INNOCENZO X, papa
Giovanni Battista Pamphili nacque a Roma il 7 maggio 1574 da Camillo e da Flaminia Del Bufalo.
Nei secoli XIV e XV la famiglia Pamphili, originaria di Gubbio, divideva le sue attività fra la medicina e gli incarichi militari: un antenato diretto del Pamphili, Mandino, era gonfaloniere della città nel 1422. L'esercizio delle professioni giuridiche e la sistemazione a Roma consentì ai Pamphili di trascendere l'orizzonte della piccola località umbra.
Il capostipite del ramo romano, Antonio, entrò in Curia nella seconda metà del XV secolo e il 10 nov. 1460 ottenne la carica di procuratore fiscale della Camera apostolica. Nel 1479 si stabilì in piazza Pasquino, nel palazzo dove un secolo più tardi avrebbe visto la luce il Pamphili. Il rapido inserimento della famiglia nei migliori ambienti romani fu inoltre agevolato da alleanze abilmente strette fin dal trasferimento a Roma: Antonio sposò una figlia di Niccolò Bentivoglio, luogotenente di Gubbio, e i suoi discendenti scelsero le loro spose anche nelle famiglie dei pontefici. Il nonno del Pamphili, Pamphilo, era figlio di un pronipote di Innocenzo VIII e sua moglie era pronipote di Alessandro VI. Queste alleanze, a cui si aggiunsero quelle con i Porcari, i Mattei, i Serlupi, i Del Bufalo, permisero ai Pamphili di consolidare la loro appartenenza alla nobiltà romana e di beneficiare delle relazioni utili all'ascesa negli ambienti curiali, che avvenne in modo graduale, secondo il modello dei Borghese. Uno dei figli, promosso al ruolo di capofamiglia, si limitò agli incarichi di avvocato e agli onori municipali; un altro, entrato nella prelatura, si formò in cerchie vicine al pontefice. Fu Girolamo, zio del Pamphili, a compiere il passo decisivo: dopo essere stato luogotenente della Camera apostolica, il 4 giugno 1584 fu nominato auditore di Rota e dal 1° ott. 1593 reggente della Cancelleria. Questo zio, molto vicino, al pari del fratello, all'oratorio di Filippo Neri, vigilò sulla formazione del nipote e ne predispose la carriera.
Il Pamphili fece l'ingresso nel clero con la prima tonsura, il 4 ag. 1592, sapendo di contare su appoggi efficaci come quello del cugino del padre, il potente cardinale Girolamo Mattei. Addottoratosi in utroque iure alla Sapienza di Roma, il Pamphili fu avvocato nella cerchia dello zio prima di essere nominato, con motu proprio di Clemente VIII del 25 genn. 1601, avvocato concistoriale, carica nella quale si insediò il 24 maggio 1602.
Divenuto membro del Collegio degli avvocati della Rota, perfezionò le sue competenze di canonista e costruì la sua rete di relazioni nella Curia. Lo zio Girolamo, decano della Rota dal 26 agosto, fu elevato alla dignità cardinalizia il 9 giugno 1604 e in breve fu nominato vicario del papa a Roma. Il Pamphili subentrò a Girolamo come auditore di Rota e prestò giuramento il 15 dic. 1604. La scomparsa di Clemente VIII nel 1605 e la morte di Girolamo Pamphili, l'11 ag. 1610, non favorirono il Pamphili, che durante il pontificato di Paolo V continuò a svolgere il suo incarico di auditore, al quale si aggiunse, il 14 sett. 1612, la carica di luogotenente della Sapienza, ossia responsabile del conferimento dei dottorati, lasciata vacante per partenza dell'auditore Alessandro Ludovisi, futuro Gregorio XV, alla volta dell'arcivescovato di Bologna; il 20 settembre fu nominato consultore canonico della Penitenzieria e nel contempo ricevette gli ordini di suddiacono (4 genn. 1617), diacono (20 febbr. 1618) e infine sacerdote, in data non precisata, ma anteriore al gennaio 1626. Due fattori spiegano l'impegno nella carriera ecclesiastica: in primo luogo, questi ordini erano indispensabili per accedere alle pensioni ecclesiastiche, in particolare quelle gravanti su benefici portoghesi. Inoltre, elemento forse ancora più decisivo, il Pamphili aveva atteso che il fratello maggiore si sposasse, nel novembre del 1612, con Olimpia Maidalchini, vedova di un Nini, e che nascesse un erede, Camillo, il 2 febbr. 1622. Questo ingresso molto tardivo nel sacerdozio non è indizio di scarso fervore religioso, ma solo il riflesso di comportamenti consueti nell'aristocrazia, che miravano a conciliare servizio curiale e riproduzione sociale. Anche altri, come Ippolito Aldobrandini, ordinato pure lui sacerdote a quarantaquattro anni, diedero prova di analoga prudenza, al fine di superare il problema di un eventuale decesso prematuro di un fratello laico.
La carriera del Pamphili non soffrì per questa scelta ritardata. In veste di canonista emise, tra l'11 febbr. 1605 e il 25 genn. 1621, più di settecento decisioni e diede il suo contributo anche alla causa di canonizzazione di s. Francesco Saverio, avviata nel 1617, di cui fu relatore. Quando si giunse alla canonizzazione, il 5 marzo 1622, il Pamphili aveva abbandonato già da alcuni mesi la Rota. L'ascesa al soglio pontificio di Alessandro Ludovisi (Gregorio XV), il 9 febbr. 1621, segnò una nuova tappa nella sua carriera. Il 26 marzo con un breve fu nominato nunzio a Napoli.
Questa nunziatura, così vicina a Roma, più che talento diplomatico richiedeva competenze di canonista e amministratore, nel quadro di una fiscalità beneficiale non trascurabile per le finanze della S. Sede. Sul piano diplomatico, l'unica questione seria con cui dovette misurarsi il Pamphili fu l'arresto, sulle galere pontificie in rada a Napoli, di soldati napoletani accusati di tentato omicidio nei confronti del viceré, il cardinale Antonio Zapata. La soluzione dell'incidente in seguito sfuggì di mano al Pamphili e fu affidata al nunzio di Madrid.
Soddisfatto dei suoi servigi, nel 1623 Urbano VIII Barberini confermò il Pamphili nella sua carica e lo richiamò solo nel marzo 1625, per assegnarlo al servizio del nipote, il cardinale Francesco Barberini, nominato legato a latere in Francia allo scopo di giungere a una pace tra Francesi e Spagnoli in Valtellina, che in quel momento era il teatro della guerra dei Trent'anni. Ancora una volta le sue competenze di esperto in diritto canonico gli assicurarono la fiducia del pontefice.
Il suo incarico di datario, prettamente tecnico, non sminuiva il ruolo di consigliere che il papa intendeva fargli svolgere presso il giovane legato. Il Barberini, in effetti, lo mandò a incontrare il duca di Savoia Carlo Emanuele I a Savona, il 29 marzo 1625, per sondare i propositi di quest'ultimo. La legazione, durante la quale il Pamphili si guadagnò il soprannome di "Monsignore-non-si-può" a causa dell'intransigenza con cui dispensava le concessioni di sua competenza, si concluse in autunno con un totale fallimento.
Tornato a Roma il 17 dic. 1625, il Pamphili non dovette subire contraccolpi per l'insuccesso, poiché il 21 genn. 1626 fu nominato patriarca di Costantinopoli. Questa dignità, che non comportava la residenza, non fu che il preludio di una nuova partenza, il 30 gennaio, a fianco di F. Barberini, nominato legato a latere in Spagna. La nuova legazione non fu più fruttuosa della precedente per la S. Sede, in quanto Francia e Spagna firmarono segretamente il trattato di Monzón il 5 marzo 1626.
In questo contesto delicato e incerto, il Pamphili fu scelto per svolgere la sua prima importante missione diplomatica.
La nomina alla nunziatura di Spagna, il 31 maggio 1626 (brevi del 13 giugno), all'età di cinquantadue anni, non esprime un favore tardivo ma, al contrario, si iscrive nella norma di un cursus honorum della prima metà del XVII secolo. A questa missione prestigiosa, che in genere assicurava il cardinalato ed era inoltre ben retribuita grazie all'esercizio del tribunale, il Pamphili era adeguatamente preparato grazie alla sua esperienza. Sul piano diplomatico il margine di manovra del Pamphili era ridotto e talvolta nullo. Dopo il trattato di Monzón la S. Sede era esclusa da una soluzione globale nelle Alpi, e il nunzio assistette impotente alle vicende della successione nel Ducato di Mantova, apertasi il 26 dic. 1627, che ben presto infiammò il Nord d'Italia nel conflitto tra Francesi, Spagnoli e Imperiali. Il Pamphili non poté far altro che perorare la causa della pace presso Filippo IV. Nel vasto conflitto che scuoteva l'Impero, i suoi interventi non impedivano l'insorgere di crisi, che costringevano il papa ad agire con una diplomazia straordinaria affidata, fra gli altri, al nipote Antonio Barberini, legato in Italia, e a Giovanni Battista Pallotta, nunzio straordinario presso l'Impero. Il Pamphili, troppo lontano dal teatro delle operazioni, era maggiormente sollecitato a vigilare sui lavori dell'Inquisizione, sulla scorta di voci che segnalavano una rinascita del giudaismo in Portogallo, e a regolare questioni giurisdizionali sollevate, talvolta con toni aggressivi, da Gaspar de Guzmán conte-duca di Olivares, che non esitava a riesumare argomenti usati a più riprese contro la S. Sede, come il privilegio della Monarchia Sicula, grazie al quale i sovrani di Sicilia vantavano la facoltà di disporre liberamente dei benefici dell'isola. Le lunghe discussioni sui sussidi reclamati da Filippo IV dalle rendite ecclesiastiche (bolla della crociata, il dono dei "18 milioni" a partire dal gennaio 1629) e i conflitti provocati a Roma da spagnoli intransigenti (questioni di cerimoniale, scontro con guardie pontificie nel luglio 1627, visita di S. Giacomo degli Spagnoli nell'ottobre 1628) costellarono una nunziatura durante la quale, per ammissione dell'ambasciatore veneziano, il Pamphili ebbe molti fastidi e la S. Sede seri danni.
Le difficoltà non impedirono a Urbano VIII di nominare cardinale il Pamphili; secondo consuetudine la nomina fu dapprima in pectore, il 30 ag. 1627 (sembra contro la volontà di Olivares), e in seguito, il 19 nov. 1629, fu pubblica. Lasciata Madrid il 25 marzo 1630, alcuni mesi prima dell'inizio della lunga controversia sugli "abusi della nunziatura", il Pamphili riguadagnò Roma, dove il 6 luglio 1630 il papa gli consegnò la berretta cardinalizia e il 12 agosto gli attribuì il titolo presbiteriale di S. Eusebio.
Cardinale della Curia e, in principio, sempre auditore di Rota (si dimetterà ufficialmente solo nel 1633), il Pamphili fu rapidamente inserito in numerose congregazioni. Dal 17 ag. 1630 prese parte a quella del Concilio, incaricata di enunciare la giurisprudenza dei decreti tridentini, e il 19 agosto presiedette per la prima volta la congregazione dell'Immunità ecclesiastica, istituita da Urbano VIII nel 1626 per dibattere questioni giurisdizionali sullo statuto dei beni e delle persone in ambito ecclesiastico. Fu consigliere privilegiato di F. Barberini, allorché si trattò di dirimere le questioni spagnole, in particolare nel quadro della denuncia da parte del clero iberico degli "abusi della nunziatura". Nel 1630 fu associato anche alla congregazione di Propaganda Fide, che si occupava delle missioni cattoliche, e fu designato per presiedere congregazioni speciali istituite per discutere i conflitti di competenza tra Propaganda fide e il S. Uffizio (congregazione di Persia nel 1631, "commissione teologica" dopo il 1635).
Mentre accumulava benefici essenzialmente nel Mezzogiorno (diocesi di Nicastro e di Mileto), seppure in proporzioni misurate, nonché pensioni su arcivescovati e vescovati (Ferrara, Mileto), il Pamphili integrava il patrimonio familiare con operazioni immobiliari promettenti: il 23 ott. 1630 acquistò una vigna fuori porta S. Pancrazio, futura sede della villa Belrespiro, e dalla metà degli anni Trenta avviò i lavori nel palazzo di famiglia in piazza Pasquino, suddiviso con il fratello nel 1615. Le sue scelte spirituali sono poco note, ma alla luce di un testamento redatto prima del 1639 egli sembra avere mantenuto la sua predilezione per gli oratoriani, perché indicò la loro chiesa Nuova come suo luogo di sepoltura.
Erano i parenti prossimi la maggiore preoccupazione del Pamphili. Mentre due delle sorelle presero i voti e altre due contrassero matrimoni relativamente modesti, il fratello maggiore, Pamphilo, ebbe tre figli dalla moglie Olimpia, più giovane di lui di trent'anni: Maria, nata nel 1619; Camillo, nato a Napoli nel 1622 durante la nunziatura dello zio e destinato ai successi curiali. La nascita di un'altra figlia, Costanza, il 1° genn. 1629, fu quindi vissuta da tutti come un dramma: venendo a mancare quel figlio maschio tanto desiderato, a cui era destinato il nome di Girolamo - in memoria dello zio -, i Pamphili erano privati della possibilità di assicurare la duplice ascesa sociale che consisteva nell'associare il successo curiale alla perpetuazione della discendenza. La scomparsa di Pamphilo a settantasei anni, nel 1639, pose il Pamphili nella posizione di un vero e proprio capofamiglia anziano, ma al culmine del potere.
Il ruolo del Pamphili, ancora limitato a questioni di ordine tecnico dopo il ritorno a Roma, assunse rilevanza alla fine degli anni Trenta. Nel 1636, alla protezione dell'Ordine dei basiliani si aggiunse la comprotezione del Regno di Polonia che gli fu conferita da Ladislao IV fino al 1639, sostegno non trascurabile nella competizione che impegnava i cardinali vicini al papa. Il 4 febbr. 1639, in seguito alla scomparsa del cardinale G. Verospi, fu nominato prefetto della congregazione del Concilio. Già da alcuni anni era membro delle congregazioni dei Riti e del Cerimoniale e partecipava alle congregazioni di Stato convocate dal papa per esaminare le nomine dei nunzi e discutere orientamenti di politica estera. Quando Urbano VIII, nel novembre 1642, designò il Pamphili quale uno dei due cardinali del S. Uffizio, sancì una posizione ormai di rilievo in seno al S. Collegio, dove il Pamphili diede prova di una certa autonomia, che lo avrebbe indotto a sconsigliare il papa dall'intraprendere la spedizione di Castro contro Odoardo Farnese.
Il Pamphili si era conquistato la fiducia del papa e ben presto fu chiamato a dare il suo contributo alla lotta contro il giansenismo. Per condannare l'Augustinus di Giansenio, il 16 giugno 1643 fu pubblicata la bolla In eminenti, redatta il 6 marzo 1642 da Francesco Albizzi, assessore al S. Uffizio. In seguito al turbamento e alla sorpresa suscitati in Fiandra dalla pubblicazione della bolla, il papa creò una commissione speciale, della quale chiamò a far parte il Pamphili, insieme con i cardinali Giambattista Spada e Lelio Falconieri, e in qualità di segretario l'attivo F. Albizzi, che il Pamphili aveva conosciuto in Spagna nel 1628, quando accompagnava il nunzio straordinario Cesare Monti. La commissione fu incaricata di preparare il decreto di conferma della bolla con l'intento di rafforzarne il valore. Il compito fu assolto il 16 giugno 1644, senza aspettare i risultati dell'inchiesta avviata nei Paesi Bassi spagnoli, e alcune settimane più tardi, il 26 luglio 1644, F. Albizzi consegnò solennemente il decreto in presenza dei tre cardinali.
Alla fine di luglio morì Urbano VIII. Il conclave durò trentasette giorni e vide il S. Collegio diviso in tre o quattro fazioni, tra cui quella degli austro-spagnoli, guidata dai cardinali Egidio Albornoz e Ernst A. Harrach, e un partito francese capeggiato dal nipote del defunto papa, A. Barberini. F. Barberini influenzava un altro gruppo di cardinali più giovani, provenienti dalla clientela vicina alla sua famiglia, e poté quindi figurare come arbitro. Il personaggio più appropriato a raccogliere i voti dei francofili e della fazione barberiniana, Giulio Sacchetti, subì il veto della Spagna, che però non riuscì a imporre i propri candidati, come il cardinale Francesco Cennini. Le fazioni dovettero rinunciare alle pretese iniziali e avviarsi alla soluzione di compromesso. Francesco Barberini finì per convincere il fratello Antonio, la cui iniziativa travalicava i limiti delle istruzioni ricevute, a trovare un accordo sulla persona del Pamphili, al quale ora gli spagnoli non erano ostili, ma che era stato oggetto del veto francese. Giulio Mazzarino, primo ministro di Luigi XIV, avvertito in ritardo dal suo ambasciatore in merito alle intenzioni del S. Collegio, il 19 settembre dichiarò la sua assoluta opposizione alla candidatura, ma il 15 sett. 1644 il conclave aveva già eletto con una schiacciante maggioranza (quarantotto suffragi) il Pamphili, che assunse il nome di Innocenzo X, senza dubbio in memoria di Innocenzo VIII, che aveva favorito il trasferimento a Roma dei Pamphili suoi parenti.
Le circostanze dell'elezione ebbero un peso rilevante sulla politica di I. X, almeno quanto la sua età - settanta anni, che ne fecero il pontefice più anziano al momento dell'elezione, da Gregorio XIII e dall'effimero Innocenzo IX - e le vicissitudini familiari dei Pamphili, che i contemporanei amavano rimarcare per farsene beffe. La questione della forma da attribuire al governo si impose fin dai primi giorni. Il modello del cardinal nipote ("padrone") era un metodo abituale di direzione dello Stato pontificio e della politica estera della S. Sede.
Il 14 nov. 1644 I. X conferì al nipote Camillo la porpora cardinalizia e il 18 novembre lo nominò soprintendente dello Stato pontificio, incarico che si aggiungeva ai molti già assegnatigli e ai benefici accumulati. In seguito cercò di assicurarsi l'alleanza delle grandi famiglie romane, caldeggiando il matrimonio della nipote Costanza con Niccolò Ludovisi principe di Piombino (21 dic. 1644), e bloccò i principali ruoli militari dello Stato affidandoli allo stesso Ludovisi e all'altro nipote acquisito, il marchese Andrea Giustiniani, nominato principe di Bassano nel 1644. Infine, agli innumerevoli doni alla cognata donna Olimpia il 14 nov. 1645 aggiunse il breve con il quale eresse a principato la sua proprietà di San Martino al Cimino, con la concessione di alzare delle mura. L'evento saliente agli esordi del pontificato fu la nomina, nel settembre 1644, del cardinale Giovanni Giacomo Panciroli, già auditore alla nunziatura di Madrid, alla carica di segretario di Stato.
Con questa designazione, I. X sostanzialmente separava, forse senza premeditazione, assai più di quanto non avessero fatto i suoi predecessori, quei poteri che il cardinal nipote fino ad allora accentrava su di sé, malgrado l'esistenza di un segretario di Stato: all'esperto Panciroli, primo cardinale ad assumere una tale funzione e privo di legami di parentela con il pontefice regnante, spettò la responsabilità degli affari esterni; al giovane nipote Pamphili furono attribuiti gli incarichi e le rendite direttamente connessi al potere temporale.
L'equilibrio tra le due cariche, a dispetto degli inevitabili conflitti di competenza, funzionò molto bene fin quando Camillo, che aveva rifiutato di abbracciare in via definitiva lo stato ecclesiastico, decise di sposare Olimpia Aldobrandini, principessa di Rossano, il 10 febbr. 1647. Il papa, avverso a quest'unione, acconsentì alla rinunzia al cardinalato da parte del nipote, ma tenne Camillo in una condizione di semidisgrazia. Per la prima volta dal XVI secolo la carica di cardinal nipote restò vacante, poiché l'elevazione al cardinalato, il 7 ott. 1647, di Francesco Maidalchini, nipote diciassettenne di donna Olimpia incapace di governare, più che un sistema di governo salvaguardò la presenza tradizionale di parenti del papa nel S. Collegio. Panciroli conservò il potere, tuttavia condiviso con donna Olimpia, la cui influenza presso I. X era considerata preponderante dai contemporanei, critici anche per l'intromissione di una donna negli affari della Chiesa. Si aprì un periodo di energica reazione da parte del papa, le cui conseguenze furono avvertite non solo sul piano familiare, ma anche sull'apparato governativo. I. X, stanco sia delle critiche rivolte alla cognata sia di lei stessa, la allontanò dalla sua cerchia nell'autunno del 1649 e nell'ottobre 1650 le interdisse il palazzo apostolico. Per risolvere lo squilibrio a sfavore della famiglia creato dall'assenza di donna Olimpia, I. X chiamò un lontano parente di lei, Camillo Astalli, che fu creato cardinale il 19 sett. 1650, ricevette nome e insegne dei Pamphili e il 5 ott. 1650 fu nominato soprintendente dello Stato pontificio. Peraltro, il principe Camillo Pamphili tornava ora alle premure dello zio.
Sin dalla morte del fratello, nel 1639, e dopo la nascita di un erede maschio, il 24 giugno 1648, I. X era consapevole che l'avvenire della famiglia poggiava sul nipote. Il 26 sett. 1644 - prova sufficiente a dimostrare che in quel momento non credeva più nella carriera ecclesiastica del nipote - I. X delineò in un primo chirografo il progetto di una primogenitura, istituita il 1° apr. 1651 nella famiglia Pamphili, proprio come aveva fatto Urbano VIII dopo molti anni di innumerevoli doni a favore dei congiunti.
Nella gestione degli affari, la scomparsa di Panciroli, nel settembre del 1651, non accrebbe il potere di Astalli-Pamphili, poiché I. X sostituì immediatamente il segretario di Stato con il nunzio straordinario Fabio Chigi, dopo un interim di tre mesi assicurato da Decio Azzolini (settembre - dicembre 1651). Il papa provvide a garantire gli attributi del potere a F. Chigi, del quale aveva bisogno per tenere testa agli stessi Pamphili, e lo creò cardinale il 19 febbr. 1652. La posizione dei parenti e dei fedeli del pontefice fu comunque violentemente compromessa dall'affare Mascambruni.
Francesco Canonici Mascambruni, sottodatario, che I. X aveva scelto anche come auditore, doveva al papa la sua carriera: alla fine del 1651 fu accusato di aver redatto alcuni falsi brevi di dispensa nel quadro di una vicenda di malcostume. Ben presto i giudici del governatore di Roma smascherarono un vero e proprio sistema di falsari e di corruzione annidato nella Dataria. I. X, molto turbato, ordinò un'azione giudiziaria e punizioni esemplari: Canonici Mascambruni fu decapitato il 15 apr. 1652, ma l'autorità del papa subì un contraccolpo irrecuperabile.
Negli ultimi anni del pontificato di I. X si alternarono ritorni in auge (donna Olimpia, nel marzo 1553) ed esili (Astalli, privato degli incarichi e del nome dei Pamphili nel febbraio 1654; Niccolò Ludovisi, esautorato nell'agosto successivo). Pur se tra palesi irresolutezze di un pontefice che stava invecchiando, in questo periodo si consolidarono in modo definitivo, anche se non predeterminato, l'istituzione e il potere del segretario di Stato.
Avendo scoperto, suo malgrado, le contraddizioni del nepotismo, I. X cercò di esercitare un controllo più rigido sui cardinali. Questa politica si inseriva nel quadro di conflitti sull'istituzione cardinalizia: Mazzarino, furioso per essere stato raggirato da A. Barberini durante il conclave, gli revocò la protezione della Francia (25 ott. 1644), richiamò l'ambasciatore e pretese che suo fratello Michele fosse creato cardinale in segno di buona intesa con la Francia. I. X si mostrò sordo e il 6 marzo 1645 procedette a una promozione cardinalizia nettamente sfavorevole alla Francia.
Nella primavera - estate del 1645 intensificò le pressioni sui Barberini, dando ascolto alle numerose voci che li accusavano di concussione: deplorò apertamente il modo in cui avevano dilapidato il tesoro pontificio e prese provvedimenti di ritorsione, al punto da far temere per la loro vita e a spingere Antonio Barberini a fuggire clandestinamente in Francia il 28 settembre. La risposta di I. X non tardò: il 20 nov. 1645 istituì una congregazione per rivedere i conti dei responsabili delle finanze durante la guerra di Castro e intimò ai Barberini di presentarsi per dare spiegazioni. Le accuse erano grossolane e giuridicamente infondate e deboli: si concentravano sull'arricchimento dei parenti del papa, cosa di cui i Pamphili avevano fornito a loro volta un esempio. Malgrado le probabili difficoltà giuridiche di queste azioni, i fratelli Francesco e Taddeo erano sufficientemente convinti della determinazione del papa da prendere la decisione di fuggire anch'essi, nella notte fra il 16 e il 17 genn. 1646, in direzione di Parigi, dove furono accolti con tutti gli onori dalla corte e da Mazzarino. Il 3 febbraio I. X fece sequestrare i loro beni e il 19 febbr. 1646 emanò un famoso breve (non una bolla) con cui obbligava i cardinali non vincolati alla residenza e non autorizzati esplicitamente dal pontefice ad assentarsi, a rientrare a Roma entro sei mesi, pena la destituzione dal cardinalato.
Il provvedimento prendeva direttamente di mira i Barberini e Mazzarino, il quale reagì con decisione, inviando un corpo di spedizione ad attaccare i presidi spagnoli in Toscana. La manovra gli consentiva di minacciare la città di Roma senza aggredire direttamente lo Stato pontificio e di colpire I. X nella persona del nipote, Niccolò Ludovisi, principe di Piombino sotto il dominio spagnolo.
Dopo due spedizioni, nel giugno - luglio e nel settembre 1646, I. X si dichiarò disposto a soddisfare le richieste francesi. Tornato l'ambasciatore francese a Roma, il 24 maggio 1647, il papa nominò cardinale Michele Mazzarino, il 7 ott. 1647, e il 27 febbr. 1648 accolse F. Barberini restituendogli cariche e dignità.
Il ritorno di A. Barberini segnava la vera riconciliazione di I. X con la potente famiglia alla quale legò abilmente gli interessi della sua casata: mentre un nipote dei Barberini, Carlo, veniva creato cardinale il 23 giugno 1653, un altro, Maffeo, sposava Olimpia Giustiniani, pronipote del pontefice. Contemporaneamente I. X prendeva provvedimenti riguardanti il S. Collegio intesi a imporre una più rigida sottomissione al papa. Nei concistori, il cui numero calò a livelli eccessivamente bassi (undici all'anno nel 1648-49), I. X si faceva assistere dal suo auditore personale, che in virtù di un decreto della congregazione Concistoriale del 1650 riesaminava i processi di informazione dei vescovi, attività un tempo di esclusiva competenza dei cardinali a capo di un Ordine. La costituzione Militantis Ecclesiae (19 dic. 1644), confermativa di un decreto della congregazione Cerimoniale, proibiva ai cardinali di far apparire nelle loro insegne qualsiasi simbolo secolare, come le corone. Questa decisione, avvertita come un sopruso dagli eredi di lignaggi principeschi (Savoia, Este, Medici), si aggiungeva alla soppressione del titolo di altezza nel S. Collegio, stabilita da Urbano VIII e sancita da I. X nella stessa costituzione. Inoltre, nell'aprile del 1654, tutte le congregazioni, a eccezione del S. Uffizio e di Propaganda Fide, furono obbligate a riunirsi nei palazzi apostolici e non più nel domicilio del rispettivo cardinale decano. Il provvedimento era vessatorio nei confronti dei cardinali più agguerriti e mirava a rinsaldare il legame organico fra il pontefice e i cardinali riuniti dietro suo ordine.
I. X rinnovò profondamente il S. Collegio con quaranta nomine; con l'ultima promozione, il 2 marzo 1654, lo portò a settanta membri: dei sessantasei cardinali del conclave che elesse poi Alessandro VII, trentadue furono creati da Innocenzo X. Le scelte del pontefice, alle quali si aggiunse l'assenza di un vero cardinal nipote di fazione, consentirono inoltre il formarsi del famoso "squadrone volante", composto in maggioranza da creature di I. X e dove le figure di spicco (D. Azzolini, F. Albizzi, Pietro Ottoboni) erano a lui legate.
Al momento della sua ascesa al soglio nel 1644, I. X aveva trovato una città abbellita dal mecenatismo dei Barberini, ma le casse svuotate a causa della disastrosa spedizione di Castro. Egli riuscì comunque a sostenere un notevole sforzo urbanistico. Il progetto più significativo fu la risistemazione di piazza Navona: un esempio unico, nella storia di Roma, di rappresentazione del successo di una famiglia celebrato nel cuore della città, sul luogo stesso del suo insediamento e non in una villa situata in collina. Dal suo avvento al soglio pontificio, I. X incrementò i suoi possedimenti di piazza Pasquino e di piazza Navona, fino a controllare ben presto l'imponente quadrilatero in cui edificò un palazzo destinato a esaltare la gloria dei Pamphili. Il palazzo, alla cui realizzazione collaborò Francesco Borromini, è quasi interamente opera di Girolamo e Carlo Rainaldi.
La bellezza dell'edificio culmina nella realizzazione della grande galleria di Pietro da Cortona, dove l'artista rievocò in un celebre affresco sul tema dell'Eneide le presunte origini antiche della gens Pamphilia. Abbattendo un certo numero di botteghe, I. X decise di annettere piazza Navona e vi fece costruire tre fontane monumentali le cui acque erano raccolte con la deviazione, effettuata nel 1647, di una parte dell'Acqua Vergine che arrivava al Pincio. Dopo essersi rivolto in un primo tempo al Borromini, fu a Gian Lorenzo Bernini che il 16 luglio 1648 I. X affidò la costruzione della fontana dei Fiumi, compiuta nel 1651. Quanto alla chiesa di S. Agnese in Agone, I. X non esitò a farne la cappella di famiglia, togliendola ai chierici regolari minori il 13 ag. 1653. Destinata a diventare la cappella dei Pamphili, la chiesa, la cui prima pietra fu posta il 15 ag. 1652, fu iniziata da Carlo Rainaldi, continuata da F. Borromini dal giugno 1653 e non ancora conclusa alla morte di Innocenzo X.
Dopo un cinquantennio di intensa attività edilizia precedente alla sua ascesa al soglio, sia nelle basiliche romane sia nei palazzi apostolici, I. X si limitò a completare progetti già in corso. A S. Pietro, su fondato consiglio di padre Virgilio Spada, il 26 febbr. 1646 decise di abbattere il campanile eretto dal Bernini, le cui basi erano state giudicate troppo fragili. Fece inoltre portare a termine la decorazione della basilica con la tomba monumentale di Leone XI, affidata al suo scultore prediletto, Alessandro Algardi, e l'applicazione di marmi e stucchi nella navata centrale: la presenza ricorrente degli stemmi Pamphili (la colomba che tiene un ramoscello d'olivo nel becco) rappresenta l'ultima imponente operazione di promozione di una famiglia pontificia in questa sede. In S. Giovanni in Laterano I. X incaricò Borromini del rifacimento della basilica, ma il progetto originario, che doveva comprendere anche l'esecuzione della facciata, rimase sostanzialmente incompiuto. Sebbene risiedesse dal 1647 quasi esclusivamente al Quirinale, I. X non vi intraprese lavori di ampia portata. Se si prescinde dal completamento di piazza del Campidoglio, dove fu edificato da C. Rainaldi il palazzo Nuovo - i cui costi furono abilmente addebitati alle finanze municipali - l'impresa edilizia più impegnativa fu il risanamento di un sistema carcerario ereditato direttamente dal Medioevo. Le condizioni dei vetusti locali adibiti a carcere (Tor di Nona, Curia Savelli) e l'afflusso di numerosi prigionieri sono all'origine del chirografo del 21 marzo 1652 indirizzato al governatore di Roma. Recuperando un progetto di Paolo III del 1548, I. X deliberò la costruzione delle Carceri nuove lungo la via Giulia, in grado di accogliere seicento persone fra uomini e donne, secondo criteri conformi a una notevole funzionalità. Costruite in un lasso di tempo piuttosto breve, e completate nel 1657, queste carceri rappresentano un consistente contributo del pontificato Pamphili alla città di Roma.
Il papa si attenne scrupolosamente alla pace conclusa con i Farnese nel marzo del 1644, che pose fine alla guerra di Castro; elevando alla dignità cardinalizia Francesco Maria Farnese, fratello del duca di Parma Odoardo, il 4 dic. 1645 (in pectore il 14 nov. 1644), dimostrò di appoggiare gli interessi della famiglia. I debiti dei Farnese nei confronti di chi deteneva i luoghi di Monte basati sulle rendite di Castro e di Ronciglione non furono peraltro estinti. A questi crediti Ranuccio II, divenuto duca alla morte del padre, nel 1646, aggiunse anche un crimine politico: il 18 marzo 1649 fu assassinato il vescovo barnabita Cristoforo Giarda, poco prima nominato da I. X nella sede di Castro. Il 24 marzo il papa scomunicò gli autori dell'attentato, di cui era sospettato il duca di Parma con la sua cerchia, in particolare il suo favorito d'origine francese Gaufredo. Il 19 luglio 1649 I. X decise di intervenire e inviò una spedizione di circa cinquemila uomini alla volta dei Ducati. Dopo un breve assedio la guarnigione di Castro il 2 settembre capitolò, la città fu rasa al suolo, la sede episcopale trasferita ad Acquapendente e le campane della cattedrale furono destinate al campanile di S. Agnese a Roma. Ranuccio II fu costretto a cedere i suoi feudi, a meno di far valere un diritto di riconquista entro otto anni dietro pagamento unico dell'enorme somma di 1.700.000 scudi. Incorporando per devoluzione anche i feudi dei due rami dei Malatesta, I. X liquidò l'ultimo grande residuo di autonomia feudale nello Stato pontificio.
Alla morte del papa il disavanzo dello Stato ammontava alla gigantesca cifra di 48.000.000 di scudi. Gli effetti del nepotismo di I. X, che secondo i calcoli della Curia eseguiti nel 1691 sarebbero costati 1.400.000 scudi (contro i 900.000 dei Barberini), non devono senz'altro essere sottovalutati. Tuttavia la crisi economica, già tangibile negli ultimi anni di Urbano VIII, perdurò sotto I. X traducendosi, in particolare a partire dal 1646, in un rialzo inconsueto del prezzo dell'oro. A questo si aggiunsero le crisi frumentarie, ricorrenti e di notevole portata. La più grave risale al 1648: in seguito a un cattivo raccolto nel 1647, le rese del grano registrarono il livello più basso del secolo. I. X fu costretto a fare affidamento sulle importazioni dall'Olanda, e dovette prendere provvedimenti per controllare i prezzi e sollecitare il sostegno finanziario dei più abbienti. Non riuscì tuttavia a impedire il rincaro del prezzo del pane e talvolta la sua carenza: il corollario furono gravi tumulti. Di tutti i focolai di rivolta, circoscritti essenzialmente alle Marche, al meridione del Lazio e a Todi, Perugia e Viterbo, il più preoccupante fu a Fermo.
Dopo l'assassinio del vicegovernatore della città, Uberto Maria Visconti, per mano del popolino, il 6 luglio 1648, I. X convocò con urgenza una congregazione cardinalizia e decise di inviare truppe al comando di Lorenzo Imperiali, che ristabilì rapidamente l'ordine limitandosi a qualche esecuzione esemplare. Questa rivolta, breve e circoscritta, mise in luce le debolezze congiunturali dell'approvvigionamento nello Stato pontificio, evidenziando anche lo squilibrio strutturale provocato dall'"annessionismo frumentario" (Bercé, 1962) delle province alla città di Roma. Quest'ultima grande carestia che colpì l'Italia centrale - una nuova crisi, nel 1653, fu limitata al solo Lazio - nell'immaginario popolare associò I. X a un periodo di penuria e di alti prezzi del pane. I. X, pur mostrandosi talvolta combattivo e risoluto, più ancora del suo predecessore si attenne a una politica di neutralità e di mediazione. Alla sua ascesa al soglio chiuse il conflitto con Venezia, innescato sotto Urbano VIII dall'eliminazione, nel 1640, di un'iscrizione favorevole alla città lagunare nella sala regia del palazzo apostolico: nel novembre 1644 dispose che fosse ripristinata l'iscrizione e in dicembre allontanò Felice Cantelori, prefetto degli Archivi, ritenuto dai Veneziani responsabile del sopruso. Mentre le discussioni e i diverbi in materia di giurisdizione ecclesiastica continuavano ad avvelenare i rapporti tra le due potenze, la guerra di Candia iniziata nel 1645 procurò a Venezia solo un modesto sostegno pontificio. Dopo aver inviato truppe e armato cinque galere nella primavera del 1645, l'anno successivo I. X si limitò a rinnovare l'offerta e ad accordare ai Veneziani dei sussidi nel 1649 e, di nuovo, nel 1653, ogni volta per un ammontare di 100.000 scudi da prelevare sulle rendite ecclesiastiche dello Stato veneziano. Con questa parsimonia, in parte giustificata dalla preoccupazione per le finanze, I. X si allontanava dal sogno di una crociata contro i Turchi.
Queste esigenze spiegano l'atteggiamento del pontefice nei confronti della rivolta napoletana capeggiata da Masaniello, divampata dal 7 luglio 1647. Nel corso di quegli eventi l'incertezza dimostrata da I. X fu palese: malgrado il papa fosse avverso a un'insurrezione, condannata per principio, cercò rapidamente di imporre la sua mediazione appoggiandosi al cardinale-arcivescovo di Napoli Ascanio Filomarino, con il quale si congratulò il 20 luglio per gli sforzi profusi al fine di ristabilire la pace. I. X fece grande assegnamento anche sul nunzio nominato nell'autunno del 1644, Emilio Altieri, il futuro Clemente X, nel quale riponeva assoluta fiducia: la carriera di giurista di Altieri era peraltro cominciata nel 1611, come aiutante di studio dell'auditore di Rota Pamphili. Il papa lo esortò ad adoperarsi per la riconciliazione tra le parti, soluzione respinta risolutamente dalla Spagna, decisa a reprimere militarmente i tumulti. La posizione di I. X divenne allora assai difficile, perché egli non intendeva far nulla che desse adito alle accuse spagnole di parzialità in favore dei Francesi, intervenuti a fianco degli insorti nell'autunno del 1647. Il papa optò quindi per un accanito immobilismo, che vanificava ogni sua azione e favoriva chi poteva contare sulla forza delle armi. Da un lato I. X ignorò gli appelli dei manifesti popolari che gli offrivano di diventare il sovrano di Napoli (settembre 1647), dall'altro deplorò pubblicamente il bombardamento della città (ottobre 1647). Era inoltre infastidito dalle imprudenze di Filomarino e di Altieri, troppo favorevoli ai tumulti, che temeva di vedere dilagare nello Stato pontificio, in particolare nel meridione del Lazio. Nell'inverno 1647-48 decise quindi di redarguire severamente il nunzio tramite il segretario di Stato, per il suo coinvolgimento troppo palese a sostegno della causa napoletana. Quando gli Spagnoli, nella primavera del 1648, riuscirono a domare gli ultimi tentativi di resistenza, nel papa, diviso tra il desiderio di pace ed evidenti preoccupazioni geopolitiche, prevalse il sollievo.
La debolezza della diplomazia pontificia culminò, per altre ragioni, nella conclusione dei negoziati di pace in Vestfalia, avviati all'inizio degli anni Quaranta. All'epoca dell'ascesa al soglio, I. X restò insensibile alle pressioni degli Spagnoli, che esigevano il ritiro del nunzio Fabio Chigi, rappresentante del papa al congresso di Münster. Il ruolo di mediatore del nunzio, condiviso con l'ambasciatore veneziano Alvise Contarini, in un primo tempo non si discostò dalla linea di Urbano VIII delineata nel breve di credenziali e nell'istruzione del 1643.
In realtà F. Chigi intuì rapidamente che le trattative di pace si orientavano verso soluzioni sfavorevoli agli interessi pontifici. Pertanto, nell'autunno 1645, d'accordo con i rappresentanti degli ambienti cattolici più intransigenti dell'Impero, elaborò un documento di protesta ufficiale inviato per conoscenza a Roma il 6 ott. 1645 e seguito da una bozza di breve di credenziali il 15 dic. 1645. Il pontefice diede immediato seguito all'iniziativa riunendo una congregazione di cardinali per stabilire quale condotta tenere. Il 19 maggio 1646, quando mandò a Chigi il breve di credenziali antedatato al 5 ott. 1644, si era risolto a favore di una nuova linea politica: laddove Urbano VIII e suo nipote F. Barberini si erano attenuti a un tono formale che mirava innanzitutto a garantire la partecipazione della S. Sede al congresso di pace, il breve di I. X non conteneva che condizioni e restrizioni. Il papa ordinò al suo nunzio di arrivare anche ad abbandonare il congresso piuttosto che accettare un trattato lesivo degli interessi cattolici. Chigi, consapevole del cambiamento d'indirizzo avvenuto nella diplomazia romana, e nell'intento di salvaguardare le proprie opportunità di influire sul negoziato, presentò il breve soltanto nel novembre 1647. A questa data, in effetti, le trattative erano già in fase avanzata e la partecipazione del nunzio non era più veramente attiva. Uniformandosi alle istruzioni ricevute dalla segreteria di Stato, il 14 ott. 1648 Chigi inoltrò una prima protesta ufficiale contro l'accordo di Osnabrück, suggellato da una stretta di mano fra Svedesi e rappresentanti dell'Impero il 6 ag. 1648. Il 26 ottobre protestò di nuovo, questa volta contro il trattato di Münster, "infame pace" secondo le sue parole, che rifiutò di sottoscrivere con gli altri plenipotenziari il 24 ottobre. La terza e ultima protesta, del 19 febbr. 1649, riguardava la ratifica del complesso dei trattati risalente al 18 febbraio.
Con l'intento di accentuare la portata dell'azione, all'inizio del 1649 I. X riunì a Roma una congregazione di cardinali da lui personalmente presieduta: si deliberò che la S. Sede avrebbe espresso ufficialmente la sua protesta con una bolla solenne. I. X temporeggiò due anni prima di promulgare il testo. Il 20 ag. 1651, il breve (invece della bolla) Zelo Domus Dei, antedatato al 26 nov. 1648 e stampato sotto forma di manifesto dalla Tipografia della Camera apostolica, fu indirizzato a tutti i nunzi affinché ne prendessero visione prima di diffonderlo. La protesta pontificia, in realtà, consistette in una declaratio nullitatis di tutto quanto era stato negoziato in Vestfalia: I. X poneva l'accento sia sulle perdite significative subite dal cattolicesimo (due arcivescovati, tredici vescovati, senza contare la secolarizzazione di migliaia di conventi regolari e opere pie) e sui deplorevoli compromessi raggiunti - come nel caso dell'amministrazione del vescovato di Osnabrück, affidato alternativamente a protestanti e cattolici ("scellerata alternativa", secondo Chigi) - sia sull'istituzione di un ottavo elettorato a favore del Palatinato, concepita da Mazzarino come un risarcimento per i cattolici, ma effettuata senza il consenso del Papato.
Il dissenso non ebbe alcuna ripercussione nell'Impero: Ferdinando III rifiutò categoricamente e con tenacia di pubblicare il breve. Questo atto rappresentò un'estromissione volontaria del Papato dalla scena internazionale e indebolì fortemente l'influenza diplomatica e politica della Chiesa. È stato dimostrato che la decisione del 1648 non fu lo sviluppo logico lineare delle posizioni adottate nel 1643: "Il "no" del 1648 non è stato né evidente, né inevitabile, né necessario" (Repgen, 1956). Sotto quest'aspetto la responsabilità di I. X, seppur non esclusiva, fu determinante. In lui prevalse la visione del canonista, quale era, piuttosto che quella del diplomatico: "Si trattò di un atto perfettamente coerente sotto il punto di vista giuridico-canonistico e teologico, ma sul piano politico assolutamente inutile e autolesionista" (Lutz). Come già accaduto con Urbano VIII, anche la diplomazia di I. X fu notevolmente ostacolata dall'interminabile conflitto tra Francia e Spagna iniziato nel 1635 nell'ambito della guerra dei Trent'anni. I contendenti, in un primo tempo, non chiesero al Papato una mediazione di pace, ma un giudizio sui rispettivi diritti. La S. Sede fu quindi coinvolta come testimone delle conquiste effettuate dai Francesi a discapito degli Spagnoli nell'Artois e in Catalogna: questi ultimi rivendicavano dal papa il diritto di nomina nei benefici maggiori in queste regioni, una pretesa che per I. X equivaleva ad avallare un trasferimento di sovranità. Inoltre, dal dicembre 1640, il Portogallo proclamò l'indipendenza e riconobbe un nuovo sovrano, Giovanni IV di Braganza, che auspicava il riconoscimento a proprio vantaggio delle stesse prerogative. Se Urbano VIII, al termine del suo pontificato, si avviò verso una soluzione politica che prendeva atto del perdurare dell'occupazione francese, I. X esibì una prudenza che sconfinò, ancora una volta, nell'immobilismo. Ansioso di contenere la diminuzione del numero di vescovi in Portogallo e nei possedimenti portoghesi, I. X accettò, con un breve del 20 apr. 1645, di nominare vescovi motu proprio: così facendo, ammise implicitamente la fine della sovranità spagnola pur senza riconoscere ufficialmente quella di Braganza, con il risultato di scontentare tutti. A ogni richiesta del clero nazionale dei diversi paesi, I. X opponeva il rigido rispetto del diritto di ciascuna delle parti, che non poteva legittimamente pregiudicare, e dichiarava di attendere un regolamento internazionale per potersi pronunciare a favore degli occupanti dei territori contestati.
L'obiettivo prioritario perseguito da I. X dopo i trattati di Vestfalia fu la pace tra le due potenze cattoliche. Mazzarino, in un primo tempo, auspicò l'intervento pontificio e Chigi fu invitato a recarsi ad Aquisgrana nel dicembre 1649 per presenziare ai preliminari di pace. Tuttavia le trattative, avviate in un periodo di gravi disordini politici in Francia (la Fronda), non ebbero seguito e Chigi, nel dicembre 1651, rientrò a Roma senza avere ottenuto nulla. Tutti i tentativi intrapresi da I. X per ristabilire il dialogo tra Francia e Spagna si dimostrarono dunque infruttuosi. Le due potenze fecero al papa addirittura l'affronto di respingere, nel luglio 1652, l'invio dei nuovi nunzi loro destinati, arrivando a confinare il nunzio Neri Corsini, appena sbarcato, in un convento di Marsiglia per iniziativa di Mazzarino. La fine del pontificato fu contrassegnata, parallelamente, da una maggiore apertura alle richieste dei Francesi e dei Portoghesi: I. X meditava sempre più seriamente di soddisfare le loro rivendicazioni. Ma i molteplici capovolgimenti della situazione militare (riconquista di Barcellona da parte degli Spagnoli nel 1654) e le minacce del viceré di Napoli relative all'approvvigionamento di grano a Roma costrinsero I. X all'attendismo e all'inazione.
Quest'immobilismo diplomatico, che segnò l'intero pontificato di I. X, si tradusse anche in un'inconsueta stabilità del personale delle nunziature. Su undici cariche permanenti, solo quattro furono ricoperte da più di due nunzi nel corso dei dieci anni di pontificato, mentre il nunzio in Francia, Niccolò Guidi di Bagno, nominato da Urbano VIII nel 1643, rimase nella sua sede fino al 1656. Un solo movimento di ampia portata coinvolse il corpo dei nunzi, a eccezione di quello in carica a Torino, fra il maggio e il novembre 1652, ovvero otto anni dopo l'ascesa di I. X: indubbiamente la nomina di Chigi a segretario di Stato non fu estranea a questa tardiva consapevolezza della necessità di rinnovare i protagonisti della diplomazia. I. X aveva ereditato un personale diplomatico sottoposto da Urbano VIII a un radicale riassetto alla vigilia della sua morte, nel 1643. Inoltre la durata del congresso di Münster non era certamente favorevole a un avvicendamento degli uomini e gli Stati escludevano inequivocabilmente la Chiesa, ogni giorno di più, dalle nuove logiche politiche dell'Europa.
In questo contesto l'organizzazione e la conduzione del giubileo del 1650 contrastarono nettamente con l'inerzia mostrata in campo diplomatico. La bolla d'indizione, Appropinquat dilectissimi filii, del 4 maggio 1649, diede l'avvio alla preparazione dell'anno giubilare che il papa volle celebrare sotto il segno di una pace fortemente auspicata in antitesi a quella respinta dal suo rappresentante a Münster nell'autunno del 1648. I 700.000 pellegrini affluiti a Roma rappresentarono per I. X un indiscusso successo.
In tema di politica religiosa I. X si mosse con la scioltezza che i sovrani gli negavano nella sfera temporale: ciò traspare con particolare evidenza dalle decisioni sul clero regolare. Il papa era ansioso di porre fine ai conflitti che dilaniavano da tempo alcuni ordini. Con brevi e bolle, I. X regolò le successioni abbaziali nelle case madri degli antoniani, dei cistercensi, dei premonstratensi e degli eremitani di S. Agostino. Inoltre ridisegnò lo scenario degli ordini religiosi deliberando, per esempio, lo scioglimento dell'unione istituita tra la congregazione della Dottrina cristiana e quella dei somaschi (10 luglio 1647) e sopprimendo l'Ordine di S. Basilio degli Armeni (29 ott. 1650). Ma il nome di I. X resta legato soprattutto alla grande riforma dei regolari in Italia, il cui principale artefice fu l'insigne canonista Prospero Fagnani, da tre decenni segretario della congregazione del Concilio. Accantonata ogni esitazione di natura diplomatica, questa riforma fu condotta con rapidità e determinazione.
Se I. X non fu il solo pontefice postridentino a occuparsi dello statuto dei regolari e delle loro case (era stata materia di decreti di Clemente VIII e Urbano VIII), fu tuttavia il primo ad affrontare la questione con una sistematicità che colpì in modo profondo e durevole la sensibilità e gli interessi delle comunità religiose. Nel marzo 1649 istituì una congregazione, alla quale I. X partecipò assiduamente, composta da cinque cardinali, due prelati e un prete, per studiare la riforma dei religiosi in Italia. Il risultato fu il breve Inter caetera del 17 dic. 1649, in cui si prescrisse di documentare la situazione dei monasteri, per appurare se erano in condizione di ospitare adeguatamente il numero richiesto di religiosi e di fare osservare la disciplina. Contrariamente a quanto suggeriscono le parole introduttive del breve, I. X non si propose in un primo tempo di porre fine ai disordini della vita monastica. Il breve istituì una congregazione "sopra lo stato dei Regolari", che esaminò le risposte emerse dall'indagine e preparò la bolla Instaurandae regularis disciplinae, promulgata il 15 ott. 1652.
Dei 6238 conventi censiti nel 1650, 1513 (circa un quarto) furono soppressi, essenzialmente fra gli ordini mendicanti, a eccezione dei cappuccini. I. X si propose di estendere lo sforzo riformatore fuori dei confini d'Italia: il nunzio di Catalogna e il primate di Polonia si mostrarono favorevoli al progetto. Tuttavia, l'opposizione degli stessi religiosi e degli Stati - Napoli e soprattutto Venezia, che rifiutò di attuare le decisioni di I. X fino alla sua morte - indusse il pontefice e P. Fagnani a fare qualche passo indietro con il decreto Ut in parvis, del 10 febbr. 1654, che prevedeva misure provvisorie per un certo numero di piccoli conventi resi ai rispettivi Ordini. Questa vasta impresa di razionalizzazione, senza dubbio necessaria, mostrava tuttavia i limiti di un approccio eccessivamente giuridico ai problemi della vita della Chiesa, laddove ostacolava un ulteriore sviluppo degli Ordini religiosi e distaccava i regolari, che garantivano i servizi religiosi in numerose parrocchie, dalle strutture diocesane.
In un'Europa che rifiutava di accordare alla Chiesa uno spazio politico, I. X si ergeva a difensore del cattolicesimo minacciato ai suoi confini. Dopo i trattati di Vestfalia la S. Sede attribuì alla sua azione nell'Impero un significato nuovo: abbandonato l'obiettivo della riconquista, mirava piuttosto a proteggere gli interessi dei cattolici di fronte alle pressioni di luterani e calvinisti. Con una lettera circolare del 4 apr. 1652 ai vescovi tedeschi, I. X ingiunse l'organizzazione di sinodi e l'applicazione dei decreti tridentini. Spettacolari conversioni di alcuni principi, come il langravio Ernesto d'Assia-Rheinfels (6 genn. 1652), mal dissimulavano le difficoltà incontrate dal papa, che non poteva contare sull'imperatore, al quale continuava a negare il diritto di nomina per il vescovato voluto da Ferdinando III in Boemia a Leitmeritz. Ma I. X registrò la sua sconfitta più grave nelle isole britanniche. La rivoluzione inglese ridusse notevolmente il potere di intervento del Papato, che assistette all'esecuzione di Carlo I, nel 1649, e alle persecuzioni scatenate contro i cattolici d'Inghilterra. In compenso l'impegno di I. X crebbe in Irlanda, dove nell'aprile 1645 fu inviato un nunzio speciale, Giovanni Battista Rinuccini, con la missione di perseguire l'unione delle diverse correnti cattoliche dell'isola, e in particolare di ricomporre il violento contrasto che opponeva Irlandesi e sostenitori di Carlo I. Il papa decise inoltre di ridare consistenza al corpo episcopale irlandese con la nomina di undici vescovi (11 marzo 1647). A conclusione dell'intesa, nel gennaio 1649, i cattolici, malgrado l'appoggio di Rinuccini, dovettero cedere su numerosi punti a James Butler, conte di Ormond, luogotenente del re Carlo I. Tuttavia il 15 ag. 1649 l'arrivo delle truppe di Oliver Cromwell seguito dalla disfatta militare dei realisti e, nel 1652, il voto sulle leggi di colonizzazione inflissero un colpo ben più decisivo al cattolicesimo irlandese e segnarono un ulteriore ridimensionamento dell'influenza pontificia.
I. X sostenne l'attività della congregazione di Propaganda Fide, di cui si era occupato all'epoca di Urbano VIII. Tuttavia gli scrupoli formali e la preoccupazione di salvaguardare l'autorità pontificia lo indussero a contenere il suo appoggio. Se incoraggiò l'insediamento dei cappuccini nel Congo e in Angola, nel 1652 si oppose alla richiesta dei missionari che lo invitavano a istituire una vera e propria gerarchia ecclesiastica in Cocincina e nel Tonchino. Inoltre, con una decisione che innescò forti polemiche piuttosto che sedarle, I. X approvò il decreto emesso da Propaganda il 12 sett. 1645 facendo seguito a una memoria presentata dal domenicano Juan de Morales contro i riti cinesi attribuiti ai gesuiti. Questi ultimi, che non poterono far valere le loro ragioni, ribatterono inviando a Roma, nel 1652, padre Martino Martini, che avrebbe ottenuto soddisfazione solo dopo la morte del pontefice, nel 1656. Questa tendenza alle decisioni affrettate portò I. X a successi assai modesti nel conflitto che oppose il vescovo di La Puebla, Juan de Palafox y Mendoza, ai francescani (1640-45) e, in seguito, soprattutto ai gesuiti (1647-52). La disputa, maldestramente gestita dalla S. Sede, si concluse nel 1652 con reprimende rivolte ai contendenti, lasciando in Messico segni profondi.
Sul piano dogmatico, la questione cruciale del pontificato di I. X fu la lotta contro il giansenismo. Il primo atto fu la pubblicazione della bolla In eminenti, documento privo di carattere teologico, di cui aveva peraltro seguito l'elaborazione senza coltivare alcun pregiudizio nei confronti dei giansenisti. In Fiandra, patria di Giansenio, I. X si scontrò con le resistenze più dure, che facevano capo all'Università di Lovanio, la prima nel 1643 a richiedere chiarimenti sulla bolla, e a personaggi quali Jacques Boonen, arcivescovo di Malines, e Pierre Roose, presidente del Consiglio di Stato. Per fronteggiare queste opposizioni, I. X fu costretto a ricorrere alla coercizione del potere reale, allo scopo di garantire la ricezione della bolla. Mentre Roma condannava con un decreto del S. Uffizio del 6 ott. 1650 le risposte fornite il 20 marzo 1647 a proposito della pubblicazione della bolla da J. Boonen e dal vescovo di Gand, Triest, Filippo IV offriva il suo appoggio al papa. I. X doveva comunque evitare che la richiesta di aiuto pregiudicasse la sua autorità e quindi rifiutò categoricamente il decreto dell'arciduca Leopoldo Guglielmo, che concesse il placet reale alla bolla In eminenti il 28 febbr. 1651. Dopo una protesta del pontefice e alcuni mesi di gelo diplomatico, Filippo IV accettò di non appoggiarsi al decreto assicurando ugualmente assistenza all'internunzio. Quando alla fine Boonen e Triest si sottomisero, nell'estate del 1653, I. X aveva già preso nuovi provvedimenti contro i giansenisti.
In Francia la diffusione del libro De la fréquente communion, del giansenista Antoine Arnaud, pubblicato nel 1643, rilanciò le polemiche, che si accentrarono intorno alla Sorbona. Ben presto in città cominciarono a circolare liste di proposizioni sul problema della grazia, una delle quali fu sottoposta, il 1° luglio 1649, all'esame della Sorbona dal suo sindaco Nicolas Cornet. Una lettera del vescovo di Vabres, Isaac Habert, coinvolse il pontefice nella vicenda. I giansenisti, temendo che Giansenio venisse incluso in un'eventuale condanna papale, a loro volta si rivolsero a Roma. Il 12 apr. 1651 I. X creò una commissione di cardinali, nella quale inserì il fedele datario Domenico Cecchini, ma non i teologi Vincenzo Maculano e Giovanni de Lugo, rispettivamente domenicano e gesuita. Il pontefice seguì da vicino i lavori della commissione, che si riuniva due volte la settimana ed era guidata dall'assessore F. Albizzi. Nell'aprile 1652 I. X coinvolse anche F. Chigi, che insieme con Albizzi fu il vero autore della bolla Cum occasione, del 31 maggio 1653, pubblicata il 9 giugno. In questo testo, molto dogmatico, I. X condannò cinque proposizioni giudicate eretiche in quanto compendiavano gli errori dell'Augustinus e riaffermò l'autorità della S. Sede. Il pontefice ottenne - questa volta molto celermente - l'appoggio incondizionato sia in Francia sia in Spagna e nell'Impero: il papa, che nominò F. Albizzi cardinale il 2 marzo 1654, finalmente trionfava. In realtà, lungi dall'aver annientato il giansenismo, la bolla Cum occasione, al contrario, aprì la strada a futuri conflitti. A. Arnaud, nel marzo 1654, poté sostenere i suoi argomenti sui difetti del testo, fondato su affermazioni dogmatiche e non su citazioni precise: la prima proposizione era estrapolata dal contesto che la rendeva ortodossa; quanto alle altre quattro, non figuravano nell'Augustinus. Malgrado un nuovo decreto del S. Uffizio del 23 apr. 1654, che condannò una cinquantina di scritti giansenisti, questa distinzione preludeva a un lungo periodo di resistenza passiva e di "rispettoso silenzio".
I. X morì a Roma il 7 genn. 1655.
Il suo ritratto dipinto da D. Velázquez (Galleria Doria Pamphili, ove è anche conservato il ritratto busto opera di Bernini), in una sorta di sintesi singolare e geniale di una vita e di un carattere, mette in risalto il severo rigore e l'inquieto affanno con cui egli affrontò il suo pontificato.
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