matteo Ricci in Cina e di Alessandro Vallignani in Giappone, che l'impegno missionario dei gesuiti doveva produrre risultati significativi, anche se quantitativamente modesti. A sostegno di tali sforzi, con breve del 13 giugno 1583 G. XIII assegnò un sussidio di 4000 "cruzados" per il mantenimento dei seminari e dei collegi della Compagnia in Giappone. Nella primavera del 1585, poco prima di morire, il pontefice poté accogliere la prima delegazione giapponese in Europa; guidata da Vallignani e formata da giovani cristiani, principi e aristocratici dei Regni del Giappone meridionale, giunse a Roma dopo un viaggio durato tre anni e mezzo.
Di grande rilievo fu anche l'evangelizzazione delle Filippine, dapprima a opera degli agostiniani e, dal 1577, anche dei francescani. Nel 1576 il pontefice aveva creato la diocesi di Macao, la cui giurisdizione si estendeva alla Cina e al Giappone, e di tre anni più tardi è la prima diocesi delle Filippine con sede a Manila.
In Africa le sollecitudini del papa si indirizzarono soprattutto verso la copta Etiopia, considerata una sorta di testa di ponte per la penetrazione del cristianesimo tra i musulmani e i pagani del continente; l'Etiopia era inoltre importante ai fini della politica antiottomana e dei progetti di riunione delle Chiese cristiane orientali alla Sede apostolica. Nel 1578 G. XIII scrisse al re Sebastiano di Portogallo - i Portoghesi erano presenti in Etiopia sin dal 1490 - perché accordasse la sua protezione ai cattolici contro le violenze di Turchi e musulmani. Il 3 genn. 1579 stabilì che, in caso di scomparsa del moribondo patriarca cattolico d'Etiopia, Andrea de Oviedo, gli sarebbe subentrato, in veste di amministratore, il superiore della locale comunità gesuitica.
Qualche mese più tardi, il papa scrisse al re di Etiopia - che il documento pontificio erroneamente identifica nella persona di Claudio, in realtà morto nel 1560, quando invece il sovrano regnante era il nipote Malach Sagad - per esortarlo a convertirsi al cattolicesimo e a concludere la pace con il principe ribelle, il Bahar Nagasì ("principe del mare") Ieshàch. Contemporaneamente G. XIII indirizzava a quest'ultimo un messaggio nel quale lo ringraziava per la protezione accordata ai cattolici e tentava di indurlo a rompere l'alleanza con i Turchi. Le aspettative riposte da G. XIII in una possibile espansione missionaria nel paese e nella costituzione di una coalizione dell'Etiopia cristiana contro i Turchi si rivelarono infondate: Malach Sagad riuscì a sconfiggere il rivale, ma poco si curò delle esortazioni papali, ammesso che gli fossero mai pervenute.
Nell'America spagnola i progressi dell'attività missionaria furono invece rilevanti. Con il breve del 25 genn. 1576 G. XIII, invertendo la prassi sino ad allora seguita, concesse ai vescovi delle Indie Occidentali la facoltà di conferire gli ordini sacri ai figli, anche illegittimi, di Spagnoli e indigene, ovvero di spagnoli residenti, sempre che i candidati fossero in possesso degli altri requisiti fissati dal concilio di Trento e che parlassero le lingue locali. La concessione doveva scontrarsi con l'opposizione delle autorità spagnole: il 2 dic. 1578 un'apposita cedola reale di Filippo II ne vietò l'applicazione e soltanto nel 1588, in seguito alle reiterate pressioni della S. Sede, il sovrano la revocò.
La solenne accoglienza della delegazione dei primi cristiani giapponesi, il 23 marzo 1585, fu una delle ultime pubbliche cerimonie alle quali partecipò il pontefice. Morì infatti a Roma, dopo breve malattia, il 10 apr. 1586. I suoi resti mortali furono inumati quattro giorni più tardi nella basilica di S. Pietro.
Lo sviluppo che hanno conosciuto le ricerche sul pontificato di G. XIII e in particolare la sistematica pubblicazione delle fonti, non soltanto diplomatiche, avviata da tempo, consentono di proporre un giudizio globale sul suo operato. Nel tentare di delineare una valutazione complessiva occorre distinguere l'azione politico-diplomatica da quella religiosa, ancorché la prima sia intrecciata con la seconda e da essa costantemente ispirata.
Nel primo ambito risulta evidente come alcuni degli obiettivi prioritari prefissati agli inizi del pontificato non furono raggiunti. A un totale fallimento giunsero la sua politica antiturca, i piani di restaurazione del cattolicesimo in Inghilterra e i contatti stabiliti con Giovanni III in vista di una possibile riunione della Svezia alla Chiesa di Roma. Il rilievo di G. XIII risulta invece notevole sotto il profilo religioso. Il suo pontificato fu un momento particolarmente incisivo quanto all'applicazione dei principî del concilio di Trento e alla restaurazione del cattolicesimo laddove esso aveva perduto terreno.
Fonti e Bibl.: Per la bibliografia si rinvia ad A. Borromeo, G. XIII, in Enciclopedia dei papi, III, Roma 2000, pp. 200-202.