PIO VIII, papa
PIO VIII, papa. – Terzo di otto figli, e secondo maschio, Francesco Saverio Maria Felice Castiglioni nacque a Cingoli (Macerata) il 20 novembre 1761 dal conte Carlo Ottavio e dalla contessa Sanzia Ghislieri. Nobili entrambi, accomunati dall’origine lombarda delle rispettive famiglie, i genitori annoveravano tra gli antenati, oltre a vari ecclesiastici di rango, un papa ciascuno: il padre discendeva infatti da Celestino V e la madre da Pio V, il papa di Lepanto, unico pontefice canonizzato dell’era moderna. Malgrado così illustri ascendenti e nonostante i molteplici legami con altre famiglie aristocratiche delle Marche, lo stile di vita dei Castiglioni era rimasto austero, improntato ovviamente ai valori della religione, ma anche a quelli di una cultura di più ampio orizzonte; e, nel succedersi delle generazioni, il costante accumulo di un ricco patrimonio librario aveva comprovato la presenza in famiglia di vasti interessi culturali, in particolare per gli studi giuridici e scientifici, con una capacità di aggiornamento che durante il Settecento si era estesa fino ai testi dei philosophes, senza peraltro tralasciare le opere della controversistica gesuitica. Castiglioni crebbe dunque in un ambiente solido, seguito da vicino da uno zio sacerdote e da un istitutore; dal padre, cultore non improvvisato dell’antiquaria, ereditava inoltre una passione che, sviluppatasi su basi scientifiche attorno a un rilevante medagliere di proprietà della famiglia, gli avrebbe meritato il titolo di ‘pontefice numismatico’.
Nel 1773 entrò nel collegio Campana di Osimo, un istituto riservato ai figli dei nobili che aveva avuto tra i suoi alunni Annibale della Genga, poi papa con il nome di Leone XII. Vi conseguì nel 1774 gli ordini minori, ma presto una certa indocilità caratteriale indusse i genitori a trasferirlo, nell’ottobre 1776, al collegio Montalto di Bologna. Qui il clima di maggiore apertura intellettuale lo sollecitò positivamente, ma non cancellò del tutto le sue perplessità verso la scelta della carriera ecclesiastica cui sapeva di essere predestinato: donde alcune intemperanze verbali e comportamentali temporaneamente placate dalla speranza che lo studio del diritto, aprendogli le vie dell’avvocatura, lo inserisse nel mondo laico. Ma le insistenze con cui i genitori vollero avviarlo allo studio della teologia sgretolarono in lui poco per volta il convincimento che la propria vocazione non fosse sincera. Affidato a due gesuiti, l’italiano Borsetti e il messicano Emanuele Mariano de Yturriaga, nell’ottobre del 1782 il giovane si risolse finalmente ad abbracciare il sacerdozio: ordinato suddiacono a Bologna il 5 aprile 1783, il successivo 20 dicembre ottenne il diaconato. L’ordinazione sacerdotale ebbe luogo a Roma il 17 dicembre 1785.
Benché arrivata dopo tanti ripensamenti, la scelta fu subito intesa da Castiglioni come una missione, tanto più in ragione del fatto che i due docenti gesuiti gli avevano trasmesso una visione assai rigida dei rapporti tra la Chiesa e il mondo moderno, una visione in cui nulla si concedeva alle istanze del giansenismo, l’autorità papale non era messa in discussione e tutte le simpatie andavano verso quei settori del mondo cattolico più seriamente impegnati nella difesa dell’ortodossia non solo contro la secolarizzazione già in atto in molti Stati europei, ma anche contro ogni tentativo di riformare la Chiesa dall’interno.
Castiglioni rinvigorì tale tendenza soprattutto dopo il passaggio a Roma (1785), dove completò il corso di studi prima con l’apparato dottrinario fornitogli dagli studi di diritto, poi con i tre anni di perfezionamento vissuti nello studio di Giovanni Devoti, docente di diritto canonico alla Sapienza. A ciò si aggiunse la frequentazione del gesuita Francesco Antonio Zaccaria, altro inflessibile sostenitore del primato papale sulla gerarchia e sulla comunità civile. Furono appunto Devoti a rafforzare il suo antigiansenismo e i gesuiti a stimolare in lui la devozione per il S. Cuore. Ma a evitargli almeno in parte di consegnarsi completamente all’intransigentismo e all’avversione per il mondo moderno furono la mitezza del carattere e un’innata inclinazione alla tolleranza grazie alla quale poté poi vedere nell’errore qualcosa da correggere con l’apostolato più che da fulminare con le condanne.
Allo stesso modo si era rassegnato alla malattia cronica – un erpete – che lo aveva colpito nel 1782 e che, seguita da altre infermità, lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. In definitiva, la robustezza della preparazione dottrinaria non gli precludeva la comprensione del mondo, così come l’attaccamento ai principi tridentini o alla morale di s. Alfonso de’ Liguori, per quanto forte, non rappresentava l’unità di misura unica per la valutazione del reale. Si può dunque dire che in Castiglioni il giurista che collaborava con Devoti nella congregazione incaricata di mettere a punto la condanna del giansenismo e il teologo che ricavava dai testi sacri la conferma della superiorità dell’autorità papale si completavano nell’uomo di Chiesa che credeva profondamente nel modello pastorale della cura d’anime affermatosi nelle Marche durante il Settecento e tale da incarnare ai suoi occhi l’essenza stessa del cristianesimo.
Il lungo ministero sacerdotale intrapreso a partire dal novembre-dicembre 1788 al seguito di Devoti che, nominato vescovo di Anagni, lo aveva voluto con sé come vicario generale della diocesi, lo pose a contatto con la realtà viva dei fedeli. Presto, però, una certa distanza culturale dall’ambiente anagnino e la prospettiva di avvicinarsi alla famiglia gli suggerirono di accogliere l’invito di trasferirsi a Fano rivoltogli dal capo della diocesi, monsignor Antonio Gabriele Severoli. Incaricato dell’insegnamento del diritto canonico nel seminario, corrispose pienamente alle aspettative dell’intransigente Severoli, come lui turbato dall’incedere di quelli che Castiglioni avrebbe definito i «mali tempi» della Rivoluzione (Fusi Pecci, 1965, p. 51). Al confronto, l’occupazione cui si dedicò tra il 1795 e il 1796 come prevosto del capitolo della cattedrale della natia Cingoli rappresentò una specie di rifugio dello spirito: approfittando della biblioteca paterna, prese allora a coltivare la ricerca erudita e la storia sacra compilando in latino i manoscritti di alcune cronache di vita locale e di un più impegnativo Prospetto dei Monti frumentari del Cantone di Cingoli, occasione per celebrare la dimensione municipalistica dello Stato della Chiesa ed evocare in tal modo le basi storiche del potere temporale, in esse configurando il solo rimedio alla minaccia della disgregazione: minaccia che, nel Prospetto, Castiglioni si sforzava di esorcizzare contrapponendovi l’elogio delle virtù contadine e quel tipo di fratellanza tra gli umili in cui individuava lo «spirito primario della democrazia».
All’inizio del 1797, nominato vicario della diocesi di Ascoli, tornò al sacerdozio. Costretto a fare i conti con le turbolenze della lotta per il controllo della penisola che con l’arrivo dei francesi aveva avuto tra i suoi epicentri le Marche, diversamente da altri ecclesiastici non abbandonò la città e si piegò ad accettare il giuramento civico, una debolezza che avrebbe ritrattato nel 1799. Sul finire del 1797 era di nuovo a Cingoli come vicario generale e poi come prevosto, impegnato a tentare di contenere i colpi inflitti alla Chiesa dal regime repubblicano instauratosi a Roma a inizio 1798. Grazie a un carattere abbastanza conciliante superò indenne la prima bufera rivoluzionaria: dietro consiglio di Severoli, Pio VII lo premiò con la dignità episcopale (17 agosto 1800) assegnandolo alla diocesi di Montalto Marche – il paese che aveva dato i natali a Sisto V –, ciò che suonò come un riconoscimento della capacità con cui egli, evitando lo scontro frontale con le autorità repubblicane, aveva saputo in qualche misura tutelare i diritti della S. Sede. Ma probabilmente c’era anche, nel papa, la volontà di far emergere personaggi ferrati nella conoscenza dei canoni, in previsione di contrasti con i francesi occupanti che avrebbero potuto avere anche risvolti giuridici. Secondo Jean Alexis François Artaud de Montor, che nel 1864 ne avrebbe pubblicato la biografia, Castiglioni avrebbe avuto un ruolo non formale di consulente del papa in vista della preparazione del concordato con Napoleone (1801).
Alla guida della diocesi di Montalto, di cui prese possesso il 29 settembre 1800, si prodigò per rilanciare le pratiche religiose, incoraggiare il culto mariano, intervenire sulla formazione del clero e sorvegliarne attentamente i costumi. Le omelie e le pastorali con cui si rivolse ai fedeli tracciavano i contorni di una società che solo educando i giovani ai sani principi e ostacolando la diffusione dei libri perniciosi, portatori di ateismo e materialismo, avrebbe potuto combattere il fenomeno dell’irreligione. Tuttavia lo sforzo di attuare pienamente tale programma fu vanificato dal giuramento di fedeltà e obbedienza a Napoleone che il clero fu costretto a prestare dopo l’annessione delle Marche al Regno d’Italia (2 aprile 1808). Attestatosi su una posizione di netto rifiuto e colpito di conseguenza da un ordine d’arresto, il 14 luglio 1808 fu costretto a lasciare la diocesi a un vicario e a trasferirsi a Pavia, dove gli fu imposto di chiudersi in una casa religiosa.
La persecuzione non finì lì: ostinandosi a restare fedele al papa, pagò la propria opposizione con spostamenti periodici (da Pavia a Mantova, a Torino, e poi, nel 1813, a Milano). Trovò conforto negli studi di erudizione e nelle espressioni di solidarietà rivoltegli da alcuni aristocratici tradizionalisti, ma ciò che veramente lo convinse ad accettare il proprio destino fu l’idea del carattere quasi provvidenziale delle persecuzioni, ossia l’ipotesi di una purificazione della Chiesa dagli eccessi mondani. Non a caso il motivo della sofferenza come passaggio ineludibile per una ripresa piena del cattolicesimo compariva nell’omelia che, riacquistata la libertà, rivolse al popolo di Montalto il 29 giugno 1814. Vi aveva fatto ritorno il 6 giugno, ma dovette aspettare un anno perché sulle Marche fosse ristabilita la piena potestà pontificia.
Nel concistoro dell’8 marzo 1816 Castiglioni ottenne la porpora cardinalizia con il titolo di S. Maria in Traspontina. Contestualmente gli fu affidata – altro segno di considerazione – anche la diocesi di Cesena, la città natale di Pio VII. Nel mettersi all’opera, dispiegò la propria azione pastorale lungo varie direttrici convergenti tutte su un programma di ricostruzione e di risveglio spirituale avente tra i suoi punti fermi una più accurata selezione del clero e, con la collaborazione delle famiglie, un ritorno all’istruzione cristiana della prole e una valorizzazione dei sacramenti. Si ebbero poi, tra il 1° e il 15 dicembre 1816, due settimane di missioni evangeliche svolte da una squadra di predicatori in cui spiccava il passionista Vincenzo Maria Strambi e, annunziata l’8 maggio 1818, una visita pastorale che durò due anni e sottopose tutti i luoghi di culto, conventi, opere pie, seminari e case religiose a una meticolosa ispezione. Alla fine, fu il presule in persona a occuparsi della catechesi dei fedeli mentre i suoi collaboratori passavano al setaccio le situazioni amministrative e contabili.
Tale linea di condotta, che sotto il profilo temporale non risparmiava comunque la repressione dell’attività delle società segrete, lo pose in sintonia con il cardinale Ercole Consalvi, segretario di Stato di Pio VII, il cui realismo politico si sarebbe dovuto, in teoria, mal conciliare con un uomo come il vescovo di Cesena, che aveva alle spalle una formazione da zelante e che guardava con timore all’ipotesi di un inizio di secolarizzazione dello Stato. Invece l’incontro tra i due ebbe luogo su un terreno di comune pragmatismo, e Castiglioni, chiamato a Roma come titolare dal 13 agosto 1821 della diocesi suburbicaria di Frascati, venne cooptato nel sistema consalviano con la carica di penitenziere maggiore che, collocandolo a capo del sacro tribunale della Penitenzieria apostolica, gli conferiva la massima autorità in materia di giudizio sui comportamenti spirituali. Equilibrio ed esperienza erano le doti che, unite alla rinomanza dei suoi interessi culturali, fecero sì che il 10 novembre 1821 gli fosse assegnata la prefettura della sacra congregazione dell’Indice. In tale veste operò con prudenza e moderazione, pur non perdendo mai di vista l’esigenza di difendere la dottrina, il magistero e anche il primato della Chiesa dalle teorizzazioni dei pensatori laici (Immanuel Kant, Jeremy Bentham e Gaetano Filangieri, di cui era ribadita la condanna), dagli scritti di storici e letterati (Carlo Botta e Vittorio Alfieri), nonché dalle polemiche di giansenisti e gallicani.
Nel conclave per l’elezione del successore di Pio VII, scomparso il 20 agosto 1823, Castiglioni, interrotta la visita pastorale nella sua nuova diocesi, entrò in una posizione che lo vedeva tra i favoriti. A dispetto della fresca promozione al cardinalato, giocavano a suo favore sia la voce della volontà espressa dal papa defunto sia il ruolo di mediazione che la sua candidatura avrebbe potuto svolgere tra le due correnti – gli zelanti e i politicanti – che si contendevano il potere papale. Legato infatti a Consalvi e perciò stesso gradito alla Francia, Castiglioni vantava con gli intransigenti rapporti tali da metterlo al riparo da un veto austriaco. Sennonché il troppo scoperto appoggio francese, rendendolo sospetto a Vienna, finì per danneggiarlo e indusse Metternich a puntare su un candidato più affidabile. Più ancora gli nocque il rifiuto che oppose alla richiesta di non rinnovare in caso di elezione la segreteria di Stato a Consalvi, verso il quale aveva confessato, secondo un’autorevole testimonianza, di «avere delle obbligazioni» (G.A. Sala, Scritti vari, II, Vita di Domenico Sala, Roma 1980, p. 69).
Il nuovo papa fu dunque il cardinale Annibale della Genga che prese il nome di Leone XII e inaugurò una politica integralista forse poco gradita a Castiglioni, al quale nel 1824 venne a mancare anche Consalvi. Nel primo biennio di pontificato in cui Leone XII si impegnò a perseguire la riscossa della Chiesa sul mondo moderno, Castiglioni restò confinato alle sue occupazioni pastorali e ai compiti di Curia. Si direbbe tuttavia che dal suo ritiro egli osservasse e seguisse con attenzione lo svolgersi del papato leoniano, vista la puntigliosità con cui, una volta asceso al trono papale, ne avrebbe disperso l’eredità ideale: regola, questa, che tra i papi era quasi una consuetudine, ma che egli parve applicare con particolare scrupolo.
Leone XII morì il 10 febbraio 1829. Quando entrò nel secondo conclave della sua vita Castiglioni aveva da poco compiuto 67 anni e si trovava in condizioni di salute assai precarie. In verità tale elemento poteva giovargli se, riproponendosi nel S. Collegio la spaccatura tra zelanti e politicanti (e tra austrofili e francofili), si fosse deciso, per venirne a capo, di puntare su un papa di transizione e di rinviare la sfida decisiva a un momento più propizio. In realtà Castiglioni apparve papabile sin dalle prime votazioni, quando si trovò a competere soprattutto con il cardinale Emmanuele De Gregorio che era appoggiato dallo schieramento conservatore, ivi compresa la Francia, mentre un po’ a sorpresa gli mancava il consenso dell’Austria che, in considerazione del clima difficile delle Legazioni, avrebbe certamente preferito l’elezione di un candidato che fosse in grado di tenere sotto controllo l’agitato spirito pubblico senza esasperare gli animi.
Il conclave si aprì il 23 febbraio 1829 e a orientarne le decisioni verso la scelta più gradita all’Austria, rappresentata appunto da Castiglioni, fu il cardinale Giuseppe Albani, notoriamente assai sensibile alle pressioni viennesi. Tuttavia neanche Albani sarebbe stato in grado di far uscire il conclave dallo stallo di un ripetuto testa a testa (per l’elezione occorrevano i due terzi dei votanti) se alla fine i cardinali, considerando la non lunga aspettativa di vita di Castiglioni, non avessero fatto convergere sulla sua persona i 46 voti che il 31 marzo 1829 lo portarono sul soglio papale.
In tutta questa vicenda la Francia parve recitare un ruolo del tutto marginale, nonostante la pomposa orazione che il suo ambasciatore, il ben noto François René de Chateaubriand, aveva rivolto al conclave alla vigilia, auspicando l’avvento di un papa capace di tenere la S. Sede al passo con i tempi. A replicargli, in qualità di capo dell’ordine dei vescovi, era stato proprio Castiglioni, il quale gli aveva opposto l’immagine di una Chiesa proiettata in un tempo più ampio del presente, più sollecita della salvezza spirituale dei fedeli che della loro felicità terrena, e dunque poco influenzabile dalle potenze.
L’esito del conclave, pur premiando colui che nel 1823 la Francia avrebbe voluto vedere papa al posto di Leone XII, lasciò comunque qualche dubbio. In effetti la designazione dell’austriacante cardinale Albani alla segreteria di Stato ebbe l’effetto di risvegliare nella diplomazia transalpina le perplessità che la scelta del nome Pio VIII, annunziata all’atto dell’elezione, collocando il nuovo papa nel filone di un moderato riformismo, aveva appena fugato. «Che Iddio ispiri a Pio VIII la decisione di accordare ai suoi sudditi il codice civile francese», annotava più scettico che speranzoso Stendhal (Passeggiate romane, 1991, p. 265).
Infatti i sudditi pontifici non avrebbero mai avuto il codice civile, ma il fatto che il papa optasse per il nome Pio VIII motivò qualche previsione sulla sua idea di governo. Non era solo questione di ricordare l’altro Pio di casa Castiglioni o di mostrare gratitudine a quel Pio VII che ne aveva favorito la carriera. Già prima di rendere pubblico il proprio programma, il papa appena eletto dava un preciso segnale di voler superare di slancio il pontificato di Leone XII – da tutti discusso e certamente impopolare – per riallacciarsi alla tradizione di papa Chiaramonti, il che non significava che con Pio VIII la Chiesa non avrebbe visti riaffermati i propri diritti o che non si sarebbe attuata la ricomposizione della società attorno al primato del pontefice, ma che lo si sarebbe fatto con uno spirito pastorale diverso. La stessa religione che Leone XII aveva pensato di poter brandire come un’arma diveniva per Pio VIII uno scudo: combattere si doveva, ma «con la prudenza del serpente e con la semplicità della colomba» (Fusi Pecci, 1965, pp. 257 s.), ossia con quelle qualità cui, rispondendo a Chateaubriand, l’allora cardinale Castiglioni aveva giudicato si dovesse ricorrere per salvare la barca di Pietro.
Il pontificato iniziava nel segno della continuità con Pio VII, e fu lo stesso Pio VIII a sottolinearlo quando, come ebbe a rilevare il Diario di Roma, dispose che la cerimonia del possesso avesse luogo il 24 maggio 1829: giorno e mese erano gli stessi in cui quindici anni prima il suo benefattore, reduce dalla lunga deportazione inflittagli da Napoleone, era rientrato a Roma.
Salendo sul trono, Pio VIII fu subito oggetto di una certa simpatia, prima di tutto perché era finito il papato leoniano e poi perché alla fama di cui era circondato come uomo di scienza egli seppe aggiungere il plauso procuratogli dalla decisione di far togliere dalle osterie romane i famosi cancelletti, odiatissimi dal popolino per la funzione di controllo che per loro mezzo si sarebbe voluto esercitare sull’accesso alle osterie. Ulteriore consenso gli venne dalla lettera, scritta ai parenti e subito data alle stampe, in cui affermava che in Curia non ci sarebbe stato più spazio per le consuetudini nepotistiche. Non avendo la figura austera di Leone XII (Massimo d’Azeglio parlerà di un Pio VIII «grasso grasso, colle gote cascanti») ed essendo per di più strabico e sofferente di un ascesso al collo che lo costringeva a tenere il capo sempre piegato di lato, lo raggiunse un sonetto di Giuseppe Gioachino Belli, il n. 11, carico di dileggio per le mille infermità da cui era notoriamente afflitto («ci hanno fatto un gran brutto strucchione de pontefice» era la chiusa). Nessuno più di lui sapeva che il suo pontificato sarebbe durato poco, e forse fu per questo che fin dall’inizio ebbe una visione chiara delle idee guida della sua azione di governo: fondamentale, fra tutte, quella di tenere ben distinta la direzione spirituale del mondo cattolico da quella politica, riservando la prima alla propria esclusiva competenza e confidando la seconda ad Albani. Agendo così era anche convinto di poter riequilibrare quello sbilanciamento dello Stato pontificio verso Vienna che tanto aveva indispettito la Francia, il cui ambasciatore aveva salutato il segretario di Stato dicendosi lieto di «poter presentare il suo omaggio à deux ministres à la fois», allusione ironica alla sua presunta funzione di garante romano degli interessi austriaci oltre che di primo ministro.
La frase appena riportata compariva in una lettera del cardinale Tommaso Bernetti (al cardinale Luigi Amat, Roma, Museo centrale del Risorgimento, b. 10/9/2) ed esprimeva il malumore degli ambienti zelanti per l’esito del conclave. Proprio Bernetti, ‘esiliato’ a Bologna con la carica di cardinale legato, era stato una delle prime vittime di Pio VIII, che il 24 maggio 1829, il giorno stesso della presa di possesso, aveva pubblicato la prima enciclica, la Traditi humilitati nostrae, con cui, oltre a ribadire l’autorità papale sui vescovi, aveva preso di mira bersagli quali l’indifferentismo religioso, le società bibliche e le sette (contro queste ultime mise in atto uno sforzo repressivo che sfociò in molte condanne, anche se mai in esecuzioni capitali). Come mezzo di prevenzione contro tali minacce l’enciclica auspicava una forte vigilanza sui seminari, un’accurata selezione dei parroci, una più rigorosa educazione dei giovani e un rispetto totale dei sacramenti, in particolare dell’indissolubilità del matrimonio.
Fissati tali capisaldi programmatici, Pio VIII si incamminò sulla via delle riforme senza però staccarsi dalla logica antiquata dell’assistenzialismo e dei provvedimenti di blando incoraggiamento all’economia o di alleggerimento di alcune pastoie burocratiche. Si trattò in genere di interventi tampone: così, il sostegno offerto all’agricoltura e alla zootecnia, l’importazione forzata di grani dall’estero per rimediare allo scarso raccolto del 1830, la riforma delle tariffe doganali, la protezione data all’editoria, il blocco dei fitti e l’incremento del ricorso alle opere pubbliche come contrasto alla disoccupazione, se mostrarono la sua sensibilità al problema della miseria, non modificarono di molto l’arretratezza dello Stato. Forse la sua misura più efficace in politica economica fu il chirografo del 28 gennaio 1830 con cui si ristabiliva il tribunale d’appello commerciale di Ancona e si acceleravano i procedimenti giudiziari in materia di scambi e traffici nel tentativo di dare ulteriore sviluppo a uno dei pochi comparti dinamici dello Stato pontificio.
Era evidente nel pontefice l’intenzione di approfittare dell’atmosfera di novità creata dalla sua elezione per marcare il proprio stile di governo. La più esplicita presa di distanza dai metodi e dagli indirizzi amministrativi del predecessore in campo assistenziale si percepì dunque nei due brevi del 28 agosto e del 21 dicembre 1829: il primo sciolse la commissione dei conservatori femminili, istituita nel 1827, restituendone le competenze ai singoli istituti; il secondo operò qualcosa di analogo a proposito dei cinque maggiori ospedali romani, ricondotti in nome di una migliore funzionalità a una condizione di massima autonomia. Nell’un caso come nell’altro Pio VIII (ma non si dimentichi che alle sue spalle c’era Albani) ripristinava un principio di conduzione già caro a Pio VII e vanificava consapevolmente un disegno di centralizzazione che, se anche era stato pensato a fini di risanamento economico, aveva però stabilito un controllo dall’alto sull’intera materia nel quadro dell’ambizioso progetto di restaurazione morale e religiosa portato avanti da Leone XII, rispetto al quale aveva qualche significato anche la soppressione della congregazione di sorveglianza dei funzionari pubblici da lui voluta e realizzata con pratiche di vero e proprio spionaggio.
Tale impostazione di un moderato e timido riformismo non fu contraddetta dal giubileo straordinario convocato con qualche velleitarismo il 18 giugno 1829. In effetti è soprattutto sul piano della politica religiosa che in Pio VIII si avverte una certa continuità con Leone XII. Memore di come aveva esercitato il magistero episcopale, anche Pio VIII puntò molto sulla ritualità, sul richiamo all’osservanza dei sacramenti, sul rilancio dei gesuiti e sull’incremento delle vocazioni secolari e regolari. Al contempo promosse la canonizzazione di s. Alfonso de’ Liguori e favorì la ripresa in Francia di una gerarchia più fedele a Roma, così allarmando Lamennais, che criticò lo stato di paralisi in cui a suo dire era caduta la Chiesa. Conveniva su tale rilievo Bernetti, che da Bologna scambiava per inerzia la prudenza e osservava che a Roma tutto era «inazione, tristezza, stasi melanconicissima» (a Luigi Amat, 10 agosto 1829, Roma, Museo centrale del Risorgimento, b. 10/9/4). Che invece proprio di prudenza si trattasse lo dimostra la cura estrema con cui, concentrandosi sulle questioni spirituali, Pio VIII aveva mostrato di interpretare i suoi rapporti con gli altri Stati, cattolici o protestanti che fossero.
Fu infatti in questo ambito che il suo pontificato lasciò il segno, per il desiderio di evitare a ogni costo le rotture e di cercare sempre le vie della mediazione che caratterizzò la sua politica insieme estera ed ecclesiastica. Era convinto che con il dialogo la Chiesa sarebbe riuscita a tutelare i propri diritti assai più che con le conflittualità leoniane, e non era la pazienza a fargli difetto dal momento che, come aveva confidato a un cattolico francese, i tempi richiedevano «mezzi di dolcezza e persuasione» (Artaud de Montor, II, 1844, p. 59). Allo stesso personaggio aveva detto di non amare la parola «subito» (ibid., p. 17), perché non gli piacevano le decisioni precipitose, come poté constatare Antonio Rosmini che, avendone sollecitata l’approvazione della propria congregazione, si sentì consigliare di non aver fretta e di procedere con «umiltà e prudenza» (a Giovanni Battista Loewenbruck, 23 maggio 1829, in A. Rosmini, Epistolario ascetico, I, Roma 1911, p. 304). Armato di saggezza e deciso a creare con la sola autorità morale uno scenario di pace tra Francia e Austria, il cui raggiungimento avrebbe conferito grande prestigio internazionale alla Chiesa di Roma, Pio VIII si lasciò guidare da un solo ma solido principio: che, cioè, Roma dovesse rispettare le istituzioni civili di ogni Stato, anche a prescindere da un’eventuale origine rivoluzionaria.
Regolò in tal modo le faccende ecclesiastiche delle ex colonie latinoamericane della Spagna accordando loro la presenza di vicari apostolici che in pratica preludeva alla loro indipendenza da Madrid; uguale flessibilità dispiegò verso la Prussia sulla questione dei matrimoni misti spingendosi fino a concedere una sanatoria per quelli già celebrati fuori del rito tridentino, «fatta però rigorosamente salva l’educazione cattolica dei figli» (Enchiridion delle encicliche, I, 1994, p. 1183); con moderazione cercò di affrontare anche i contrasti con la Russia, evitando di alimentare il malcontento dei polacchi nella speranza di ottenere la fine delle persecuzioni contro la Chiesa uniate. Certo, non gli riuscì di smussare tutti gli angoli – con l’Olanda, per esempio, fu impossibile trovare un compromesso a tutela della libertà di culto dei cattolici belgi, che il papa non volle abbandonare malgrado la loro alleanza con i liberali, da Albani definita «mostruosa» (Leflon, 1975, p. 757) –, e quando ci riuscì non fu solo merito suo, ma è un fatto che con Londra, da dove nei giorni della sua elezione era venuto l’Emancipation Act, si stabilì una condizione di reciproco rispetto e di comune volontà di contenere il disagio dell’Irlanda evitando le inutili provocazioni. Con gli Stati Uniti, infine, si posero le basi per una piena integrazione dei cattolici e si avviò la disseminazione della gerarchia sul territorio. Nell’impossibilità di un accordo, alla rottura e alle rigidezze ideologiche Pio VIII preferiva sempre una tattica temporeggiatrice. Il beneficio che ne derivava era visibile, per esempio, nell’appoggio delle potenze che mise Roma in condizione di ottenere dalla Turchia l’emancipazione dei cattolici armeni.
Sarebbe tuttavia errato leggere questa prassi di governo alla luce del solo pragmatismo. Quelli di Pio VIII in fatto di relazioni tra la Chiesa e il mondo postrivoluzionario erano convincimenti profondi, nati da una formazione culturale certamente orientata, ma su cui aveva inciso la personale esperienza dolorosa da lui vissuta sotto Napoleone. Nulla seppe illustrare la fermezza della sua personalità meglio dell’atteggiamento che tenne verso la Rivoluzione francese del 1830. Quando infatti arrivò a Roma la notizia che, in conseguenza di una rivolta di popolo, i Borbone erano stati deposti e sostituiti da un esponente della dinastia orleanista, Pio VIII si guardò bene dal considerare la cosa sotto il profilo del legittimismo (come invece suggeriva Luigi Lambruschini, nunzio pontificio a Parigi) o dal lasciarsi prendere la mano da Albani. Non volle nemmeno tener conto – lui che aveva sempre predicato prudenza – delle indicazioni dilatorie della congregazione degli Affari ecclesiastici straordinari e, deciso a gestire l’affare in prima persona, optò a favore di un rapido riconoscimento del nuovo sovrano, affermando così un principio giuridico per nulla familiare alla Chiesa: il principio del «riconoscimento del potere politico indipendentemente dalla sua legittimità» (Piscitelli, 1950, p. 18), dove era significativo che, come avveniva ora con Luigi Filippo, il papa desse sanzione a un potere che non era di origine divina, ma era imposto dalla volontà popolare, per giunta attraverso una rivoluzione, e che parallelamente facesse cadere la propria riprovazione su quegli esponenti dell’alto clero francese che avrebbero voluto offrire solidarietà e sostegno al sovrano deposto: tale il senso della sua raccomandazione ai vescovi francesi di non abbandonare le loro sedi.
Questi atti sono del settembre 1830. Il 30 novembre, ormai logorato nella fibra, Pio VIII si spense dopo una breve malattia iniziata con alcuni attacchi di asma e conclusasi con un collasso. Il suo pontificato era durato in tutto venti mesi. Fu sepolto nella basilica di S. Pietro da dove, alla morte di Gregorio XVI, i suoi resti furono traslati nelle grotte del Vaticano. Sempre a S. Pietro, in forza di una disposizione testamentaria del cardinale Albani, gli fu elevato, a opera dello scultore Pietro Tenerani, un monumento funebre assai accademico nel suo neoclassicismo, ma fedele nella raffigurazione simbolica delle virtù – la giustizia e la prudenza – che gli avevano consentito di dare al proprio pontificato un «caractère progressiste, dans le sens d’un libéralisme moderé» (Schmidlin, 1940, p. 149). Auspice il distico dedicatogli da Pasquino («Visse, è morto, / e grazie a Dio nessuno se n’è accorto»), la sua memoria non gli sopravvisse a lungo.
Fonti e Bibl.: L’Archivio storico Castiglioni è conservato a Cingoli presso gli eredi: provvisoriamente ordinato, comprende 1210 fascicoli, mentre altri 886 sono depositati presso la Biblioteca comunale di Cingoli che custodisce anche il patrimonio librario della famiglia, 11.500 opere per un totale di 17.500 volumi inventariati a fine Ottocento. Su tale materiale archivistico è costruita la biografia di O. Fusi Pecci, La vita del papa P. VIII, Roma 1965, frutto di una scrupolosa ricerca, ma da integrare con ulteriori apporti conoscitivi quali quello di A. Pennacchioni, Il papa P. VIII F.S. Castiglioni, e il volume collettaneo La religione e il trono. P. VIII nell’Europa del suo tempo, Atti del Convegno di studi, Cingoli, 1993, a cura di S. Bernardi, Roma 1995, da cui si ricavano indicazioni sulle fonti manoscritte conservate in altre istituzioni culturali delle Marche (Biblioteca Benedettucci di Recanati, Biblioteca Mozzi Borgetti di Macerata).
Consultabile in rete (nel sito http://www.anti
qui.it/doc/personaggi/pio2.htm) è anche T. Santamarianova, Un pontefice cingolano: P. VIII Francesco Saverio Castiglioni, tesi di laurea in storia moderna discussa nell’anno accademico 2009-2010 presso la facoltà di scienze della formazione dell’Università degli studi di Macerata. In precedenza erano disponibili altre biografie (J.-A.-F. Artaud de Montor, Storia del pontefice P. VIII, I-II, Milano 1844; G. Malazampa, Una gloria delle Marche. Cenni storico-biografici su P. VIII, Cingoli 1931), e alcuni medaglioni inseriti in lavori sulla storia della Chiesa o dello Stato pontificio, quali P. Feret, La France et le Saint-Siège, Paris 1911, pp. 409-437; J. Schmidlin, Histoire des papes de l’époque contemporaine, I, 2, Lyon-Paris 1940, pp. 138-184; J. Leflon, Restaurazione e crisi liberale (1815-1846), in Storia della Chiesa dalle origini ai nostri giorni, II, 2, Torino 1975, pp. 741-781; R. Aubert, La Chiesa cattolica e la Restaurazione, in Storia della Chiesa, VIII, 1: Tra rivoluzione e restaurazione (1775-1830), a cura di H. Jedin, Milano 1977, pp. 110 ss.; A. Caracciolo, Lo Stato pontificio da Martino V a Pio IX (vol. XIV della Storia d’Italia diretta da G. Galasso), Torino 1978, pp. 606 s., 613 s.
Quanto alle fonti edite, per una bibliografia completa si rimanda a G. Monsagrati, P. VIII, in Enciclopedia dei Papi, III, Roma 2000, pp. 530-546. Molto materiale si è aggiunto a quello offerto a suo tempo da N. Bianchi, Storia documentata della diplomazia europea in Italia, II, Torino 1865, pp. 422-429, e III, Torino 1867, pp. 21 s.: utile soprattutto Le relazioni diplomatiche fra lo Stato pontificio e la Francia, serie II: 1830-1846, I, a cura di G. Procacci, Roma, 1962, ad indicem. Sulle carte della Nunziatura di Parigi e della Segreteria di Stato conservate in Archivio segreto Vaticano sono stati condotti alcuni lavori su aspetti particolari della politica di Pio VIII, soprattutto di quella estera: tra gli altri R. Moscati, Il governo napoletano e il conclave di P. VIII, in Rassegna storica del Risorgimento, XX (1933), pp. 257-274; E. Piscitelli, Stato e Chiesa sotto la monarchia di luglio, Roma 1950, ad ind.; C. Vidal, La S. Sede e la spedizione francese in Algeria (1830), in Archivio della Società romana di storia patria, LXXVII (1954), pp. 77-89; P. de Leturia, P. VIII y la independencia de Hispanoamerica, in Id., Saggi storici intorno al papato, Roma 1959, pp. 387-400; G. Marino, Il pontificato di P. VIII, tesi di perfezionamento in storia medievale e moderna discussa nel 1961 nella facoltà di lettere dell’Università La Sapienza di Roma, relatore A.M. Ghisalberti. Fonti memorialistiche di rilievo si devono a L. Lambruschini, La mia nunziatura di Francia, a cura di P. Pirri, Bologna 1934, ad ind.; Il tempo del papa-re. Diario del Principe don Agostino Chigi dall’anno 1830 al 1855, prefazione di F. Sarazani, Milano 1966, ad ind.; M. d’Azeglio, I miei ricordi, a cura di A.M. Ghisalberti, Torino 1971, p. 351; Stendhal, Passeggiate romane, prefazione di A. Moravia, Roma-Bari 1991, ad ind.; F.R. de Chateaubriand, Memorie d’oltretomba, a cura di I. Rosi, I-II, Torino 1995, ad ind.; per il testo bilingue dell’enciclica si veda Enchiridion delle encicliche, I, Bologna 1994, pp. 1182-1201. Tra i repertori: G. Moroni, Dizionario d’erudizione storico-ecclesiastica, LIII, Venezia 1851, pp. 172-188; G. Mollat Dictionnaire de théologie catholique, XII, 2, Paris 1935, s.v., coll. 1683-1686; A.M. Ghisalberti Dizionario del Risorgimento nazionale, diretto da M. Rosi III, Milano 1930, pp. 896 s.; F. Fonzi Enciclopedia cattolica, IX, Città del Vaticano 1952, coll. 1508-1510; Ph. Boutry, Dizionario storico del papato, a cura di Ph. Levillain, II, Milano 1996, ad nomen; Ph. Boutry, Souverain et pontife: recherches prosopographiques sur la curie romaine à l’âge de la restauration: 1814-1846, Roma 2002, pp. 342 s.