INNOCENZO XII, papa
Antonio Pignatelli nacque nel 1615, in un castello presso Spinazzola, secondogenito di Francesco, dei Pignatelli di Cerchiara marchese di Spinazzola, e di Porzia di Fabrizio Carafa. Compì i suoi studi presso il Collegio romano, fino ad addottorarsi in utroque iure. Dopo di che, la carriera romana del giovane Pignatelli seguì le tappe consuete: ricoprì per alcuni anni la carica di referendario della Segnatura di grazia e di giustizia, nel 1643 fu nominato vicelegato di Urbino, poi inquisitore di Malta, nunzio a Firenze, a Varsavia e infine a Vienna presso la corte imperiale. Tre anni dopo fu richiamato da Vienna con la designazione a vescovo di Lecce. In seguito fu nominato segretario della congregazione dei Vescovi e regolari, maestro di Camera e infine, nel 1681, fu promosso al cardinalato.
Per la cura d'anime non sembrò inizialmente manifestare una grande vocazione. Nominato vescovo di Lecce nel gennaio del 1671, lasciò passare sei mesi prima di prendere possesso della diocesi, che abbandonò peraltro dopo pochi giorni, delegando formalmente le sue funzioni a vicari episcopali, mentre di fatto era il capitolo della cattedrale che si assumeva il ruolo di direzione pastorale della città e della diocesi. Ben altro impegno emerge dal suo operato durante la legazione di Bologna, dove il Pignatelli arrivò nel 1684, dopo aver retto per alcuni mesi la diocesi di Faenza. Qui, lungi dal lasciare mano libera ai poteri locali, non esitò a dissociarsi dalle scelte del reggimento cittadino su questioni rilevanti come l'approvvigionamento della città, il commercio del grano, il diritto di battere moneta, l'ordine pubblico, le feste.
Nel settembre del 1686 il Pignatelli ricevette il suo ultimo incarico da porporato, con la designazione alla sede arcivescovile di Napoli. La sua azione a capo della Chiesa napoletana fu segnata da molti dei tratti che si erano già manifestati durante la legazione di Bologna: "senza tentazioni episcopaliste, garante dell'autonomia della diocesi nell'obbedienza al papa, l'arcivescovo napoletano rivendica in più occasioni la sua autorità sia contro le forze ecclesiastiche locali, ferme nel difendere e ampliare le loro competenze e i privilegi, sia contro il potere politico, sia contro la stessa curia romana" (Chiosi, p. 101).
All'inizio del 1691, la morte di Alessandro VIII lo richiamò improvvisamente a Roma, dove entrò in conclave per partecipare all'elezione del nuovo pontefice. I sessantuno cardinali, che tra il febbraio e il luglio del 1691 si riunirono per scegliere il successore di papa Ottoboni, costituivano una fazione piuttosto eterogenea. Il gruppo più numeroso (ventisette) era ancora costituito dalle "creature" di Innocenzo XI. Alcuni di questi erano confluiti nel partito ispano-imperiale, ma un buon numero di loro si riconoscevano piuttosto negli "zelanti", cui si opponeva il partito francese. Gli zelanti - tra i quali si stava facendo strada l'idea che una riforma della Curia fosse ormai improrogabile, e che la pratica del nepotismo non fosse più difendibile - caldeggiavano l'elezione del cardinale Gregorio Barbarigo. Ma la fama di francofilo di Barbarigo suscitava l'ostilità dell'imperatore Leopoldo I d'Asburgo, tanto che in marzo giunse da Vienna "l'esclusiva" contro di lui. Alla fine di maggio il nome del Pignatelli prese a circolare con sempre maggiore insistenza, finché il 12 luglio 1691 egli fu elevato alla cattedra di S. Pietro, con il nome di Innocenzo XII.
Nei giorni immediatamente successivi, il nuovo papa nominò i suoi collaboratori: alla segreteria di Stato il cardinale Fabrizio Spada, alla Dataria il cardinale Bernardino Panciatichi, che già ricopriva quell'incarico, alla Segreteria dei brevi privati il cardinale Gian Francesco Albani, a quella dei brevi il principe Mario Spinola. Segretario della Cifra fu nominato Vincenzo Ricci, uditore Ansaldo Ansaldi, segretario dei Memoriali Agostino Fabroni, sottodatario Giuseppe Sagripanti, maggiordomo Ercole Visconti, maestro di Camera Baldassarre Cenci.
Il provvedimento sicuramente più noto e celebrato di tutto il pontificato di I. XII è costituito dalla bolla contro il nepotismo, emanata il 22 giugno 1692. Con questo provvedimento I. XII attuava finalmente un progetto a cui avevano a lungo lavorato Innocenzo XI e il suo uditore Giovanni Battista De Luca, e che entrambi avevano dovuto accantonare per l'opposizione irriducibile della Curia. Alle ragioni morali e politiche, che spingevano a favore dell'abolizione del nepotismo, si aggiungeva il disastro delle finanze pontificie.
Oltre alla bolla contro il nepotismo, l'interesse per il buon funzionamento della giustizia e l'attenzione per l'ordinata amministrazione della carità sono i tratti che probabilmente meglio caratterizzano il pontificato di Innocenzo XII. Intorno al problema della giustizia le autorità pontificie e i giuristi loro consiglieri stavano lavorando da tempo. Una bolla di riforma dei tribunali era stata emanata nel 1612 a opera di Paolo V. A questo provvedimento era seguito un lungo periodo di relativa disattenzione, finché, nel 1676, Innocenzo XI non aveva manifestato la volontà di riprendere in mano la materia, nominando una nuova congregazione per la Riforma dei tribunali e affidandone la guida a De Luca. Il 28 luglio 1691, a due settimane dall'elezione, anche I. XII mostrò di volersi occupare della questione. In quella data fu infatti "affissa una notificazione che chi voleva udienza da Nostro Signore si portasse il lunedì avanti Sua Santità, che l'haverebbe havuta". Da quel momento, e per un lasso di tempo di circa quattro anni, il papa tenne effettivamente udienza pubblica ogni quindici giorni, ricevendo e ascoltando i sudditi che chiedevano giustizia. In questa maniera egli si presentava al popolo nelle vesti del "sovrano giustiziere", che siede personalmente a rendere giustizia in maniera "immediata", vale a dire rapida e contemporaneamente svincolata dalle consuete mediazioni procedurali di avvocati, giudici, cancellieri, imposte dal ricorso a un tribunale. Così egli incarnava e rendeva visibile quello che era forse l'attributo fondamentale della sovranità medievale e moderna, e il valore della sua azione andava ben al di là degli effetti pratici della medesima, come emerge chiaramente dai commenti di alcuni osservatori. Per il resto, la politica giudiziaria di I. XII si presentava come una continuazione di quella adottata dal suo predecessore.
Nell'agosto del 1692 il papa fece pubblicare nuovi decreti della congregazione per la Riforma dei tribunali, che questa volta miravano a stabilire le precise competenze di ogni corte, per mettere fine ai conflitti di giurisdizione. Come le precedenti, anche questa congregazione era composta da "esperti", cioè da magistrati dei principali tribunali romani, il cursus honorum dei quali prevedeva in genere il passaggio da una magistratura all'altra: tutti erano quindi bene al corrente dei problemi che ogni singolo tribunale doveva affrontare. Ne facevano parte Prospero Bottini, avvocato fiscale, Jacques Emerix, avvocato di Rota, Mathieu Ysoré de Hérault, Federico Caccia e Giuseppe Molines, auditori di Rota, Giovan Domenico Tomato, luogotenente dell'auditor camerae, Curzio Origo, votante della Segnatura di giustizia, Giuseppe Sacripante, sottodatario, Ferdinando Nuzzi, commissario della Reverenda Camera apostolica, Ansaldo Ansaldi, auditor sanctissimi, Fatinello Fatinelli, primo collaterale del Tribunale del senatore, e Giovan Domenico Rainaldi, luogotenente criminale del cardinale vicario: tutti i tribunali primari vi erano rappresentati. Pochi giorni dopo, la congregazione suggerì l'emanazione di un decreto per la soppressione di quella pletora di corti minori su cui si erano fino allora fondati i privilegi giurisdizionali di vari corpi sociali, a cominciare dalle "nazioni" e dalle arti, suggerimento che il papa accolse nella bolla Romanus pontifex del 17 sett. 1692.
La concentrazione di tutti i tribunali nel palazzo della Curia innocenziana, la semplificazione delle magistrature con la soppressione dei fori privilegiati, per non parlare della simbologia del "sovrano giustiziere" esaltata dalle udienze pubbliche del papa, erano gli strumenti e i segni cui si affidava la legittimazione e la credibilità di una politica di riforme fondata sull'amministrazione corretta ed efficiente della giustizia. Gli stessi strumenti e gli stessi contrassegni vennero usati per promuovere l'altro grande settore di intervento sociale di I. XII, quello della carità. Anche in questo campo l'intervento del papa fu pressoché immediato: nel novembre del 1692 egli si era già assicurato la presenza a Roma del padre Giovanni Maria Baldigiani, della Compagnia di Gesù, cui era seguito, poco tempo dopo, l'arrivo dei due gesuiti francesi Honoré Chaurand e André Guevarre, considerati le massime autorità dell'epoca in materia di assistenza ai poveri e ai mendicanti. Chaurand, soprattutto, arrivava a Roma forte dell'esperienza che gli veniva dal caso di Avignone, dove aveva messo a punto un sistema di pubblicizzazione delle sue iniziative - attraverso la predicazione, ma anche la pubblicazione di opuscoli esplicativi e l'organizzazione di questue - che mirava precisamente a vincere la resistenza della popolazione e a stimolare il consenso e la carità dei privati. I Règlements des hospitaux généraux, contenenti istruzioni molto dettagliate sull'organizzazione interna degli istituti di assistenza, pubblicati ad Avignone nel 1683, servirono così da modello per le Istruzioni e regole degli ospizi generali, dati alle stampe a Roma dieci anni dopo.
Considerazioni analoghe si possono fare per l'opuscolo La mendicità provveduta coll'ospizio pubblico, scritto probabilmente a due mani da Chaurand e Guevarre e pubblicato a Roma nel 1693. Vi si sosteneva la tesi di una maggiore efficacia della carità pubblica e si ribadiva anche l'idea della "malizia" dei poveri, inclini all'ozio e ai vizi e dunque da trattare con oculata severità.
Il papa, che seguiva con attenzione il lavoro dei due gesuiti francesi, mostrò di condividere le posizioni dei suoi consiglieri, ma fu a due italiani, l'oratoriano Francesco Marchesi e il gesuita Baldigiani, che egli affidò il concreto compito di allestire il nuovo grande ospizio apostolico di S. Giovanni in Laterano. Secondo i piani, il nuovo istituto doveva basarsi in gran parte sulle elemosine dei privati, ma anche il papa volle contribuire, assegnando all'ospedale un'entrata fissa di quasi 28.000 scudi l'anno e continuando a seguirne personalmente le vicende. Tuttavia nel giro di soli due anni il progetto iniziale fu rivisto. Le resistenze contro un vero e proprio provvedimento di reclusione dei poveri e dei mendicanti, che si erano apertamente manifestate durante il pontificato di Innocenzo XI, bloccando un primo tentativo di allestire un ospedale generale, non tardarono a manifestarsi di nuovo. L'opposizione alla reclusione e al divieto assoluto di mendicare non veniva solo dai diretti interessati, ma coinvolgeva diversi settori dell'élite ecclesiastica e laica, traducendosi in un addolcimento delle misure repressive. In breve, l'ospizio apostolico smise di essere un luogo di segregazione per poveri recalcitranti e si trasformò in un istituto di assistenza per giovani e vecchi dei due sessi.
Il progetto iniziale di razionalizzare l'assistenza centralizzandola, chiaramente ispirato alla stessa cultura di governo che aveva portato all'accorpamento di tutti i tribunali, fu rapidamente ridimensionato, e la carità continuò a essere esercitata in una miriade di forme diverse, pubbliche e private, così come, nonostante tutto, l'organizzazione della giustizia continuò a dover fare i conti con la molteplicità delle giurisdizioni, a scontrarsi con i continui conflitti di competenza, e a essere disciplinata da una pluralità di sistemi giuridici spesso in contraddizione tra loro. Nell'insieme, l'azione di I. XII non appare tanto caratterizzabile nei termini di un moderno tentativo di centralizzazione della giustizia o dell'assistenza costretto a ripiegare di fronte al particolarismo tradizionalistico della società romana, quanto come il frutto di una cultura politica e sociale segnata da una duplicità di fondo, che sarebbe tuttavia anacronistico tacciare di incoerenza. Limiti ancora più importanti alla politica di unificazione e accentramento, sia della giustizia sia dell'assistenza, vanno inoltre ricercati nelle condizioni dell'Erario pubblico e nella consapevolezza di tale situazione: una centralizzazione totale avrebbe comportato un onere finanziario insostenibile per le casse dello Stato.
Ispirato allo stesso desiderio di difendere l'onore e il prestigio della Chiesa, che aveva animato la bolla contro il nepotismo, appare l'editto per il clero secolare emanato nel 1691 e ripreso nel 1696 e nel 1699. Lo scopo dell'editto era una più netta distinzione tra ecclesiastici e laici. Il vistoso aumento del numero dei chierici, che aveva caratterizzato la seconda metà del XVII secolo, aveva infatti comportato un rilassamento generale della disciplina, e moltiplicato le occasioni di scandalo. La trattatistica sul clero si mostrava d'altronde pienamente consapevole del fatto che molti giovani prendevano gli ordini più per ragioni di famiglia che per vera vocazione. Di fronte a questo stato di cose, le gerarchie ecclesiastiche furono costrette a porsi il problema della formazione del clero e del suo comportamento. L'insieme degli interventi innocenziani mirava appunto a migliorarli entrambi, allentando i vincoli che legavano i chierici al mondo dei laici, elevando il livello culturale degli ordinandi e rendendo più incisiva l'opera di controllo dei vescovi.
L'azione riformatrice di I. XII non si fermò a questi editti, ma proseguì con la costituzione, nel 1694, di una congregazione della Disciplina regolare che, dopo un anno circa di incontri e discussioni, nel 1695 emanò il decreto Sanctissimus, il cui obiettivo era il ritorno dei frati a quella "esatta vita comune" indicata dalle regole. Questi provvedimenti furono seguiti, nel 1696, dall'istituzione di una congregazione straordinaria sopra la Disciplina ecclesiastica, riforma de costumi e correttione degl'abusi in Roma e suburbi. La congregazione si riunì a più riprese tra il 1696 e il 1697, affrontando questioni relative ai doveri dei sacerdoti, e le sue deliberazioni si tradussero in concreti provvedimenti, attuati direttamente attraverso la congregazione del Concilio o mediante l'azione del cardinale vicario di Roma. Anche questo insieme di disposizioni delineava una riforma del clero incentrata sulla moralità, la vita esemplare e, naturalmente, la distinzione dal mondo laico.
Un'analoga attenzione per la sacralità del ministero sacerdotale, nella sua connessione diretta con il sacrificio eucaristico, emerge dalle numerose disposizioni concernenti in particolare la diocesi di Roma, quali quelle sul trasporto solenne del viatico ai moribondi o la celebrazione della messa (Roma stessa fu oggetto di una visita apostolica indetta nel gennaio del 1693). A queste si aggiungono le prescrizioni riguardanti la "cura d'anime" o l'attenzione per un'adeguata preparazione dei chierici investiti di questo compito. Su suggerimento della congregazione sulla Disciplina ecclesiastica, infatti, nel 1697 il vicario di Roma emanò una notifica con la quale si sollecitavano tutti gli ecclesiastici a frequentare gli esercizi spirituali presso i padri della Missione in Montecitorio e, tre anni dopo, la congregazione dei Vescovi e regolari raccomandò a tutti gli ordinari d'Italia di adottare le stesse risoluzioni. Infine si devono ricordare le disposizioni riguardanti i seminari.
È in questo contesto che si situa il progetto di istituire anche a Roma - dove la formazione dei sacerdoti avveniva per lo più al di fuori di istituzioni come quella progettata, nei collegi dei vari Ordini religiosi - un seminario diocesano. Il progetto non andò in porto, ma è comunque indicativo delle intenzioni che animavano I. XII e i suoi più stretti collaboratori. Nel complesso l'azione di I. XII nei confronti del clero si mostra da un lato ispirata a una morale rigorista, dall'altro favorevole al potenziamento delle strutture parrocchiali e al rafforzamento del rapporto vescovi-parroci in vista della cura d'anime, in accordo con quella linea pubblicistica ed episcopale di politica ecclesiastica che si era già affermata a Roma con Innocenzo XI. Non è chiaro tuttavia quale ruolo fosse riservato, in un'idea generale di riforma della disciplina ecclesiastica, al clero regolare, nei confronti del quale I. XII appare abbastanza indeciso: da un lato si richiamano i religiosi al rispetto della Regola in materia di povertà ed esatta vita comune, dall'altro si abolisce il "numerus clausus" per le professioni religiose, introdotto da Innocenzo X a metà Seicento, e ci si mostra comunque incapaci di resistere alle pressioni esercitate dagli Ordini all'interno della Curia. Anche in questo caso la politica di I. XII appare dunque caratterizzata dalla duplicità culturale, segnalata a proposito delle riforme della giustizia e dell'assistenza, determinata da quella compresenza di serie istanze pubblicistiche, e dunque astratte e impersonali, e di altrettanto radicate convinzioni organicistiche, e dunque altamente personalizzate, che caratterizza la sua epoca e il suo ambiente.
Nei rapporti con le potenze cattoliche, come tutti i suoi immediati predecessori, anche I. XII dovette presto confrontarsi con il problema del giansenismo. La bolla contro Giansenio, emanata da Alessandro VII nel 1656, e il formulario sul quale dovevano giurare gli ordinandi al sacerdozio, approvato dallo stesso papa nel 1665, imponevano il riconoscimento di "fede divina" del "duplice fatto", cioè della falsità delle proposizioni di Giansenio e della loro presenza nell'Augustinus, e quindi il loro ripudio non solo in senso generale eretico, ma anche specificamente, vale a dire come presenti nel libro e secondo le intenzioni dell'autore. La forte opposizione che tale testo non aveva mancato di suscitare aveva tuttavia fatto sì che il formulario effettivamente da sottoscrivere contenesse significative restrizioni. La questione poteva dirsi sopita, ma non certo risolta: si riaccese all'inizio del 1692, quando l'arcivescovo antigiansenista di Malines, nei Paesi Bassi spagnoli, provò a forzare la mano, non solo riproponendo il testo integrale del formulario di Alessandro VII, ma addirittura ritoccandolo in modo da rendere ancora più feroce la condanna contro il giansenismo. Di fronte alle proteste dell'Università di Lovanio, il papa chiese consiglio ai suoi teologi. Sia gli assessori del S. Uffizio, la cui composizione era radicalmente cambiata rispetto ai tempi di Alessandro VII, sia i cardinali romani non erano per nulla compattamente schierati su posizioni oltranziste. Il parere moderato del cardinale Girolamo Casanate finì con il prevalere, e un decreto del 1694 prescrisse il ritorno al più prudente testo originario e il giuramento del formulario alessandrino nel suo solo "senso ovvio", imponendo al contempo alle parti di osservare il silenzio perpetuo sulla questione. La Curia era d'altronde attraversata da correnti rigoriste che coinvolgevano la Compagnia di Gesù, all'interno della quale già da alcuni anni il generale Tirso González de Santalla aveva preso posizione a favore di una morale più severa.
Un processo analogo si delineò a proposito della questione dei riti cinesi. Nel 1693 la denuncia contro il sincretismo del culto di Confucio e degli antenati defunti, inviata a Roma da Charles Maigrot, membro del seminario delle Missioni di Parigi e vicario apostolico di Fukien, riaprì la controversia (che era stata temporaneamente risolta, in senso permissivo, da Alessandro VII) sullo stile dell'attività missionaria svolta in Cina dalla Compagnia di Gesù, cui si imputava di operare un'indebita confusione tra cristianesimo e monoteismo confuciano. Dietro la controversia dottrinaria si celavano rivalità sulle missioni tra i gesuiti e gli Ordini mendicanti, nonché tensioni giurisdizionali tra i vicari apostolici e il padroado portoghese. Anche in questo caso, I. XII evitò di schierarsi apertamente.
Nonostante l'ostilità più forte all'elezione del Pignatelli fosse venuta dal "partito francese", che vedeva in lui un suddito del re di Spagna e dunque un potenziale nemico, uno dei primi atti compiuti da I. XII fu quello di rivolgersi a Luigi XIV, annunciandogli che avrebbe volentieri affrontato e risolto la questione dei vescovati di Francia, vacanti in seguito alle tensioni causate dall'affare della régale e soprattutto dalla Dichiarazione dei quattro articoli del clero gallicano, approvati nel 1682. Dopo le asprezze di Innocenzo XI, l'atteggiamento di I. XII appariva molto conciliante: la S. Sede non arrivava a chiedere una ritrattazione della Dichiarazione, ma si sarebbe accontentata di una presa di distanza dalla medesima, vale a dire di un ordine del re che imponesse di non dare esecuzione all'editto del 1682. Di fronte all'atteggiamento altrettanto conciliante della corte di Francia, tra il 1692 e il 1693 I. XII spedì le bolle di nomina a tutti i vescovi che ne avevano fatto domanda, compresi coloro che erano stati tra i sottoscrittori dei Quattro articoli, ponendo così fine a questo motivo di attrito. Ma se tale questione era chiusa, restava da risolvere l'affare della régale. La faccenda sollevava spinosi problemi internazionali, perché i maggiori poteri giurisdizionali che conferiva al re di Francia erano percepiti come un indebito favoritismo della S. Sede nei confronti di una delle potenze cattoliche in guerra. In questo contesto vanno dunque letti i contrasti con l'imperatore, dovuti anche alle intemperanze degli ambasciatori cesarei a Roma. Nel 1692, quando tra Roma e Madrid si erano avuti dissapori a proposito dell'Inquisizione di Napoli, l'ambasciatore Anton Liechtenstein si era infatti schierato con la Spagna e nel 1699, per una questione di precedenze, il suo successore Georg Adam Martinitz aveva scatenato una vera e propria crisi diplomatica tra la S. Sede e la corte di Vienna. Ma la divergenza più profonda si ebbe sulla questione della successione spagnola. Quando il Consiglio di Stato spagnolo suggerì al re Carlo II d'Asburgo di indicare il suo successore in Filippo duca d'Angiò, I. XII, al quale il re si era rivolto in cerca di approvazione, si dichiarò d'accordo con quella scelta. Dopo gli aspri conflitti con la Francia, che avevano caratterizzato il pontificato di Innocenzo XI, la politica di I. XII si rivelava così di segno opposto. Forse aveva colto nel segno quell'inviato di Luigi XIV che poco prima dell'elezione aveva commentato: "Ho appreso che mentre era in Polonia è stato sempre ben unito con la Francia e che a Vienna stessa non ha testimoniato asprezza né parzialità contro di noi. Si dice che si potrebbe fare di lui quello che si vuole perché ha sentito in parecchie occasioni il peso del giogo di Spagna" (in Riforme, religione e politica, p. 336).
I. XII non assistette tuttavia alla successione, perché morì a Roma il 27 sett. 1700, precedendo di poco il re di Spagna.
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