PAOLO V, papa
PAOLO V, papa. – Camillo Borghese nacque a Roma il 17 settembre 1552, primo figlio di Marcantonio e di Flaminia Astalli, sua seconda moglie.
Il padre, originario di Siena, presente a Roma almeno dal 1537, esercitò con successo la professione forense fino a diventare avvocato dell’imperatore Carlo V e di Filippo II. Il suo secondo matrimonio con l’esponente di una famiglia di antica nobiltà romana, economicamente decaduta, rispondeva alla volontà di integrarsi nel tessuto sociale dell’Urbe.
Avviato alla carriera ecclesiastica, Camillo ricevette la tonsura il 17 settembre 1568. Studiò diritto, probabilmente a Perugia, e ottenne il dottorato in utroque iure all’Università di Roma il 22 ottobre 1569. Lo stesso giorno il padre gli cedette l’ufficio di avvocato concistoriale, al quale egli rinunciò nel 1572 in favore di suo fratello Orazio, dopo che anche questi ebbe conseguito il dottorato in legge. Nel settembre dello stesso anno fu nominato da Gregorio XIII referendario della Segnatura di giustizia e poco dopo anche della Segnatura di grazia. Nel 1573 acquistò l’ufficio di abbreviatore de maiori praesidentia; il 9 agosto 1577 divenne vicario del cardinale arciprete di S. Maria Maggiore, Alessandro Sforza di Santa Fiora, carica cui spettava l’amministrazione della basilica. Tra l’8 settembre e il 20 ottobre dello stesso anno ricevette gli ordini minori e maggiori. Il 3 settembre 1581 divenne datario della Penitenzieria e il 1° giugno 1586 Sisto V, dopo aver riformato il collegio, lo nominò referendario delle due Segnature.
Il 20 settembre 1588 divenne vicelegato di Bologna, occupandosi soprattutto del regolare approvvigionamento di viveri per la città e del controllo dell’ordine pubblico. Mantenne fruttuosi rapporti con i ceti dirigenti locali e intensificò i contatti con le case principesche dei territori circostanti. Il 3 ottobre 1590 morì il fratello Orazio, che due anni prima aveva acquistato per 60.000 scudi l’ufficio di uditore della Camera, grazie a un investimento sostenuto da tutti i fratelli. Il nuovo papa, Gregorio XIV, padrino di battesimo di Camillo, permise che questi ereditasse la carica, evitando così la rovina economica della famiglia. Nella primavera del 1591 fece ritorno a Roma.
Alla fine di novembre 1593 Clemente VIII inviò in Spagna Borghese per sollecitare l’intervento del re cattolico a sostegno dell’Imperatore impegnato nella guerra contro i Turchi e per regolare alcuni problemi di giurisdizione sollevati dalle Cortes di Castiglia. Durante la sua permanenza a Madrid, da febbraio a giugno 1594, ottenne solo la promessa di aiuti finanziari per 300.000 scudi, ma nulla di concreto riguardo ai conflitti di giurisdizione. La missione gli consentì però di stabilire con la corte del re cattolico contatti messi a frutto negli anni seguenti.
Dopo aver esercitato per sei anni, secondo l’uso, l’ufficio di uditore della Camera, il 5 giugno 1596 fu creato cardinale. Il 21 giugno gli venne assegnato il titolo di S. Eusebio, che il 10 marzo 1599 cambiò con quello dei Ss. Giovanni e Paolo, per approdare infine, il 22 aprile 1602, al titolo di S. Crisogono. Entrò a far parte del circolo ristretto dei collaboratori del papa: subito dopo l’ascrizione al Collegio cardinalizio fu aggregato alla congregazione del S. Uffizio, della quale divenne segretario dopo la morte di Giulio Antonio Santoro (7 giugno 1602). Alla morte del cardinale gesuita Francisco Toledo (14 settembre 1596) divenne, con il cardinale Pompeo Arrigoni, uno dei consiglieri di fiducia di Clemente VIII; nel 1598 accompagnò il papa a Ferrara in occasione della devoluzione del Ducato; nel 1602 fu ascritto con Arrigoni alla congregazione De auxiliis e il 13 novembre 1603 succedette al cardinale Girolamo Rusticucci come vicario di Roma.
Nel frattempo, la sua situazione economica si andò stabilizzando: ottenne nel 1595 una pensione di 1000 scudi sulla diocesi di Carpentras; il 14 aprile dello stesso anno gli fu conferita la diocesi di Jesi, con una rendita di 2000 scudi, tuttavia vi rinunciò già il 10 agosto 1599, riservandosi una pensione di 1000 scudi. Intorno al 1603 le finanze della famiglia potevano dirsi risanate; poté quindi acquistare dagli eredi del cardinale Pedro Deza, per la somma di 42.000 scudi, un palazzo che si elevava presso Ripetta. La costruzione del cosiddetto Cembalo Borghese era stata iniziata una quarantina d’anni prima da Iacopo Barozzi, detto il Vignola, Flaminio Ponzio la proseguì per conto del nuovo proprietario e Carlo Maderno la completò nel 1614.
Nel conclave apertosi a metà marzo del 1605, dopo la morte di Clemente VIII, dominato dalle fazioni dei cardinali Alessandro Peretti di Montalto e Pietro Aldobrandini, nipoti rispettivamente di Sisto V e del pontefice defunto, Borghese non ebbe alcun ruolo di rilievo. L’opposizione della Spagna a Cesare Baronio e l’accordo intercorso tra il cardinale Aldobrandini e François de Joyeuse permise l’elezione, avvenuta nella notte tra il 1° e il 2 aprile, dell’arcivescovo di Firenze, Alessandro de’ Medici, che assunse il nome di Leone XI. Morto questi il 27 aprile 1605, il nuovo conclave, durato dal 9 al 16 maggio, fu nuovamente caratterizzato dalla dialettica tra Aldobrandini e Montalto. Quando si giunse alla polarizzazione tra Domenico Toschi, sostenuto da Aldobrandini, dalla Spagna e dalla Francia, e Cesare Baronio, candidato di Montalto, la situazione di stallo fu risolta con un compromesso. La sera del 16 maggio 1605 i cardinali radunati nella cappella Paolina espressero pubblicamente in modo unanime il loro voto a favore di Borghese, che assunse il nome di Paolo V. Il giorno seguente, 17 maggio, l’elezione fu annunciata pubblicamente e il 29 maggio, solennità di Pentecoste, il nuovo papa venne incoronato nella basilica di S. Pietro.
Come principale collaboratore scelse Scipione Caffarelli, figlio di Francesco e di Ortensia Borghese, sua sorella, che aveva studiato diritto a Perugia. Paolo V lo adottò, lo creò cardinale il 18 luglio 1605 e il 17 agosto gli assegnò il titolo di S. Crisogono, da lui detenuto fino all’elevazione al pontificato. Pur avendogli conferito formalmente la carica di sovrintendente dello Stato ecclesiastico, mantenne saldamente nelle sue mani la gestione del governo, avvalendosi della collaborazione dapprima di Michelangelo Tonti e di Lanfranco Margotti e poi di Giovanni Garzia Mellini. A Scipione Borghese fu riservato un compito politico di mediazione con i principi e gli ambasciatori e l’incarico di porre le basi per il consolidamento della famiglia, che egli assolse mediante successive acquisizioni di beni immobili e la costituzione e l’arricchimento delle collezioni artistiche e culturali. Di particolare importanza risultò la relazione intessuta con la Spagna: il 26 settembre 1608 Filippo III concesse a Marcantonio Borghese (1601-58), unico figlio di Giovanni Battista, fratello del papa, e di Virginia Lante, destinato a continuare il casato, un abito dell’Ordine cavalleresco di Calatrava. Nel 1610 il papa acquistò per lui il feudo di Sulmona, nel Regno di Napoli, elevato per l’occasione a Principato; al momento delle sue nozze con Camilla Orsini, celebrate nel 1619, Filippo III lo nominò grande di Spagna di prima classe (1620), come gli era stato chiesto da Paolo V durante le trattative per la concessione del cappello cardinalizio all’Infante don Fernando (29 luglio 1619).
Nei riguardi dello Stato pontificio Paolo V accentuò la politica di centralizzazione inaugurata dai suoi predecessori, con particolare riferimento alle legazioni settentrionali di Bologna e della Romagna. All’inizio del pontificato accrebbe le prerogative della congregazione del Buon governo sulle cause penali e revocò ai superiori degli ordini religiosi la facoltà di giudicare le cause di competenza del tribunale del S. Uffizio. Nel marzo 1608 istituì una commissione per la riforma dei tribunali, sotto la presidenza del cardinale Scipione Borghese, composta dai responsabili dell’amministrazione della giustizia in ambito statale e municipale, tra cui il decano della Rota Francisco Peña. I risultati dei lavori confluirono nella bolla Universi agri Dominici, emanata il 1° marzo 1612, le cui norme riguardavano i tribunali pontifici e le magistrature cittadine, il regime carcerario e gli ebrei. In continuità con provvedimenti adottati da Clemente VIII, il 3 maggio 1607 Paolo V nominò notaio dell’archivio della Curia Michele Lonigo e gli assegnò il compito di raccogliere documenti relativi alle proprietà pontificie e di custodirli in Castello; il 27 ottobre 1610 lo costituì prefetto dei registri e delle bolle della Biblioteca Vaticana e il 31 gennaio 1612 gli conferì il titolo di custode degli archivi.
Alla congiuntura economica sfavorevole è da collegare il persistente fenomeno del banditismo, radicato nelle campagne, che si aggiunse alle tradizionali proteste della nobiltà rurale espresse in forma violenta. I bandi emanati il 25 aprile e il 26 giugno 1608 mostrano la preoccupazione dell’amministrazione statale, ma non contribuirono alla soluzione stabile di un problema derivante dal progressivo impoverimento dei ceti inferiori delle campagne durante un periodo di crisi.
Le attenzioni del papa si concentrarono sull’approvvigionamento alimentare di Roma, dove introdusse misure per calmierare il prezzo del pane, istituì magazzini per compensare le oscillazioni dei prezzi di mercato e nel 1611 affiancò alla congregazione dell’Annona una congregazione responsabile dell’approvvigionamento, presieduta dal tesoriere generale. Per facilitare le importazioni, all’inizio del pontificato affidò a Pompeo Targone la continuazione dei lavori di ampliamento del porto di Civitavecchia e nel 1613 promosse opere di manutenzione del corso del Tevere per migliorarne la navigazione. Lo stesso anno si iniziò la costruzione del porto di Fano, terminale per le vie commerciali della Romagna e dell’Umbria. Tuttavia fu la capitale a beneficiare maggiormente delle cure del sovrano. Accanto al lavoro di manutenzione delle strade che conducevano nelle Marche, il papa provvide all’approvvigionamento idrico della zona occidentale attraverso il ripristino dell’acquedotto di Traiano, un progetto affidato agli architetti Pompeo Targone, Giovanni Fontana e Carlo Maderno. Le sorgenti acquistate dal duca di Bracciano, Virginio Orsini, furono convogliate verso Trastevere, dove nel 1612 fu eretta la fontana di mostra sul Gianicolo, con diramazioni verso il Borgo e il Vaticano. Si alimentarono così fontane pubbliche situate nel quartiere a occidente del Tevere e presso il Vaticano, ma anche giardini privati e opifici che si trovavano sulle pendici del Gianicolo, come pure le dimore degli Orsini, dei Farnese e dei Savelli sulla riva sinistra del fiume.
Il programma edilizio di Paolo V è legato al suo concetto di romanità e alla volontà di radicare la sua famiglia nel tessuto sociale romano. L’approvazione del progetto di Carlo Maderno, che prevedeva per la basilica di S. Pietro una pianta a croce latina, con la conseguente demolizione delle murature superstiti, diede nuovo impulso al cantiere ormai secolare: nel 1612 fu terminata la facciata e si iniziò la costruzione di due campanili, poi demoliti per ragioni statiche, e due anni dopo fu completata la navata. Accanto a diverse modifiche e adattamenti dei palazzi vaticani, il papa affidò a Flaminio Ponzio e a Carlo Maderno l’ampliamento del palazzo sul Quirinale, trasformato in residenza monumentale, la cui cappella, con funzioni analoghe alla cappella Sistina, fu inaugurata nel 1617. Nella basilica di S. Maria Maggiore fece costruire, su progetto di Flaminio Ponzio, una cappella in cui venerare l’immagine della Madonna Salus populi romani, nella quale collocò il proprio monumento sepolcrale, insieme con le tombe della famiglia, e quello di Clemente VIII, che lo aveva elevato al cardinalato. Essa, costruita di fronte alla cappella voluta da Sisto V, dove si veneravano le reliquie dalla culla di Gesù, rafforzò la funzione della basilica Liberiana come polo di devozione mariana nella Roma protobarocca. Il nipote Scipione Borghese curò la costruzione della villa suburbana sul monte Pincio, nella quale trovò posto una raccolta di opere d’arte, e l’adattamento della villa di Mondragone, presso Frascati, come prestigiosa residenza di villeggiatura.
In ambito internazionale Paolo V volle preservare l’equilibrio tra la Francia e la Spagna raggiunto mediante l’accordo di Vervins del 1598. Un primo banco di prova fu costituito dal conflitto con Venezia, iniziato sul finire del 1605, motivato dal rifiuto della Serenissima di revocare alcune leggi emanate tra il 1602 e il 1605 tendenti a limitare la proprietà ecclesiastica e complicato dalla discussione circa l’immunità personale di due chierici, accusati di reati comuni. La prova di forza, nella quale furono implicati come consultori il giurista milanese Iacopo Menochio e il teologo servita Paolo Sarpi, condusse alla scomunica del doge e del Senato, all’interdetto esteso a tutto il territorio della Repubblica e alla rottura delle relazioni diplomatiche. Il relativo breve, pubblicato nella notte tra il 2 e il 3 maggio 1606, venne contestato il 6 maggio da una dichiarazione (protesto) della Repubblica, che ne proibì l’osservanza; gesuiti, cappuccini e teatini, che vollero attenervisi, furono espulsi. L’incidente ebbe risonanza internazionale e diede luogo a trattative diplomatiche e a preparativi di guerra, tra cui le fortificazioni di Ferrara. La Spagna inviò come ambasciatore straordinario Francisco de Castro, già viceré di Napoli e nipote del duca di Lerma, la Francia il cardinale François de Joyeuse, che ricevette poi da Paolo V l’incarico di concludere i negoziati per conto della Santa Sede. Il 21 aprile 1607 la disputa ebbe termine con l’assoluzione dalla scomunica, la revoca dell’interdetto e il ristabilimento delle relazioni diplomatiche.
L’instabilità politica dell’Italia padana fu accresciuta dalla morte del duca di Mantova, Vincenzo I Gonzaga, avvenuta il 18 febbraio 1612. Il suo figlio e successore, Francesco, genero di Carlo Emanuele I di Savoia, venne anch’egli a morte il 22 dicembre dello stesso anno, aprendo il problema della successione, che fu provvisoriamente risolto assegnando il Ducato al cardinale Ferdinando Gonzaga, fratello del defunto. In seguito al tentativo effettuato dal duca di Savoia di impossessarsi del Monferrato, il papa inviò in successione i nunzi Innocenzo Massimi (1613), Giulio Savelli (1614) e Alessandro Ludovisi, arcivescovo di Bologna (1616). I negoziati, che coinvolsero attivamente la Francia, la Spagna e l’imperatore, condussero ai trattati di Asti (1614 e 1615) e di Pavia (1617), ma non stabilizzarono la regione. Immediatamente dopo si aprì il contenzioso relativo alla Valtellina, nel quale confluivano l’esigenza degli spagnoli di assicurare la stabilità del Ducato di Milano, unita al controllo sulle vie di comunicazione con la Germania e le Fiandre, e i contrasti all’interno della valle tra il partito filospagnolo e i sostenitori delle tre leghe grigie, da cui la valle dipendeva, non esenti da risvolti confessionali. Gli accordi intercorsi tra il governatore di Milano, Gómez Suárez de Figueroa y Córdoba, duca di Feria, e i valtellinesi filospagnoli condussero alla sollevazione del 19 luglio 1620, conosciuta come il sacro macello, che costò la vita a oltre quattrocento persone.
Paolo V, tenuto al corrente di tutta l’operazione dal comasco Giulio Della Torre, corrispondente ufficioso della Santa Sede, evitò ogni pronunciamento pubblico e si oppose alla proposta di affidare in custodia le fortezze valtellinesi alla Santa Sede, proponendosi invece come mediatore tra la Spagna, la Francia e Venezia per evitare uno scontro che avrebbe pregiudicato le sorti dei cattolici in Germania.
Prima ancora che si concludesse, con gli accordi di Zsitvatorok (11 novembre 1606), la pace tra l’imperatore Rodolfo II e il sultano Ahmed I, che pose fine alla lunga guerra turca, per la quale Paolo V, come il suo predecessore, aveva inviato consistenti sussidi in denaro, iniziarono nella casa d’Austria i contrasti per la successione di Rodolfo II, senza eredi legittimi e poco incline a scegliersi un successore. L’arciduca Mattia, riconosciuto capo e rappresentante del casato, nel 1608, con l’appoggio dei protestanti austriaci e ungheresi marciò su Praga contro Rodolfo; tuttavia i boemi si mantennero fedeli al loro signore dietro la promessa di concessioni in materia confessionale, promulgate mediante la lettera di maestà del 1609. Con il trattato di Lieben (25 giugno 1608) Rodolfo II cedette al fratello solo una parte dei suoi domini. Per conto del papa intervennero come mediatori il nunzio Antonio Caetani e il cardinale legato Giovanni Garzia Mellini, che giunse in Germania solo dopo la stipulazione dell’accordo, in tempo per lasciare Placido De Marra come nunzio presso l’arciduca Mattia, eletto re di Ungheria.
Le tensioni confessionali nell’Impero indussero i protestanti a costituire nel 1608 l’unione di Ahausen, cui l’anno successivo si contrappose la Lega cattolica, che riuniva il duca Massimiliano I di Baviera, i tre arcivescovi elettori e altri principati ecclesiastici; essa era sostenuta dalla Spagna e dalla Santa Sede, dalla quale riceveva sussidi in denaro. Alla morte dell’imperatore Rodolfo II (20 gennaio 1612) Paolo V riconobbe l’elezione di Mattia (13 giugno 1612). Sotto il nuovo sovrano divenne fonte di preoccupazione la politica di equilibrio tra cattolici e protestanti messa in opera dal cardinale Melchior Klesl, favorito dell’imperatore. Paolo V lo sostenne, nonostante forti perplessità, e quando gli arciduchi Massimiliano e Ferdinando lo fecero imprigionare inviò l’uditore di Rota Fabrizio Verospi affinché lo conducesse a Roma per essere giudicato dal papa.
La sollevazione iniziata il 23 maggio 1618 dalla nobiltà di Boemia, opposta alla candidatura dell’arciduca Ferdinando d’Austria a cingere la corona di s. Venceslao e l’elezione di Federico V del Palatinato come re di Boemia, avvenuta il 26 agosto 1619, diede origine alla guerra di Ferdinando II, sostenuto da Massimiliano di Baviera e dalla Lega cattolica, contro i sudditi ribelli, culminata nella battaglia della Montagna Bianca presso Praga (8 novembre 1620). Paolo V contribuì al finanziamento della campagna con una decima pagata dal clero d’Italia e, su richiesta del duca di Baviera, inviò ad assistere gli eserciti il carmelitano scalzo Domenico di Gesù Maria.
Nell’area renana Paolo V cercò di favorire il consolidamento del cattolicesimo, dopo che nel 1609 fu stipulata una tregua di dodici anni tra l’arciduca Alberto d’Austria e le Province Unite, particolarmente attraverso l’azione del nunzio a Colonia Antonio Albergati. La successione del ducato di Jülich-Kleve, apertasi nel 1609, trovò una parziale soluzione mediante il matrimonio del conte palatino Wolfgang Wilhelm di Neuburg, da poco convertitosi al cattolicesimo, con Magdalena, sorella di Massimiliano I di Baviera (25 maggio 1614), e successivamente con l’accordo di Xanten (12 novembre 1614). A partire dal 1617, Paolo V si adoperò per stabilizzare la situazione dinastica della Lorena, dove il duca Enrico II era privo di discendenza maschile; il progetto di far sposare la primogenita Nicole con il cugino Charles de Vaudémont si realizzò il 22 maggio 1621, ma le vicende successive diedero luogo a nuove contestazioni.
In ambito religioso Paolo V ereditò dal suo predecessore la controversia sulla grazia, dibattuta in Spagna dal 1588 tra domenicani e gesuiti. Il nuovo papa, che aveva fatto parte della congregazione De auxiliis istituita da Clemente VIII, mantenne un atteggiamento di equilibrio nella discussione che coinvolgeva i due ordini religiosi e la corte spagnola. Il 28 agosto 1607, festa di S. Agostino, ordinò di porre fine alle discussioni e alle recriminazioni, venendo incontro in tal modo ai gesuiti, accusati di pelagianesimo dai loro avversari. Le dispute proseguirono nelle Fiandre, con il gesuita Leonardo Lessio come protagonista, e in Spagna. Qui nel 1613 sorse una nuova controversia relativa all‘Immacolata Concezione di Maria, collegata con il presunto ritrovamento di antiche lamine plumbee presso il Sacromonte di Granada a partire dal 1588. Filippo III inviò a Roma due ambascerie per chiedere la definizione del dogma, ma il papa, nonostante il parere favorevole di Roberto Bellarmino, ribadì la dottrina vigente e il 12 settembre 1617 emanò un decreto che vietava di combattere in pubblico l’opinione antimmacolista. Rispetto all’espulsione dei moriscos, decretata dal re Cattolico nel 1609, Paolo V mantenne un atteggiamento di riserbo che celava la disapprovazione per la mancata conversione degli islamici, più volte richiesta ai vescovi spagnoli anche dai suoi predecessori.
In Francia il nunzio Roberto Ubaldini dovette fronteggiare le dottrine di alcuni dottori parigini, tra cui si distingueva Edmond Richer, relative alla potestà del papa in rapporto al concilio; favorì la decisione assunta dall’assemblea del clero del 7 luglio 1615, che dichiarava di accogliere le decisioni del concilio di Trento e ordinava ai concili provinciali di includerle nei loro decreti. Sul fronte inglese le speranze dei cattolici legate all’ascesa al trono di Giacomo I (1603) andarono presto deluse: la congiura delle polveri, scoperta il 5 novembre 1605, non fece che aggravare la loro posizione, in quanto il re impose un giuramento di fedeltà che divise la comunità cattolica. Il papa lo condannò il 22 settembre 1606 e depose l’arciprete George Blackwell, capo del clero d’Inghilterra, che aveva voluto giustificarlo.
Nella prospettiva postconciliare, tendente ad assegnare al papa la responsabilità sull’evangelizzazione, invertendo la tendenza invalsa nel secolo precedente, Paolo V raccolse l’eredità di Clemente VIII, che aveva fondato una congregazione De propaganda fide, estintasi nel 1604 con la morte del cardinale Giulio Antonio Santoro. Paolo V non volle dar vita a un organismo strutturato, dato che le competenze in materia erano esercitate dal S. Uffizio e il re cattolico si opponeva a limitare i suoi diritti di patronato. Non rinunciò però a esplorare diverse vie per ampliare il raggio d’influenza della Chiesa di Roma. Attraverso il nunzio in Polonia Claudio Rangoni entrò in contatto con Dymitr Samozwaniec, sedicente figlio dello zar Ivan IV, asceso al trono moscovita nel 1605 e dichiaratosi obbediente al papa, e sostenne presso il re di Polonia i Ruteni, unitisi a Roma in occasione del sinodo di Brest (1596). Nel novembre del 1615 ricevette con tutti gli onori un emissario del principe giapponese Date Masamune, che chiedeva l’invio di missionari e la nomina di un arcivescovo; tuttavia la richiesta, che il papa voleva sottomettere alla valutazione del re di Spagna, non ebbe seguito, e forse per questo l’anno seguente in Giappone iniziò una politica anticristiana, non esente da episodi di violenza, che indusse i missionari, francescani e gesuiti, a spostarsi in Cocincina.
Nell’area asiatica Paolo V cercò di sfruttare la debolezza del Portogallo, il cui predominio commerciale era minacciato dagli olandesi, per favorire nuove presenze facenti capo a Roma. Da qui l’appoggio dato ai carmelitani scalzi italiani, insediatisi a Isfahan nel 1607 e successivamente a Hormuz e a Goa, e l’autorizzazione alla presenza di gesuiti italiani. Con l’Armenia i rapporti furono curati da Zaccaria Vartabiert, inviato in quelle terre nel 1610, e dal domenicano Paolo Maria Cittadini, che dal 1614 al 1620 effettuò un viaggio dal Caucaso all’India e nel 1624 fu nominato coadiutore dell’arcivescovo di Naxivan. L’attività in Cina di Matteo Ricci, morto nel 1610, diede occasione al pontefice di concedere l’uso del cinese letterario come lingua liturgica e per la traduzione della Bibbia (1615), anche se l’autorizzazione non produsse effetto. In India intervenne in favore di Roberto De Nobili (1616 e 1618), in contrasto con l’arcivescovo di Goa Cristovão de Sá.
Un tentativo di stabilire contatti diretti con la Santa Sede fu effettuato da Alvaro II, re del Congo, che inviò in Spagna e a Roma Antonio Manuel N’Funta. Ostacolato dalla corte di Madrid, giunse a Roma all’inizio del 1608, ma morì pochi giorni dopo e fu sepolto per volere del papa in S. Maria Maggiore. Nel 1613 il re del Congo nominò suo rappresentante stabile a Roma lo spagnolo Juan Bautista Vives, futuro membro di Propaganda fide. Attraverso il gesuita Pero Paes il papa instaurò rapporti diplomatici con il sovrano di Etiopia, il negus Susneyos, che il 1° novembre 1621 avrebbe accettato il cattolicesimo, nel contesto di un’alleanza con la Spagna in funzione antislamica e della dialettica interna nei confronti della Chiesa etiopica.
Il rapporto con l’America spagnola rimase invece condizionato dal sistema del patronato, anche se non mancarono contatti diretti attraverso le visite ad limina e le richieste rivolte alle congregazioni romane, nel quadro della legislazione tridentina e della nuova struttura dell’organizzazione curiale.
La problematica dell’attività missionaria, che coinvolgeva anche le aree dell’Europa a maggioranza protestante e ortodossa o controllate dai turchi, divenne sempre più sentita, come appare dalla trattatistica, di cui è un esempio l’opera De procuranda salute omnium gentium di Tommaso di Gesù, pubblicata ad Anversa nel 1613, ma scritta a Roma, o dai progetti miranti a formare un clero secolare specializzato, come l’effimera Congregazione di S. Pietro, istituita da Juan Bautista Vives nel 1610 e chiusa dal S. Uffizio l’anno seguente. Le iniziative coinvolsero i gesuiti, gli Ordini mendicanti, in particolare i loro rami riformati, gli Ordini di nuova fondazione e il clero secolare e si orientarono verso la formazione di un clero autoctono, radicato sul territorio.
Sulla scorta del programma tridentino avviato dai suoi predecessori, dall’inizio del pontificato Paolo V richiamò a più riprese il dovere di residenza degli ecclesiastici, in particolare dei vescovi; nel novembre 1607 riconvocò la congregazione della Riforma istituita da Clemente VIII e nel 1612 istituì una commissione composta da cardinali di curia, tra cui Paolo Emilio Sfondrati, Giovanni Garzia Mellini e Roberto Bellarmino, e da teologi, con il compito di redigere il Rituale Romanum a uso dei parroci, contenente schemi per la celebrazione dei sacramenti e dei riti paraliturgici. Promulgato il 7 giugno 1614, completò la serie dei libri liturgici rinnovati nella stagione postconciliare.
Per il corretto funzionamento del S. Uffizio il papa emanò una serie di provvedimenti amministrativi. Nel marzo 1615 il domenicano Tommaso Caccini denunciò all’Inquisizione Galileo Galilei, accusandolo di sostenere l’eliocentrismo. I cardinali inquisitori, riuniti sotto la presidenza del papa, il 25 febbraio 1616 fecero propria la dottrina bellarminiana della non ammissibilità di tale dottrina e il 5 marzo la congregazione dell’Indice emanò il relativo decreto, mentre allo scienziato fu ingiunto di non sostenere più tale teoria. L’interesse del papa per le scoperte di Galilei è attestato però dall’affresco raffigurante l’Assunzione della vergine Maria, opera di Ludovico Cardi, detto il Cigoli, presente nella cupola della cappella Paolina nella basilica di S. Maria Maggiore, che raffigura la Luna sotto i piedi della Vergine secondo le recenti osservazioni fatte al cannocchiale. Nel 1616 furono trasmessi a Roma i documenti raccolti dall’Inquisizione veneziana contro Marco Antonio de Dominis, arcivescovo di Spalato, fuggito al di là delle Alpi; il papa commissionò all’Università di Lovanio una censura dei suoi scritti, puntualmente sorvegliata da Roma. Fra gli anni 1613 e 1616 l’Inquisizione si occupò del filosofo Cesare Cremonini, accusato di sostenere la dottrina relativa alla mortalità dell’anima.
Importanti per la loro valenza programmatica furono le canonizzazioni di Francesca Bussa dei Ponziani, nota come Francesca Romana (29 maggio 1608), e di Carlo Borromeo (1° novembre 1610); presentati come esponenti della nuova vitalità della Chiesa romana dopo le difficoltà del secolo precedente. Paolo V rivitalizzò la congregazione dei Beati, già istituita nel 1602, che elevò agli onori degli altari esponenti del rinnovamento religioso cinquecentesco quali Filippo Neri, Ignazio di Loyola, Francesco Saverio, Luigi Gonzaga e Teresa di Gesù, sottolineando, anche attraverso la figura di Isidoro di Madrid, il contributo dato dalla Spagna al consolidamento e all’espansione del cattolicesimo.
Nel corso del pontificato furono creati sessanta cardinali in dieci diverse promozioni, sulla base di criteri collaudati: cardinali nazionali o legati alle case regnanti, tra cui Fernando d’Austria, il cardinale Infante, che costituì la notevole eccezione di un personaggio di sangue reale accolto nel collegio; esponenti della nobiltà romana, a vario titolo imparentati con i Borghese, come Giovanni Garzia Mellini; membri dell’alta aristocrazia, come Alessandro Orsini, appartenente alla famiglia dei duchi di Bracciano, con i quali nel 1612 fu concluso un contratto di matrimonio; clienti della famiglia Borghese, come Michelangelo Tonti, precettore di Scipione.
Paolo V morì il 28 gennaio 1621 nel palazzo del Quirinale, dopo una breve malattia. Il 31 gennaio fu inumato in S. Pietro e lo stesso giorno dell’anno seguente, 1622, la salma venne tumulata nella cappella Paolina di S. Maria Maggiore.
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