PIO VI, papa
PIO VI, papa. – Angelo Onofrio Melchiorre Natale Giovanni Antonio Braschi nacque a Cesena il 25 dicembre del 1717 dal conte Marco Aurelio Tommaso, figlio di Francesco, e da Anna Teresa dei conti Bandi.
La sua era un’antica famiglia romagnola che, secondo una non controllabile tradizione, sarebbe stata originaria della Svezia. I Braschi, che figurano per la prima volta a Cesena tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, erano ascritti al patriziato cittadino; entrarono nel Consiglio nel 1607 e conseguirono anche il titolo comitale.
Angelo, primogenito di otto figli, ricevette la prima educazione dai gesuiti e si laureò giovanissimo «in utroque iure» il 20 aprile 1735. Completò i suoi studi di giurisprudenza all’Università di Ferrara, sotto la guida dello zio materno Giovanni Carlo Bandi, futuro vescovo di Imola, che ricopriva allora la carica di auditore del legato pontificio, il cardinale Tommaso Ruffo. La protezione dello zio gli valse la benevolenza del cardinale Ruffo e la nomina a suo segretario. Per il conclave del 1740, dopo la morte di Clemente XII, lo seguì come conclavista a Roma senza più fare ritorno nella città natale.
Il nuovo pontefice Benedetto XIV nominò il cardinale Ruffo, divenuto decano del S. Collegio, vescovo suburbicario di Ostia e Velletri, e Braschi, succedendo allo zio, a sua volta nominato vescovo «in partibus» di Botra, divenne il suo auditore. Risiedette nell’importante diocesi ed ebbe una parte di un qualche rilievo nella protezione di Velletri all’epoca della battaglia che vi si svolse, l’11 agosto 1744, tra austriaci e napoletani nel corso della guerra di successione austriaca. I servigi resi in quell’occasione al re di Napoli, Carlo di Borbone, e i buoni rapporti da allora intrattenuti con il sovrano convinsero il pontefice a incaricarlo, nel 1746, di dirimere alcuni conflitti giurisdizionali insorti tra Roma e il Regno meridionale. A ricompensa della conseguita composizione delle divergenze, venne nominato cameriere segreto, entrando così in prelatura. Dopo la morte di Ruffo, nel 1753, il pontefice lo nominò segretario particolare e quindi canonico di S. Pietro (17 gennaio 1755). Nel settembre 1758 prestò giuramento in qualità di referendario del cardinale Neri Corsini, prefetto della Segnatura, e, nello stesso anno, avendo oramai deciso di abbracciare lo stato ecclesiastico, ricevette gli ordini maggiori e fu ordinato prete. Nel settembre dell’anno successivo, ottenuto anche il favore del nuovo pontefice Clemente XIII, che lo raccomandò al nipote, il neocardinale Carlo Rezzonico, fu da quest’ultimo nominato suo auditore e segretario.
In tale funzione assistette al grave conflitto insorto tra la Chiesa e la politica giurisdizionalista dei sovrani italiani ed europei sulla questione dei gesuiti, senza mai prendere una posizione netta: scelta prudente, questa, che giocò un certo ruolo nella sua futura elezione al soglio pontificio. Il 26 settembre 1766 ottenne la carica di tesoriere generale della Camera apostolica, ufficio tra i più prestigiosi dell’amministrazione economica e finanziaria, che apriva la porta alla porpora cardinalizia. Vi venne chiamato con l’appoggio di Rezzonico proprio al culmine di una catastrofica carestia che colpì lo Stato della Chiesa come il resto dell’Italia. Da tesoriere operò con competenza, preoccupandosi del risanamento finanziario dello Stato, gravato da un pesante debito pubblico, e tentando di instaurare un nuovo sistema tributario per aumentare le entrate, all’interno di un organico progetto di riforma elaborato fin dal 1767.
Il progetto era ispirato a una concezione economica strettamente mercantilistica e prevedeva l’abolizione di tutti i pesi camerali e la loro sostituzione con tre sole gabelle (macinato, sale ed estimo dei terreni), la soppressione di appalti, pedaggi e gabelle di transito interni con l’istituzione invece di dogane ai confini dello Stato. La morte del pontefice (2 febbraio 1769) impedì di dare esecuzione al piano, ma i tentativi di riforma amministrativa e finanziaria avviati in questa fase aprirono la strada ai provvedimenti economici del futuro papa.
Il 26 aprile 1773 Clemente XIV, su pressione delle corti borboniche, gli accordò il cappello cardinalizio con il titolo di S. Onofrio e, subito dopo, le cariche di abate commendatario del convento dei camaldolesi di S. Gregorio al Celio e del monastero di Subiaco. Qui egli si stabilì, ma dovette presto allontanarsene per il lungo e difficile conclave del 1774-75. Il conclave, iniziato il 5 ottobre 1774, si protrasse per oltre quattro mesi e si svolse in un’atmosfera carica di tensione, di sospetti e di conflitti, suscitati dalla recente soppressione della Compagnia di Gesù decisa da Clemente XIV il 21 luglio 1773, a cui avevano fatto seguito l’arresto del generale della Compagnia, Lorenzo Ricci, le voci relative alla morte per avvelenamento di Clemente XIV e alla sua ritrattazione della bolla di soppressione, il processo inquisitoriale intentato alle ‘profetesse’ di Valentano, accusate, insieme con alcuni ex gesuiti, di complotto.
Grazie al sostegno di Francia e Spagna, e nonostante l’opposizione del Portogallo, Braschi venne eletto papa il 15 febbraio 1775. Il 22 febbraio fu consacrato vescovo dal cardinale decano Giovanni Francesco Albani e incoronato; la domenica seguente aprì la Porta Santa della basilica di S. Pietro, dando inizio all’anno giubilare con cui si avviava il suo pontificato.
La scelta del nome di Pio non fu affatto casuale. In una fase in cui si annunciava lo scontro con la cultura e con la politica della modernità, egli decise consapevolmente di succedere a Pio V, fino ad allora primo e unico papa santo dell’età moderna. Pio V era stato l’applicatore rigoroso dei precetti del Concilio di Trento, il grande inquisitore nemico dei protestanti e, soprattutto, l’artefice della vittoria di Lepanto sui Turchi. La cerimonia del ‘possesso’ di Pio VI (30 novembre 1775) fu l’ultima che si svolse con la grandiosità e la solennità della tradizione. L’aspetto fisico imponente e maestoso e il contegno regale del nuovo pontefice, amante delle cerimonie e del fasto, produssero profonda impressione nei contemporanei. Goethe lo descrisse come «la più bella, più dignitosa figura virile». Governò da solo, senza lasciare troppo spazio agli scialbi segretari di Stato che si succedettero.
Il suo pontificato fu uno dei più lunghi e travagliati della storia dei papi poiché si svolse in un’epoca di profonda crisi per la Chiesa cattolica, violentemente attaccata dapprima dalla cultura e dalla filosofia del secolo dei Lumi, successivamente dalla Rivoluzione francese. Fin dagli esordi egli marcò una rottura con lo spirito conciliante del suo predecessore. La sua prima enciclica, Inscrutabile divinae sapientiae, promulgata il giorno di Natale del 1775 che era anche il giorno del suo genetliaco e quello successivo alla chiusura dell’anno giubilare, definiva in termini organici il programma del nuovo papa. Egli condannava assai duramente le idee del secolo dei Lumi che, senza alcuna distinzione, erano presentate come un portato del diavolo e una cospirazione diretta contro la convivenza civile. Il pensiero moderno era accusato in blocco di diffondere l’ateismo e di voler spezzare la tradizionale concordia tra la Chiesa e gli Stati, dissolvendo ogni forma di consorzio civile; i vescovi erano richiamati a vigilare sull’ortodossia dottrinale del clero in modo da contrastare infiltrazioni nella Chiesa delle tesi avversate. Pochi mesi prima aveva aperto il suo pontificato con un altro atto significativo con cui ribadiva e rafforzava la dura normativa antiebraica che rispondeva all’idea secondo la quale solo il rifiuto della diversità e l’affermazione dell’unità religiosa garantivano la compattezza della società cristiana. L’editto del 5 aprile 1775, Fra le pastorali sollecitudini, ripristinava antichi divieti per gli ebrei (di mestieri, di libri, di abitazioni, di contatti e scambi con i cristiani) ed evocandone «il pericolo di sovversione» divenne il punto di riferimento della politica papale antiebraica successiva.
Coerentemente con queste scelte, il pontefice andò sempre più emarginando le forze intellettuali cattoliche riformatrici, aperte al rinnovamento della Chiesa e del suo rapporto con il mondo moderno, che avevano avuto modo di esprimersi nel pontificato precedente. Tali gruppi prospettavano un accordo tra filosofia e cristianesimo in chiave di riforma della Chiesa e di ritorno alla «vera religione», e teorizzavano la funzione civile e culturale degli intellettuali. Anche queste istanze vennero progressivamente tacitate all’interno di una chiusura totale nei confronti della filosofia illuministica e della cultura coeva.
Nel corso dei primi anni di pontificato Pio VI adottò un’abile politica tesa a colpire ogni tentativo di creare forze autonome e centrifughe all’interno del cattolicesimo. Senza allinearsi apertamente – almeno in un primo tempo – alle posizioni filogesuitiche, e anzi reprimendo ogni azione settaria degli ex gesuiti che premevano per la ricostituzione della Compagnia, egli cercò di piegare i circoli cattolici riformatori e filogiansenisti ad accettare l’unità dei cattolici in un rigoroso rispetto dell’autorità papale. L’affermazione sempre più netta dell’assolutismo e del primato del pontefice condusse alla fine alla lotta aperta contro i giansenisti, oramai pervenuti anch’essi a posizioni radicali. A questo fine di battaglia e di propaganda cattoliche, e di riscossa della S. Sede, il papa appoggiò la nascita di un nuovo periodico, il Giornale ecclesiastico di Roma (1785), che divenne l’organo ufficiale del papato e una delle espressioni più efficaci della politica di riconquista cattolica di Pio VI contro gli avversari interni ed esterni.
Il periodico romano, intorno al quale ruotavano personaggi di rilievo (Francesco Antonio Zaccaria, Tommaso Maria Mamachi, Luigi Cuccagni, Giovanni Marchetti), rifletté puntualmente la progressiva radicalizzazione della lotta sul terreno ecclesiologico e disciplinare, che sarebbe sfociata successivamente nei toni e negli argomenti violenti del periodo rivoluzionario. Anche le designazioni cardinalizie, numerosissime, furono ben ponderate in vista di tale programma: oltre alle nomine dello zio Giovanni Carlo Bandi e del nipote Romualdo Braschi-Onesti, che si inscrivono nella forte ripresa del nepotismo sotto il suo pontificato, le scelte caddero su personaggi dai forti legami di fedeltà personale.
I rapporti con gli Stati italiani ed europei divennero molto presto assai difficili per i contrasti relativi ai problemi dottrinali, ai conflitti giurisdizionali e alla questione dei gesuiti. Soprattutto violento fu il conflitto con il riformismo ecclesiastico dell’imperatore Giuseppe II.
Gli interventi di quest’ultimo concernevano nuove disposizioni relative alla legislazione matrimoniale, all’ammissione del divorzio, alla soppressione dei monasteri degli ordini regolari contemplativi e delle confraternite, alla riduzione delle feste, dei pellegrinaggi e di molte espressioni della devozionalità barocca, alla tolleranza nei confronti di ebrei e acattolici, alla riorganizzazione delle parrocchie. Le riforme ecclesiastiche giuseppine, oltre a colpire le prerogative pontificie sulla base delle dottrine giurisdizionaliste, puntavano a creare una Chiesa nazionale nel quadro della monarchia asburgica, operando in accordo con il rilancio delle idee episcopaliste che colpivano direttamente il primato e l’infallibilità pontifici (si vedano in merito gli scritti De statu ecclesiae et legitima potestate Romani Pontificis (1763) di Giustino Febronio [Johann Nikolaus von Hontheim]; Was ist der Papst? (1782) di Joseph Valentin Eybel).
Nel tentativo di far recedere l’imperatore dalla sua politica ecclesiastica, Pio VI decise di intraprendere, tra il febbraio e il giugno del 1782, il famoso viaggio a Vienna, prima uscita di un pontefice fuori dei confini dello Stato ecclesiastico dopo più di due secoli. Mentre a Vienna si scatenava la pubblicistica antiromana con un fiume di pamphlet antipapali, Giuseppe II ricevette il pontefice come un sovrano estero qualsiasi, senza nulla concedergli. Il viaggio del papa suscitò però una vasta eco ed ebbe un grande rilievo, gravido di conseguenze per il futuro, soprattutto sul piano della mobilitazione popolare. L’entusiasmo e la devozione che suscitò il «pellegrino apostolico» – come venne chiamato il pontefice – lungo le tappe del percorso confermavano il papa come il capo di un’opposizione crescente contro le riforme imposte dai sovrani che sconvolgevano la vita tradizionale. Questo ruolo di guida prestigiosa dell’ondata di reazione religiosa contro il regalismo e il riformismo dei principi rese, dunque, alla fine positivo il bilancio finale della visita papale. La mobilitazione delle masse anticipava i futuri sviluppi dell’alleanza tra la Chiesa e gli strati inferiori della società e costituiva una tappa importante nel processo che sarebbe sfociato nel sanfedismo controrivoluzionario. Il viaggio a Vienna, dunque, se sul piano politico e diplomatico registrò la debolezza romana, sul piano ideologico costituì uno spartiacque decisivo. Esso segnò, nella politica ecclesiastica, la radicalizzazione della lotta antigiansenista e del riflusso verso Roma dei riformatori cattolici più moderati proprio in conseguenza della estremizzazione delle posizioni antipapali, e diede la spinta a un’inesauribile ed efficace pubblicistica di esaltazione del primato e dell’autorità papali prodotta dagli scrittori del ‘partito’ filocuriale, oramai coordinato in una sorta di ‘internazionale ultramontana’. In questo quadro di riscossa, in cui cominciò ad avere un ruolo importante l’uso politico dell’opinione pubblica e della stampa quale strumento di propaganda, rientrano anche il lancio, avvenuto con il pieno appoggio del più stretto entourage di Pio VI, di un nuovo santo, il pellegrino francese Benoît-Joseph Labre, intorno alla cui immagine simbolica andarono coagulandosi le forze combattenti a difesa della religione e dell’assetto tradizionale della società cristiana.
Gravi conflitti nacquero anche con i sovrani di Prussia e di Russia in relazione al rifiuto di questi di dare applicazione al breve di soppressione della Compagnia di Gesù del 1773. Furono invece buoni i rapporti con la Spagna e il Portogallo, Paesi nei quali andava disegnandosi uno smantellamento progressivo della politica antiecclesiastica di metà Settecento e un avvicinamento sempre maggiore al papato.
In Italia, Pio VI incontrò le maggiori difficoltà nel Regno di Napoli e nel Granducato di Toscana. A Napoli, la ripresa della politica giurisdizionalista negli anni Ottanta e le accese polemiche regalistiche, anche qui cariche di accenti giansenisti, condussero il Regno sull’orlo della rottura con la S. Sede. Segno inequivocabile delle tensioni fu il rifiuto del sovrano napoletano, nel 1788, di effettuare l’omaggio feudale tradizionale della chinea. Ma assai più grave fu il contrasto con il granduca Pietro Leopoldo, fratello di Giuseppe II, le cui misure in materia ecclesiastica, ispirate dal vescovo giansenista di Pistoia e Prato, Scipione de’ Ricci, tendevano alla costituzione di una Chiesa nazionale toscana.
L’alleanza, cementata dall’‘antiromanesimo’, che si produsse qui tra il riformismo ecclesiastico dei gruppi giansenisti che riponevano nel potere politico le loro speranze di rinnovamento della Chiesa e il regalismo centralizzatore del sovrano, diede vita a un programma organico e originale. Accanto a misure analoghe a quelle giuseppine, il riformismo ricciano-leopoldino, a partire dai primi anni Ottanta, tentò di mutare nel profondo la Chiesa toscana attuando un programma sinodale episcopalista-parrochista, centrato sulla regolare convocazione di sinodi diocesani e sulla partecipazione attiva dei parroci, che sfociò nella originale riorganizzazione del sistema delle rendite parrocchiali. Culmine del programma fu poi la convocazione del sinodo di Pistoia (18 settembre 1786), in concomitanza con l’affermazione del giuseppinismo. Il sinodo costituì il momento culmine del giansenismo settecentesco e della sua radicalizzazione democratico-episcopale-parrochista, alla cui preparazione e al cui svolgimento guardò con attenzione tutto il giansenismo europeo.
La condanna ufficiale del pontefice apparve soltanto il 28 agosto 1794, con la bolla Auctorem fidei, che, nel pieno ormai della Rivoluzione francese, rispondeva soprattutto a motivi politici e coglieva con chiarezza le conseguenze implicite nell’ecclesiologia parrochista e nel nesso stretto tra ‘democrazia ecclesiastica’ e rivoluzione politica. Nella redazione della bolla prevalse la linea dottrinale centrata sulla difesa del primato di ordine e di giurisdizione del pontefice romano e della Chiesa di Roma. Nasceva ora, inoltre, l’argomento polemico del giansenismo causa prima della Rivoluzione che dominerà la propaganda cattolica antirivoluzionaria.
Il giansenismo toscano aveva ingaggiato anche una serrata battaglia contro le espressioni devozionali più ‘facili’ e popolari, sostenute da Roma, che urtavano l’aspirazione rigorista, di origine muratoriana, a una pietà illuminata, moderata e sobria: in questa direzione, decisa fu la contestazione della devozione al S. Cuore di Gesù e della pratica francescana della Via Crucis. Fu proprio questa linea ricciana antidevozionalistica a innescare i tumulti popolari del 1787 che, anticipando le rivolte per la fede dell’insorgenza antifrancese, provocarono la fine del riformismo toscano.
Nonostante la chiusura dottrinale ed ecclesiologica, Pio VI come sovrano temporale giocò un ruolo attivo e dinamico, ancora non sufficientemente valutato dalla storiografia, nell’ammodernamento dello Stato ecclesiastico. Generoso mecenate, egli diede un grande impulso alle iniziative artistiche e archeologiche e allo sviluppo della scienza antiquaria. Nel corso del suo pontificato gli artisti e i letterati italiani e stranieri presenti a Roma furono numerosi e di grande rilievo (Anton Raphael Mengs, Gavin Hamilton, i Piranesi, Antonio Canova, Angelica Kauffmann, Jacques-Louis David, quanto ai primi; Vittorio Alfieri, Johann Wolfgang Goethe, Alessandro Verri, Vincenzo Monti, quanto ai secondi). Essi confermarono il ruolo della città come centro degli studi dell’antichità e cuore del neoclassicismo europeo, oltre che fonte inesauribile della mania collezionistica dell’epoca e del fiorente mercato d’arte antica. Le scoperte archeologiche e le opere acquistate dallo stesso pontefice furono raccolte nel Museo Pio-Clementino, in Vaticano, che divenne così la più ricca collezione di antichità d’Europa. Il papa, con i suoi interessi in questo campo, finì con il favorire la nascita dell’archeologia come scienza autonoma e come professione.
Larghe risorse furono assegnate anche alle opere pubbliche, con la risistemazione dei porti di Ancona, Civitavecchia, Anzio e Terracina e delle vie di comunicazione. I lavori di prosciugamento dell’Agro pontino, avviati nel 1777, durarono quasi vent’anni e furono grandiosi, ma gravarono pesantemente sulle finanze statali. Il papa li seguì personalmente, percependo il significato più ampio dell’impresa, relativo alla crescita del suo prestigio. Tuttavia, il recupero alla coltura di ampi territori non modificò i modi e i rapporti di produzione e soprattutto non moltiplicò la proprietà fondiaria attraverso una divisione che intaccasse il sistema generale del latifondo. Nel 1791 le terre fino ad allora bonificate furono assegnate in enfiteusi ai grandi proprietari assenteisti, tra i quali il duca Luigi Braschi-Onesti, nipote del papa. Nonostante tali limiti, gli interventi modernizzatori di Pio VI sulla realtà economica dello Stato furono numerosi e degni di nota. Nello scorcio del secolo si concentrò così il più ampio tentativo di riforme mai progettato e realizzato nello Stato e per la prima volta esse costituirono un insieme compatto di misure organicamente legate all’interno di un preciso progetto di rinnovamento. L’intenzione riformatrice mirante al risanamento delle critiche condizioni dello Stato rivelava peraltro anche un’evidente volontà centralizzatrice e unificatrice dell’amministrazione, diretta, non sempre con successo, contro sistemi, corpi e interessi particolari. Tale azione sarebbe stata continuata e sviluppata dalle riforme dell’epoca napoleonica e da quelle della prima e della seconda Restaurazione pontificia.
A partire dalla metà degli anni Settanta la pubblicistica economica sempre più fitta, la fondazione di nuove riviste dagli interessi scientifico-economici e di accademie agrarie che sorsero numerose nelle province, soprattutto nella più dinamica realtà umbro-marchigiana, tentavano di ricollegarsi alle esperienze degli altri Paesi europei e italiani, e soprattutto a quelle della vicina Toscana, e intensificavano la propaganda a favore dello sviluppo e dell’ammodernamento dell’agricoltura e delle tecniche agrarie. Si moltiplicarono anche iniziative imprenditoriali e sperimentazioni locali originali (manifatture, case di lavoro, introduzione di nuove colture e tecniche). Nacquero molte riviste economiche e scientifiche, come il Diario di Agricoltura, Manifattura e Commercio, pubblicato a Roma (1776-77), L’Agricoltore di Perugia (1784-86), il Giornale delle Arti e del Commercio di Macerata (1780-81). Numerose furono pure le opere di teorici e riformatori, molto spesso ‘stranieri’ trapiantati a Roma in qualità di funzionari di Curia e di amministratori dello Stato, come Antonio Maria Curiazio, Luigi Doria, Cesare Moltò, Adamo Fabbroni, Francesco Milizia, Giovanni Francesco Maria Cacherano di Bricherasio, Alessandro Aleandri, Marco Fantuzzi, Paolo Vergani, Nicola Corona e Antonio Tocci. Nei loro scritti essi denunciavano le debolezze strutturali dello Stato e riecheggiavano la contemporanea e più avanzata cultura economica europea.
Stretto fra indirizzi economici contrastanti, oscillanti tra un prudente liberalismo e la tradizionale mentalità mercantilistica, Pio VI finì per optare, negli anni Ottanta, per un programma di mercantilismo in ritardo suggerito dall’influente tesoriere Fabrizio Ruffo, nominato nel 1785, e dai suoi collaboratori Giovanni C. de Miller e Paolo Vergani. Il programma mirava a sviluppare le manifatture nazionali e il commercio piuttosto che a promuovere quelle riforme agrarie decisive che inevitabilmente avrebbero intaccato i privilegi dei nobili, degli ecclesiastici e della capitale. Gli interventi legislativi investirono perciò il sistema doganale, con l’abolizione delle gabelle interne che impedivano la libera circolazione dei prodotti e con l’introduzione delle dogane ai confini (1786): due importanti riforme, queste, che oltre a mirare all’unificazione dell’amministrazione finanziaria dello Stato, dovevano avviare un regime generale di libertà di commercio. Altre misure intraprese dal papa riguardarono l’incoraggiamento dell’agricoltura e delle nuove colture, la promozione delle manifatture soprattutto tessili, la lotta al disordine monetario e all’invasione delle cedole cartacee, la riorganizzazione dei tributi. Quest’ultima culminò nella compilazione del catasto, ordinata nel dicembre 1777 per tutto lo Stato – ma esclusi i fondi dell’Agro romano e le Legazioni –, che si protrasse per molti anni, incontrando enormi ostacoli e ricorsi da parte dei proprietari. Il catasto costituì non soltanto la prima capillare rilevazione delle proprietà fondiarie eseguita nello Stato, ma soprattutto la base per l’introduzione, realizzata però solo nel 1801, della novità assoluta della tassa fondiaria detta dativa reale. L’opera di razionalizzazione fu coronata, nel gennaio 1783, dalla decisione di formare un catasto anche dell’Agro romano – il cosiddetto catasto annonario. Esso doveva costituire la base per l’imposta fondiaria, ma, soprattutto, imponeva la messa a coltura di almeno un terzo dei terreni, tradizionalmente lasciati al pascolo. Ma, per le opposizioni dei potenti proprietari dell’Agro, tali disposizioni non furono osservate. Anche la riforma voluta da Ruffo che soppresse la precettazione del bestiame ovino e suino e dell’olio (1789), istituendone il libero commercio, rivestì un’enorme importanza perché inferse un colpo mortale sia all’antico sistema dell’annona, che privilegiava la capitale a scapito dei produttori provinciali, sia all’organizzazione potente delle corporazioni. Tuttavia, la reazione violenta di queste ultime e il malumore popolare scatenato dalle riforme del tesoriere determinarono, nel 1794, il licenziamento di Ruffo, nel frattempo divenuto cardinale (1791).
Se molte delle riforme economiche avviate dovettero spesso ridimensionarsi o bloccarsi di fronte alle fortissime resistenze dei particolarismi locali e dei ceti privilegiati, le misure tributarie e soprattutto quelle doganali acuirono le antiche tensioni tra Roma e le province più ricche e sviluppate della parte settentrionale dello Stato (Marche e Legazioni), nelle quali erano in crescita attività agricolo-industriali e nuclei di imprenditorialità moderna. Esse si opponevano in quanto erano proiettate nei loro commerci verso gli Stati limitrofi: di conseguenza, le riforme finirono per accelerare non l’unificazione e l’uniformità amministrativa dei diversi territori dello Stato, ma l’ulteriore disgregazione della compagine statale. Tali contraddizioni erano destinate a esplodere nell’età rivoluzionaria e napoleonica.
Nonostante il quadro generale dello Stato ecclesiastico nei decenni di governo di Pio VI non corrisponda affatto all’immagine convenzionale, e ancora oggi prevalente nella storiografia, di stagnazione e di inerzia assolute, e riveli invece fermenti, spinte innovative e concrete trasformazioni delle strutture sociali e delle mentalità, soprattutto nelle province, assai ostili e radicali erano però i giudizi degli osservatori laici coevi. Tali giudizi ignoravano i tentativi di riforma del pontefice e sottolineavano invece i ritardi – politici, economici e culturali – dello Stato. Gli attacchi contro Roma e il papato, ispirati dalle idee del secolo dei Lumi e dalla virulenta Épître aux Romains (1768) di Voltaire, si moltiplicavano e divenivano sempre più violenti. Non a caso, proprio quegli anni Ottanta del secolo che videro, da un lato, l’asprezza della polemica antiromana di stampo illuministico e, dall’altro, la ripresa dell’offensiva giurisdizionalistica, furono inondati da una fitta pubblicistica, italiana e straniera, antipapale, anticlericale e di violenta polemica nei confronti della Chiesa e delle sue strutture temporali. Essa denunciava l’anacronismo, la miseria e il dispotismo assoluto dello Stato, il nepotismo e il fasto eccessivi del «Lama d’Europa», con toni e linguaggi che anticipavano gli scritti antiromani dell’età rivoluzionaria. Questi opuscoli costruirono definitivamente l’immagine compattamente negativa del governo e dello Stato ecclesiastici destinata a durare e a dominare il secolo successivo, nonché a influenzare larga parte della storiografia fino a oggi.
D’altro canto, critiche severe provenienti anche dall’interno del mondo cattolico rimproveravano a Pio VI il suo manifesto nepotismo, funzionale all’esaltazione della casata del papa. Egli, infatti, per impedire l’estinzione della famiglia e del cognome dopo la morte dei fratelli, che non avevano lasciato discendenza con l’eccezione della sorella Giulia Francesca, sposa del ravennate conte Girolamo Onesti, chiamò a Roma e adottò i nipoti Luigi e Romualdo Onesti, trasmettendo loro il proprio cognome. Romualdo, il cadetto, fu avviato alla carriera ecclesiastica e divenne cardinale nel 1786; il primogenito, Luigi, ricevette il titolo di duca di Nemi. Dopo il fastoso matrimonio di Luigi con Costanza Falconieri (31 maggio 1781), personalmente celebrato nella cappella Sistina dal papa, questi avviò, nel 1791, la costosa costruzione del grandioso palazzo Braschi, opera di Cosimo Morelli, in cui fu riunita una splendida collezione artistica. Tali dispendiosi favori, a cui si aggiunsero sia alcune vicende scandalose di eredità (il caso Lepri), sia l’arricchimento sfrontato e le speculazioni economiche di Luigi, ricaddero negativamente sull’immagine del pontefice. Tuttavia, proprio la violenza della libellistica antiromana e antipapale di questi anni rivela i timori suscitati dal nuovo processo di ripresa religiosa che andava delineandosi su un altro e diverso piano: quello di una rinnovata presenza della Chiesa nella società e di una riorganizzazione ideologica, pastorale e religioso-devozionale. Mentre l’offensiva giurisdizionalistica raggiungeva la sua acme, intorno a Pio VI, che aveva energicamente respinto le correnti riformatrici in seno alla Chiesa e rifiutato ogni dialogo con i difensori della cultura moderna, si andò coagulando una battagliera reazione di mobilitazione a difesa della religione e dell’assetto tradizionale della ‘società cristiana’, sia dotta sia popolare.
Allo scoppio della Rivoluzione in Francia, Pio VI adottò inizialmente un atteggiamento prudente e prese tempo di fronte alle prime iniziative in materia religiosa. Tuttavia, dopo i duri provvedimenti antiecclesiastici francesi e mentre nell’Assemblea costituente era in discussione la Costituzione civile del clero, egli tentò vanamente di intervenire presso il re Luigi XVI con un breve con il quale ribadiva l’incompetenza del potere civile a legiferare su materia religiosa. La Costituzione civile del clero (12 luglio 1790) riorganizzò interamente la Chiesa gallicana come Chiesa nazionale, attribuì ai membri dei collegi elettorali dipartimentali – dunque anche agli acattolici – l’elezione di parroci e vescovi e sottrasse a Roma l’istituzione canonica dei vescovi. In seguito alla promulgazione della costituzione, nel settembre, e all’imposizione, nel novembre, dell’obbligo agli ecclesiastici con cura d’anime di prestare giuramento di fedeltà alla nazione, al re e alla nuova legge, Pio VI interruppe finalmente il lungo silenzio ufficiale, dovuto a considerazioni di prudenza, e intervenne. Con il breve Quod aliquantum del 10 marzo 1791 egli condannò in blocco non solo tutto l’operato dell’Assemblea nazionale costituente in campo ecclesiastico, poiché mirava a distruggere la religione cattolica, ma anche i principi di libertà e di eguaglianza che avevano guidato l’azione dei costituenti in campo politico, che egli definiva contrari ai diritti di Dio, nonché l’ideologia del contratto sociale, in virtù del carattere divino dell’organizzazione sociale. Il breve era il risultato delle intense discussioni svoltesi all’interno della congregazione degli Affari ecclesiastici straordinari, composta dai più autorevoli cardinali del gruppo degli ‘zelanti’ e dai personaggi più vicini al papa. La congregazione era però ancora divisa al suo interno fra intransigenti e conciliatori. Riflesso di questa fase di incertezza culturale e politica della Chiesa di fronte alle novità e di una qualche propensione al compromesso con le nuove idee fu la pubblicazione dell’opera De’ diritti dell’uomo (Assisi 1791), della quale era autore un personaggio vicino a Pio VI, Nicola Spedalieri. Egli utilizzava in chiave tradizionalista e apologetica l’arsenale linguistico e teorico dei philosophes – il diritto naturale, il contrattualismo – ai fini però dell’apologia del primato papale e del rifiuto della Rivoluzione.
Il breve di condanna aggravò la frattura in corso in Francia tra clero refrattario (al giuramento) e clero costituzionale (giurato), con la contrapposizione tra due culti cattolici e due Chiese, e diede avvio alla rottura tra cattolicesimo romano e Rivoluzione destinata a durare oltre il concordato napoleonico e a influire anche sugli eventi successivi. Inoltre, un breve ulteriore, Charitas, respingeva il giuramento civico per gli ecclesiastici, sospendeva quanti non avessero ritrattato e annullava le nomine dei vescovi fatte senza l’accordo del pontefice. Le relazioni ufficiali con la Francia furono rotte nel maggio 1791, quando il nunzio a Parigi monsignor Antonio Dugnani, a seguito di una violenta manifestazione popolare in cui fu bruciato un manichino raffigurante il pontefice, lasciò la Nunziatura. Mentre Pio VI accoglieva a Roma le zie emigrate del re e manifestava imprudentemente la sua gioia per la notizia della fuga di quest’ultimo, la Francia proclamava, nel novembre, l’annessione dei due territori pontifici di Avignone e del Contado Venassino, ignorando le proteste del papa contro questo primo attacco alla sua sovranità temporale. Egli si rivolse allora ai monarchi delle principali potenze europee, compresi acattolici come Caterina II di Russia e Giorgio III d’Inghilterra, facendo leva sull’argomento dell’attentato ai diritti di un sovrano per sollecitarli a intervenire in nome di una comunanza di interessi. L’iniziativa sanciva l’adesione del papa al fronte antirivoluzionario. Pio VI, inoltre, dovette rispondere alla pressione proveniente dall’esodo massiccio degli ecclesiastici francesi (duemila solo nel 1792, saliti a tremila l’anno seguente) verso lo Stato della Chiesa, ove furono accolti non senza inquietudine, dati i timori che essi fossero propagatori più o meno volontari delle «massime perniciose» gallicane, gianseniste o addirittura rivoluzionarie. Ma l’emigrazione francese fu anche quella che diffuse in Italia l’immagine satanica ed efferata della Rivoluzione, all’interno di una violenta propaganda controrivoluzionaria.
L’esecuzione di Luigi XVI (21 gennaio 1793), appresa con grande emozione dal papa che, in una allocuzione solenne al S. Collegio, conferì al sovrano defunto la qualifica di «martire», l’assassinio quasi simultaneo alla morte del re del rappresentante francese a Roma Nicolas-Jean Hugon de Bassville (13 gennaio) da parte del popolo romano inferocito – che diede l’assalto al ghetto, considerando gli ebrei filofrancesi – e, infine, l’avanzata in Francia dei processi di laicizzazione dello Stato, prima, e di scristianizzazione, più tardi, accesero sempre più il conflitto tra Roma e la Rivoluzione. Nel gennaio 1793, la Convenzione, alle prese con la prima coalizione antifrancese, individuava nella «mostruosa potenza» papale uno dei motori, nonché la fomentatrice, della guerra religiosa in Francia. Dalla parte avversa, mentre a Bologna e a Roma venivano scoperte e represse, nel 1794, congiure filofrancesi, una violenta e capillare campagna di stampa prodotta in tutta la penisola, ma in particolare nello Stato della Chiesa, accusava la Rivoluzione di essere un’opera satanica e il risultato di un vasto complotto anticattolico, orchestrato da filosofi, giansenisti e massoni.
La tesi, che trovò la sua più nota espressione nelle opere dell’ex gesuita Augustin Barruel, prontamente tradotte e stampate a Roma, diffuse e consolidò un’interpretazione della Rivoluzione che avrebbe inciso a lungo negativamente sui rapporti tra una larga parte del mondo cattolico e la società moderna. Nei primi anni Novanta e fino alla fine del secolo, con particolare punta nel 1796, al tempo della discesa delle truppe francesi in Italia e di fronte al pericolo di invasione dei territori pontifici, libelli e pamphlet rilanciarono con forza, a dispetto della neutralità ufficiale dello Stato ecclesiastico, il mito della guerra santa e della crociata e l’appello ai popoli e ai sovrani per difendere la fede contro i nuovi barbari, rappresentati come belve sanguinarie. Particolarmente attivi in quest’opera di propaganda, che influì moltissimo sull’opinione pubblica cattolica, furono ex gesuiti, come Francesco Gustà, Giovanni Vincenzo Bolgeni e Alfonso Muzzarelli, e l’intera redazione del Giornale ecclesiastico di Roma. Questa campagna pubblicistica, infiammata da un’importante produzione a carattere profetico-apocalittico, dalla predicazione del clero, dalla reiterazione di giubilei straordinari indetti dal papa, dalla proposta ai devoti di nuovi santi in funzione controrivoluzionaria, come Benoît-Joseph Labre, da attese di eventi prodigiosi, come quelli che si espressero nell’ondata di ‘miracoli’ mariani che fra l’estate del 1796 e i primi mesi del 1797 si verificarono in ben sessanta località dello Stato, ebbe una grande efficacia anche sul piano operativo. Essa, infatti, alimentò concretamente la mobilitazione popolare antifrancese nel triennio repubblicano e il movimento militare sanfedista del Viva Maria.
Con la campagna di Bonaparte in Italia, Pio VI si piegò a trattare con un Direttorio ostile, deciso ad abbattere il potere temporale e a incamerarne le risorse. Tuttavia, proprio Bonaparte era ben consapevole dell’importanza di un intervento papale per la pacificazione religiosa in Francia e del vantaggio che ne poteva ricavare sul piano del potere personale: di qui le sue esitazioni di fronte alle sollecitazioni direttoriali di arrivare fino a Roma. Mentre il papa aderiva a una coalizione di Stati italiani, nel giugno 1796, Bonaparte invase lo Stato della Chiesa e occupò le Legazioni fermandosi a Bologna e trattando con i rappresentanti papali un armistizio (23 giugno) con il quale impose pesanti condizioni e contribuzioni, in denaro e in opere d’arte, l’occupazione delle Legazioni e la liberazione dei prigionieri politici. La città e il porto di Ancona vennero occupati militarmente dai francesi. L’armistizio, che risparmiava ancora sostanzialmente lo Stato e il papato, fu male accolto in Curia dalla fazione ‘zelante’ più intransigente, contraria a ogni intesa con i francesi e convinta della necessità di una guerra di religione fondata sulle masse rurali fanatizzate. Così anche le trattative avviate con il Direttorio fallirono per il rifiuto del papa di ritrattare i brevi di condanna della Costituzione civile del clero e di riconoscere la Chiesa costituzionale.
Mentre nel dicembre 1796 sorgeva nei territori ex pontifici di Romagna ed Emilia la Repubblica Cispadana, il papa prese accordi militari con il re di Napoli e con l’imperatore per la difesa del suo Stato; ma la disfatta dell’esercito pontificio a opera di Bonaparte lo costrinse al trattato di pace di Tolentino (19 febbraio 1797), firmato con le truppe francesi oramai vicinissime a Roma. Nel corso delle trattative i plenipotenziari pontifici ricevettero da Pio VI l’ordine di cedere sulle questioni temporali, ma di restare intransigenti in materia spirituale. Oltre a ulteriori pesantissime contribuzioni finanziarie e a spoliazioni di opere artistiche senza precedenti, vennero imposti dal trattato la rinuncia definitiva ai territori di Avignone e del Contado Venassino, alle Legazioni di Bologna, Ferrara e Ravenna e al porto di Ancona e il riconoscimento della Repubblica Cisalpina, con la quale nel luglio precedente si era fusa la Cispadana. Qui avevano trovato rifugio i più radicali e antipapali giacobini romani esuli, come Claudio Della Valle, Giuseppe Lattanzi ed Enrico Michele L’Aurora. Nonostante le dure critiche rivolte alla politica pontificia dagli ambienti più intransigenti della Curia romana, contrari a qualsiasi cedimento e accordo con i francesi anche sul piano territoriale, la grave menomazione della sovranità temporale finì, al contrario, per rafforzare il ruolo e il prestigio spirituale del papa, per la sua irriducibile fedeltà al mandato apostolico, tanto più che gli accordi non contenevano alcuna smentita delle misure adottate da Pio VI nei confronti della politica ecclesiastica della Rivoluzione. In tal modo, il trattato di Tolentino con cui, per la prima volta nella storia della sovranità temporale dei papi, un pontefice fu costretto sotto il peso della sconfitta militare a cedere grossa parte dei suoi domini, segna solo a prima vista il punto più basso e conclusivo della vicenda dello Stato della Chiesa e il suggello negativo di un’epoca. In realtà, la caparbietà del pontefice nel tenere distinte le due sfere, la temporale e la spirituale, non soltanto riuscì a salvare totalmente e a rafforzare quest’ultima, ma pose le premesse della stessa ricostituzione del potere temporale nella prima Restaurazione.
Nel luglio 1797 Giuseppe Bonaparte giungeva a Roma in qualità di ambasciatore e raccoglieva intorno a sé la ristretta, ma attiva parte dei cittadini favorevoli ai francesi che oramai uscivano allo scoperto con maggiore audacia. Il 28 dicembre, in uno scontro tra repubblicani romani e soldati pontifici presso palazzo Corsini, sede dell’ambasciata francese, restò ucciso il generale francese Mathieu-Léonard Duphot. L’episodio offrì il destro alla definitiva occupazione della città, che oramai era in preda al panico e fu affidata dallo stesso pontefice alla protezione delle più sacre reliquie portate in solenne processione. Il 10 febbraio 1798 le truppe del generale Louis-Alexandre Berthier entravano a Roma e il 15 febbraio – giorno del ventitreesimo anniversario dell’elezione di Pio VI – venne proclamata dai patrioti nell’antico foro la Repubblica Romana.
Con il nuovo governo democratico il vecchio papa non si mosse da Roma. La sua presenza e i suoi comportamenti di grande dignità e fermezza preoccupavano i francesi che quindi dapprima tennero il pontefice relegato nel palazzo Vaticano e poi, il 20 febbraio, lo costrinsero a partire, con pochi familiari, per Siena, dove restò fino alla fine di maggio. Da qui i francesi, temendo che la vicinanza al suo ex Stato alimentasse speranze di ritorno e infiammasse l’insorgenza nel Viterbese e in Umbria, lo trasferirono nella certosa di Firenze. Fu arrestata o esiliata anche gran parte dei cardinali. Nell’esilio toscano il papa continuò a occuparsi delle questioni religiose, a mantenere contatti diplomatici e a fornire istruzioni ai cattolici e ai suoi ex sudditi. Di grande rilievo fu il suo intervento nella questione del giuramento civico di fedeltà alla costituzione e alla Repubblica e di odio alla monarchia, richiesto dal nuovo governo repubblicano ai funzionari pubblici, compresi il clero e i professori delle università romane, pena il licenziamento. Pio VI provvide a far pervenire da Firenze un breve (16 gennaio 1799) in cui asseriva la non liceità del giuramento. Giurare odio alla monarchia implicava infatti un atto di odio per il pontefice come sovrano temporale; inoltre la monarchia era una forma di governo accettata da Dio e come tale non poteva essere odiata dai cristiani. Anche l’espressione relativa alla fedeltà alla Repubblica e alla costituzione veniva respinta perché la costituzione prevedeva norme antireligiose. Il papa ordinava di ritrattare a quanti avevano giurato e la situazione religiosa si inasprì.
In questo periodo, Pio VI fu al centro di diversi tentativi del Direttorio di rompere l’unità della Chiesa cattolica e di destabilizzarla dall’interno. Secondo una fonte dell’epoca, era intenzione dei francesi costringerlo a rinunziare al papato e procedere poi all’elezione democratica del nuovo «patriarca d’Occidente» da parte del clero inferiore e del popolo di Roma, secondo l’antica consuetudine della Chiesa dei primi secoli. Il piano doveva condurre all’elezione di un antipapa e a uno scisma nella Chiesa e soprattutto, attraverso l’elezione popolare del vescovo di Roma, alla riduzione delle attribuzioni di questo, rese eguali a quelle degli altri vescovi. Un analogo progetto emerge da un rapporto di Talleyrand al Direttorio redatto durante la deportazione di Pio VI in Francia: in esso si proponeva di nasconderlo e di far spargere la voce della sua morte, per farlo poi ricomparire quando fosse stato eletto il successore. Anche in tal modo si sarebbe determinato uno scisma, con due o anche più papi contrapposti. Entrambi i progetti, al di là della loro irrealizzabilità, rivelano la percezione dei francesi del ruolo ancora centrale del papato e, in particolare, del prestigio della stessa figura di Pio VI, e sono indicativi di quanto l’idea dello scisma religioso come arma politica, tesa a distruggere il centro dell’unità della Chiesa, fosse diffusa tra i rivoluzionari, anche italiani.
Il 13 novembre 1798, ben consapevole delle manovre in corso relative alla sua successione, Pio VI promulgò da Firenze la bolla Quum nos, con la quale provvedeva a emanare nuove disposizioni per il caso di sede vacante e a regolare le modalità di convocazione di un eventuale prossimo conclave. In vista di ciò, suggeriva ai cardinali di trasferirsi nell’ex Stato veneto, sotto la protezione imperiale. Dopo l’occupazione del Granducato di Toscana da parte dei francesi, alla fine di marzo del 1799 il papa fu condotto a Parma, poi a Torino e quindi avviato in Francia. Dopo un lungo e penoso viaggio, durante il quale dovette affrontare il passaggio del Monginevro, giunse a Briançon dove restò per due mesi. Infine, nel timore di un colpo di mano austro-russo per liberarlo, in giugno fu rimesso in viaggio in direzione di Valence, nella cui cittadella fu custodito e ove morì il 29 agosto 1799.
Alla fine dell’anno, e mentre era in corso il conclave di Venezia, venne ristampato a Firenze un opuscolo sulle Profezie veridiche di tutti i Sommi Pontefici, attribuite a s. Malachia, in cui un lungo paragrafo era dedicato a Pio VI, designato con il simbolo di «peregrinus apostolicus». Anche attraverso le profezie papali passò il rafforzamento del potere e del prestigio del papato, destinato a culminare nel secolo successivo e a cui la vicenda del pontefice contribuì in modo rilevante.
Se le prime esequie si svolsero a Valence, i novendiali per la sua morte ebbero luogo a Venezia, all’apertura del conclave. Tuttavia, la vicenda non era terminata e anzi culminò sul piano simbolico nelle contese relative all’appropriazione del suo corpo, glorificato dall’aureola derivante dalla persecuzione e dal martirio. Il successore Pio VII volle infatti riavere a Roma i resti del papa esule. Il 24 dicembre 1801 furono riesumate a Valence le spoglie papali che, imbarcate a Marsiglia per Genova, iniziarono da qui un trionfale viaggio di ritorno in cui a ogni tappa venivano celebrate solenni esequie seguite da una folla venerante. Il 17 febbraio 1802 si svolse «il magnifico ingresso trionfale in Roma» delle spoglie del defunto pontefice, con un’imponente processione che si snodò fino alla basilica vaticana. La messa solenne celebrata vide così il raro caso di un pontefice che assisteva al funerale del predecessore in presenza del suo cadavere, collocando due pontefici, il defunto e il vivo, l’uno accanto all’altro nella stessa cerimonia. Un grandioso monumento funebre venne realizzato più tardi dal Canova. Tuttavia, il cuore e i precordi di Pio VI furono riportati a Valence, su richiesta precisa del governo francese, con un lungo viaggio attraverso varie tappe in Francia nel 1802. Nel 1811 il cuore fu nuovamente riportato a Roma.
Celebrazioni e funerali rafforzarono il mito e il modello agiografici che avevano cominciato a cristallizzarsi intorno alla Chiesa e al papato usciti dalla Rivoluzione con l’aureola del martirio. Tale mito contribuì con successo alla ricostituzione dello Stato e alla conservazione del potere temporale, nella Restaurazione, e alla riaffermazione del ruolo direttivo della Chiesa, del papa e della religione nella società.
Fonti e Bibl.: manca una monografia recente su Pio VI mentre abbondanti sono le fonti e la bibliografia. Per una completa rassegna bibliografica cfr. M. Caffiero, P. VI, in Dizionario storico del Papato, a cura di Ph. Levillain, II, Milano 1996, s.v., pp. 1146-1150; Ead., P. VI, in Enciclopedia dei Papi, III, Roma 2000, pp. 492-516; si vedano inoltre G. Pelletier, Rome et la Révolution française: la théologie et la politique du Saint-Siège devant la Révolution française (1789-1799), Roma 2004; D. Armando, P. VI, in Dizionario storico dell’Inquisizione, diretto da A. Prosperi con la collaborazione di V. Lavenia e J. Tedeschi, III, Pisa 2010, pp. 1216 s.; Id., P. VI a Firenze: il governo della Chiesa e la difesa del papato nell’Italia della Rivoluzione, in Rivista di storia e letteratura religiosa, XLVII (2011), 1, pp. 89-112; M.L. Gil Meana, Cartas de un agustino sobre el conflicto entre el Emperador José II de Austria y la Iglesia en el pontificado de P. VI, in La Ciudad de Dios, 2011, vol. 224, 3, pp. 721-732.