LEONE XIII, papa
Vincenzo Gioacchino Pecci nacque il 2 marzo 1810 a Carpineto Romano, alle pendici dei monti Lepini, a sud di Roma. Figlio dell'agiato proprietario terriero conte Ludovico e della contessa Anna Prosperi-Buzi, fu il sesto di sette fratelli, cinque maschi e due femmine.
Il giovane Pecci fu avviato agli studi sotto la guida di precettori nella casa paterna. Nel 1818 entrò nel collegio dei padri gesuiti di Viterbo, dove rimase, insieme con il fratello Giovanni, per sei anni, conseguendo ottimi risultati. Nel luglio 1824 indossò l'abito ecclesiastico e, dopo aver perduto la madre (5 ag. 1824), si trasferì a Roma, presso il Collegio romano, dove nel 1830 venne nominato maestro assistente. Nel 1832 ebbe, grazie all'interessamento di monsignor N.M. Nicolai, la possibilità di entrare nell'Accademia dei nobili ecclesiastici, importante istituzione che raccoglieva una quindicina di giovani, i quali "avevano ciascuno un piccolo appartamento con libertà quasi completa, frequentavano i corsi del Collegio romano o della Sapienza, e seguivano nell'interno lezioni di diplomazia, economia politica e lingue straniere, che li preparavano alla loro destinazione" (G. Fraikin, Infanzia e giovinezza di L. XIII, Grottaferrata 1914, p. 376). Sul finire del 1832 il Pecci si iscrisse all'Università della Sapienza, dedicandosi agli studi in diritto canonico e civile e ottenendo, nel 1835, la laurea in utroque iure.
Il 31 dic. 1837 il Pecci ricevette l'ordinazione sacerdotale dal cardinale B. Odescalchi. Nel febbraio 1838, Gregorio XVI lo inviò delegato apostolico a Benevento. La situazione di Benevento, territorio della Chiesa chiuso all'interno del Regno delle Due Sicilie, appariva particolarmente difficile e delicata, in quanto sin dal 1815 la corte di Napoli aveva richiesto con insistenza alla S. Sede la cessione della città al Regno borbonico, anche sulla base di uno scambio di territori o di un compenso pecuniario. La richiesta non aveva avuto sviluppi, a causa della riluttanza di Gregorio XVI a privarsi di Benevento. Tale situazione aveva creato incertezza nella popolazione e scarsa disposizione al rispetto delle autorità pontificie.
Il clima politico della città era fortemente influenzato dalla presenza di nuclei di carbonari e di numerosi aderenti alla Giovine Italia, che, secondo il delegato apostolico, turbavano l'ordine pubblico, creando "spirito di sette e di fazioni". Rivolgendosi con una lettera del 1° luglio 1838 al segretario di Stato cardinale L. Lambruschini, monsignor Pecci prospettava la possibilità di procedere all'arresto degli esponenti più compromessi, inviandoli a Roma per sottoporli a giudizio. La risposta di Lambruschini, del 12 luglio, fu molto prudente. Il segretario di Stato invitava monsignor Pecci a sospendere qualsiasi iniziativa ed eventualmente a fornire ulteriori informazioni ai fini di possibili decisioni da parte della S. Sede (E. Soderini, Il pontificato di L. XIII, I, Milano 1932, pp. 92 s.). Si trattava di una prudenza dettata dal desiderio di non suscitare eccessivo clamore, per non indebolire la posizione di Roma.
Monsignor Pecci abbandonò l'iniziativa, ma continuò a dedicarsi con molto impegno al suo incarico, intensificando la lotta contro il brigantaggio, grazie alla riorganizzazione del presidio militare, e la lotta contro prepotenze e soprusi operati da alcuni nobili locali. Favorì anche l'apertura di nuove vie di comunicazione con Campobasso e Avellino e il riordinamento delle leggi doganali e amministrative. Il Pecci, nonostante qualche ingenuità iniziale, nella sua breve esperienza beneventana mostrò buone qualità di amministratore. L'8 giugno 1841 Gregorio XVI lo nominò delegato apostolico a Spoleto, dove rimase soltanto un mese, in quanto, essendo risultata vacante la sede di Perugia, il 12 luglio divenne delegato apostolico del capoluogo umbro. Nella nuova sede si adoperò principalmente a riordinare l'amministrazione della giustizia e quella comunale, dedicando una particolare cura alla viabilità della provincia, realizzando, tra l'altro, la nuova e ampia strada (prese il nome di "Gregoriana") che consentì di salire in città. Si deve al Pecci anche l'istituzione della Cassa di risparmio di Perugia, al fine di favorire il credito per commercianti, artigiani e agricoltori e sottrarli all'usura.
La sua permanenza a Perugia fu molto breve. Nel dicembre 1842, il segretario di Stato Lambruschini decise di affidargli l'incarico di nunzio apostolico in Belgio; il 2 genn. 1843 il Pecci ricevette anche l'ordinazione arcivescovile con il titolo di arcivescovo titolare di Damietta. La nunziatura di Bruxelles non era facile. In Belgio la rivoluzione del 1830 aveva favorito il successo di un sistema costituzionale ispirato alla separazione tra Stato e Chiesa e all'affermazione della libertà di culto e di insegnamento. Anche in seno al cattolicesimo belga non mancava una certa adesione ai metodi della democrazia, tanto che il cardinale Lambruschini, nelle istruzioni che dette al Pecci, sottolineò che le dottrine di F.-R. de Lamennais avevano trovato nell'alto e basso clero non pochi seguaci, invitando il nuovo nunzio a usare molta prudenza (ibid., pp. 107-111).
Una particolare attenzione da parte del Pecci fu dedicata all'applicazione della legge sull'insegnamento primario e al progetto di legge sull'insegnamento superiore. I vescovi belgi si opponevano fermamente alla modifica che stabiliva che la Commissione per l'esame di Stato (Jury d'examen) dovesse essere composta da membri nominati per un terzo dal governo e per due terzi dal Parlamento. La richiesta da parte liberale di affidare la nomina di due terzi del Jury al governo suscitò una dura reazione cattolica, che vide anche l'episcopato belga impegnato a scongiurare un provvedimento interpretato come un atto di ostilità nei confronti dell'Università cattolica di Lovanio. Il nunzio si schierò al fianco dei vescovi. Tali pressioni convinsero, nel marzo 1844, il Parlamento ad adottare un provvedimento favorevole alle istanze cattoliche. Si trattò di una vittoria anche per monsignor Pecci, ma la corte e il governo belga sembrarono non gradire lo zelo del nunzio, accusato di non svolgere correttamente il suo ruolo e di aver favorito il distacco tra l'episcopato belga e il governo, e ne chiesero quindi la sostituzione.
Le pressioni che da Bruxelles e da Vienna giunsero a Roma, convinsero la segreteria di Stato a richiamare il Pecci, affidandogli, il 19 genn. 1846, la sede vescovile di Perugia. Il Pecci lasciava la nunziatura di Bruxelles dopo circa tre anni di permanenza. Anche se la sua esperienza era stata difficile, e irta di ostacoli e si era conclusa amaramente per lui, si trattò di una scuola importante nella formazione della personalità del giovane ecclesiastico. Certamente pesarono non poco nella maturazione del futuro pontefice non solo l'attenzione portata ai problemi della miseria operaia, ma anche la conoscenza del clima costituzionale e parlamentare del Belgio e dell'azione politica e sociale condotta dai cattolici nella vita politica del loro Paese.
In quegli stessi giorni moriva Gregorio XVI e cominciava il lungo pontificato di Pio IX: un pontificato destinato a creare non pochi problemi al Pecci che, soprattutto con il segretario di Stato il cardinale G. Antonelli, mai riuscì a stabilire un rapporto di sincera collaborazione. Il Pecci tornava nella diocesi di Perugia dopo la breve esperienza vissuta nel 1841-42 quale delegato apostolico. Vi tornava con la carica di vescovo e, dal 12 dic. 1853, con la nomina a cardinale.
Nella sua diocesi non mancavano ambienti che si distinguevano per un atteggiamento ostile alla Chiesa: nuclei massonici, gruppi liberali favorevoli al regime costituzionale e all'unificazione nazionale, associazioni mazziniane e anticlericali. Egli cercò di evitare gli atteggiamenti duri e repressivi. La sua azione pastorale apparve prevalentemente orientata a operare su un piano religioso, evitando di misurarsi sul terreno politico. La sua preoccupazione principale sembrò essere la ricerca di quelle iniziative in grado di rispondere ai bisogni religiosi dei fedeli e di preparare un clero capace di affrontare i nuovi compiti che i mutamenti politici e sociali imponevano. Il suo giudizio sulla realtà religiosa della diocesi era molto critico. In una sua allocuzione non nascose la presenza nella sua diocesi di un "indifferentismo nelle cose religiose e negl'interessi spirituali", della "inosservanza dei giorni festivi", della "nausea ed infrequenza ai Sacramenti", della "licenza del vivere e immoralità" (Allocuzione pastorale recitata nella chiesa cattedrale di S. Lorenzo di Perugia nella domenica 11 sett. 1853, nell'apertura della 2a visita pastorale, Perugia 1853, pp. 5-11). Per porre rimedio a questi problemi occorreva, a suo avviso, un clero preparato. Sin dai primi anni del suo episcopato a Perugia, il Pecci ebbe particolarmente a cuore i problemi della cultura del clero, giudicando necessaria la formazione non soltanto religiosa ma anche scientifica, storica e filosofica dei sacerdoti della diocesi. A tal fine dedicò una particolare attenzione al seminario, rivedendo i programmi di studio e ispirandosi anche all'esperienza che aveva maturato a contatto con l'episcopato belga.
Egli dovette anche misurarsi con aspetti più strettamente amministrativi, e in particolare con l'inefficienza e la corruzione di cui si resero protagonisti i numerosi delegati pontifici che si alternarono in quegli anni nell'amministrazione della città: otto delegati in quattordici anni, la maggior parte dei quali, se si eccettuano i futuri cardinali D. Consolini e L. Randi, incapaci di guidare con correttezza e moralità l'amministrazione perugina. Del resto la cattiva amministrazione pontificia aveva finito per rafforzare, soprattutto nel capoluogo, le correnti liberali e massoniche e l'adesione alla causa nazionale e alla politica del Piemonte. Queste componenti della società perugina fecero sentire il loro peso nel 1859, allorché, il 14 giugno, i gruppi liberali, sostenuti anche da buona parte degli ambienti studenteschi della città, si sollevarono contro le autorità pontificie, dando vita a un governo provvisorio che rimase in carica soltanto una settimana. Le truppe pontificie, infatti, riorganizzatesi, riuscirono a riconquistare la città il 20 giugno, dopo violenti e sanguinosi combattimenti, noti come le "stragi di Perugia". Il vescovo, pur non nascondendo la sua soddisfazione per il ritorno del governo pontificio a Perugia, non mancò di lamentare la severità di alcuni provvedimenti e in particolare la decisione di chiudere l'Università, con l'obiettivo di punire gli studenti che avevano partecipato all'insurrezione. Il governo pontificio era comunque destinato ad avere ormai vita breve nel capoluogo umbro. Il 14 sett. 1860, l'esercito piemontese guidato dal generale M. Fanti conquistava Perugia; il plebiscito del 4 novembre si pronunciava a favore dell'annessione al Regno dei Savoia.
Rispetto alla questione nazionale il Pecci non aveva mai manifestato particolari accenti di simpatia per le istanze patriottiche presenti anche in molti settori della Chiesa italiana. Giudicava, inoltre, il potere temporale come una esigenza necessaria per consentire alla Chiesa il libero esercizio della sua funzione spirituale. Lentamente, tra il 1846 e il 1878, il vescovo di Perugia, nonostante il suo isolamento, aveva attirato l'interesse di alcuni autorevoli ambienti, per la sua maturità e una relativa apertura. Tale atteggiamento, che rifuggiva dai toni violenti della polemica cattolica contro lo Stato liberale, gli meritò lusinghieri giudizi da parte di qualificati esponenti della classe dirigente liberale (Soderini, I, cit., pp. 185 s.). Del resto, il vescovo di Perugia non aveva mai mancato di assumere posizioni autonome nei confronti di alcuni aspetti della politica di Pio IX. In particolare aveva giudicato intempestiva l'adesione nel 1848 alla causa italiana e altrettanto intempestivo il successivo disimpegno. Non aveva manifestato la sua piena convinzione in occasione della proclamazione dell'Immacolata Concezione. Di fronte al Sillabo, aveva sostenuto, in sintonia con il vescovo di Orléans, F.-A.-P. Dupanloup, che le varie proposizioni del documento potevano essere interpretate correttamente solo se inserite nel loro contesto storico. Infine, in seno al concilio Vaticano I, aveva assunto una posizione di equilibrio tra le correnti ultramontane e il gruppo degli antinfallibilisti. Pur riconoscendo e votando per l'infallibilità papale, riteneva necessario riconoscere maggiore dignità e autorità al corpo episcopale.
Dopo circa trent'anni di permanenza nella diocesi perugina, cominciò a maturare in lui il desiderio di un trasferimento e in tal senso ne scriveva sin dal 3 ott. 1874 al cardinale P. Caterini, prefetto della congregazione del Concilio, ma dovette attendere ancora alcuni anni prima di vedere esaudito un desiderio che sembrava incontrare molte resistenze in seno alla Curia romana. Il 22 apr. 1877, scrivendo al cardinale G. Simeoni, nuovo segretario di Stato, chiedeva che il pontefice avesse "in qualche considerazione" la sua persona "dopo trentadue anni di esercizio episcopale" e "ventiquattro nel Sacro Collegio". Chiedeva, in particolare, una sistemazione a Roma e una "posizione meno travagliosa ed un clima meno aspro specialmente nei mesi invernali" (O. Cavalleri, Documenti dell'Archivio Vaticano sull'episcopato Pecci a Perugia, in Studi sull'episcopato Pecci a Perugia (1846-1878), a cura di E. Cavalcanti, Napoli 1986, p. 217). La risposta di Simeoni fu incoraggiante. Si proponeva il trasferimento a Roma, mantenendo tuttavia la guida della diocesi, da affidare a un vescovo ausiliare. Su proposta dello stesso Pecci fu nominato il suo provicario generale monsignor C. Laurenzi. Il 4 giugno 1877 Pio IX lo autorizzò a risiedere in Roma e il 21 settembre lo nominò camerlengo di S. Romana Chiesa.
Alla morte di Pio IX, avvenuta il 7 febbr. 1878, la diplomazia europea non mancò di esercitare una forte pressione sul Collegio cardinalizio per indirizzarlo verso una scelta moderata, che avrebbe dovuto stemperare gli atteggiamenti intransigenti che avevano segnato gli ultimi anni del pontificato di Pio IX. Sin dalla prima votazione al conclave, apertosi il 18 febbraio, emerse un chiaro orientamento in favore del cardinale camerlengo. La sua candidatura fu sostenuta principalmente dal cardinale D. Bartolini, dal cardinale H.E. Manning, dall'arcivescovo di Malines cardinale V.A. Dechamps. Incontrò invece dei veti significativi a livello internazionale la candidatura del cardinale L.M. Bilio, contro il quale si erano espressi i governi francese, spagnolo e austro-ungarico. In particolare il ministro degli esteri francese W.-H. Waddington non mancò, tramite il vescovo di Orléans, monsignor Dupanloup, di sostenere la candidatura del Pecci. Il 20 febbraio, con quarantaquattro voti a favore, contro i cinque di Bilio, il cardinale Pecci fu eletto sommo pontefice, con il nome di Leone XIII. La scelta del nome era legata alla profonda ammirazione che aveva sempre avuto per le virtù di Leone XII.
Una fra le più significative novità che L. XIII introdusse nel governo politico della S. Sede fu il tentativo di ridimensionare la figura del segretario di Stato, concepito come semplice esecutore della linea politica tracciata dal pontefice. A tal fine egli intese costituire un gruppo di consiglieri, composto in gran parte da collaboratori provenienti dal clero perugino, come C. Laurenzi, G. Boccali, F. Foschi, L. Rotelli, R. Angeli e N. Marzolini. Si trattava di un gruppo di fedeli collaboratori, animati da un atteggiamento moderato, favorevole anche alla ricerca di una pacificazione tra la Chiesa e la nuova realtà politica italiana e internazionale. Quanto ai segretari di Stato, che fino ad Antonelli avevano avuto un ruolo fondamentale nella conduzione politica della S. Sede, dovendo governare un vero e proprio principato civile, che con la caduta del potere temporale era venuto meno, assunsero, nella prima fase del pontificato leoniano, una immagine piuttosto sbiadita.
L. XIII raccoglieva la difficile eredità di una Chiesa da poco uscita da un'aspra contesa e che si era scontrata con la nuova realtà degli Stati nazionali borghesi, che non le riconoscevano più l'antico ruolo in seno alla società civile, anzi, manifestavano la loro totale estraneità alla fede professata dai cittadini e, in molti casi avversione e ostilità nei confronti del fenomeno religioso e dei suoi valori. Lo stesso pontefice nella sua prima enciclica Inscrutabili Dei consilio (21 apr. 1878) descriveva la nuova realtà che aveva sconvolto gli antichi equilibri sociali e politici, con precisi riferimenti alla questione romana e alla rivendicazione dei diritti e della libertà della S. Sede. La questione romana diventò uno dei nodi più complessi e il contrasto più lacerante nella storia italiana del XIX secolo. La Chiesa si ritenne vittima di una vera e propria usurpazione e si vide costretta ad arroccarsi su posizioni difensive nei confronti del nascente Stato nazionale italiano, rifiutando e condannando le basi ideologiche del liberalismo. "Non cesseremo mai di esigere, affermò L. XIII, che la Nostra Autorità sia rispettata, che il Nostro Ministero e la Nostra Potestà si lascino pienamente liberi e indipendenti, e Ci sia restituita la posizione che la Sapienza divina da gran tempo aveva formato ai Pontefici di Roma" (Acta, I, p. 50).
Il problema del rapporto con la società civile e politica italiana fu uno degli aspetti più difficili e complessi con cui il nuovo pontefice dovette confrontarsi. Come ha sottolineato F. Chabod, il mito della terza Roma, di "Roma centro della scienza, di pensiero laico rinnovatore del mondo" fu un "motivo intonato da un folto coro e continuamente riecheggiante. Dilagò l'anticlericalismo, con le sue unioni dei liberi pensatori, dagli ambiziosi e ottimistici programmi; e in quelle forme e modi fu, sì, ovvia reazione all'atteggiamento politico della curia romana e dell'alto clero e dei gesuiti di fronte all'unità d'Italia […] ma fu anche espressione della credenza in una prossima, inevitabile trasformazione della vita morale dell'umanità, sulle rovine del credo religioso innalzantesi al culto della scienza e del progresso, e quindi si intrecciò e fuse strettamente con l'anticlericalismo europeo, segnatamente con quello francese, di identico stampo culturale e di identiche radici illuministiche, positivistiche massoniche, e con l'anticlericalismo francese festeggiò, nel 1878, il centenario della morte di Voltaire apostolo della guerra contro il fanatismo, la superstizione, la religione" (F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Bari 1965, p. 254).
Di fronte a questa situazione, il 20 apr. 1884 L. XIII condannò, con l'enciclica Humanum genus, la massoneria e le sette ostili alla Chiesa, che "con lungo ostinato proposito" miravano a impedirne l'influenza, il magistero e l'autorità, e riaffermavano "la piena separazione della Chiesa dallo Stato". "Leggi di odiosa parzialità si sanciscono contro il clero, cosicché vedesi stremato ogni dì più e di numero e di mezzi. Vincolati in mille modi e messi in mano allo Stato gli avanzi dei beni ecclesiastici: i sodalizi religiosi aboliti, dispersi" (Acta, IV, pp. 52 s.).
Se i predecessori di L. XIII si erano soffermati sugli aspetti che rendevano la massoneria pericolosa non solo per la fede ma anche per la stabilità e la sicurezza degli Stati, L. XIII sembrò sottolineare altri fattori. Accanto al tradizionale richiamo alla lotta tra il regno di Dio e il regno di Satana vi era la preoccupata constatazione che l'influenza massonica fosse ormai penetrata nei gangli stessi della società civile, influenzandone le scelte sempre più ispirate al laicismo e all'anticlericalismo. Ma l'enciclica Humanum genus andò al di là di questi problemi. Nella parte finale era possibile cogliere un richiamo ai cattolici, un invito ad alimentare e rafforzare le loro organizzazioni e associazioni, dal Terz'ordine francescano alla Società di S. Vincenzo, ai collegi e ai corpi di arte e mestieri. Si trattava di un invito ricorrente nel magistero leoniano, rintracciabile anche in successivi interventi ed encicliche.
Rispetto alla questione romana e ai rapporti tra Stato e Chiesa in Italia non mancò, nella prima fase del pontificato di L. XIII un sia pur timido tentativo di arrivare a una pacificazione. Infatti, tra il 1884 e il 1887, il presidente del Consiglio F. Crispi fece balenare la disponibilità del governo a risolvere la questione romana. L'ipotesi fu alimentata, oltre che dalla pubblicazione di un opuscolo di p. L. Tosti dal titolo La conciliazione (Roma 1887), anche da un discorso del vescovo di Cremona, monsignor G. Bonomelli, pronunciato nel febbraio 1887 per i morti di Dogali, in cui il sacrificio dei giovani soldati italiani veniva elevato a simbolo di riconciliazione tra la religione e la patria.
Il 23 maggio 1887 lo stesso L. XIII sottolineò il suo forte desiderio che venisse "tolto finalmente di mezzo il funesto dissidio col Romano Pontificato", pur ribadendo l'esigenza di una "piena e vera libertà" della S. Sede. Ma questi segnali non ebbero l'esito sperato, anzi, il conflitto riprese con asprezza, alimentato, il 10 giugno 1887, da un discorso di Crispi. Ferma la replica del pontefice, il quale, il 15 giugno, in una lettera al cardinale M. Rampolla, affermò che, "per giungere a stabilire la concordia", non erano sufficienti accordi parziali o di natura giuridica, ma occorreva principalmente che venisse "regolata come conviene la condizione del Capo supremo della Chiesa, da molti anni per violenze ed ingiurie addivenuta indegna di Lui e incompatibile colla libertà dell'apostolico officio" (Acta, VII, p. 141).
Le speranze che maturarono negli ambienti conciliatoristi nel 1887, suggerirono a monsignor G. Bonomelli, che aveva anche il sostegno del vescovo di Piacenza, monsignor G.B. Scalabrini, un nuovo intervento in grado di tenere desto il problema per non lasciar cadere gli auspici di pacificazione tra Stato e Chiesa. Il dibattito intorno alla soluzione della questione romana si riaccese, il 1° marzo 1889, con la pubblicazione sulla Rassegna nazionale di un articolo dal titolo, Roma e l'Italia e la realtà delle cose. Pensieri di un prelatoitaliano. Autore dell'articolo, apparso anonimo, era lo stesso Bonomelli, che sosteneva l'esigenza del superamento del potere temporale della Chiesa. Lo Stato italiano, tuttavia, non poteva, secondo Bonomelli, ridurre il papa alla condizione di un vescovo o di un semplice cittadino. Al pontefice doveva essere assicurato "un tratto di territorio abbastanza vasto, dove a suo agio si possa muovere, dove sia libero di sé, padrone e re". Il vescovo di Cremona proponeva, a tal fine, la riva destra del Tevere, con una striscia fino al mare e con una zona di qualche chilometro dietro il Vaticano, dove dar vita a una nuova città. Invitava poi il governo italiano a essere più arrendevole e a non osteggiare il clero.
Il pontefice condannò duramente l'articolo. Seguì una lettera di sottomissione e la pubblica dichiarazione di monsignor Bonomelli, nel suo pontificale della Pasqua del 1889, allorché confessò di esserne l'autore. L'episodio svelò con grande chiarezza che sul piano formale la S. Sede manteneva ferme le sue posizioni e la sua intransigenza nei confronti dello Stato italiano. Anche il problema dell'astensionismo elettorale dei cattolici trovò una conferma ufficiale da parte di L. XIII, con un decreto del S. Uffizio del 1886, nel quale si precisava che il non expedit andava inteso come proibizione alla partecipazione dei cattolici italiani alle elezioni politiche.
La situazione della Chiesa appariva particolarmente delicata anche nei rapporti con altri governi europei. Gli atteggiamenti ostili nei confronti dei movimenti liberali, costituzionali e nazionali che erano emersi nell'Europa di metà Ottocento avevano determinato un isolamento della Chiesa e il venir meno di antichi rapporti con le maggiori potenze del continente.
In molti Paesi si erano accentuati gli atteggiamenti ostili nei confronti delle istituzioni ecclesiastiche. In particolare in Francia, dove la Terza Repubblica si segnalava per le posizioni ispirate a un forte radicalismo antireligioso, che aveva finito a sua volta per provocare un atteggiamento di rifiuto, da parte dei cattolici francesi, del nuovo regime repubblicano. In Germania, O. Bismarck non solo aveva fondato la base dell'Impero tedesco sul protestantesimo prussiano, ma con il Kulturkampf aveva avviato un duro conflitto con la Chiesa tedesca. Inoltre, la Russia scismatica e l'Inghilterra riformata non apparivano disponibili a sostenere le ragioni della Chiesa romana, mentre la monarchia asburgica, tradizionale sostegno della Chiesa, si accingeva a stringere con l'Italia e la Germania un'alleanza che rischiava di isolare maggiormente la S. Sede.
Tuttavia, anche se l'avvento di L. XIII non sembrò modificare l'indirizzo del suo predecessore, era possibile cogliere nel nuovo pontefice quella prudenza che confermava la sua fama di uomo ponderato, che evitava i toni aspri e la polemica sulle rivendicazioni temporaliste, pur mantenendo ferma la posizione ufficiale della S. Sede e la sua protesta nei confronti del Regno d'Italia per le condizioni che le erano state imposte. Tale atteggiamento si accompagnò a una politica attenta a ricucire i rapporti con le potenze europee e, soprattutto, a sottolineare la disponibilità della Chiesa a confrontarsi con gli Stati e i governi nati sull'onda delle rivoluzioni liberali e nazionali, invitando i cattolici dei vari paesi ad abbandonare l'atteggiamento di rifiuto nei confronti dei governi e delle leggi del proprio paese.
Il 29 giugno 1881, con l'enciclica Diuturnum, L. XIII sottolineava che ogni potere veniva da Dio, e ricordava che "i primi cristiani, tormentati crudelmente ed ingiustamente dagli imperatori pagani, non hanno mai mancato al dovere dell'obbedienza e del rispetto" (Acta, II, pp. 69-87). La sua attenzione era diretta in particolare alla realtà francese, affrontata con l'enciclica Nobilissima Gallorum gens del 10 febbr. 1884, nella quale non nascose le difficoltà che la Chiesa aveva incontrato in Francia, ricordando gli interventi sul governo di Parigi da parte del nunzio apostolico, e sottolineando il desiderio che in Francia si conservasse la religione ricevuta dai maggiori. L. XIII non mancava, poi, di invitare il clero e i cattolici francesi a uscire dalla loro profonda ostilità nei confronti della Repubblica, sottolineando l'esigenza di una concordia tra potere civile e religioso.
Queste indicazioni furono riaffermate anche in altri documenti leoniani. Con l'enciclica del 1° nov. 1885, Immortale Dei, sulla costituzione cristiana degli Stati, L. XIII riprendeva alcune indicazioni contenute nella Diuturnum, riaffermando l'accettazione da parte della Chiesa di qualsiasi forma di governo, purché orientata verso il bene comune dei cittadini. Tuttavia, l'orientamento generale dell'enciclica era chiaramente indirizzato all'idea di un impegno pieno del laicato cattolico nella vita politica e sociale degli Stati. Nella successiva enciclica Libertas, del 20 giugno 1888, L. XIII sottolineò l'attenzione della Chiesa per le libertà moderne, precisando che "ogni volta che eretici e novatori sorsero ad impugnare la libertà umana, fu la Chiesa che apertamente le difese, e non permise mai che si attentasse impunemente ad una prerogativa sì preziosa" (Acta, VIII, p. 215). L'enciclica rappresentò un chiaro superamento delle indicazioni della Quanta cura e del Sillabo, che avevano messo in guardia i cattolici contro l'emergere delle moderne libertà. L. XIII sottolineava il valore della libertà, e mostrava di apprezzare quanto di bene e di vero fosse presente nelle aspirazioni moderne. Distingueva, poi, le varie forme di libertà. In particolare, riconosceva la libertà di parola e di stampa, con i limiti necessari a impedire che si trasformasse in licenza. Chiedeva allo Stato leggi di garanzia, reclamando anche per la Chiesa quelle libertà che dovevano servire alla difesa della verità e della moralità.
Questi documenti pontifici, anche se non possono essere interpretati come una rottura con gli indirizzi del passato, costituirono una non trascurabile base dottrinale ai fini di un riavvicinamento tra la Chiesa e le nuove istituzioni politiche emerse in Europa. Si trattava di indirizzi che trovarono la loro diretta applicazione nella politica diplomatica di L. XIII con la Germania e con la Francia. I contrasti tra S. Sede e Germania cominciarono a smorzarsi nel 1885, allorché, in seguito a un conflitto tra l'Impero tedesco e la Spagna per le isole Caroline, il governo di Madrid propose una mediazione affidata al papa e accolta da Guglielmo I. La mediazione di L. XIII ebbe successo e aprì alla S. Sede nuova credibilità internazionale e soprattutto un avvicinamento nei confronti della Germania. La diplomazia pontificia, grazie soprattutto all'opera svolta da monsignor L. Galimberti, responsabile della congregazione per gli Affari ecclesiastici straordinari, nel corso di alcune missioni a Berlino, convinse Bismarck, nel maggio 1887, a porre fine alla politica del Kulturkampf. Fu un importante successo, conseguito nonostante la ferma intransigenza del partito cattolico del Zentrum, capeggiato da L. Windthorst, che rivendicava la propria autonomia sul terreno politico e non gradiva le pressioni che da Roma invitavano i cattolici tedeschi ad attenuare la loro opposizione a Bismarck. Altre resistenze alla politica di distensione nei rapporti con la Germania si ebbero da parte di ambienti della Curia romana vicini alla Francia, capeggiati dal cardinale polacco M. Ledochowski.
La fine del Kulturkampf e della persecuzione religiosa in Germania, interpretata come una "piccola Canossa" di Bismarck, favorita anche dal tentativo del cancelliere di utilizzare il sostegno cattolico per fronteggiare la crescente opposizione socialista, consentì la riapertura di numerosi seminari, la riammissione delle congregazioni religiose in Alsazia e Lorena, la piena libertà dell'attività e delle funzioni religiose. Le visite di Guglielmo II in Vaticano, nel 1888, 1893 e 1903, testimoniarono la ritrovata armonia tra Germania e S. Sede, anche se non riuscirono a coinvolgere la Germania a difesa della S. Sede nella questione romana.
Questo atteggiamento provocò un mutamento nella politica filogermanica del Vaticano e l'emergere di un indirizzo diplomatico nuovo, orientato verso un riavvicinamento alla Francia. L'avvento del cardinale M. Rampolla alla segreteria di Stato nel 1887, determinò una forte sterzata alla linea di Galimberti, che fu inviato nunzio apostolico a Vienna. Secondo Rampolla l'appiattimento della politica vaticana nei confronti della Germania, insieme con la riluttanza tedesca a indebolire la Triplice alleanza e a difendere il papa di fronte al governo italiano, rischiava di isolare la S. Sede. Sul piano internazionale, la linea di Rampolla assunse, quindi, un chiaro significato antitriplicista, sostenendo con convinzione una politica di ralliement con la Repubblica francese, arrivando, addirittura, a vagheggiare un'alleanza tra Francia, Russia e S. Sede, in funzione temporalista.
La politica del governo francese dopo la sconfitta di Sedan, la caduta di Napoleone III e l'avvento della Repubblica (1870-71), appariva animata da un esasperato laicismo, manifestatosi con provvedimenti legislativi anticlericali, quale la legge Ferry del 1880 contro le congregazioni religiose, la reintroduzione del divorzio, la soppressione dell'insegnamento religioso nelle scuole e l'espulsione dei gesuiti. Di fronte a questa politica L. XIII, scrivendo sin dal 12 maggio 1883 al presidente della Repubblica J. Grévy, manifestò la sua "impressione ben dolorosa" nel vedere la Francia, "questa figlia primogenita della Chiesa, alimentare nel suo seno le lotte religiose e perdere conseguentemente quell'unione e quella omogeneità tra i cittadini che è stata pel passato l'elemento principale della sua vitalità e della sua grandezza". La risposta di Grévy indicò soprattutto nell'atteggiamento ostile del clero e dei cattolici francesi nei confronti della Repubblica la causa principale del conflitto, invitando il pontefice a intervenire su di essi al fine di "una pacificazione così desiderabile" (E. Vercesi, Tre papi. L. XIII, Pio X, Benedetto XV, Milano 1929, pp. 52 s.). L. XIII non respinse questo invito. La sua azione mirò soprattutto a convincere i cattolici francesi a uscire dal loro atteggiamento ostile alla Repubblica, che li aveva portati a sostenere la causa legittimista e monarchica del conte di Chambord e, dopo la sua morte (1883), le istanze reazionarie e nazionaliste di G. Boulanger.
Per ottenere questo risultato, L. XIII si avvalse del cardinale Ch. Lavigerie, figura tra le più significative della Chiesa francese, primate d'Africa, arcivescovo di Algeri e di Cartagine, delegato apostolico del Sahara, fondatore dei padri bianchi per le missioni africane. Il 10 e il 14 ott. 1890 Lavigerie fu ricevuto da L. XIII che lo invitò ad aprire un nuovo corso nella politica dei cattolici francesi verso la Repubblica. Tornato ad Algeri, il 12 nov. 1890, nel corso di un banchetto offerto alle autorità militari e civili della colonia francese, l'arcivescovo dichiarò: "Quando la volontà di un popolo si è affermata irrevocabilmente, quando la forma di un governo non contrasta affatto, come Leone XIII ha dichiarato in questi ultimi tempi, i principii sui quali debbono fondarsi le nazioni cristiane e civili, quando l'adesione sincera a quella forma di governo è necessaria per strappare il proprio paese alla rovina che lo minaccia, bisogna dichiarare che non c'è più ragione di opporvisi; e sacrificare, per mettere termine alle nostre divisioni, tutto ciò che la coscienza e l'onore ci permettono, anzi ci ingiungono di sacrificare per la salvezza della patria" (A. Dansette, Chiesa e società nella Francia contemporanea. La terza Repubblica, 1879-1930, II, Firenze 1959, p. 115). L'apertura di Lavigerie, accolta con soddisfazione da parte delle autorità politiche e civili, incontrò non poche resistenze negli ambienti cattolici francesi intransigenti e legittimisti, che trovarono l'espressione più significativa ne La Croix dei padri assunzionisti, diretta da padre A. Bailly. Anche una parte significativa dell'episcopato francese e di molti ordini religiosi, ostili alla Repubblica e animati da nostalgie monarchiche, si mostrò insofferente a ricevere ordini da Roma, accusando, nientemeno, la S. Sede di collusioni con la massoneria.
L. XIII continuò a insistere, inviando ai Francesi, il 16 febbr. 1892, una nuova enciclica, Au milieu, nella quale ribadì con forza il suo pensiero: "Noi crediamo opportuno, anzi necessario, di alzare nuovamente la voce per esortare più insistentemente, non diremo soltanto i cattolici, ma tutti i Francesi onesti e sensati, a respingere da sé ogni germe di dissensi politici, alfine di consacrare unicamente le loro forze alla pacificazione della loro patria. Di questa pacificazione tutti comprendono l'alto pregio, tutti ognora più l'affrettano coi loro voti. E Noi che la desideriamo più di tutti, poiché rappresentiamo sulla terra il Dio della pace: Non è infatti Dio di discordia ma di pace (Corinzi XIV, 33), invitiamo con le presenti lettere le anime rette, i cuori generosi a secondarci per renderla stabile e feconda" (Acta, XII, p. 21). Tuttavia, la resistenza di una parte consistente del cattolicesimo francese segnò sostanzialmente il fallimento del ralliement di L. XIII. Quella resistenza finì per provocare nuove chiusure da parte dei governi repubblicani, che si distinsero ancora per ulteriori atteggiamenti anticlericali, che trovarono nuovi motivi per manifestarsi in occasione dello scandalo del canale di Panama e, soprattutto, dell'affare Dreyfus, culminando nel 1901 con la legge di Waldeck-Rousseau sulle associazioni e, nel 1905, con la separazione tra Stato e Chiesa.
Nonostante gli esiti negativi, la vicenda francese dimostrò che L. XIII aveva colto con sufficiente chiarezza la fine dei tempi dell'alleanza tra trono e altare, di quel sostegno reciproco tra la Chiesa e le monarchie assolute, che aveva contrassegnato le politiche dell'Ancien Régime. Di qui la sua attenzione, oltre che agli accordi di vertice, alla necessità di una presenza viva e partecipe del laicato cattolico nei vasti processi di trasformazione della società civile e dell'economia.
Il pontificato di L. XIII si segnalò anche per un nuovo indirizzo in campo missionario. Si trattava di un impegno teso a incrementare lo sviluppo delle strutture missionarie, favorito per molti aspetti sia dalle numerose esplorazioni geografiche, sia soprattutto dalla nascita dei grandi imperi coloniali asiatici e africani. Certamente le missioni cattoliche avevano conosciuto vantaggi e privilegi da alcune potenze coloniali, quali per esempio la Francia. Tuttavia questa situazione rischiava di accentuare il rischio che la cultura e la civiltà europee venissero a sovrapporsi e ad annullare le specificità delle società e delle culture locali, togliendo credibilità e influenza alle religioni missionarie. Emergeva, quindi, in L. XIII la convinzione di modificare la politica missionaria, privilegiando la possibilità di favorire la formazione del clero locale indigeno. Il 3 dic. 1880, l'enciclica Sancta Dei Civitas denunciava le difficoltà conosciute dall'attività missionaria e l'affermazione dell'esigenza di promuovere le opere di sostegno delle missioni. La successiva enciclica missionaria, Catholicae Ecclesiae, del 20 nov. 1890, invitava i cattolici a sostentare le missioni al fine di combattere le pratiche schiaviste. Tra l'altro L. XIII non mancò di favorire la formazione nei vari paesi di associazioni antischiaviste. Il 24 giugno 1893, con l'enciclica Ad extremas Orientis oras (ibid., XIII, pp. 180-197), mostrava la sua attenzione per le sorti religiose delle Indie. Nei confronti della Cina, dopo le persecuzioni religiose xenofobe contro le missioni, culminate nel 1900, L. XIII cercò di superare questa situazione con la costituzione di una nunziatura a Pechino, particolarmente osteggiata dalla Francia.
Si coglieva quindi nella Chiesa di L. XIII la convinzione che, resosi ormai impraticabile qualsiasi ritorno al potere temporale, fosse opportuno superare la dimensione quasi esclusivamente europea che aveva contrassegnato la presenza della Chiesa, aprendosi alla realtà di nuovi mondi. Si trattava di un progetto che rispondeva alle esigenze di un mondo in trasformazione, che non ebbe tuttavia immediata applicazione, anche se preparò il terreno per l'opera dei suoi successori.
L. XIII aveva manifestato, soprattutto a partire dagli ultimi anni del suo episcopato perugino, particolare attenzione ai problemi sociali e alla questione operaia. Su questi problemi era tornato sin dal primo anno del suo pontificato, con due encicliche: Inscrutabili Dei consilio (21 apr. 1878) sui mali della società e Quod Apostolici muneris (28 dic. 1878) sul socialismo, nichilismo e comunismo. Ma l'intervento più importante di L. XIII sulla questione operaia e sulle trasformazioni economiche provocate dall'espansione del capitalismo industriale fu l'enciclica Rerum novarum, pubblicata il 15 maggio 1891, che volle essere la risposta della Chiesa a una situazione sociale ed economica che in tutto il mondo occidentale assumeva aspetti drammatici.
Lo sviluppo del sistema capitalistico e i processi di industrializzazione avevano sconvolto i vecchi equilibri sociali. Le città europee cambiavano volto, con uno sviluppo caotico delle periferie industriali, veri e propri ghetti suburbani, ove si ammassavano, a migliaia, uomini, donne e fanciulli. Proprio in questi anni l'Europa conobbe, tra l'altro, una profonda depressione economica, che incise pesantemente sulle condizioni di vita di grandi masse di lavoratori, determinando nuove sacche di miseria e alimentando il dramma della disoccupazione e dell'emigrazione. Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta la proletarizzazione delle masse aveva anche alimentato le prime lotte operaie e l'espansione del socialismo, fenomeni che si accompagnavano a un progressivo processo di scristianizzazione in seno al mondo del lavoro, soprattutto nel proletariato industriale. Le città industriali diventavano per la Chiesa nuova terra di missione. Soprattutto in Francia, Belgio, Germania e negli Stati Uniti non erano mancate iniziative e attività sociali di ispirazione cristiana di particolare significato.
Nel 1871, all'indomani della Comune, in Francia era nata l'Opera dei circoli operai, promossa da A. de Mun, C. La Tour du Pin e L. Harmel. In Belgio l'impegno sociale dei cattolici era legato, soprattutto, al nome di A. Pottier, che creò nel suo Paese le basi della nuova dottrina sociale cristiana, difendendo, in clamorose lezioni in seminario, i diritti operai. In Germania la figura centrale nel campo dell'impegno sociale dei cattolici era il vescovo di Magonza monsignor W. Ketteler. Nel 1890 a fianco del partito del Centro era nato il Volksverein di F. Brandts, una delle più solide organizzazioni operaie cristiane nell'Ottocento europeo. Sul piano internazionale il pensiero sociale cristiano aveva trovato un importante centro di studi e di coordinamento nell'Unione internazionale di Friburgo che dal 1884 organizzava una serie di congressi scientifici destinati a promuovere e favorire i contatti e gli scambi di idee e di esperienze fra i cattolici dei vari Paesi. Non andava neanche trascurato quanto avveniva negli Stati Uniti, ove si erano affermati i Knights of labour, un'associazione operaia che si proponeva la tutela dei diritti dei lavoratori senza distinzione di razza e di religione.
Questo fermento diede vita a un interesse nuovo attorno ai problemi umani e religiosi che l'espansione del capitalismo industriale aveva sollevato in Europa e in America. La Chiesa fu quindi investita dalla questione operaia. Nella redazione dell'enciclica Rerum novarum, L. XIII si avvalse dell'aiuto del gesuita M. Liberatore e del domenicano cardinale T.M. Zigliara. Si trattò di un'enciclica che, pur rifacendosi al pensiero degli economisti classici moderni, conteneva significativi riferimenti alle situazioni reali, soprattutto lì dove i problemi sociali apparivano più acuti e gravi. La Rerum novarum, in altre parole, guardava soprattutto ai problemi dello sviluppo industriale nei Paesi dove il capitalismo era più forte e avanzato. Particolare attenzione L. XIII dedicò anche alle indicazioni che gli giungevano da uomini come l'arcivescovo di Baltimora J. Gibbons e l'arcivescovo di Westminster H.E. Manning, che non aveva mancato di manifestare al papa la convinzione che se la Chiesa si fosse chiusa alle attese delle masse popolari, se non fosse stata capace di guardare al futuro avrebbe perso la simpatia del popolo e si sarebbe inimicata quella parte della classe politica che appoggiava le rivendicazioni sociali.
Motivo ricorrente dell'enciclica era la condanna di un'ideologia che, nella deificazione del denaro e nell'esaltazione del progresso, della scienza, della tecnica, della civiltà intesa come capacità di controllo e di sfruttamento delle forze della natura e come sviluppo della produzione e dei commerci, dimenticava un elemento cardine, un principio essenziale del cristianesimo: il rispetto dell'uomo e della sua dignità, il principio evangelico per cui in ogni uomo è riconoscibile Cristo. Su questo aspetto l'enciclica si esprimeva con grande forza e solennità: "Dei capitalisti poi, e dei padroni, questi sono i doveri: non tenere gli operai in luogo di schiavi, rispettare in essi la dignità dell'umana persona, nobilitata dal carattere cristiano. Agli occhi della ragione della fede non è il lavoro che degrada l'uomo, ma anzi lo nobilita col metterlo in grado di campare con l'opera propria onestamente la vita; quello che è veramente indegno dell'uomo, si è abusarne come di cosa a scopo di guadagno […]. Principalissimo poi tra i loro doveri è dare a ciascuno la giusta mercede […]. Defraudare poi la dovuta mercede è colpa sì enorme che grida vendetta al cospetto di Dio. Ecco la mercede degli operai[…] che fu defraudata da voi, grida: e questo grido ha ferito le orecchie del Signore degli eserciti" (L'enciclica "Rerum novarum" e il suo tempo, a cura di G. Antonazzi - G. De Rosa, Roma 1991, pp. 113-115). La semplicità dell'enunciazione nascondeva un'idea forza di grande contenuto. Si trattava del superamento della concezione capitalistica del mercato del lavoro, su cui si basava l'economia liberale, ispirata da leggi ben precise, al di fuori di ogni remora di ordine morale, umanitario o religioso. Le indicazioni leoniane offrirono al mondo cattolico un nuovo modo di confrontarsi da un lato con la società capitalistica e borghese, dall'altro con il movimento operaio e il nascente socialismo. Né mancò un'attenzione nuova nei confronti dello Stato. Secondo L. XIII lo Stato doveva farsi carico dei problemi sociali, doveva assumersi il compito di rimuovere per tempo le cause del conflitto tra operai e padroni. Emergeva, in sostanza, la concezione moderna di uno Stato non più inerte ed estraneo di fronte ai problemi del lavoro, non più teso soltanto a reprimere con la forza le agitazioni operaie, ma arbitro e giudice sereno, legislatore attento ai diritti e ai doveri di tutte le classi sociali. L. XIII attaccava l'individualismo degli economisti liberali, ma anche il materialismo e la negazione di Dio presenti nel pensiero socialista. Difendeva la proprietà privata e respingeva l'idea della ineluttabilità della lotta di classe, auspicando la collaborazione tra le varie componenti della società. L'ultima parte dell'enciclica affrontava il problema delle organizzazioni operaie, sollecitando la nascita di iniziative e di associazioni a tutela degli interessi dei lavoratori: dalle società di mutuo soccorso, alle assicurazioni private di assistenza e previdenza, sino a vere e proprie organizzazioni sindacali, che l'enciclica chiamava "corporazioni", usando la vecchia terminologia medievale, interpretata in chiave moderna.
La Rerum novarum non può essere letta come un programma politico, ma va interpretata soprattutto come presa di coscienza della Chiesa, alla luce delle Scritture e della tradizione cristiana, di una nuova realtà sociale e di nuovi e gravi problemi nel mondo del lavoro e della produzione. Le soluzioni proposte non erano dirette all'instaurazione di un nuovo ordine politico né a ribaltare i rapporti di forza tra le classi sociali. Ciò non toglie che è ben difficile negare alle parole di L. XIII una forte carica innovatrice e riformatrice, che superava le istanze di pura azione caritativa presenti negli atteggiamenti tradizionali della Chiesa e delle organizzazioni del laicato cattolico.
La Rerum novarum aprì nuovi orizzonti ai movimenti cristiano-sociali, che emersero all'inizio degli anni Novanta, soprattutto in Europa. Le indicazioni di L. XIII offrirono prospettive nuove a un cattolicesimo democratico e sociale in grado di entusiasmare i giovani cattolici. Non fu un caso che in questi anni si sviluppò in alcuni Paesi, il movimento della Democrazia cristiana, che trovò in Belgio le prime significative iniziative con la nascita nel 1891 della Ligue démocratique belge di C. Helleputte e A. Verhaegen. Anche in Francia le prime espressioni del movimento della Democrazia cristiana si ebbero all'inizio degli anni Novanta, grazie a un giovane clero (gli "abbés démocrates"), impegnato nella diffusione di nuovi ideali politici: cercando di penetrare nel mondo operaio e contadino, i suoi principali esponenti, L. Harmel, P. Dabry e J. Lamire, diedero vita nel 1896 alla Ligue française du coin de terre et du foyer. Per i cattolici italiani l'enciclica rappresentò il superamento della vecchia polemica legata alla questione romana. Il messaggio leoniano offrì ai cattolici italiani un modo nuovo di confrontarsi con lo Stato liberale, con la società borghese e con il socialismo. Ha osservato A.C. Jemolo che bastò che la S. Sede "alzasse questa saracinesca, perché la corrente impetuosa delle rivendicazioni economiche, fino allora frenate in vasti ceti dall'apparenza d'irreligiosità che ad opera dei primi agitatori aveva accompagnato tali rivendicazioni, prendesse il suo naturale corso" (Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino 1961, p. 317).
L'enciclica divenne anche un punto fermo nell'elaborazione della dottrina sociale della Chiesa e diede respiro e spazio a generazioni di cattolici impegnati nel sociale e nel politico. I giovani democratici cristiani si impadronirono della Rerum novarum, ne fecero la loro bandiera, proclamarono L. XIII il papa degli operai. Se il movimento democratico cristiano trovò nell'enciclica leoniana la base dei suoi programmi e delle sue battaglie, non si può ignorare che vi aggiunse anche l'adesione piena e convinta alla democrazia politica e l'utilizzazione di nuovi strumenti, quali l'arma dello sciopero come mezzo di lotta e resistenza sociale, mostrando una attenzione nuova alla cultura e alla società moderna.
R. Murri, leader indiscusso del movimento, superando la visione chiusa della tradizione intransigente, propose ai cattolici italiani il metodo democratico e l'accettazione dell'unità nazionale, pur considerando ancora necessario l'astensionismo elettorale, per favorire una maturazione e una preparazione adeguata ai compiti sociali e politici che attendevano i cattolici, nella prospettiva della formazione di un vero partito politico. Un anno dopo, nel 1899, alcuni giovani democratici cristiani torinesi, pubblicarono un documento che riassumeva i postulati programmatici del movimento, quali il riconoscimento delle libere associazioni dei lavoratori, la rappresentanza proporzionale nelle istituzioni locali e nazionali, il decentramento amministrativo, la protezione del lavoro, l'assicurazione contro gli infortuni e il minimum salariale, la difesa della piccola proprietà contadina, la difesa delle libertà civili e politiche e l'allargamento del suffragio elettorale, il disarmo generale e la fratellanza fra i popoli.
Questa elaborazione programmatica e lo stesso nome di "Democrazia cristiana", aveva trovato conforto e copertura in G. Toniolo, esponente di primo piano della cultura sociologica ed economica e del pensiero sociale cattolico. Prevalse in Toniolo, a differenza di Murri, una prospettiva prevalentemente dottrinale, con l'obiettivo della costruzione di una società gerarchicamente organizzata, strutturata sui fondamenti del pensiero cristiano. Toniolo ebbe, tuttavia, il merito di aver elaborato un progetto di democrazia alternativo sia al socialismo sia al capitalismo: vale a dire un ordinamento civile basato su un'idea forza ispirata al concetto di ordine sociale inteso come "bene comune". Al giovane movimento della Democrazia cristiana aderirono giovani di tutte le regioni italiane, che non rifiutavano a priori la cultura laica: seguivano i corsi nelle università statali, ritenevano ormai indiscutibile l'unità nazionale, giudicando anacronistico rimpiangere il potere temporale dei papi o dar fiato alle istanze legittimiste che ancora affioravano nella vecchia cultura del cattolicesimo intransigente. Questo non significava, però, una accettazione acritica dello Stato liberale e della sua organizzazione politica e sociale. Anzi si ponevano l'obiettivo non solo di denunciarne i limiti e le contraddizioni ma di proporre le linee di un radicale rinnovamento, ponendosi in concorrenza con il progetto socialista.
La vecchia organizzazione del laicato cattolico, l'Opera dei congressi, visse al suo interno questo scontro generazionale, che L. XIII cercò di comporre con l'enciclica Graves de communi del 18 genn. 1901, che ribadiva l'obbligo dell'unione dei cattolici in seno all'Opera dei congressi, sotto il controllo della gerarchia ecclesiastica, attenuando la natura politica della Democrazia cristiana. Successivamente, con l'istruzione Nessuno ignora del 27 genn. 1902 si obbligavano i gruppi democratici cristiani a entrare a far parte del secondo gruppo dell'Opera dei congressi, che si occupava dei problemi economico-sociali. Un provvedimento che non riconosceva al movimento della Democrazia cristiana quella autonomia sul piano politico che esso rivendicava.
Era chiara la profonda frattura che divideva in seno al movimento cattolico italiano, i giovani "novatori" e le correnti ancora legate alle istanze del vecchio intransigentismo. Lo scontro tra le due componenti si ebbe nel 1903 al congresso di Bologna dell'Opera dei congressi, ove i gruppi democratico cristiani ebbero il sopravvento, portando alla ribalta problemi nuovi, quali le leghe cattoliche del lavoro, il femminismo, le rappresentanze di classe, la questione meridionale. Ma questo successo, che sembrò trovare il sostegno del nuovo presidente dell'Opera, G. Grosoli, creò una frattura profonda in seno al movimento, provocando diffidenze e reazioni negli ambienti più legati alla tradizione intransigente.
Sul piano culturale il pontificato di L. XIII fu contrassegnato dalla tendenza all'accentramento dottrinale e all'unità del pensiero teologico che portò alla restaurazione della filosofia scolastica, in particolare tomista, sancita il 4 ag. 1879 con l'enciclica Aeterni Patris. L'enciclica ribadì l'esigenza di un ritorno al pensiero autentico di s. Tommaso. La Chiesa, soprattutto alla luce del contrasto con lo Stato, evidenziava la volontà di instaurare un modello gerarchico sicuro e definito nelle sue articolazioni, in grado di contrapporsi, con la forza della sua struttura, agli assalti delle dottrine a essa ostili. La scelta di L. XIII trovò forti resistenze, soprattutto in quegli ambienti cattolici più vicini alle posizioni rosminiane, che accusarono il papa di aver instaurato una filosofia "per decreto". Le indicazioni della Aeterni Patris portarono all'assunzione del tomismo come base unica ed esclusiva nella formazione del clero, divenendo il fondamento degli studi nei seminari, nelle scuole e nelle università ecclesiastiche.
Non mancò da parte di L. XIII anche un pesante intervento nei confronti del pensiero di A. Rosmini, con la condanna di quaranta proposizioni tratte dagli scritti filosofici e teologici del filosofo roveretano. La condanna fu emanata, dopo un lungo esame, dalla congregazione del S. Uffizio, con il decreto Post obitum del 14 dic. 1887, pubblicato, per volontà del papa soltanto il 7 marzo 1888. La reazione al decreto del S. Uffizio fu molto vivace. Il quotidiano La Perseveranza di Milano del 29 marzo 1888, in un articolo dal titolo Rosmini e L. XIII, probabilmente ispirato da R. Bonghi, scriveva: "Si vede che Tommaso d'Aquino di cui egli è così grande ammiratore, invece d'aprirgli la mente gliel'ha chiusa. L'Aquinate non avrebbe condannato il Rosmini. Egli avrebbe visto in lui uno spirito più innovatore ed inventivo del suo". L. XIII rispose a tali critiche, sostenendo in una lettera (1° giugno 1889) all'arcivescovo di Milano, che si trattava di questioni di competenza assoluta della S. Sede e precisando che la condanna era stata emanata con il suo pieno consenso (Acta, IX, pp. 111-114).
Le iniziative di L. XIII a favore degli studi biblici favorirono non solo la rinascita dell'esegesi cattolica, ma anche uno sviluppo notevole degli studi storici, grazie all'apertura dell'Archivio segreto Vaticano, operata dal pontefice sin dal 1880. Si deve a lui anche l'arricchimento e l'ampliamento della Biblioteca apostolica Vaticana, con l'istituzione di una scuola di paleografia e di una Commissione cardinalizia per gli studi storici. L. XIII cercò di favorire soprattutto gli studi di storia della Chiesa, che trovarono in quegli anni il concorso di autori di grande valore. Anche il campo delle discipline scientifiche trovò sostegni e stimoli da parte di L. XIII: negli anni del suo pontificato furono organizzati importanti congressi internazionali scientifici cattolici, che si svolsero in varie città europee: Parigi, Bruxelles, Friburgo, Monaco.
L'attenzione di L. XIII per gli studi storici e filosofici contribuì non poco, negli anni di fine Ottocento, a incrementare numerosi settori della cultura cattolica, con particolare riguardo agli studi biblici e alla storia della Chiesa. Con l'enciclica Providentissimus Deus del 18 nov. 1893 il papa sollecitò gli studiosi a dedicare la loro attenzione all'esegesi biblica, precisando che l'interpretazione di tutta la Scrittura doveva comunque ispirarsi esplicitamente all'insegnamento del concilio di Trento e del Vaticano I. Nonostante questa limitazione, la promozione degli studi biblici da parte del papa determinò risultati significativi. Nel 1902 L. XIII istituì la Pontificia Commissione biblica, che in molti casi non si limitò ad assistere gli studiosi, ma svolse anche una funzione di controllo e censura, con l'obiettivo di evitare gli scogli della critica razionalista. Del resto stavano già emergendo correnti che non mancavano di preoccupare le gerarchie, con particolare riferimento alla Revue d'histoire et de littérature religieuse, diretta da A. Loisy, il quale sin dal 1893 negò la paternità mosaica del Pentateuco e la storicità dei primi capitoli del Genesi, mettendo in discussione la storicità delle Scritture e proponendo la tesi dello sviluppo dell'idea di Dio e del destino umano. Questi indirizzi, che furono alla base dello sviluppo del modernismo, non trovarono ancora, nel corso del pontificato di L. XIII, la ferma condanna conosciuta nel successivo pontificato. Maggiore attenzione venne, invece, dedicata a una sorta di modernismo avanti lettera, che prese il nome di "americanismo".
Durante il suo pontificato L. XIII non mancò di guardare con attenzione, ma anche con preoccupazione, alla realtà del cattolicesimo americano, in particolare statunitense. Nel 1893 il pontefice aveva voluto istituire una delegazione apostolica a Washington, nonostante il parere negativo della maggioranza dei vescovi americani. Nel 1884 aveva eretto a Collegio pontificio il Collegio nordamericano, favorendo, nel 1885, l'istituzione dell'Università cattolica di Washington. Nel 1892 inviò un suo rappresentante alle celebrazioni per il quarto centenario della scoperta dell'America. Il 5 genn. 1895 indirizzò l'enciclica Longinqua Oceani alla Chiesa americana, nella quale sottolineò la particolare condizione di libertà che la Chiesa godeva negli Stati Uniti.
Il termine "americanismo" fu coniato in occasione della traduzione in francese, nel 1897, di un'opera di padre W. Eliott dedicata alla biografia di I.T. Hecker, fondatore della Congregazione americana di S. Paolo. Questi veniva presentato come un prete del futuro, desideroso di abolire le barriere che tenevano fuori della Chiesa i moderni infedeli. Le polemiche che seguirono a questa pubblicazione tendevano a presentare l'opera come espressione di tendenze ereticizzanti. Il 22 genn. 1899 intervenne nella polemica lo stesso L. XIII con una lettera apostolica dal titolo Testem benevolentiae Nostrae, nella quale affermò: "Bisogna che la Chiesa si adegui maggiormente alla civiltà di un mondo arrivato all'età matura e che, allentando il suo antico rigore, si mostri favorevole alle aspirazioni e alle teorie dei popoli moderni. Ora molti estendono questo principio non solo alla disciplina ma anche alle dottrine che costituiscono il deposito della fede. Essi sostengono infatti che è opportuno, per guadagnare i cuori degli smarriti, tacere taluni punti di dottrina quasi fossero di minima importanza, di attenuarli al punto da non lasciar più loro il significato cui la Chiesa si è sempre tenuta" (Acta, XIX, p. 6). La risposta dell'episcopato americano fu immediata. La questione si risolse senza ulteriori conflitti, anche perché da parte di L. XIII non mancò un atteggiamento di fiducia e di benevolenza nei confronti del giovane e vivace cattolicesimo statunitense. Come ha sottolineato L. Sturzo "la parola americanismo rimase nella cronaca ecclesiastica, ma fu ben tosto soverchiata dalla parola modernismo, che indicò tutte le tendenze a modernizzare la Chiesa in materia dogmatica, biblica, storica e disciplinare" (Chiesa e Stato, II, Bologna 1978, p. 150).
Nel 1900, pur tra molti ostacoli e difficoltà, L. XIII volle riprendere la celebrazione dei giubilei, interrotta nel 1825, anche se non erano mancati negli anni precedenti pellegrinaggi italiani e stranieri affluiti a Roma per i giubilei personali del pontefice, tra i quali quello episcopale del 1888 che vide anche l'allestimento di una grandiosa esposizione vaticana.
Con l'avvento del nuovo secolo L. XIII superò la soglia dei novant'anni. La sua forte fibra gli aveva consentito di raggiungere una veneranda età senza particolari problemi e disturbi. Anche la sua mente era rimasta lucida, consentendogli di proseguire il suo quotidiano lavoro. Nell'estate del 1903, fu colto da una pleurite che andò via via aggravandosi, tanto che il 7 luglio ricevette l'estrema unzione. Seguì una lunga agonia, sino alla morte, avvenuta il 20 luglio 1903.
Scritti: Per quanto riguarda il periodo perugino: G. Pecci, La Chiesa e la civiltà. Lettere pastorali del 1877 e del 1878, Perugia 1991. Durante il pontificato: Leo XIII pont. maximus, Acta, I-XXIII, Roma 1881-1905; Discorsi del sommo pontefice L. XIII ai fedeli di Roma e dell'Orbe dal principio della sua elezione in Vaticano, a cura di P. De Franciscis, ibid. 1882; Leo XIII, Allocutiones, Epistulae et Constitutiones, I-VIII, Bruges 1887-1911; Le poesie di Leone XIII, volgarizzate da D.A. Severi, Perugia 1902; Carmina, Roma 1903; Carmina, inscriptiones, numismata, Köln 1903.
Fonti e Bibl.: I documenti relativi al pontificato di L. XIII sono conservati presso l'Arch. segreto Vaticano. Le carte relative alla fase precedente l'elezione al pontificato sono conservate presso l'Archivio Pecci a Carpineto e presso gli Archivi di Stato di Benevento e Perugia. Per le indicazioni bibliografiche si rinvia a F. Malgeri, L. XIII, in Enc. dei papi, III, Roma 2000, pp. 592 s.