PIO VII, papa
PIO VII, papa. – Barnaba Chiaramonti nacque a Cesena il 14 agosto 1742 dal conte Scipione e dalla contessa Giovanna Coronati Ghini. Le due famiglie appartenevano al patriziato locale, ma non avevano una tradizione curiale: per la carriera di Barnaba fu decisiva l’ascesa in Curia, poi l’ingresso nel S. Collegio (1773) e l’elezione pontificale (1775) del conterraneo Angelo Braschi (Pio VI): pur non essendo, probabilmente, imparentati, i Chiaramonti e i Braschi erano legati dalla comune appartenenza alla nobiltà cittadina nonché da solidarietà e conoscenze comuni.
I suoi primi passi, in mancanza di fonti, restano oscuri. La sua famiglia occupava a Cesena una posizione modesta, il padre morì nel settembre 1750 lasciando la vedova con una figlia femmina e quattro maschi. Il primogenito, Giacinto, entrò nei gesuiti nel 1749 per essere ridotto in seguito allo stato secolare; Tommaso, il secondogenito, perpetuò la casata; Gregorio abbandonò molto presto l’Accademia dei Nobili Ecclesiastici e dipese dalla famiglia; Olimpia entrò nelle celibate di Rimini e morì nel 1828 come semplice monaca di casa; l’ultimogenito Barnaba fu ammesso come oblato nel monastero benedettino di S. Maria del Monte il 26 luglio 1756. Sei anni più tardi anche la madre prese il velo e si ritirò presso le carmelitane di stretta osservanza a Fano, dove morì il 26 novembre 1777.
Entrato a quattordici anni nell’ordine benedettino, Barnaba cominciò il suo noviziato il 2 ottobre 1756 in S. Maria del Monte; il 10 ottobre indossò l’abito di novizio e prese il nome di don Gregorio; infine, il 20 agosto 1758 pronunciò i voti nello stesso monastero. La formazione teologica del futuro papa si svolse fra Cesena, Padova e poi Roma; a essa seguirono quindici anni di insegnamento a Parma e Roma (1766-81). In data ignota, venne infatti trasferito da Cesena al monastero di S. Giustina a Padova, nella Repubblica di Venezia, dove rimase fino al 1763. A Padova approfondì le sue conoscenze del latino, del greco e dell’ebraico e venne avviato agli studi teologici in un clima spiccatamente giansenista e antigesuitico. Passato nel 1763 al collegio S. Anselmo di Roma, in seguito a segnalazione dei suoi maestri, don Gregorio vi completò la sua formazione teologica. Promosso nel 1766 docente di teologia nel monastero di S. Giovanni Evangelista a Parma, lasciò Roma per recarsi nella corte più ostile alle posizioni ecclesiologiche del papato dell’intera penisola. In questa città rimase nove anni.
Pur essendo incluso nell’editto sulla riforma dei conventi (2 febbraio 1768) che determinò l’espulsione di quasi quattrocento religiosi stranieri dai Ducati di Parma e Piacenza, don Gregorio fu risparmiato dal provvedimento. Sembra sia rientrato nel novero di «coloro che per la loro pietà e la loro scienza meritano di ottenere un permesso di soggiorno»: questo placet governativo testimonia perlomeno l’esistenza di potenti appoggi a corte, se non addirittura di esplicite simpatie di Gregorio per la politica parmense, che gli evitarono ogni sorta di difficoltà fino alla sconfitta finale di du Tillot sfociata nella fuga del 10 novembre 1771. A Parma il futuro papa ebbe l’opportunità di conoscere e frequentare un ambiente intellettuale attratto dalla politica di mecenatismo culturale promossa dal ministro riformatore. Qui, in veste di bibliotecario dell’abbazia di S. Giovanni, cominciò a coltivare le sue inclinazioni di bibliofilo, una delle rare passioni della sua vita – il nome del futuro papa compare anche (per conto della biblioteca) fra i ventisette sottoscrittori parmensi dell’edizione livornese dell’Encyclopédie (1770-79).
Gli anni di lettorato nel collegio S. Anselmo (1775-81) non consentono di far luce sull’evoluzione intellettuale del futuro papa: i suoi corsi non si sono conservati e fra gli allievi non emerse alcuna personalità significativa. Il benedettino fu richiamato a Roma in coincidenza con l’elevazione al soglio di Angelo Braschi (15 febbraio 1775). Nominato nel 1781 per grazia pontificale abate commendatario di S. Maria del Monte di Cesena e abate onorario di S. Paolo, don Gregorio si scontrò con l’autorità dell’abate ‘di governo’. Pio VI risolse la controversia elevando il suo compatriota alla sede della diocesi suburbicaria di Tivoli, nel corso del Concistoro dell’11 dicembre 1782; il nuovo vescovo fu consacrato in S. Ambrogio il 21 dicembre. Il breve episcopato a Tivoli (1782-85) non ha lasciato traccia negli archivi. Don Gregorio lasciò S. Paolo per Tivoli il 30 gennaio 1783, si dimostrò un vescovo attento alle prescrizioni del Concilio di Trento, compì una visita pastorale ed entrò in conflitto con il rappresentante locale del S. Uffizio per difendere la propria giurisdizione episcopale. Il favore di Pio VI si manifestò in modo eclatante nel Concistoro del 14 febbraio 1785, quando elevò il suo protetto al S. Collegio e gli affidò la diocesi di Imola. Preceduto da una lettera pastorale datata 1° luglio, il nuovo vescovo, dopo aver preso possesso del titolo cardinalizio di S. Callisto il 27 giugno, fece il suo ingresso nella cattedrale di Imola il 12 agosto 1785. I quindici anni di episcopato del cardinale Chiaramonti rappresentano a tutti gli effetti un lungo periodo di maturazione.
Con intelligenza e determinazione, che non escludono la meticolosità, elaborò una pastorale di ispirazione tridentina, attenta alla tutela degli interessi della Chiesa, alla dignità del culto, alla formazione del clero e all’istruzione dei fedeli. Dette prova di fermezza anche nel difendere le prerogative episcopali di fronte all’autorità politica e amministrativa del cardinal legato di Ferrara, cui l’oppose un conflitto piuttosto vivace.
Il suo episcopato fu ben presto turbato dall’eco degli eventi rivoluzionari. Richiamato presso Pio VI per consultazioni, il cardinale Chiaramonti lasciò Imola il 7 gennaio 1793 e raggiunse Roma il 15 gennaio. Partecipò al Concistoro segreto del 17 giugno 1793, nel quale Pio VI pronunciò l’elogio funebre di Luigi XVI, assimilato di fatto a un martire della fede. Di ritorno nella sua diocesi, nella primavera del 1796 subì gli effetti dell’intervento militare francese in Italia. Imola fu occupata una prima volta il 22 giugno e il 28 giugno dovette versare ai vincitori un tributo di 61.000 scudi. Fautore di una politica di conciliazione, il vescovo di Imola, pur riuscendo a evitare il peggio alla sua città, si rivelò impotente a scongiurare la sollevazione della vicina Lugo, invasa il 6 luglio da diverse migliaia di insorti, e in seguito il sacco della città da parte dei francesi, nella notte fra il 7 e l’8 luglio. Alla partenza dei francesi il cardinale Chiaramonti celebrò il 6 agosto un Te Deum nella cattedrale; ma, essendo esposto agli attacchi dei partiti della sua diocesi, il 14 ottobre abbandonò Imola alla volta di Cesena. Era dunque assente dalla sua sede episcopale allorché venne occupata una seconda volta (1° febbraio 1797), e non incontrò neppure Bonaparte, che vi si stabilì il 2 febbraio.
Richiamato da Pio VI a Roma, dove giunse il 10 febbraio, il cardinale Chiaramonti assistette impotente al crollo militare e diplomatico dello Stato pontificio e alla conclusione del trattato di Tolentino (19 febbraio 1797). Il trasferimento della sovranità sulle Legazioni alla Francia rivoluzionaria sconvolse l’assetto degli equilibri politici e religiosi in cui il cardinale aveva vissuto fino a quel momento: Imola non apparteneva più agli Stati della Chiesa e il sovrano non era più il pontefice.
La laicizzazione delle strutture statali si iscrisse anch’essa in un processo di democratizzazione dell’intera società.
Il cardinale Chiaramonti, il 29 marzo 1797, ritrovò la sua sede episcopale occupata e ‘rivoluzionata’. La costituzione della Repubblica Cisalpina, ricalcata su quella francese dell’anno III e promulgata da Bonaparte a Milano l’8 luglio 1797, pur riconoscendo la libertà di culto, si fondava su un principio di sovranità democratica interamente secolarizzato; d’altra parte imponeva sia al clero sia all’insieme dei funzionari pubblici l’obbligo del giuramento di fedeltà al nuovo regime. Il 16 novembre 1797 giunsero a Imola i due commissari della Repubblica Cisalpina incaricati di applicare questa legislazione politica ed ecclesiastica, uno dei quali era il poeta Vincenzo Monti. Pretesero dal vescovo di Imola un intervento pubblico che affermasse la stretta unione fra vangelo, libertà e fraternità. È in questo contesto di rivolgimenti civili e di pressioni politiche che deve essere inquadrata la celebre Omelia del cittadino cardinal Chiaramonti vescovo d’Imola diretta al popolo della sua diocesi nella repubblica Cisalpina nel giorno del Santissimo Natale l’anno MDCCXCVII. Non è opportuno sopravvalutarne né l’importanza né l’originalità: il testo riflette, nelle sue linee generali, le istruzioni contemporanee dei vescovi delle ex Legazioni e delle correnti ecclesiastiche ‘conciliatrici’ del Triennio; e il sermone del vescovo di Imola non suscitò particolari inquietudini tra i cardinali riuniti in conclave a Venezia.
L’omelia del 25 dicembre 1797 (di fatto, antedatata di dieci giorni), testo capitale per la comprensione del futuro pontificato, deve essere interpretata al contempo come opera di circostanza e come tentativo di elaborazione di una teologia politica cristiana in epoca rivoluzionaria. A tale proposito, deve essere posta in relazione con i due testi che la precedettero e la seguirono, ossia la lettera pastorale del marzo 1797, conseguente all’annessione delle Legazioni, e quella del 25 luglio 1799, pubblicata all’indomani dell’occupazione austriaca di Imola: ciò detto, è necessario cercare di coordinare queste argomentazioni apparentemente contraddittorie. Infatti, da un uomo che perseguì come linea costante del suo pontificato la restituzione degli Stati della Chiesa nella loro integralità, sia l’invasione francese del 1797 sia la ‘liberazione’ austro-russa del 1799 non potevano che essere considerate come usurpazioni del Patrimonio di S. Pietro, di cui gli imperscrutabili decreti della provvidenza imponevano di prendere atto.
L’anno 1799 rappresentò una netta cesura nell’esistenza del cardinale Chiaramonti. La sconfitta militare francese in Italia a opera delle armate della seconda coalizione e la disfatta politica della democrazia davanti all’Insorgenza, da cui il vescovo di Imola sembra essersi sempre tenuto prudentemente a distanza, determinarono la vittoria degli eserciti austro-russi e degli insorti, che il 31 maggio 1799 fecero il loro ingresso di concerto a Imola; i beni dei ‘giacobini’ furono immediatamente saccheggiati. Il ritorno inopinato dei francesi, il 1° giugno, suscitò un’ondata di panico e il vescovo di Imola assunse di nuovo un ruolo essenziale di pacificazione: placò la collera del generale Hullin e celebrò un Triduum di azioni di grazie, poi assistette alla partenza definitiva dei francesi (10 giugno), salutò il ritorno degli austriaci (11 giugno), officiò un nuovo Te Deum in onore della liberazione della città (9 luglio) e pubblicò la sua lettera pastorale sulla conclusione degli eventi rivoluzionari (25 luglio). In settembre apprese la notizia della morte del suo protettore, sopraggiunta a Valence il 29 agosto 1799. Il papa defunto si era preoccupato di fissare le condizioni in cui avrebbe potuto riunirsi il conclave, anche fuori di Roma, sotto la protezione di una potenza cattolica: fu così scelta l’isola veneziana di S. Giorgio Maggiore per beneficiare della tutela ravvicinata dell’imperatore austriaco. Il 1° dicembre 1799 Chiaramonti entrò in conclave con gli altri prelati. Il conclave di Venezia si protrasse per centoquattro giorni e sui quarantasei porporati in vita solo trentacinque vi presero parte.
La lunghezza del suo pontificato spiega come mai solo quattro cardinali presenti non fossero creature del papa defunto. Il ‘partito’ Braschi si divideva quindi in una minoranza zelante e filoaustriaca, raggruppata intorno a Leonardo Antonelli e a Herzan, che appoggiava la candidatura di Alessandro Mattei, arcivescovo di Ferrara, e una maggioranza ‘politica’, riunita intorno al debole cardinal nipote Romualdo Braschi-Onesti e sostenuta discretamente dalla Spagna, che caldeggiava la candidatura di Carlo Bellisomi, vescovo di Cesena. A quest’ultimo gruppo si aggregava, per fedeltà al suo protettore di sempre, il timido cardinale Chiaramonti. La maggioranza necessaria all’elezione era pari a ventiquattro voti: il conclave, per lunghi mesi, fu spaccato tra una maggioranza favorevole a Bellisomi e una minoranza schierata con Mattei, tra le quali oscillavano alcuni elettori che il prelato Ercole Consalvi, prosegretario del conclave, definì «neutrali» o «volanti». Per uscire dall’impasse, Albani e Herzan si accordarono per inviare un corriere all’imperatore Francesco II, che avrebbe dovuto concedere il suo benestare all’elezione di Bellisomi, ma da Vienna non giunse risposta. Il 19 febbraio i capi della maggioranza e della minoranza convennero sull’opportunità di esaminare altre candidature, tutte di volta in volta scartate. In questa situazione di incertezza il conclave si orientò lentamente verso l’elezione di un cardinale in carica di una diocesi, che fosse estraneo agli antagonismi politici interni alla Curia.
Il 12 marzo la candidatura del cardinale Chiaramonti, benedettino e vescovo di Imola, fu avanzata per la prima volta. Ma si scontrò con una serie di argomenti di ordine diverso: in primo luogo, le origini cesenati, il particolare attaccamento e addirittura la presunta parentela che univano il candidato al papa defunto e facevano temere un prolungamento invariato del pontificato precedente; inoltre l’età (cinquantotto anni), che riproponeva il rischio di un altro pontificato molto lungo; l’inesperienza politica e l’assenza di prospettive chiare sulle questioni più pressanti, ossia la restituzione degli Stati pontifici, occupati dall’Austria e da Napoli, e la realizzazione di una nuova intesa europea dopo la vittoria degli eserciti della coalizione e il colpo di Stato del generale Bonaparte, avvenuto il 9 novembre 1799, alla vigilia dell’apertura del conclave; da ultimo, le resistenze dell’interessato, di cui Consalvi riuscì ad avere ragione. A favore del candidato giocarono la sua mitezza di carattere e l’amabilità, la lunga e solida formazione teologica di benedettino, la sua dignità e fermezza come vescovo, la sua estraneità ai conflitti che dividevano la Curia. Il cardinale Ruffo, assecondato dal suo conclavista, l’abate Sparziani, e dal prosegretario del conclave Consalvi, si adoperò per convincere i cardinali del partito zelante ad accettare una candidatura di consenso, che ottenne agevolmente l’approvazione del cardinale Braschi e del suo ‘partito’.
Il 14 marzo 1800, all’unanimità dei voti eccetto il suo, il cardinale Chiaramonti fu eletto papa e assunse il nome di Pio VII, in segno di riconoscenza e di fedeltà nei confronti del suo predecessore. Incoronato in S. Giorgio Maggiore il 21 marzo (l’acredine dell’Austria gli precluse la basilica di S. Marco), Pio VII prese una serie di decisioni fondamentali per l’avvenire del suo pontificato. Il 15 marzo aveva scelto come prosegretario di Stato Ercole Consalvi, che aveva solo quarantatré anni: la sua energia, l’intelligenza politica e l’infaticabile attività dispiegata sono inscindibili dall’azione di Pio VII.
Il papa si trattenne a Venezia ancora tre mesi. Cercò invano di ottenere dall’imperatore Francesco II la restituzione delle Legazioni occupate dalle armate austriache. Il 15 maggio 1800 pubblicò a Venezia una prima enciclica, Diu satis, che esaltava il sacrificio di Pio VI, riaffermava con vigore la perennità della Chiesa nella persecuzione e poneva il proprio pontificato sotto il segno della «vera filosofia cristiana»; in un passaggio che alludeva alla Francia elogiò «la forza e la costanza» dell’episcopato, del clero e dei fedeli di fronte a «una rinnovata crudeltà dei tempi antichi». Il 22 maggio inviò a Roma come legati i cardinali Albani, Roverella e Della Somaglia per ristabilire il governo pontificio. Rifiutò anche di recarsi a Vienna, dove invece Pio VI era andato nel 1782, e decise di raggiungere rapidamente la capitale in considerazione della nuova offensiva che Napoleone si apprestava a lanciare in direzione delle Alpi. L’Austria, per timore di manifestazioni di solidarietà politica, gli vietò di attraversare le Legazioni. Il 3 luglio 1800 Pio VII entrò trionfalmente nella capitale, restituita dalle truppe napoletane, ma dovette attendere oltre un anno per riprendere possesso della basilica di S. Giovanni in Laterano (24 novembre 1801). Sul fronte interno, la principale preoccupazione di Pio VII e di Consalvi (promosso cardinale segretario di Stato nel Concistoro dell’11 agosto) consisté nel portare a compimento la restaurazione morale e materiale degli Stati pontifici.
Un gruppo di prelati riformatori, riunito in una congregazione economica, definì intorno a Consalvi le linee generali di una politica di ispirazione preliberale, che prevedeva un’apertura dell’economia, l’abolizione o l’attenuazione dei vincoli collettivi e corporativi, una parziale secolarizzazione degli ingranaggi statali e una relativa semplificazione dei meccanismi della giustizia, della fiscalità e dell’amministrazione. Questo progetto di ampia portata fu preparato da quattro congregazioni cardinalizie istituite il 9 luglio, cui se ne aggiunse a fine luglio una quinta.
Il progetto sfociò nella bolla Post diuturnas (30 ottobre 1800), o Constitutio super restauratione regiminis pontificii, che ripristinò l’antico sistema di governo ecclesiastico di Pio VI, pur cercando di introdurvi sensibili modifiche in ambito amministrativo ed economico.
Quest’ambizioso progetto soddisfece in parte le aspirazioni politiche dell’aristocrazia romana e dei patriziati urbani delle province pontificie, e tuttavia si scontrò con i pregiudizi, le intolleranze e le multiformi resistenze dei ceti privilegiati, come pure con le apprensioni e le inquietudini delle popolazioni rurali e cittadine. Infatti, il progetto consalviano di liberalizzazione graduale delle strutture economiche liquidò brutalmente un sistema complesso e rassicurante di vincoli, controlli e forme di assistenza intimamente connesse e intrecciate fin nel profondo delle mentalità collettive, senza essere realmente sostenuto né dai grandi proprietari terrieri né da un settore manifatturiero in embrione. Le opposizioni più tenaci si manifestarono all’interno della Curia. Il cardinale Braschi-Onesti, promosso camerlengo il 30 ottobre 1800, si dimise dall’incarico il 10 novembre 1801 dopo avere violentemente contrastato Consalvi a causa del ridimensionamento delle prerogative della Camera apostolica e della riduzione delle proprie rendite; e più di un prelato oppose alle riforme la forza invincibile dell’inerzia. Contemporaneamente il tracollo delle finanze pontificie e gli sconvolgimenti intervenuti in Italia modificarono l’assetto sociale e territoriale della Curia. La creazione di un’Accademia di religione cattolica (5 febbraio 1801) su iniziativa del prelato Zamboni espresse al contempo una vigorosa rinascita dell’apologetica cattolica e una cauta opposizione dei circoli intransigenti del clero romano e della Curia nei confronti della politica consalviana. Consalvi andò incontro così a un parziale insuccesso nel suo tentativo di attuare una serie di riforme che giudicava indispensabili alla sopravvivenza dello Stato teocratico, in cui vedeva, al pari di Pio VII, la garanzia dell’indipendenza e della libertà della Sede apostolica. Quando fu costretto ad abbandonare la segreteria di Stato, nel giugno 1806, il suo progetto di trasformazione statale era già sprofondato nell’immobilismo.
Gli esordi del pontificato furono segnati comunque da un clamoroso successo diplomatico: la conclusione del concordato con la Repubblica Francese, il 15 luglio 1801, seguita dal concordato del 16 settembre 1803 con la Repubblica Italiana. Primo Paese cattolico d’Europa per popolazione e potenza, la Francia dal 1789 aveva conosciuto notevoli sconvolgimenti religiosi seguiti da un periodo violento di decristianizzazione, associato dal 1795 a una forma intollerante e precaria di separazione tra Stato e Chiesa. Papa di compromesso, Pio VII pose fra i suoi obiettivi prioritari il ristabilimento del cattolicesimo in Francia. Il suo spirito di conciliazione si accordava con i disegni stabilizzatori del primo console Napoleone, preoccupato di ricomporre il conflitto fra Chiesa e Stato e di restaurare a proprio profitto, in un nuovo equilibrio, il precedente concordato di Bologna (1516). Le prime aperture di Bonaparte furono contemporanee alla battaglia di Marengo (14 giugno 1800) e al ristabilimento della dominazione francese nell’Italia settentrionale. L’anziano cardinale Martiniana, vescovo di Vercelli, svolse in un primo tempo il ruolo di intermediario, poi Pio VII inviò a Parigi due negoziatori: il prelato Giuseppe Spina, arcivescovo di Corinto ed esecutore testamentario di Pio VI, assistito dal teologo servita Carlo Francesco Caselli, consultore del S. Uffizio. A Parigi, nella massima segretezza, i legati intrapresero, a partire dal 15 novembre, una laboriosa trattativa con il ministro delle Relazioni estere Talleyrand e l’abate Bernier. Di fronte all’incagliarsi delle trattative François Cacault, ambasciatore di Francia a Roma, convinse il cardinale Consalvi a recarsi di persona a Parigi: giunto in città il 20 giugno, questi riuscì non senza difficoltà a siglare un accordo il 15 luglio 1801. Il bilancio di questo breve testo è contrastante: rappresenta al contempo una notevole concessione della S. Sede ai principi religiosi scaturiti dalla Rivoluzione, il ristabilimento della ‘concordia’ fra Chiesa e Stato e delle principali garanzie per l’esercizio del culto, un vero ‘colpo di Stato’ messo a segno a discapito dell’antica Chiesa gallicana e, a più lungo termine, un formidabile rafforzamento dell’autorità del papato sulle Chiese particolari.
La Chiesa gallicana, di fatto, venne annientata: il papa esigeva dal vecchio episcopato dimissioni collettive prima di procedere alla riorganizzazione delle circoscrizioni ecclesiastiche e alle nuove nomine; riconosceva ugualmente ai loro acquirenti la proprietà dei beni ecclesiastici alienati. Questo sconvolgimento manifestava anche l’onnipotenza della giurisdizione pontificia che si appoggiava al potere pubblico: Pio VII aveva negoziato di sua autorità le condizioni del ristabilimento del cattolicesimo in Francia concludendo un compromesso duraturo con lo Stato scaturito dalla Rivoluzione; la sua opera si distingueva come un atto di restaurazione religiosa e di affermazione ecclesiologica.
La determinazione dimostrata dal pontefice e da Consalvi consolidava un’intesa fra Roma e la Francia che nel 1804 sarebbe culminata nella consacrazione di Napoleone I da parte del papa nella chiesa di Notre-Dame a Parigi. Durante i negoziati Pio VII aveva respinto risolutamente le pressioni ostili dell’imperatore d’Austria e del re di Napoli, liquidando senza eccessivi riguardi anche le opinioni del cardinale Maury, rappresentante del pretendente al trono di Francia Luigi XVIII. Di ritorno a Roma il 9 agosto, Consalvi, con l’appoggio del papa, ottenne l’assenso della congregazione generale degli Esteri di Francia, a dispetto delle reticenze dei cardinali Antonelli e Albani di fronte all’ampiezza delle concessioni accordate dal pontefice. Il 15 agosto 1801 Pio VII ratificò l’accordo, lo rese noto al mondo cattolico con l’enciclica Ecclesia Christi e pubblicò lo stesso giorno il breve Tam multa, che esigeva dai titolari delle diocesi francesi le dimissioni dalla propria sede per il bene della Chiesa: su novantasette vescovi dell’ancien régime ancora in vita, cinquantadue le rassegnarono nelle mani del papa, mentre quarantacinque rifiutarono di farlo (secondo le cifre fornite da J. Leflon). Quanto ai vescovi costituzionali (riuniti in concilio nazionale a Parigi), furono tutti costretti alle dimissioni dallo Stato, ma evitarono la ritrattazione adottando una formula tipo. Il 24 agosto si decise l’invio del cardinale Caprara a Parigi come legato a latere allo scopo di procedere alla riorganizzazione della Chiesa e alla riconciliazione del clero e dei fedeli a conclusione di dieci anni di rivoluzioni. Il 5 settembre Caprara lasciò Roma per stabilirsi il 4 ottobre a Parigi, dove negoziò con il nuovo direttore dei Culti, il consigliere di Stato Portalis, di spirito legista e gallicano, l’insieme delle questioni relative all’applicazione del concordato. Bonaparte ratificò a sua volta l’accordo a Parigi l’8 settembre e Pio VII pubblicò il concordato in Concistoro il 28 dello stesso mese. Il 29 novembre 1801, la bolla Qui Christi Domini rimaneggiò la carta ecclesiastica della Francia, sopprimendo le centotrentacinque diocesi dell’ancien régime e istituendo un’ampia rete articolata in dieci arcidiocesi e cinquanta diocesi.
Nell’inverno 1801-02 Bonaparte nominò un episcopato ‘misto’, composto di sedici vescovi dell’ancien régime, dodici vescovi costituzionali, dai quali il papato non riuscì a ottenere una vera e propria abiura, e trentadue promossi. Nelle relazioni conflittuali fra Roma e Parigi sembrava fosse stata voltata pagina: dietro pressante richiesta di Pio VII, monsignor Spina ricevette l’incarico di rimpatriare le spoglie di Pio VI; le solenni esequie si svolsero a S. Pietro il 17 e 18 febbraio 1802. Lo ‘spirito’ del concordato fu soggetto comunque a un brusco raffreddamento in seguito alla promulgazione unilaterale, da parte del governo francese, di disposizioni regolamentari particolarmente rigide note con il nome di Articles organiques du culte catholique. Esse fissarono limiti rigorosi alla libertà di comunicazione del papa con la Chiesa di Francia, alla libertà del clero e a quella di culto nel suo complesso. Le proteste di Pio VII rimasero inascoltate. Il concordato propriamente detto, insieme agli Articles organiques du culte catholique e agli Articles organiques des cultes protestants, fu presentato con successo da Portalis, come una legge unica, di fronte al Consiglio di Stato e alle assemblee create dalla Rivoluzione, il Tribunato e il Corpo legislativo (epurati in anticipo dei loro elementi più critici). La legge che per oltre un secolo presiedette all’assetto giuridico del cattolicesimo e del protestantesimo in Francia (i decreti relativi al culto israelita furono emanati nel 1808) fu adottata l’8 aprile 1802. Un anno più tardi, il 6 aprile 1803, trentotto vescovi dell’ancien régime non dimissionari si fecero portavoci di un’estrema, solenne protesta contro le modalità e gli effetti della riorganizzazione concordataria: due di loro, monsignor Thémines e monsignor de Coucy, crearono una Chiesa anticoncordataria o Piccola Chiesa, separata da Roma che, soprattutto nella parte occidentale della Francia e nella regione di Lione, riuscì ad aggregare diverse migliaia di fedeli. Questo nuovo scisma non compromise tuttavia il clima straordinariamente caloroso dei rapporti fra Pio VII e Bonaparte, divenuto successivamente console a vita e imperatore dei francesi. Il 17 gennaio 1803 il papa promosse quattro cardinali francesi; l’8 aprile il cardinale Fesch, zio del primo console, fu nominato ambasciatore a Roma: infine, il 29 ottobre 1804, Pio VII accettò l’invito di Napoleone a recarsi a Parigi per celebrare la sua incoronazione in Notre-Dame, un gesto che il futuro Luigi XVIII non perdonò al papa.
Partito da Roma il 2 novembre, Pio VII fu acclamato lungo tutto il percorso del suo viaggio attraverso l’Italia e la Francia. Il quadro di Jacques-Louis David conserva la memoria dell’incoronazione avvenuta il 2 dicembre 1804, con il papa che assiste silenzioso all’autoconsacrazione di Napoleone e poi alla consacrazione di Giuseppina (alla quale Napoleone si univa in matrimonio, per l’occasione, di fronte alla Chiesa) a opera dell’imperiale sposo.
Il pontefice protrasse il soggiorno a Parigi fino al 4 aprile, in seguito si diresse di nuovo verso l’Italia. Il viaggio di ritorno a Roma si concluse con un’entrata trionfale in città, il 16 maggio 1805, che si prolungò il 26 giugno in una calorosa allocuzione concistoriale.
Gli anni 1802-06 segnarono anche una fase offensiva di grande portata da parte della S. Sede. Il 27 novembre 1801 Pio VII mandò il cardinale Caprara a Parigi per negoziare un concordato con il rappresentante della nuova Repubblica Italiana, Marefoschi. Nella costituzione della Repubblica, promulgata il 26 gennaio 1802 da Bonaparte in seguito alla consulta di Lione, il cattolicesimo fu la religione del nuovo Stato. Il concordato italiano del 16 settembre 1803 era più favorevole alla S. Sede del concordato francese: il cattolicesimo fu confermato nel suo statuto di religione di Stato; i beni della Chiesa non alienati furono restituiti al clero; la legislazione religiosa precedente fu abolita. Tuttavia, il vicepresidente della Repubblica Italiana Melzi d’Eril ne attenuò la portata abbinandolo, all’atto della sua promulgazione a Milano il 24 gennaio 1804, a un «decreto relativo all’applicazione del trattato», che ristabilì la preminenza della legge civile sul concordato. Le indignate proteste di Pio VII restarono inascoltate, come pure le rimostranze seguite all’introduzione del codice civile (compreso il divorzio) nel Regno d’Italia, l’8 giugno 1805. Pio VII abbozzò anche un progetto di concordato per contrastare la secolarizzazione dell’Impero germanico. Il trattato di Lunéville (9 febbraio 1801), che riconosceva alla Francia l’annessione della riva sinistra del Reno, prevedeva infatti di risarcire i principi tedeschi espropriati con i beni e i Principati ecclesiastici dell’Impero: questa soluzione – che comportò l’estinguersi delle proprietà della Chiesa in terra tedesca – fu ratificata dalla Dieta di Ratisbona il 25 gennaio 1803 e confermata dall’imperatore Francesco II il 28 aprile. Il papa esternò la sua preoccupazione sia all’imperatore Francesco II sia al primate Dalberg, adoperandosi affinché venisse avviato un negoziato complessivo che conducesse a un ‘concordato dell’Impero’ (Reichskonkordat). Le trattative in un primo tempo si svolsero a Vienna nel corso del 1803; in seguito i negoziati furono ripresi non a Parigi, come aveva auspicato Napoleone, ma a Ratisbona dal nunzio di Monaco, Annibale della Genga (futuro Leone XII), che dovette ritirarsi nell’autunno 1807. Il progetto non riuscì a decollare sia a causa delle aspirazioni contraddittorie dell’Austria e dei principi (Baviera, Württemberg), sia delle ambizioni crescenti di Napoleone, vittorioso sull’Austria ad Austerlitz nel 1805 e sulla Prussia a Jena nel 1806. Il fallimento del concordato dell’Impero aprì la strada a concordati particolari con gli Stati.
La rottura tra la Francia e la S. Sede si consumò al ritorno di Pio VII a Roma. La nuova disputa fra sacerdozio e Impero fu generata da un duplice conflitto, di natura politica e religiosa. L’ambizione di esercitare un dominio politico, militare ed economico sull’Europa indusse Napoleone a organizzare un blocco continentale contro l’Inghilterra, destinato a soffocare l’economia britannica fondata sulle esportazioni. Alla luce di questo progetto la neutralità rivendicata dal governo pontificio era impensabile. Il 15 ottobre 1805 Ancona, il porto principale degli Stati pontifici, fu occupata dalle truppe francesi. Il 15 febbraio 1806 l’armata del generale Gouvion-Saint-Cyr fece il suo ingresso a Napoli, dopo avere attraversato senza autorizzazione gli Stati pontifici: i Borbone si rifugiarono in Sicilia e il Regno di Napoli fu sottoposto al governo di Giuseppe Bonaparte, poi del maresciallo Murat, cognato dell’imperatore; le due enclave pontificie nel Regno furono sottratte al papa. Il porto di Civitavecchia fu presidiato nel maggio 1806. Napoleone pretese inoltre che fossero espulsi da Roma tutti i rappresentanti delle potenze che gli erano nemiche. Il 21 marzo Pio VII riaffermò solennemente la propria neutralità, il 10 aprile il cardinale Fesch fu richiamato a Parigi per essere sostituito nella carica di ambasciatore da Alquier, che era stato membro della Convenzione (e regicida). Il 17 giugno 1806 il cardinale Consalvi fu costretto alle dimissioni in seguito alle pressioni francesi. Pio VII nominò successivamente cardinali prosegretari Filippo Casoni (giugno 1806), Giuseppe Doria Pamphili (febbraio 1808), Giulio Gabrielli (marzo 1808) e infine l’energico e intransigente Bartolomeo Pacca (18 giugno 1808). Il 10 novembre 1806 Napoleone convocò a Berlino il nunzio Arezzo per esigere l’adesione degli Stati pontifici al blocco continentale, ma Pio VII rifiutò l’ingiunzione. Un ultimo tentativo di conciliazione fu intrapreso sotto l’egida del cardinale di Bayane, che era stato auditore francese del tribunale della Rota, inviato a Parigi il 19 settembre 1807 per trattare con il ministro Champagny: ma contemporaneamente Napoleone fece occupare dalle sue truppe le Marche e l’Umbria. Il 9 novembre Pio VII revocò a Bayane i suoi poteri, ma senza arrivare a una rottura definitiva. Il 21 gennaio l’imperatore ordinò l’occupazione di Roma: le truppe del generale Miollis invasero la città il 2 febbraio 1808. Il papa si considerò prigioniero nel suo palazzo del Quirinale e il 27 marzo si appellò al giudizio del «Re che è al di sopra dei re».
L’imperatore mise in atto, nello stesso tempo, una politica di deliberato asservimento della Chiesa ai suoi interessi temporali e spirituali. A una Chiesa ‘napoleonizzata’, in cui docili vescovi erano consacrati al ruolo di «prefetti viola», l’autorità del magistero pontificale era assoggettata agli interessi della dittatura imperiale, e una «teologia della guerra» era posta al servizio della politica francese di aggressione militare e di espansione territoriale in Europa, Pio VII, circondato da un S. Collegio intransigente, si oppose con un desolato Non possumus. L’11 ottobre 1806 il papa rifiutò di accordare l’investitura canonica ai vescovi designati per occupare le sedi vacanti nel Regno d’Italia, rompendo con questo gesto il concordato. Nell’autunno 1807 vietò a Bayane di accettare la partecipazione dello Stato pontificio alla coalizione contro l’Inghilterra e l’aumento del numero dei cardinali francesi. Infine, a partire dal 1808, rifiutò l’investitura canonica ai vescovi nominati nelle diocesi dell’Impero: l’insieme dell’edificio concordatario era ormai compromesso. Il duplice conflitto spirituale e temporale trovò uno sbocco brutale nella soppressione degli Stati pontifici e nell’imprigionamento del papa.
Il 23 marzo 1808, all’indomani dell’occupazione di Roma, il generale Miollis fece espellere quattordici cardinali non nativi dello Stato pontificio. Il 2 aprile le Marche furono annesse al Regno d’Italia. Il cardinale Gabrielli, il 19 maggio, pronunciò una solenne protesta a nome del papa, in seguito alla quale venne arrestato il 16 giugno e obbligato a risiedere nella sua diocesi di Senigallia. Il 6 settembre Pio VII dovette intervenire personalmente per far liberare il cardinale Pacca e insieme a lui si rinchiuse nel Quirinale. Infine, in un decreto firmato a Vienna il 17 maggio 1809, Napoleone ordinò l’annessione di Roma e dell’Umbria all’Impero perché formassero i dipartimenti del Tevere e del Trasimeno: il 10 giugno il vessillo pontificio fu ammainato al Quirinale.
Nello stesso giorno Pio VII promulgò e fece affiggere sulle porte delle basiliche più importanti di Roma la bolla Quam memorandum, redatta dai cardinali Pacca e di Pietro: «Per l’autorità di Dio onnipotente, dei santi apostoli Pietro e Paolo, e nostra dichiariamo che tutti coloro che, dopo l’invasione di Roma e del territorio ecclesiastico, dopo la violazione sacrilega del patrimonio di S. Pietro da parte delle truppe francesi, hanno commesso a Roma e nelle Chiese contro le immunità ecclesiastiche, contro i diritti anche temporali della Chiesa e della Santa Sede, gli attentati o alcuni degli attentati che hanno suscitato le nostre giuste rimostranze […] sono incorsi nella scomunica maggiore». Il generale della gendarmeria Radet eseguì l’ordine imperiale nella notte fra il 5 e il 6 luglio 1809, con un assalto al Quirinale reso possibile da complicità interne. Il papa, in compagnia del solo cardinale Pacca, fu portato in una berlina verso una destinazione ignota. Condotto a Grenoble, fu separato da Pacca, che restò rinchiuso nel forte di Fenestrelle dall’agosto 1809 al gennaio 1813; Pio VII fu poi trasferito a Savona dove giunse il 17 agosto e dove rimase internato per quasi tre anni (agosto 1809-giugno 1812), rinchiuso prima nel municipio poi nel vescovato, in un isolamento crescente: si considerò prigioniero, rifiutò di uscire e nella solitudine ritrovò la disciplina di vita del «povero monaco Chiaramonti», coltivando un senso di rassegnazione e una speranza che non escludevano fermezza di principi e tenacia nella difesa dei diritti della S. Sede.
Gli anni di Savona furono contrassegnati dall’attuazione di una politica religiosa che sembrò mirata unicamente ad annientare o asservire l’autorità pontificia. Il 2 febbraio 1810 Napoleone ordinò il trasferimento a Parigi degli Archivi Vaticani, con conseguenze molto pesanti sul piano documentario. Il 2 aprile l’imperatore, all’apice della gloria, sposò a Parigi l’arciduchessa Maria Luisa, figlia dell’imperatore Francesco II, dopo che il precedente matrimonio con la sterile Giuseppina, il 17 febbraio, era stato dichiarato nullo dalle autorità francesi. Tredici cardinali rifiutarono di indossare l’abito rosso durante la cerimonia: i ‘cardinali neri’ furono privati senza indugio delle loro rendite e imprigionati in diverse città francesi. Il 14 ottobre 1810 il cardinale Maury, ormai legato all’Impero, era posto da Napoleone a capo dell’arcivescovato di Parigi: Pio VII, con due brevi da Savona, del 5 novembre e del 18 dicembre (che Maury finse di ignorare), gli rifiutò l’investitura canonica vietandogli di governare la diocesi. Il 20 marzo 1811 Napoleone ebbe un figlio, al quale conferì, senza alcun riguardo per il pontefice prigioniero, il titolo di re di Roma. Da questo momento si adoperò per ottenere da Pio VII l’istituzione canonica dei vescovi da parte dei metropoliti, con la conseguenza di ridurre ulteriormente le competenze della Sede apostolica e di minacciare l’unità cattolica. Nello stesso tempo convocò un concilio nazionale dei vescovi dell’Impero. Il 13 giugno una deputazione di vescovi ottenne la tacita approvazione di una nota che, al termine di sei mesi di rifiuti, attribuiva l’investitura canonica al metropolita: ma il papa si ricredette ben presto. Il concilio nazionale dei vescovi dell’Impero si aprì a Notre-Dame di Parigi il 17 giugno 1811: anche se Napoleone vide profilarsi minacce di scisma, i padri conciliari riaffermarono la propria fedeltà alla Sede apostolica e all’unità della Chiesa. Una delegazione composta da quattordici membri fu inviata a Savona per negoziare, dal 3 al 30 settembre, un decreto sulle investiture canoniche: ma Bonaparte lo respinse, perché salvaguardava il principio dell’autorità pontificia limitandosi a delegarne i poteri al metropolita.
La situazione era in una fase di stallo assoluto allorché Napoleone, nella primavera 1812, partì alla conquista della Russia alla testa della Grande Armata. Con un ordine datato Dresda, 21 marzo 1812, l’imperatore, avendo avuto sentore del rischio di un’incursione inglese, dispose affinché il principe Camillo Borghese, suo cognato e governatore del Piemonte, trasferisse il papa in Francia. La decisione imperiale fu eseguita con particolare brutalità. Pio VII, partito da Savona il 9 giugno a mezzanotte sotto la scorta del comandante Lagorse e con la sola compagnia dei cardinali Bertazzoli e Porta, fu trasportato nella massima segretezza e senza alcun riguardo per l’età in una vettura sigillata, a briglia sciolta, attraverso le Alpi in direzione della Francia. Il 19 giugno entrò nel castello di Fontainebleau, nel quale rimase prigioniero sotto stretta sorveglianza per diciannove mesi. Napoleone, tornato sconfitto nel dicembre 1812 dalla disastrosa campagna di Russia, con la mediazione del cardinale Doria Pamphili cercò di fiaccare definitivamente la resistenza del papa. Il 19 gennaio incontrò Pio VII a Fontainebleau e per un’intera settimana trattò con lui direttamente e senza testimoni. Ottenne dal pontefice, indebolito dalla vecchiaia, la firma di un progetto di convenzione noto con il nome di Concordato di Fontainebleau (25 gennaio 1813): il papa cedette su tutta la linea, accettò il trasferimento della sua sede di residenza, l’istituzione dei vescovi da parte del metropolita al termine di sei mesi di vacanza e il riassetto della geografia ecclesiastica di Italia e Germania; in compenso ricevette un’importante dotazione, si vide riconosciuta una rappresentanza diplomatica, recuperò la libertà per sé e per i suoi cardinali. Mentre Napoleone si affrettava a pubblicare e celebrare il nuovo concordato, Pio VII, rinfrancato dall’appoggio dei suoi consiglieri ritrovati (Consalvi, Pacca e di Pietro), il 24 marzo inviò a Napoleone una lettera in cui ritrattava il concordato, che tuttavia l’imperatore decise di ignorare. I cardinali furono di nuovo allontanati e assoggettati all’obbligo di residenza e il papa fu ancora una volta isolato: inutili trattative si protrassero lungo l’intero corso del 1813, mentre l’Impero francese era in declino sul fronte politico e militare. Di fronte all’avanzata delle truppe alleate in Francia, Napoleone fece ricondurre il suo prigioniero a Savona. Il 23 gennaio 1814 Pio VII lasciò Fontainebleau e compì un tortuoso itinerario che toccò Orléans, Limoges, Tolosa, Montpellier, Aix e Nizza, per procrastinare il ritorno e aggirare la valle del Rodano, dove il fermento antibonapartista era al culmine. Il lungo percorso del prigioniero si tramutò in un trionfo. Il 16 febbraio Pio VII ritrovò la sua prigione di Savona, senza aver compiuto un solo gesto per riconquistare la propria libertà. Alla fine, in marzo, Napoleone ordinò la liberazione del prigioniero e lo fece accompagnare a Bologna, calcolando in tal modo di contrastare i progetti di annessione dell’imperatore austriaco e di Murat. Pio VII lasciò Savona il 19 marzo e fece il suo ingresso a Bologna il 31 marzo. Celebrò le cerimonie della settimana santa a Imola, sua antica città episcopale, si trattenne a Cesena, sua città natale, dal 20 aprile al 7 maggio, poi il 15 maggio si recò al santuario di Loreto a rendere grazie per la sua liberazione. Questo lungo soggiorno consentì al papa di attendere la conclusione delle operazioni militari e politiche in Francia (gli alleati entrarono a Parigi il 31 marzo, Napoleone abdicò a Fontainebleau il 6 aprile, Luigi XVIII si insediò alle Tuileries il 3 maggio), di avvalersi dell’appoggio dell’emissario britannico in Italia, di dare risonanza alla sua presenza non solo di pontefice, ma anche di sovrano nelle Legazioni e nelle Marche, di misurare il fervore e l’attaccamento delle popolazioni, per le quali incarnò, nei rovesci della guerra, il ritorno alla pace e alla sicurezza dell’antico ordine. Nel primo messaggio rivolto alla cattolicità, pronunciato a Cesena il 4 maggio 1814, Pio VII formulò un’interpretazione in chiave provvidenzialista delle sue tribolazioni e della sua restaurazione, riaffermando anche con forza i suoi diritti di pontefice e di sovrano.
L’entourage pontificio fu dominato da un ristretto gruppo di prelati zelanti che premettero per una politica radicale di restaurazione. Inviato a Roma per predisporre il ristabilimento dell’autorità papale nelle province «di prima recupera» (Roma e l’Umbria, occupate dalla truppe napoletane di Murat, ormai alleato dell’Austria), il futuro cardinale Rivarola abolì tutte le riforme introdotte dall’amministrazione napoleonica, soppresse il codice civile, ripristinò l’amministrazione ecclesiastica e rinchiuse nuovamente gli ebrei nell’area del ghetto. L’arrivo dei primi cardinali presso Pio VII determinò la suddivisione dei compiti: il 14 maggio a Foligno il papa restituì a Consalvi le sue funzioni di cardinale segretario di Stato e lo incaricò di negoziare con le potenze alleate la restituzione integrale dei suoi Stati; continuò ad affiancarlo, nel ruolo di prosegretario di Stato, il cardinale Pacca, al quale fu affidata l’opera di restaurazione immediata. Il duplice carattere della restaurazione pontificia negli anni 1814-15 fu fortemente tributario di questa scelta: per quanto attenne ai rapporti con le case regnanti, trovò attuazione su un piano eminentemente diplomatico e concordatario, mentre sul versante interno assunse una connotazione conservatrice, se non reazionaria. La restaurazione degli Stati pontifici rappresentò il capolavoro di Consalvi in ambito internazionale. Il 23 giugno, in una nota diplomatica, reclamò la restituzione integrale degli Stati pontifici, il 9 luglio era di nuovo a Parigi, dove di fronte all’amministrazione reale che intendeva tornare al concordato del 1516, difese quello da lui concluso nel 1801; infine si stabilì a Vienna il 2 settembre per partecipare al congresso incaricato di ridisegnare la nuova carta politica dell’Europa. La sua intelligenza tattica e il rapporto di stima e di fiducia che riuscì a instaurare con Metternich gli consentirono di realizzare gli auspici più ferventi del papa, al quale il Trattato di Vienna (9 giugno 1815) restituì sia le Marche e le Legazioni (salvo alcuni territori situati a nord del Po) sia le enclave di Benevento e di Pontecorvo. Il genio diplomatico di Consalvi salvaguardò per un altro mezzo secolo l’esistenza degli Stati ecclesiastici: un traguardo raggiunto, tuttavia, privilegiando logiche di ordine religioso in rapporto alle realtà di uno Stato ormai estraneo, nei suoi principi di governo e nelle sue strutture amministrative, al mondo scaturito dalla Rivoluzione, e che ben presto si rivelò refrattario a qualsiasi riforma.
A partire dal 1815 lo Stato pontificio fu preda di un processo irreversibile di irrigidimento sacrale che lo pervase in profondità. L’opera di restaurazione interna compiuta in un primo tempo dal cardinale Pacca, in seguito nell’ottica di un conservatorismo illuminato dal cardinale Consalvi, confermò la difficoltà sia di un mero ritorno all’ancien régime sia di un’evoluzione graduale dello Stato verso la modernità politico-amministrativa del XIX secolo. La restaurazione concepita dal cardinale Pacca durante il suo secondo ministero (maggio 1814-luglio 1815) mirava al risanamento spirituale e materiale della Chiesa, al ripristino dell’amministrazione nelle sue antiche forme, alla punizione dei membri della Curia legati all’Impero. L’atto più spettacolare di questa restaurazione religiosa fu affidato alla costituzione Sollicitudo omnium ecclesiarum (7 agosto 1814), attraverso la quale Pio VII ristabilì la Compagnia di Gesù. Due congregazioni furono incaricate di esaminare il comportamento dei vescovi e dei sacerdoti dello Stato ecclesiastico: una dozzina di prelati risultò esclusa dalla Curia e il cardinale Maury fu brevemente imprigionato a Castel S. Angelo. Dopo il rapido intermezzo del viaggio di Pio VII a Genova (22 marzo-7 giugno 1815), per sottrarsi in anticipo alla minaccia che il ritorno in Francia di Napoleone, durante i Cento giorni, e le armate di Murat potevano rappresentare per la libertà del pontefice, il cardinale Consalvi si applicò soprattutto a modernizzare l’amministrazione papale: il motu proprio del 6 luglio 1816 definì una nuova semplificazione delle strutture amministrative e giudiziarie dello Stato. Consalvi, tuttavia, si scontrò con una duplice resistenza: da una parte, le società segrete dei carbonari attive in particolare nelle Legazioni, che furono condannate da una bolla insieme alla massoneria, il 21 settembre 1821; dall’altra i membri più intransigenti della Curia e del S. Collegio, che rivendicavano con forza una restaurazione più radicale sia nella Chiesa sia nello Stato. Il crescente isolamento di Consalvi in seno alla Curia preluse alle future rivincite del partito zelante, che avrebbe trionfato nel conclave del 1823. Sul piano diplomatico, comunque, Consalvi perseguì con successo una politica di concordia con le case regnanti. Malgrado la riluttanza di Luigi XVIII, riuscì così a salvaguardare l’edificio del concordato napoleonico: i concordati conclusi a Roma su richiesta delle autorità francesi, il 25 agosto 1816 e l’11 giugno 1817, restarono lettera morta in seguito all’opposizione delle Camere; ma fu ripristinata la Nunziatura di Parigi (1819) e il numero delle diocesi aumentò sensibilmente (bolla del 6 ottobre 1822).
Tuttavia i principali successi diplomatici di questo periodo furono legati alla conclusione di due concordati: quello con la Baviera (24 ottobre 1817) e quello con il Regno delle Due Sicilie (16 febbraio 1818). Pio VII morì il 20 agosto 1823.
Fonti e Bibl.: Le fonti archivistiche relative alla biografia di Barnaba (Gregorio) Chiaramonti e al pontificato di papa Pio VII sono relativamente esigue se commisurate all’importanza della sua personalità e alla lunghezza del suo regno. Nessuna carta personale del Chiaramonti è stata conservata prima del 1780 (J. Leflon, P. VII. Des abbayes bénédictines à la Papauté, Paris 1958, p. 25). Per un quadro completo sulle fonti archivistiche indirette si rimanda a P. Boutry, P. VII, in Enciclopedia dei Papi, III, Roma 2000, pp. 509-529, dove si segnalano documenti conservati nell’Archivio segreto Vaticano, nell’Archivio storico di Propaganda fide – qui, in particolare, il fondo Consalvi – e una serie di inventari particolarmente ricchi di notizie archivistiche concernenti il pontificato di Pio VII.
Nella stessa voce è inoltre proposta una puntuale ed esaustiva bibliografia ragionata che affronta numerosi aspetti della vita e del pontificato di Pio VII (biografie, un accurato elenco di lavori di sintesi che spazia dalle notizie sulle origini familiari alla sua attività bibliotecaria, all’interpretazione storica dei concordati, fino alla ritrattistica relativa al pontefice). Fra le pubblicazioni più recenti si vedano: Il prigioniero itinerante. Da Venezia a Savona. P. VII nel bicentenario dell’elezione (1800-2000). Atti del Convegno di studi, a cura di F. Molteni, Savona 2000; B. Ardura, Le Concordat entre P. VII et Bonaparte, 15 juillet 1801. Bicentenaire d’une reconciliation, Paris 2001; P. VII papa benedettino nel bicentenario della sua elezione. Atti del Congresso storico internazionale, Cesena-Venezia 2000, a cura di G. Spinelli, Cesena 2003; J.-M. Ticchi, Le voyage de P. VII à Paris pour le sacre de Napoléon, 1804-1805: religion, politique et diplomatie, Paris 2013.