LEONE X, papa
Giovanni de' Medici nacque a Firenze l'11 dic. 1475, secondogenito di Lorenzo il Magnifico e Clarice Orsini.
Oltre agli insegnamenti del precettore Gregorio da Spoleto, assorbì la lezione dei più illustri esponenti della cultura fiorentina dell'epoca, da Demetrio Calcondila ad Angelo Poliziano a Marsilio Ficino. La sua carriera ecclesiastica, avviata fin dall'infanzia, fu parte integrante del progetto, coltivato dal padre, di ricostruire l'intesa tra la casa Medici e il Papato. A sette anni, il 1° giugno 1483, ricevette la prima tonsura; a otto fu investito degli ordini minori e della dignità di protonotario. Fece incetta di ragguardevoli benefici ecclesiastici toscani (Passignano, Coltibuono, la prepositura di Prato) e di altri offertigli in dono dai sovrani con cui il Magnifico intrattenne rapporti di amicizia, situati in Francia (l'abbazia di Font-Douce), nel Regno di Napoli (dove a undici anni divenne abate commendatario di Montecassino) e nel Ducato di Milano (dove dal 1487 detenne l'abbazia di Morimondo, nella quale introdusse i cistercensi riformati dell'Osservanza toscana). In Fabroni (p. 245) sono elencati una trentina di benefici retti durante il suo cardinalato, localizzati per lo più in Toscana.
Con la conclusione, nel febbraio del 1487, del matrimonio tra Maddalena de' Medici, figlia del Magnifico, e Franceschetto Cibo, figlio di papa Innocenzo VIII, il Medici entrò in lizza per la promozione al cardinalato, gesto di favore dettato da un intento nepotistico di salvaguardia dei comuni destini familiari dei Cibo e dei Medici.
Per aggirare l'impedimento dell'età, la creazione fu differita con un espediente che evitò i problemi della promozione in pectore: il tredicenne Giovanni de' Medici - fatto passare per sedicenne - fu incluso nella rosa degli eletti nel concistoro del 9 marzo 1489, ma il papa dispose che la sua promozione si dovesse mantenere segreta per tre anni. Allo scadere del termine, avrebbe potuto assumere le insegne cardinalizie e sarebbe stato ammesso nel S. Collegio, con il titolo diaconale di S. Maria in Domnica.
Tra il 24 e il 26 febbr. 1489, ricevette gli ordini suddiaconale e diaconale e la laurea in diritto canonico. Subito dopo si trasferì a Pisa per intraprendere retroattivamente il corso degli studi universitari, terminato il 1° febbr. 1492. Il 9 marzo vestì le insegne cardinalizie e poco dopo partì per Roma, dove il 23 marzo fu ammesso nel S. Collegio. Il 15 aprile ricevette quale gratifica la legazione del Patrimonio.
La protezione papale divenne indispensabile ai Medici dopo che, morto Lorenzo l'8 apr. 1492, la guida del regime passò nelle mani dell'immaturo Piero. Accorso in patria, il Medici fu nominato, l'11 maggio, legato pontificio a latere per il dominio fiorentino, al fine di aiutare la successione del fratello primogenito, ma nel luglio Innocenzo VIII morì. Tornato a Roma per partecipare al conclave, il Medici dovette conformarsi alle direttive di Piero e confluire nel partito filonapoletano, guidato da Giuliano Della Rovere (il futuro papa Giulio II). Apertosi il conclave il 6 agosto, fu chiaro che a prevalere sarebbero stati i nemici capitali del Della Rovere, i cardinali Rodrigo Borgia e Ascanio M. Sforza; il Medici si accodò a questi ultimi, ma il tardivo ripiego non valse a guadagnargli il favore del Borgia, eletto papa l'11 agosto con il nome di Alessandro VI.
L'inimicizia dei vincitori gli causò la perdita della legazione del Patrimonio e gli rese consigliabile stare lontano da Roma. Nell'autunno del 1494, durante uno dei ricorrenti soggiorni a Firenze, fu travolto dalle ripercussioni della calata di re Carlo VIII di Francia. All'espulsione di Piero de' Medici da Firenze (9 nov. 1494), seguì pochi giorni dopo la fuga del cardinale Giovanni suo fratello, costretto a mettersi in salvo travestito da frate francescano. Riparato a Città di Castello e poi a Urbino, egli non intravide alcuna prospettiva di riscatto per la propria famiglia e preferì non tornare a Roma con un papa ostile. Decise dunque di intraprendere in incognito, in compagnia del cugino Giulio (il futuro Clemente VII) e di una decina di familiari, un viaggio per l'Europa. Partiti da Venezia nell'agosto 1499, toccarono la Baviera, ebbero un fortunoso incontro con Massimiliano d'Asburgo a Ulm e arrivarono alla corte di Fiandra, ospiti dell'arciduca Filippo; qui rinunciarono al progetto di recarsi in Inghilterra. Passato in Francia, a Rouen il gruppo fu arrestato e dovette aspettare che Piero de' Medici, da Venezia, offrisse al re di Francia le garanzie necessarie per la liberazione. Discesi a Lione, si imbarcarono a Marsiglia e rientrarono in Italia fermandosi a Savona e a Genova.
Tornato a Roma, nel maggio 1500, il Medici si stabilì nel suo palazzo di S. Eustachio (l'attuale palazzo Madama); da allora, fattosi maturo, egli fu in grado di convertire in risorse le sue debolezze, consistenti in una certa fiacchezza che accentuava la congenita incapacità di gestire la politica attiva. La sua studiata liberalità, volta a conciliarsi gli animi di tutti, riuscì a modificare l'alone negativo che incombeva sulla sua casata, facendo della sua familia romana il polo di riferimento per gli ambienti dell'opposizione al regime di Piero Soderini a Firenze.
Ostentando uno stile di vita gaio e fastoso e usando generosità verso artisti e letterati, il Medici si propose, da Roma, quale ideale continuatore della stagione che Firenze aveva conosciuto sotto suo padre, proprio mentre in patria si moltiplicavano i segnali di debolezza della compagine repubblicana. Aspetto essenziale del suo mecenatismo fu l'abbellimento delle chiese da lui rette: S. Maria in Domnica fu restaurata e ornata di una facciata con portico; S. Cristina di Bolsena fu rinnovata con una facciata in stile rinascimentale fiorentino.
La morte accidentale del fratello Piero, alla fine del 1503, rese il Medici capo della famiglia in esilio, il cui destino sarebbe dipeso non più dalle sfortunate spedizioni militari in cui Piero era coinvolto, ma dai giochi diplomatici internazionali condotti alla corte pontificia. Morto nel 1503 Alessandro VI, il Medici salì nella più grande considerazione con il nuovo papa, Giulio II.
Dopo alcuni anni vissuti nella penombra, a causa dell'iniziale orientamento filofrancese di Giulio II, il Medici si affermò come personaggio chiave della politica italiana della Chiesa verso il 1510, quando il papa decise il rovesciamento dell'alleanza con Luigi XII. I propositi di Giulio II, consistenti nel rafforzare la potenza temporale del Papato facendone la guida politica di un'Italia sgombra di dominatori oltremontani, collimavano con le inclinazioni del Medici, che per il suo antagonismo al regime soderiniano figurava come porporato fra i più ostili alla Francia.
La convergenza con il papa raggiunse piena evidenza con la nomina (1° ott. 1511) a legato pontificio di Bologna e della Romagna, con l'incarico di recarsi su quel teatro di guerra contro i Francesi.
Implicato in qualità di sovrintendente all'esercito pontificio in una pericolosa missione sul campo, il Medici esibì una condotta irresoluta in un momento drammatico per la Sede apostolica. Il re di Francia, determinato a colpire Giulio II, aveva indetto un concilio a Pisa per arrivare alla deposizione del papa. Con disdoro del pontefice, il Medici rinunciò ad attaccare Bologna per cacciare i Bentivoglio, rientrati nella città, e riuscì solo a strappare Modena agli Este, occupandola prima che si arrivasse allo scontro con la temutissima armata francese.
Nella sanguinosa battaglia di Ravenna (11 apr. 1512), il Medici fu fatto prigioniero dai Francesi, che pur vincendo subirono perdite di entità tale da rendere problematica la difesa della Lombardia.
Condotto a Milano come onoratissimo prigioniero, il Medici riscosse grande popolarità in una città che aveva offerto ospitalità al "conciliabolo" filofrancese, trasferitosi da Pisa, ed era caduta sotto l'interdetto pontificio, al quale si aggiungevano gli effetti della scomunica papale contro i filofrancesi. Attingendo ai suoi poteri legatizi, il Medici concesse largamente assoluzioni e autorizzazioni alla sepoltura. Intendendo usarlo come ostaggio, Luigi XII ordinò il suo trasferimento in Francia, ma al passaggio del Po presso Valenza il Medici fu liberato da un'armata contadina al comando di alcuni gentiluomini del luogo (6 giugno 1512). Ritornato insperatamente in libertà, poté partecipare al congresso di Mantova (agosto 1512), dove ottenne che il papa e i suoi alleati deliberassero la restaurazione dei Medici a Firenze. Ottenuta a tal fine la disponibilità delle truppe spagnole, partecipò di persona alle operazioni militari culminate nella presa di Prato (29 agosto) seguita dal sacco, che terrorizzò i Fiorentini spingendoli a destituire il Soderini (31 ag. 1512) e ad aprire le porte ai Medici (1° settembre). Rientrato in Firenze il 14 settembre, diede avvio alla ricostruzione di un assetto di governo docile alla sua autorità, avendo cura di mostrarsi clemente con i nemici sconfitti e cercando un consenso interno che ponesse il nuovo regime in una luce di continuità con le tradizioni repubblicane.
Ciò fece sì che si incentrassero sulla sua persona le attese generali quando, con la morte di Giulio II (20 febbr. 1513), si diffuse per la Cristianità l'attesa di un supremo pastore dedito alla pace, che facesse dimenticare i traumi causati alla Chiesa dal pervicace temporalismo del pontefice appena defunto. Espressione di tali sentimenti fu il Libellus ad Leonem X di Tommaso Giustiniani e Vincenzo Querini, composto nell'estate del 1513.
La convergenza di aspettative palingenetiche sulla persona del Medici fu talmente ampia, all'esterno come all'interno del S. Collegio, che malgrado i suoi trentasette anni egli fu eletto papa l'11 marzo 1513, dopo un brevissimo conclave. La sua malferma salute induceva a escludere la possibilità di un lungo pontificato. Il partito dei sostenitori, composto per lo più da cardinali "giovani" (Bandinello Sauli, Marco Corner, Raffaello Petrucci, Luigi d'Aragona, Sigismondo Gonzaga, Antonio Ciocchi, Matteo Schinner), si mosse compatto a estromettere i "vecchi", disuniti in quanto animati da ambizioni individuali. Decisiva fu la riconciliazione che il Medici aveva cercato con il cardinale Francesco Soderini, fratello di Piero e filofrancese, che gli assicurò il voto per salvare le fortune familiari e perché non voleva vedere papa il filospagnolo Raffaele Riario: l'accordo a sorpresa costrinse quest'ultimo a capitolare e a riversare per accessum sul Medici il pacchetto di voti da lui controllato.
La scelta del nome di Leone prefigurava l'impegno a mantenere la Chiesa e l'Italia, e Firenze con essa, al di fuori della soggezione alle potenze oltremontane: un compito che andava affrontato prima di tutto chiudendo con onore la sfida ecclesiologica in cui Giulio II aveva trascinato la Chiesa romana. In risposta al "conciliabolo" di Pisa-Milano, il defunto papa aveva aperto un concilio concorrente, il Lateranense V, che aveva suscitato molte aspettative di riforma della Chiesa alle quali occorreva fare fronte, mentre restava sempre aperta la ferita rappresentata dalla condizione scismatica in cui la Chiesa gallicana era venuta a trovarsi.
Essendo solo diacono, il nuovo pontefice fu ordinato sacerdote il 15 marzo 1513 e due giorni dopo fu ordinato vescovo. L'incoronazione, volutamente sobria, si svolse il 19 marzo. Solennità e fasto senza precedenti furono invece dispiegati l'11 aprile, quando, in coincidenza con l'anniversario della sua cattura a Ravenna, L. X celebrò la presa di possesso della basilica di S. Giovanni in Laterano.
L'ampia descrizione della stupefacente e costosa cerimonia fu data alle stampe. Centrale, nell'elaborazione scenografica della processione inneggiante alla maiestas del Papato, fu l'idea della continuità tra l'antico e il nuovo imperium a Roma. Tenendo conto anche dell'iconografia degli affreschi commissionati da L. X per le stanze vaticane, vi si può scorgere un riflesso dell'ideale rinascimentale di restaurazione della humana civilitas, che alla Chiesa competeva in quanto erede culturale della Roma imperiale.
Se la mite indole del papa autorizzò qualche iniziale speranza di composizione dei conflitti in atto nella penisola italiana, i sovrani europei non recedettero dalle loro intenzioni belliche e subito dopo l'elezione riaprirono le ostilità. L. X rispose con una cauta politica di salvaguardia del ruolo arbitrale del Papato.
Alla lega antifrancese stretta a Malines il 5 apr. 1513 per difendere Milano, il nuovo pontefice si limitò a dare la propria adesione segreta; e se fornì - sempre riservatamente - i fondi per pagare le fanterie svizzere a difesa del duca Massimiliano Sforza, ebbe la cautela di dichiararsi ufficialmente neutrale per non compromettere le speranze di una composizione dello scisma gallicano d'intesa con Luigi XII. La coalizione ispano-imperiale sconfisse i Francesi nella battaglia di Novara (6 giugno) e i Veneziani a Vicenza (7 ottobre), dando a L. X il vanto di coronare il sogno di Giulio II: l'Italia centrosettentrionale era sgombra dai dominatori oltremontani, i Veneziani non facevano più paura e le armate svizzere, fedeli al Papato, facevano da scudo all'indipendenza di Milano.
Battuto, Luigi XII fu costretto a sottomettersi alla mediazione che L. X gli offrì e accettò di sconfessare il "conciliabolo" di Pisa-Milano, prescrivendo al clero di Francia di recarsi a Roma per partecipare al concilio Lateranense V.
Nell'VIII sessione del concilio (19 dic. 1513), in cui si annunciò che lo scisma gallicano era stato sanato, fu prospettata una pace generale tra i principi cristiani e l'avvio della riforma della Chiesa in capite et membris. Tutte le disposizioni conciliari emanate tra il 1513 e il 1515, che avrebbero dovuto segnare una svolta, rimasero lettera morta: l'esempio più eloquente fu dato dalla bolla di riforma della Curia romana del 5 maggio 1514, emessa per combattere l'esosità e gli abusi degli ufficiali di Curia, e che si risolse invece in un rialzo delle tariffe.
Ai successi sul piano politico-diplomatico dell'esordio del pontificato di L. X si accompagnarono i primi segnali delle sue tendenze nepotistiche e il forte condizionamento esercitato sulla politica internazionale della Chiesa dall'esigenza di mantenere salda la presa sul governo di Firenze.
La scelta del nuovo capo del regime fiorentino cadde sul nipote Lorenzo, che il 10 ag. 1513 si trasferì nella città toscana munito di un'"instructione", in cui L. X gli prescrisse l'esercizio di una signoria personale dai modi temperati (edita a cura di T. Gar in Archivio storico italiano, App., I [1843-44], pp. 299-306). Contemporaneamente, sul versante ecclesiastico fu rinsaldata l'autorità della cerchia medicea: l'8 apr. 1513, Giulio de' Medici fu promosso arcivescovo di Firenze e il 23 settembre creato cardinale, insieme con Innocenzo Cibo (nipote ex sorore di L. X), Lorenzo Pucci e il fedelissimo Bernardo Dovizi da Bibbiena, segretario privato di Leone X.
Nella sua qualità di alter ego del papa, il Bibbiena contribuì a elaborare il progetto di unire al patrimonio familiare dei Medici altri possedimenti, esterni a Firenze ma funzionali al mantenimento della preminenza della famiglia nella città, refrattaria al regime signorile.
Il bacino di conquista fu localizzato nell'Emilia, area in cui la dissoluzione della potenza milanese e la crisi in cui versavano gli Este, alleati della Francia, aveva aperto spazi che favorivano il suo passaggio alla sovranità papale. Nel maggio 1513, L. X si fece cedere Parma e Piacenza, occupate nel marzo precedente dalle truppe spagnole: sua intenzione era di non devolvere le nuove conquiste alla soggezione immediata al Papato, bensì di accorparle in uno Stato pluricittadino da conferire a suo fratello Giuliano, come vicario della Sede apostolica. Non era neppure escluso che egli accarezzasse il sogno di investire i Medici del Ducato di Milano, che sarebbe andato a Lorenzo, e del Regno di Napoli, che sarebbe andato a Giuliano, al fine di sottrarre i due Stati italiani alle ambizioni delle grandi monarchie europee e associare alla causa della "libertà" della Chiesa l'ascesa dei Medici a dinastia sovrana.
Timoroso che dalla cacciata dei Francesi dall'Italia settentrionale potesse derivare un rafforzamento della presenza spagnola nell'Italia meridionale e una sua successiva proiezione sulla Lombardia, L. X intessé un filo diplomatico sotterraneo con cui si legò allo sconfitto Luigi XII, al di sotto del vincolo formale di alleanza che continuò a intrattenere con Ferdinando il Cattolico.
I volteggi della diplomazia leonina derivavano da un habitus culturale che portava a vedere nell'ambiguità negoziale una precauzione indispensabile ai più deboli. Fra le massime di prudenza politica attribuite a L. X che nel Cinquecento godettero di notorietà, si può citare quella secondo cui, quando si era fatta lega con un principe, non si doveva per questo smettere di trattare con il suo nemico; o quella di non stimare mai vano qualsiasi sospetto, e dunque premunirsi e attendere il peggio; o quella di favorire sempre la parte più debole per costringere la più forte a rinunciare all'aggressione, mantenendo così la bilancia delle forze in pareggio, senza venire alle armi e conservando la pace solo con la reputazione (in Nitti, pp. 9, 46, 301).
La doppiezza di L. X fu un antidoto all'impotenza che nei suoi risultati pratici andò spesso al di là della sua finalità cautelativa e produsse effetti opposti ai disegni. Colui che meglio descrisse il fondo enigmatico delle sue oscillazioni fu F. Guicciardini, che nella Storia d'Italia colse gli esiti contraddittori degli eccessi di timore di questo papa davanti alla riconquista francese di Milano nel 1515. Era scontato che L. X fosse totalmente contrario al ritorno della Lombardia sotto la Francia e tuttavia egli preparò, a furia di dissimulare, le condizioni che lo determinarono, pur se contro la sua volontà. Gareggiando con le potenze europee per non restare escluso dai loro giochi, L. X riuscì a procurare una pacificazione tra Inghilterra e Francia, ma quest'atto ebbe l'effetto di rendere più sicuri per Luigi XII i confini settentrionali del suo Regno, lasciandolo libero di organizzare la riconquista di Milano. Per tutto il 1514 il pontefice mostrò di assecondare i piani del sovrano francese, senza tuttavia omettere di stringere una nuova lega segreta con Ferdinando il Cattolico (21 sett. 1514).
Salito al trono di Francia Francesco I (1° genn. 1515), L. X cercò invano di sospendere la possente spedizione per il recupero di Milano decisa dal nuovo re, ma ottenne solo una concessione alle ambizioni principesche di casa Medici, con il benestare regio al matrimonio di Giuliano de' Medici con Filiberta di Savoia (25 genn. 1515).
Le nozze, che costarono a L. X ben 150.000 ducati, avrebbero dovuto facilitare l'insediamento di Giuliano nel nuovo Stato di Parma e Piacenza. La sposa, già in là con gli anni, non portò alcuna dote, ma era zia di Francesco I. A causa della morte precoce di Giuliano (17 marzo 1516), ed essendo il matrimonio rimasto sterile, l'ambizioso progetto dinastico sfumò e Filiberta tornò in Francia.
L'adesione di L. X alla potenza francese, benché limitata all'ambito parentale, fu il segnale della fine per il debole duca di Milano, Massimiliano Sforza, sostenuto da una coalizione a cui il Papato comunque partecipava in segreto e non senza una gravosa contropartita, rappresentata dai diritti milanesi su Parma e Piacenza. Su quelle terre e su Modena e Reggio L. X conferì il vicariato a Giuliano de' Medici il 25 febbr. 1515. Quando però, nell'agosto 1515, l'esercito di Francesco I comparve nella pianura padana, le truppe pontificie non opposero la minima resistenza, e si limitarono ad attestarsi sotto la linea del Po per presidiare le recenti acquisizioni medicee. La tattica particolarista di L. X fu fatale agli alleati svizzeri e non salvò la Chiesa dall'umiliazione, poiché Francesco I, trionfante a Marignano (13-14 sett. 1515), rioccupò agevolmente quelle città padane il cui possesso si rifiutò sempre di riconoscere al Papato. In cambio della rinuncia a Parma e a Piacenza, tornate a far parte del Ducato di Milano, e della restituzione - poi non osservata - di Modena e Reggio alla casa d'Este, L. X riuscì a spuntare solo concessioni a favore della propria famiglia: la protezione del regime mediceo di Firenze e l'assenso all'acquisizione di Urbino per il nipote Lorenzo de' Medici.
Francesco I pretese inoltre un incontro con L. X, ma questi, angustiato da una discesa a Roma che il sovrano francese avrebbe facilmente convertito in occupazione, spostò l'appuntamento a Bologna.
Lungo la risalita, si fermò per una settimana a Firenze (27 novembre - 3 dic. 1515), occasione in cui i suoi concittadini allestirono per lui l'ingresso trionfale (30 novembre), a cui collaborarono i più grandi artisti fiorentini. Giunto l'8 dicembre a Bologna, l'11 vi incontrò Francesco I e avviò i colloqui, durati fino al 14 dicembre, nel corso dei quali furono gettate le basi per il concordato di Bologna (18 ag. 1516) tra il Regno di Francia e la Sede apostolica. Rientrato a Roma il 28 febbr. 1516, L. X si applicò a trarre tutti i vantaggi familiari dall'accordo con Francesco I e intentò contro Francesco Maria Della Rovere un processo per fellonia, che il 14 marzo si concluse con la sua condanna e la devoluzione del Ducato di Urbino alla Chiesa.
La conquista fu completata tra maggio e giugno 1516; il 18 agosto, Lorenzo fu creato duca d'Urbino e signore di Pesaro e Senigallia, e fu nel contempo insignito del capitanato generale della Chiesa; nel novembre ottenne anche la carica di governatore di Fano. La malferma autorità del nipote di L. X sopra il suo nuovo principato consentì a Francesco Della Rovere una rapida riconquista del Ducato perduto, portata a termine con l'aiuto della Francia e di Venezia tra gennaio e febbraio 1517. Ne seguì una lunga e dispendiosa guerra, che si concluse ingloriosamente nell'ottobre del 1517 con un accordo che lasciava Urbino ai Medici ma obbligava il Papato a pagare una condotta al Della Rovere, conservandogli intatti l'esercito e le artiglierie con i quali avrebbe riconquistato il suo dominio alla morte di Leone X.
Con i suoi costi elevatissimi, la guerra di Urbino esaurì le finanze pontificie e distolse le attenzioni di L. X dalla politica europea, proprio mentre Francesco I stipulava con il nuovo re di Spagna, Carlo d'Asburgo (succeduto nel gennaio 1516 a Ferdinando il Cattolico) la pace di Noyon (13 ag. 1516) a cui seguì un piano di spartizione dell'Italia, deciso senza interpellare il Papato (trattato di Cambrai, 11 marzo 1517). Di fronte a questi eventi, forieri di nuove insidie per l'indipendenza della Sede apostolica, i piani di L. X restarono incentrati sulla piccola politica italiana. Nel marzo 1516 egli ordì un cambio di regime a Siena, condotto a termine con la collaborazione di Raffaello Petrucci, vescovo di Grosseto e castellano di Castel Sant'Angelo, il quale defenestrò suo cugino, Borghese di Pandolfo Petrucci, fratello del cardinale Alfonso, reo di essersi volto alla Spagna per meglio tutelare la patria dai tentativi medicei di piegarla alla sudditanza a Firenze.
I dissidi sorti intorno alla questione senese tra il cardinale Alfonso Petrucci e L. X furono alla radice della congiura cardinalizia, scoperta alla fine di aprile 1517 e usata a pretesto per una repressione che assunse le forme di un colpo di mano ai danni del Collegio cardinalizio, perpetrato al fine di consolidare il potere dei Medici sul governo della Chiesa.
L'idea di affrettare, mediante un incidente di caccia oppure con il veleno, l'avvicendamento al soglio di Pietro nacque in seno al partito dei cardinali "giovani", il gruppo che era stato promotore dell'elezione di L. X ma che dopo alcuni anni di pontificato era passato all'opposizione, cercando aiuto nella Spagna. Sembra che a suscitare l'insoddisfazione dei dissidenti fosse lo strapotere che L. X aveva accordato a suo cugino Giulio de' Medici, il quale, dopo essere subentrato al Bibbiena e averne ridimensionato l'autorità, aveva soppiantato il partito degli antichi sostenitori di L. X, divenendo ministro plenipotenziario nella gestione della diplomazia papale e cumulando inoltre la carica di vicecancelliere. Incriminato dalle confessioni del suo segretario, il cardinale Petrucci fu arrestato il 19 maggio insieme con il cardinale B. Sauli. L'esistenza in loro di un animus necandi suffragò l'imputazione di lesa maestà, che bastò a far saltare ogni garanzia giuridica e fu considerata estensibile a tutti coloro che erano stati messi a conoscenza della congiura e non l'avevano svelata. Ottenuta così la deroga al rispetto della dignità cardinalizia, L. X poté dar mano a una purga finalizzata alla conservazione del potere per sé e per i propri congiunti.
Il cardinale R. Riario, la cui sostituzione era necessaria ai Medici per costituire un nuovo apparato di potere curiale, fu arrestato il 29 maggio; da lui si ottenne una chiamata di correità per i cardinali F. Soderini e Adriano Castellesi, il portavoce della tendenza filoimperiale. Accusati nel concistoro dell'8 giugno, i due furono perdonati da L. X ma costretti a una composizione per una grossa somma e all'esilio. Assai peggio andò a Petrucci, Sauli e Riario, dichiarati colpevoli di tentato veneficio e condannati alla privazione del grado e dei beni, con deferimento al braccio secolare. Verso Petrucci, su cui fu riversata la principale responsabilità, L. X mostrò un'inflessibilità insolita: il ventisettenne ex cardinale senese fu giustiziato in carcere ai primi di luglio. Agli altri due ex porporati fu risparmiata la vita, ma dovettero pagare somme enormi per essere rilasciati.
Con l'azzeramento del partito cardinalizio con cui era in obbligo dai tempi del conclave, L. X fu libero di riplasmare la struttura del S. Collegio senza che nessuno dei porporati osasse opporsi a lui quando, il 5 giugno 1517, chiese l'autorizzazione a creare dodici nuovi cardinali. Con un colpo a sorpresa, all'atto ufficiale della promozione, il 1° luglio, L. X presentò una lista di eligendi che era salita al numero di trentuno.
Per questa creazione cardinalizia, folta come mai fino ad allora nella storia della Chiesa, L. X fece leva sulla condizione di remissività in cui si trovavano i membri del S. Collegio, timorosi di essere toccati dalla repressione in corso. Dei neopromossi, la grande maggioranza era costituita da congiunti, amici e clienti della famiglia Medici, appartenenti al ceto dei mercatores Romanam Curiam sequentes, molti dei quali sborsarono somme cospicue in cambio del galero (25.000 - 30.000 ducati) e impressero al S. Collegio la fisionomia di organismo dominato dalle aristocrazie italiane di estrazione cittadina e mercantile.
L'alto numero dei neoeletti consentì a L. X di promuovere pure alcune creature di principi al fine di neutralizzare, con il loro appoggio, i contraccolpi della repressione della congiura sui rapporti con la coalizione ispano-imperiale. Fra i nuovi porporati non mancavano neppure degni uomini di Chiesa e grandi intellettuali, come Egidio da Viterbo, Tommaso De Vio (il Caetano) e Adriano Florisz di Utrecht (il futuro Adriano VI).
Di pari passo con il rafforzamento di un'autocrazia papale strutturata in senso familista e venale, emerse lo svuotamento del ruolo di guida spirituale dell'Europa cristiana che invece L. X ambiva a mantenere alla Sede apostolica. Attenendosi alle prescrizioni dell'ultima sessione del Lateranense V (16 marzo 1517), egli tentò di organizzare la crociata, istituendo una congregazione cardinalizia insolitamente numerosa (13 membri), che produsse un notevole memoriale. La questione della successione imperiale, sopraggiunta nell'estate del 1518, affossò tuttavia la nuova intesa tra Sede apostolica e principi europei, che L. X ricercava quale condizione preliminare all'indizione della guerra santa.
Nell'intento di sbarrare la strada alle ambizioni di Francesco I, gettatosi nella competizione per la futura successione al titolo imperiale, l'anziano Massimiliano d'Asburgo convocò, il 27 ag. 1518, una Dieta ad Augusta, per ottenere l'elezione del nipote Carlo di Spagna a re dei Romani e mantenere così nella propria famiglia la titolarità dell'Impero. L'ipotetico avvento al trono imperiale del re di Spagna, che deteneva anche il Regno di Napoli, avrebbe riprodotto la situazione vigente sotto gli ultimi Hohenstaufen, che avevano chiuso il Papato in una morsa da Nord e da Sud: una situazione interdetta da diverse costituzioni pontificie emanate nei secoli successivi, dalle quali L. X non volle discostarsi.
Senza per questo abbracciare la candidatura di Francesco I, L. X si oppose all'elezione di Carlo d'Asburgo a re dei Romani e lavorò per l'affermazione di un terzo candidato, meno potente e minaccioso dei primi due, scelto tra i principi tedeschi del fronte avverso a Carlo d'Asburgo.
La delicatezza della questione impose a L. X di tergiversare davanti allo scandalo suscitato in Germania dalla polemica teologica di Martin Lutero. Nell'autunno del 1518 egli inviò a Federico il Saggio, duca di Sassonia, l'onorificenza della Rosa d'oro a patto che smettesse di proteggere il frate ribelle e lo consegnasse alla giustizia papale. Federico non acconsentì, ma L. X non cessò per questo di favorirlo, rinviando la risoluzione della controversia a un momento in cui più chiari sarebbero apparsi i rapporti di forza nell'Impero.
Il contrasto con la casa d'Asburgo fu accentuato dal persistere dell'opzione filofrancese, rafforzata con le nozze (25 genn. 1518) tra il nipote Lorenzo e Madeleine de la Tour d'Auvergne, imparentata con la casa reale di Francia. L'avvicinamento per via matrimoniale a Francesco I conferì una parvenza di credibilità all'appoggio che L. X finse di dargli nella corsa al titolo imperiale, nella speranza di indurre Carlo d'Asburgo a ritirare la propria candidatura. Ma la manovra si risolse in un completo fallimento.
A partire dall'autunno 1518, L. X si legò a entrambi i contendenti per tutelare alla meglio l'indipendenza dello Stato pontificio e per premunirsi contro il pericolo dell'isolamento diplomatico, la cosa da lui più temuta. In segreto, fece redigere una bolla di dispensa che avrebbe consentito a Carlo d'Asburgo di accedere al titolo imperiale senza dovere rinunciare al Regno di Napoli. Stipulò quindi due alleanze difensive (che mantenne segrete), il 20 genn. 1519 con la Francia e il 6 febbr. 1519 con la Spagna, allo scopo di riservarsi la scelta definitiva dopo l'elezione imperiale.
Il plauso che Guicciardini e Vettori, così sensibili al problema della difesa della "libertà d'Italia", tributarono alla condotta di L. X nella circostanza dell'elezione imperiale dimostra come essa fosse dettata dalla necessità di preservare, almeno con le arti della diplomazia, quell'indipendenza politica che al Papato non era più possibile sostenere con la forza delle armi. Morto Massimiliano d'Asburgo, la successione di suo nipote, con il nome di Carlo V, fu propiziata dalla mobilitazione antifrancese del mondo germanico ed ebbe luogo il 28 giugno 1519. L. X si sottomise agli eventi e scartò l'ipotesi di un'opposizione che avrebbe pregiudicato la possibilità di una composizione della crisi luterana di concerto con il nuovo imperatore. Gli rilasciò anche la bolla di dispensa per Napoli, pur mantenendo fermo il veto di estendere il dominio diretto dell'Impero in Lombardia e in Toscana (17 giugno 1519). Turbato dal pericolo di retrocedere a "cappellano" di un giovane imperatore dai così vasti possedimenti, L. X sentì comunque il bisogno di ricorrere una volta di più all'espediente della coalizione di resistenza e dopo alcuni mesi (22 ott. 1519) strinse un ennesimo accordo difensivo con Francesco I.
Seppur grandemente inquietato dall'elezione di Carlo V e dalle agitazioni provenienti dal mondo tedesco, durante tutto questo periodo L. X non smise di curare gli affari interni dello Stato pontificio, dove puntava a estirpare i domini cittadini per stabilirvi il governo diretto della Camera apostolica.
Nella primavera del 1520, le città marchigiane di Fermo, Fabriano e Recanati furono poste sotto la soggezione immediata del Papato, con la condanna a morte dei loro signori. Anche Benevento fu ricondotta alla sottomissione con la decapitazione di un capofazione locale. Per ridurre Perugia all'obbedienza, nell'aprile 1520 fu attirato a Roma Giampaolo Baglioni, messo a morte ai primi di giugno. Altrettanto energico L. X si dimostrò nella tutela dell'ordine pubblico, non esitando a mandare al patibolo un gran numero di malfattori e ribelli, anche di rango nobiliare. Non gli fu invece mai possibile occupare Ferrara, malgrado fosse riuscito a strappare a Francesco I la rinuncia a proteggere Alfonso d'Este in cambio del sostegno del Papato alla sua lotta antiasburgica (settembre 1519).
L'indipendenza di Ferrara fu a quel punto tutelata da Venezia, segretamente appoggiata dalla Francia; il gioco delle parti tra le due potenze - che dopo Urbino, si ripeté per Parma e Piacenza e per Ferrara - fornì a L. X la prova dell'inaffidabilità dell'alleato francese, deciso non solo a conservare Milano ma anche a mantenere un caposaldo nella regione emiliano-romagnola.
La morte del cardinale Bibbiena (9 nov. 1520), che in Curia era stato il più fervido sostenitore dell'intesa con Francesco I, liberò L. X del maggiore ostacolo al nuovo clamoroso rovesciamento delle alleanze in senso filoasburgico, che contrassegnò l'ultima fase del suo pontificato. Il trattato segreto con Carlo V dell'11 dic. 1520 si limitava a un accordo ufficioso, concepito nel tipico spirito doppiogiochista della diplomazia leonina, che non annullava quello contemporaneamente in vigore con Francesco I.
Oltre che dalla necessità di difendere gli interessi temporali del Papato nell'area padana, il trattato fu dettato dall'impellenza di concordare con Carlo V una risposta alla contestazione luterana.
Nell'impreparazione di L. X a raccogliere tale sfida si è sempre visto un segno dei limiti della sua cultura religiosa, inficiata da superficialità ed estetismo; ma a prescindere dalla personale sensibilità del papa, il quale certo non dovette comprendere le conseguenze della dottrina luterana, in Curia giudicata semplicemente come irragionevole e oltraggiosa, la lentezza con cui egli procedette sulla via del confronto fu dettata da una tattica dilatoria, rivelatasi poi sbagliata, derivante dal primato che la tutela della libertas della Sede apostolica aveva nelle vedute dei curiali, specialmente di nazionalità italiana.
Non va inoltre sottovalutata la moderazione di L. X in campo teologico, testimoniata fra l'altro dalla considerazione da lui mantenuta per Erasmo da Rotterdam malgrado le denunce degli zelanti, che additavano in lui il vero responsabile dell'attacco alla Chiesa romana per mezzo della Bibbia. Verso L. X Erasmo profuse lodi e attestazioni di ossequio, fra cui la dedica della sua edizione del Nuovo Testamento (1515) e delle opere di s. Girolamo (1516). In cambio, ne ebbe la dispensa papale dai voti monastici, anche se non fu chiamato, come forse avrebbe desiderato, alla corte di Roma, dove si annoveravano troppi suoi nemici.
Una fede colta e misurata, ma congenitamente tiepida, non poté infondere in L. X la risolutezza necessaria a prendere in pugno gli eventi quando si evidenziarono, attraverso la polemica luterana sulle indulgenze, i contraccolpi di una fiscalità pontificia che egli stesso aveva contribuito a espandere con la sua prodigalità e con le sue ambizioni familiste dall'alto costo. Propenso a soffocare lo scandalo attraverso l'intrigo sotterraneo, L. X tentò di ottenere la ritrattazione delle Novantacinque tesi attraverso un provvedimento disciplinare interno all'Ordine agostiniano. Dopo avere inutilmente consentito che il giudizio sulle dottrine di Lutero fosse dibattuto in Germania, L. X decise la convocazione del frate ribelle - affidata al legato pontificio, il generale dei domenicani Tommaso De Vio - per tradurlo a Roma se ostinato, oppure per scomunicarlo se contumace. Davanti al rifiuto opposto da Lutero alla citazione (7 ag. 1518), L. X, che non intendeva venire a rottura con Federico di Sassonia, adottò un atteggiamento morbido, mantenendo in sospeso il processo romano per eresia. Nel frattempo non mancò di fornire chiarimenti intorno alla dottrina delle indulgenze (9 nov. 1518), che però non bastarono a fermare l'ondata antiromana dilagante in Germania. Dopo l'elezione di Carlo V, L. X non ebbe più ragioni di fare concessioni a Federico di Sassonia; ai primi di gennaio del 1520, il processo contro Lutero fu ripreso e affidato a una commissione speciale, presieduta dal papa, che riprese le censure già formulate dalle facoltà teologiche di Colonia e di Lovanio nel 1519 e formulò la condanna di quarantuno opinioni di Lutero come contrarie alla fede cattolica, espressa con la bolla Exsurge Domine (15 giugno 1520).
L'esordio di Carlo V fu giudicato dal papa deludente, a causa del rifiuto di condannare Lutero con la sua sola autorità. Pretendendo che il frate ribelle fosse giudicato dalla Dieta imperiale di Worms (27 genn. 1521), Carlo V volle in realtà coinvolgere i rappresentanti di tutta la Germania in una condanna che aveva già deciso, e che fece accompagnare dal bando contro Lutero (19 aprile - 25 maggio 1521). L'intransigente risposta data da Carlo V alle provocazioni di Lutero rincuorò L. X, spingendolo ad avvicinarsi a lui anche sul piano della politica europea.
Ancor prima di conoscere l'esito della competizione tra l'Asburgo e il Valois, era ben noto che "chi sarà di questi due re eletto, di necessità caccia l'altro d'Italia" (in Nitti, p. 231). L'8 maggio 1521 fu stipulata una lega tra Papato e Impero contro Turchi, eretici, Francesi e Veneziani, che incluse allettanti contropartite per L. X sia sul piano spirituale (la messa al bando nell'Impero di dottrine e scritti antipapali), sia sul piano della politica temporale pontificia (la devoluzione di Parma, Piacenza e Ferrara) sia sul piano degli interessi familiari (la protezione imperiale del regime mediceo a Firenze).
Dopo avere cercato per anni di allontanare un simile scenario, L. X vi tese infine con tutte le sue forze, finanziando quasi interamente la campagna finalizzata all'espulsione dei Francesi dall'Italia. L'esercito pontificio-imperiale fu posto sotto il comando del capitano generale Prospero Colonna e del marchese di Mantova, Federico Gonzaga, il capitano delle truppe papali assistito a Roma dal suo ambasciatore Baldassarre Castiglione; le fanterie spagnole furono condotte da Ferdinando Francesco d'Avalos marchese di Pescara. Commissario straordinario distaccato da L. X presso l'esercito fu F. Guicciardini, dal 1516 governatore di Modena e Reggio. Sotto costoro militava anche il nipote del papa Giovanni de' Medici, più tardi noto come Giovanni dalle Bande Nere.
Dopo un infelice avvio della guerra, L. X pose al comando supremo dell'armata pontificia il cardinale Giulio de' Medici, che marciò su Milano provocando la sollevazione, il 19 nov. 1521, contro i Francesi, costretti a lasciare la capitale, mentre le altre città del Ducato aprivano le porte ai vincitori e Parma e Piacenza tornavano alla Sede apostolica. Il 25 nov. 1521, di ritorno dalla sua villa della Magliana, L. X celebrò la vittoria con un ingresso trionfale in Roma.
Emozioni e bagordi finirono di consumare un fisico già prostrato dalle malattie e la notte del 1° dicembre 1521 L. X morì. Ebbe funerali modesti e una povera sepoltura in S. Pietro; in seguito il suo feretro fu trasportato in S. Maria sopra Minerva e onorato di un monumento funebre disegnato da Antonio da Sangallo ed eseguito da Baccio Bandinelli e Raffaello da Montelupo.
Il profilo etico-religioso di L. X, al di là della sua incapacità di comprendere la portata della crisi aperta dalla protesta di Martin Lutero - da lui giudicata una "bega di frati" -, ha sempre suscitato forti perplessità. Gran signore dai modi piacevoli e dal gusto raffinato, amante della musica e della poesia, non trascurò di coltivare buoni costumi, devozioni religiose e pratiche caritative; ma certo ebbero maggior peso, nel determinare la sua fama, i vizi a lui imputati. Attaccato ai godimenti della mondanità, egli non fece distinzione tra i passatempi poco raccomandabili per un papa (la poesia profana, di cui era abile improvvisatore, i piaceri della tavola, la caccia, il gioco d'azzardo, gli scacchi) e quelli indecorosi (le buffonerie di cui erano piene le sue giornate, le relazioni intime con i suoi camerieri), a cui si abbandonava con levità di spirito.
Dai celebri ritratti di Raffaello e di Sebastiano del Piombo, e ancor più dalla statua all'Aracoeli, si evincono pinguedine e un volto floscio, poco espressivo. Il suo senso religioso non si tradusse in un'autentica tensione e restò confinato a un'attitudine di pensiero espressa in toni ironici e disincantati. Non fu però un miscredente; la celebre battuta a lui attribuita: "Quanti vantaggi ci procura, questa favola di Cristo!" ("Quot commoda dat nobis haec fabula Christi") sembra frutto di calunniosa invenzione, germinata in ambito protestante e sorta forse sulla base di un'espressione tralatizia, ripresa dall'Apologeticum di Tertulliano. Più genuinamente attribuibili a lui altri detti come "Lasciateci godere in pace il papato!", tante volte addotti a suo biasimo nei secoli successivi. Non sapendo prendere le distanze dal clima frivolo della sua corte, L. X si dimostrò più compiacente del dovuto verso gli abusi che in essa proliferavano, soprattutto a causa dell'avidità dei suoi connazionali fiorentini. Il ricorso a massicce creazioni di nuovi uffici venali, suggeritogli dai consiglieri come il mezzo più rapido per rimpinguare di denaro fresco le sue casse, diede esca alle polemiche contro esosità e parassitismo dell'apparato amministrativo della Chiesa romana e contro la spregiudicatezza con cui usava accumulare e sperperare le ricchezze. In soli due anni, dal 1513 al 1515, il tesoro di Giulio II fu dissipato; l'inutile guerra di Urbino ebbe un costo che oltrepassò gli 800.000 ducati. Secondo i calcoli del cardinale camerlengo Francesco Armellini, L. X spese circa quattro milioni e mezzo di ducati, lasciandone altri 400.000 di debito alla sua morte.
Gli si devono tuttavia riconoscere alcune benemerenze, maturate innanzitutto attraverso il favore che egli accordò alle osservanze degli ordini mendicanti. Con la bolla Ite vos (1517), L. X risolse definitivamente la controversia tra conventuali e osservanti all'interno del francescanesimo, con la separazione in due rami distinti. Sempre in appoggio all'osservanza francescana, conferì l'approvazione canonica a un'istituzione controversa come il Monte di pietà. Approvò pure, con apposita bolla, la Compagnia del Divino Amore (1516-17); dichiarò erronea la dottrina di Pietro Pomponazzi, che negava l'immortalità dell'anima e affermava il criterio della doppia verità, incaricando Agostino Nifo di scriverne la confutazione. Condannò la magia e la divinazione, protesse gli ebrei, i greci d'Occidente e gli indiani d'America dalle ingiuste oppressioni.
La prima e più importante sua opera a beneficio della Chiesa fu il proseguimento e la chiusura del concilio Lateranense V, operazione di sutura diplomatica che tuttavia non riservò alcun futuro alle disposizioni di riforma stabilite dal concilio; vanificando gli aneliti palingenetici sorti nella Cristianità, la cosa tornò a vergogna e detrimento della Chiesa romana. È anche possibile vedere nelle insufficienze di L. X sul piano pastorale i sintomi di un processo storico di lungo periodo che condannò il Papato a recedere dinanzi alla crescita tumultuosa delle prerogative delle grandi monarchie e degli Stati territoriali europei, anche in campo religioso. È innegabile che, sotto il suo governo, la Sede apostolica soffrì di un arretramento di posizioni nei confronti dei principi secolari. Il concordato di Bologna, se da una parte abolì la Prammatica sanzione di Bourges, dall'altra pose il clero francese alle dipendenze del sovrano. In modo analogo, L. X confermò alla Spagna i privilegi papali per la Cruzada, ma non ottenne in cambio né la revoca del diritto regio di placitazione dei decreti apostolici (la retención de bulas) né l'uniformazione dell'Inquisizione spagnola, che dipendeva direttamente dalla Corona di Spagna, al modello dei tribunali dell'Inquisizione negli altri Stati. Al re del Portogallo, Emanuele il Grande, furono dispensati ampi privilegi finanziari e giurisdizionali, per premiarne l'impegno nella lotta antimusulmana, senza potere richiedere in cambio alcuna contropartita. Anche nei confronti dell'Inghilterra L. X fu indotto a pesanti concessioni: di esse, la più gravida di conseguenze fu il cappello cardinalizio con il titolo di legatus natus de latere a Thomas Wolsey, il potente ministro di Enrico VIII, che poté unire in sé il potere politico e quello religioso e lavorare per la sottrazione di fatto della Chiesa inglese alla Sede apostolica.
Estromesso dalla regia della grande politica europea, L. X seppe rivalersi all'interno del microcosmo romano, nel quale la magnificenza da lui usata nell'adornare l'Urbe di opere d'arte, e più ancora di spettacoli effimeri, giustificò l'impiego del suo nome per indicare tutta un'età di fioritura culturale per Roma e per l'Italia. Il suo biografo Paolo Giovio avrebbe coniato la celebre associazione fra il suo pontificato e l'età dell'oro, destinata a sopravvivere come mito cortigiano. Celebre il fasto del carnevale romano, ma, a parte le feste, L. X favorì la popolazione romana anche per vie più concrete, ad esempio abbassando la gabella del sale e accrescendo l'autorità dei tre conservatori dell'Urbe. Riconoscenti, i Romani gli dedicarono nel 1521 una statua in Campidoglio, di proporzioni colossali ma di infelice fattura, trasportata nel 1876 in S. Maria Aracoeli.
Una nozione da ridimensionare è quella relativa alla portata del mecenatismo di L. X che, come effettivo promotore di imprese monumentali, restò molto al di sotto del suo predecessore, Giulio II, rispetto al quale riuscì comunque a circondarsi di pari fama di committente. La vera importanza di L. X nel campo culturale è da circoscrivere all'atmosfera, più che alle realizzazioni, che Roma conobbe sotto di lui. Al suo avvento al soglio pontificio, decise la riforma dello Studio romano (5 nov. 1513), con il proposito di renderlo il primo d'Italia e di dare a Roma il primato culturale in Europa; ma il progetto non decollò, nonostante la nomina di un folto corpo docente e la fondazione, al suo fianco, di un Collegio greco e di un'officina tipografica modellata sull'esempio di quella veneziana di Aldo Manuzio. Maggior successo ebbe l'ampliamento della Biblioteca Vaticana, dalla quale però mantenne separata la propria biblioteca privata. La sua collezione di sculture antiche fu sistemata alla villa di Belvedere, affidata alla soprintendenza di Raffaello e resa accessibile al pubblico.
Numerosi si contano, nella cerchia dei suoi ufficiali e familiari, i letterati: solo per ricordare i più noti, Bernardo Dovizi da Bibbiena, Bernardo Bembo, Giacomo Sadoleto, Angelo Colocci, Filippo Beroaldo il Giovane, Zanobi Acciaiuoli, Girolamo Aleandro e i poeti Antonio Tebaldi (Tebaldeo) e Francesco M. Molza. Con B. Castiglione e Giangiorgio Trissino ebbe ottimi rapporti; celebre invece la delusione di L. Ariosto per non sentirsi da lui apprezzato. Fu ammiratore degli esperimenti umanistici di poesia epica cristiana, dal De partu Virginis di Iacopo Sannazzaro, che fece pubblicare, alla Cristiade di Marco G. Vida, la cui composizione egli sollecitò; il suo ciceronianesimo trasparì quando prese le difese di Cristoforo Longolio. Fra i suoi concittadini, stimò in modo particolare Guicciardini, ma non mancò di impiegare anche N. Machiavelli, in disgrazia sotto di lui, per un consiglio sulla riforma del governo fiorentino in senso signorile.
Accanto a questi grandi nomi, non bisogna dimenticare lo stuolo di oscuri cortigiani letterati e soprattutto di musici, attori, improvvisatori e giullari, a beneficio dei quali L. X dissipò molta parte delle sue ricchezze. La generosità con cui usava retribuire i componimenti a lui graditi era sbalorditiva: per un carme laudatorio Angelo Colocci ricevette 400 ducati, e il Tebaldeo 500. Dal punto di vista del mecenatismo artistico, le sue realizzazioni si posero in stretta continuità con le opere intraprese sotto Giulio II. Fuori da Roma, la maggiore realizzazione in tal senso fu il completamento dell'ornato con cui Andrea Sansovino rivestì la Santa Casa di Loreto. Dentro Roma, fu proseguita l'opera di ridefinizione urbanistica con il rifacimento della via Alessandrina e di piazza del Popolo e il tracciato della via Leonina (attuale via di Ripetta). Soprattutto, curò la salvaguardia della forma Urbis antica, commissionando nel 1515 a Raffaello la pianta archeologica di Roma: in quella circostanza, il pittore lanciò l'appello per fermare la distruzione dei monumenti romani.
Insieme con la sua bottega, Raffaello fu incaricato di completare il ciclo degli appartamenti vaticani, inneggiante alla ierocrazia pontificia e al parallelismo tra le gesta di Leone Magno e gli ideali politici di Leone X. Committenza interamente sua fu la decorazione delle logge vaticane (1513-18), dove le grottesche allegoriche incorniciano le 52 piccole scene in cui si snoda la cosiddetta "Bibbia di Raffaello". Una solenne rievocazione dei primordi e dei fondamenti scritturali della Chiesa romana fu fornita da Raffaello con i cartoni per il ciclo di arazzi, eseguiti a Bruxelles, che L. X destinò alle pareti della cappella Sistina.
All'esecuzione di questi capolavori pittorici non si alternò il compimento di alcuna impresa architettonica di rilievo. La Fabbrica di S. Pietro, dopo la morte di D. Bramante (1514), non registrò avanzamenti significativi, nonostante l'avvicendarsi di sovrintendenti di fama (fra Giocondo, Raffaello, Antonio da Sangallo). All'inizio del pontificato, L. X assegnò alla Fabbrica un'entrata annua di 60.000 ducati, da ricavare per lo più dalla vendita di indulgenze, ma quando tale operazione suscitò proteste, lasciò che il cantiere si arrestasse. Dentro Firenze, le committenze del papa furono assai ridotte; non andarono oltre la sagrestia nuova di S. Lorenzo, che egli ordinò a Michelangelo come cappella sepolcrale per i suoi giovani parenti defunti.
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