PIO XII, papa
PIO XII, papa. – Eugenio Pacelli nacque a Roma il 2 marzo 1876, secondogenito di Filippo, allora avvocato rotale, e di Virginia Graziosi. La sua era una famiglia di nobiltà pontificia, distintasi in vari suoi membri al servizio della S. Sede, particolarmente in campo amministrativo e finanziario.
Dopo aver frequentato il liceo statale Visconti, iniziò nel 1894 gli studi ecclesiastici al corso di filosofia dell’Università Gregoriana e come allievo del collegio Capranica, che lasciò l’anno successivo per ragioni di salute, ottenendo una speciale autorizzazione a vivere in famiglia. Completò la sua formazione nel seminario romano di S. Apollinare dove si laureò in teologia nel 1901 e in utroque iure nel 1902, avendo ricevuta il 2 aprile 1899 l’ordinazione sacerdotale. Nel 1895 frequentò anche per un anno i corsi della facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Roma. Su segnalazione del cardinale Vincenzo Vannutelli venne introdotto come apprendista (nel 1901), poi come minutante (nel 1905) alla congregazione degli Affari ecclesiastici straordinari, di cui era segretario Pietro Gasparri, che nel 1904 lo nominò segretario della commissione per la redazione del codice di diritto canonico da lui presieduta. Le sue competenze giuridiche, confluite anche in una successiva pubblicazione su La personalità giuridica e la territorialità delle leggi, specialmente nel diritto canonico (Roma 1912), gli valsero l’insegnamento di diritto pubblico presso la Pontificia Accademia dei Nobili ecclesiastici, centro di formazione dei diplomatici pontifici.
Nel 1911 succedette a Umberto Benigni quale sottosegretario agli Affari ecclesiastici straordinari, divenendone segretario aggiunto nel 1912 e segretario titolare nel 1914: in tale veste continuò ad affiancare il cardinale Gasparri, nominato segretario di Stato dal nuovo papa Benedetto XV. Pacelli ebbe di conseguenza un ruolo attivo nell’applicazione della linea pontificia in occasione della prima guerra mondiale, partecipando ai tentativi della S. Sede dapprima di evitare l’estensione del conflitto all’Italia – obiettivo di una sua missione a Vienna nel 1915 – e quindi di favorirne una soluzione negoziale. Anche con questo compito fu nominato nel maggio 1917 da Benedetto XV, che lo consacrò contestualmente arcivescovo titolare di Sardi, nunzio pontificio a Monaco di Baviera, unica sede di nunziatura di tutto l’Impero tedesco.
In ragione della sua carica, fu per dodici anni il perno delle relazioni della S. Sede con la Germania e con l’episcopato tedesco, venendosi a trovare in uno degli epicentri della tumultuosa fase politica e sociale attraversata da quel Paese tra il 1918 e il 1919. In ogni occasione ebbe cura di rappresentare le sorti della Germania come determinanti per il futuro dell’Europa e della Chiesa non solo tedesca, tanto più in presenza dell’ondata rivoluzionaria partita dalla rivoluzione bolscevica del 1917 ed estesasi verso occidente: come ebbe modo di costatare dal vivo soprattutto in seguito alla proclamazione a Monaco della Repubblica spartachista dei consigli (Räterepublik) nell’aprile del 1919. Nella circostanza espresse tutto il suo disgusto nei riguardi di quella che definì una «tirannia russo-giudaico-rivoluzionaria» (Fattorini, 1992, p. 116), addebitandone peraltro le cause, oltre che alla propaganda comunista, alla responsabilità delle potenze vincitrici, e denunciando il pericolo di una saldatura tra l’estremismo di sinistra e i movimenti della destra nazionalista, da lui definiti «bolscevismo nazionale». Pur senza condividere i principi liberal-democratici che presiedevano alla costituzione di Weimar, ne segnalò i lati vantaggiosi per la Chiesa cattolica, specialmente in materia scolastica. Ne attribuì il merito alla vitalità e alla capacità organizzativa dei cattolici tedeschi (che incoraggiò con la propria presenza ai Katholikentage) e all’attività del Partito del centro, con i cui leader, come Matthias Erzberger e Ludwig Kaas, stabilì frequenti contatti. Più in generale ritenne di poter rilevare, nella Germania postbellica, un particolare apprezzamento per «l’immenso potere politico-religioso della Chiesa cattolica» (ibid., p. 336). Su queste basi si adoperò per una normalizzazione dei rapporti tra la S. Sede e la Repubblica di Weimar, perseguendo nel contempo una linea concordataria. Ebbe parte di primo piano nell’apertura delle relazioni diplomatiche che portarono nel 1920 alla creazione della nuova Nunziatura di Berlino, di cui assunse la titolarità conservando anche quella di Monaco, dove continuò a risiedere per alcuni anni assistendo tra l’altro al fallito putsch di Hitler nel 1923. A Monaco condusse i negoziati che portarono nel 1924 alla firma di un concordato con la Baviera, cui fecero seguito, nel 1929, quello con la Prussia e, nel 1932 (ma quando Pacelli era già rientrato a Roma), quello con il Baden. Restarono invece interrotti i negoziati da lui avviati in vista di un concordato con il Reich (cioè con la Repubblica di Weimar). Come nunzio a Berlino avviò contatti con l’ambasciatore e con il commissario agli Esteri dell’Unione Sovietica, Krestinsky e Čičerin, riguardanti la situazione della Chiesa cattolica nell’area sovietica, definitivamente tramontati nel 1928.
Richiamato a Roma nel novembre del 1929, il 16 dicembre fu elevato da Pio XI alla porpora cardinalizia per venire quindi nominato il 7 gennaio 1930 segretario di Stato in sostituzione del cardinale Gasparri. Nella veste di stretto collaboratore del pontefice, fu fedele ma non passivo esecutore delle sue direttive per quasi un decennio, avvalendosi anche dell’opera di Domenico Tardini, dal 1935 sostituto della segreteria di Stato e dal 1937 segretario agli Affari ecclesiastici straordinari, e di Giovanni Battista Montini, subentrato a Tardini nella carica di sostituto.
Pacelli ricoprì la carica di segretario di Stato in presenza di molteplici situazioni in cui le popolazioni cattoliche e le istituzioni ecclesiastiche furono a vario titolo partecipi (non senza interne tensioni) dell’ascesa di nuovi regimi autoritari sulla scena europea, in genere raffigurati come baluardi della ‘civiltà cristiana’ e accreditati di una funzione antagonistica nei riguardi del bolscevismo ateo e sovvertitore (argomento a cui fu attribuita estrema rilevanza nel caso della guerra civile di Spagna), ma visti anche come alternativa al liberalismo occidentale. D’altra parte, la presa del potere e il rapido consolidamento del regime nazionalsocialista in Germania posero alla S. Sede in maniera assai più pressante di quanto accaduto in Italia in rapporto al regime fascista (e ferma restando la precedente radicale condanna ecclesiastica del comunismo) il problema delle basi ideologiche dei totalitarismi.
Mentre il magistero di Pio XI si orientò, con crescente determinazione ed estendendone la portata, a illustrare le ragioni di incompatibilità tra il patrimonio dottrinale di cui la Chiesa era depositaria e (in modo particolare) le radici ‘neopagane’ e razzistiche del nazionalsocialismo, la linea della segreteria di Stato guidata da Pacelli si attenne, almeno formalmente, al principio di non ingerenza della Chiesa in materia di ‘forme di governo’, facendo principalmente leva sullo strumento concordatario a tutela delle libertà ecclesiastiche giudicate inalienabili.
Il 20 luglio 1933, pochi mesi dopo l’avvento di Hitler al potere e dopo un rapido negoziato con il suo vicecancelliere Franz von Papen, Pacelli, che si era giovato della collaborazione di Ludwig Kaas, firmò a Roma il concordato con il Reich, contenente clausole di garanzia relative all’associazionismo, alla stampa e alle scuole cattoliche in Germania, ma rapidamente contraddette da provvedimenti di varia natura messi in atto dal regime nei confronti della Chiesa cattolica. Pacelli venne così a svolgere un ruolo di primo piano nel lungo contenzioso apertosi tra la S. Sede e lo Stato nazionalsocialista, che dalle enunciazioni teoriche era passato alle vie di fatto (travalicanti peraltro di gran lunga la sfera delle questioni ecclesiastiche), in un contesto segnato oltretutto da considerevoli tensioni nell’episcopato tedesco. Il progressivo aggravarsi della situazione in Germania s’intrecciò pertanto più intimamente con le questioni di natura dottrinale che avevano indotto Pio XI, all’inizio del 1937, ad asserire che «il nazionalsocialismo, per i suoi scopi e i suoi metodi, non era altro che bolscevismo» (Miccoli, 2000, p. 152). Il contributo recato da Pacelli su questo fronte si concretizzò, in particolare, nella complessa vicenda della stesura dell’enciclica Mit brennender Sorge di Pio XI, pubblicata in lingua tedesca il 14 marzo 1937: alla quale il segretario di Stato, seguendo gli indirizzi pontifici, impresse un tono di decisa condanna di aspetti qualificanti dell’ideologia nazionalsocialista. L’enciclica precedette di pochi giorni la pubblicazione della Divini Redemptoris contro il «comunismo ateo» e della Nos es muy conocida relativa alla situazione del cattolicesimo messicano, e la sua diffusione in Germania fu in tutti i modi, ma vanamente, ostacolata dalle autorità del regime.
Nel corso del biennio 1937-38, l’opera di Pacelli fu rivolta a contemperare il crescente irrigidimento di Pio XI nei riguardi del regime nazionalsocialista e la preservazione di un margine di trattativa diplomatica con il governo tedesco, che il segretario di Stato, per quanto partecipe degli allarmi pontifici, considerava ancora praticabile. In questo senso, si è ritenuto in sede storiografica di poter inferire una certa divaricazione tra gli orientamenti di Pio XI nell’ultimo scorcio del suo pontificato e le maggiori cautele della segreteria di Stato e di altri settori della Curia romana.
Un sintomo ulteriore della non piena coincidenza di visuali tra Pacelli e Pio XI, pur uniti da una valutazione comune delle nefaste conseguenze di una saldatura ideologica tra fascismo e nazionalsocialismo nella cornice di un’alleanza italo-germanica guardata con pari apprensione, si è altresì ritenuto avvertibile nella sfasatura tra le radicali prese di posizione di Pio XI in occasione delle leggi razziali, introdotte in Italia dal regime fascista nel 1938, e il carattere molto più circoscritto delle reazioni prevalenti nella Chiesa sotto la regia della segreteria di Stato vaticana.
Un aspetto qualificante dell’opera di Pacelli fu l’estensione del raggio d’azione del suo impegno come segretario di Stato o come rappresentante pontificio anche in aree extraeuropee. Tra la fine del 1934 e gli inizi del 1935 intraprese un lungo viaggio in America Latina quale legato pontificio al Congresso eucaristico di Buenos Aires, da dove raggiunse Montevideo e Rio de Janeiro, incontrando i capi di Stato dei Paesi visitati. Nell’aprile 1935 presenziò alle cerimonie indette a Lourdes per il giubileo della Redenzione. Nell’ottobre-novembre 1936 compì un lungo tour negli Stati Uniti, incontrando decine di vescovi, stabilendo contatti con esponenti del mondo cattolico americano e visitando privatamente Franklin Delano Roosevelt, appena rieletto alla presidenza, con il quale avviò un rapporto destinato a protrarsi nel tempo. Nel luglio 1937 fu nuovamente in Francia come delegato pontificio per la consacrazione a Lisieux della basilica dedicata a s. Teresa, sostando anche a Parigi, accolto con il massimo onore dai ministri del governo di Fronte popolare. Nel maggio 1938 rappresentò il papa al Congresso eucaristico internazionale di Budapest: ciò avvenne appena all’indomani della fusione (Anschluss) dell’Austria nel Terzo Reich, che aveva posto fine al regime corporativista-cristiano a dominanza cattolica istituito a Vienna nel 1934 con il favore della Chiesa, e accresciuto le preoccupazioni vaticane nei riguardi dell’espansione del nazionalsocialismo su scala europea.
Alla morte di Pio XI, dopo un brevissimo conclave concluso alla terza votazione, Eugenio Pacelli fu elevato al pontificato il 2 marzo 1939, assumendo il nome di Pio XII. Per la prima volta dopo quasi tre secoli la tiara pontificia era posta sul capo di un segretario di Stato, alla cui rapida elezione non fu estraneo uno scenario internazionale solcato da bagliori di guerra. I primi atti del nuovo pontefice furono la nomina alla segreteria di Stato del cardinale Luigi Maglione, già nunzio a Parigi, e le consultazioni dei cardinali tedeschi presenti al conclave per esaminare le condizioni della Chiesa in Germania, avendo Pio XII assegnato al «problema tedesco» (secondo le sue parole) il primo posto nella propria agenda, nell’ottica dell’estrema ricerca di un modus vivendi con il Terzo Reich. Ma il precipitare della crisi internazionale vide il neoeletto pontefice principalmente assorbito da un’intensa, quanto vana, azione di natura diplomatica volta a scongiurare l’apertura di un conflitto armato, senza escludere una possibile opera mediatrice della S. Sede a proposito della ‘questione polacca’; come pure di natura esortativa e ammonitrice, culminata nell’appello del 24 agosto 1939: «Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra».
Dal settembre 1939 Pio XII si trovò a guidare la Chiesa cattolica lungo il corso della seconda guerra mondiale, iniziata nel cuore dell’Europa, costellata di violenze efferate, intessuta di svolte imprevedibili, e a fronteggiare l’immensa mole di problemi, di natura religiosa, umanitaria, ideologica, istituzionale, diplomatica, da essa suscitati. Per di più, l’entrata dell’Italia nel conflitto al fianco della Germania nel giugno del 1940, oltre a vanificare i tentativi compiuti personalmente da Pio XII di preservarne la non belligeranza, non mancò di riflettersi indirettamente sulla situazione della S. Sede, chiamata poi a fronteggiare difficoltà molto più gravi in seguito all’occupazione tedesca di Roma nel settembre 1943. Fu dunque la guerra a imprimere la cifra dominante su tutta la prima parte del pontificato pacelliano, non senza lasciare tracce profonde sui suoi successivi sviluppi.
Sul piano istituzionale la guerra mondiale incise sul profilo del pontificato in una duplice direzione. Per un verso, incrementò il processo, già in atto, di accentramento dei poteri decisionali nelle mani del papa, anche formalmente evidenziato dalla rinuncia di Pio XII a nominare un nuovo segretario di Stato alla morte, avvenuta nel 1944, del cardinale Maglione. Per altro verso, rese assai precaria la rete di collegamento della S. Sede con molti degli episcopati e delle chiese locali, trovatesi a fronteggiare situazioni estreme (come nel caso specialmente drammatico dei territori orientali annessi dalla Germania o dall’Unione Sovietica, incominciando dalla spartizione della Polonia ‘cattolica’).
Sotto l’aspetto diplomatico, lo stato di guerra vanificò in larga misura le residue possibilità d’influenza della S. Sede sugli Stati belligeranti, producendone una tendenziale emarginazione sul piano internazionale. Inoltre il quadro di riferimento ideale alla «civiltà cristiana», riproposto da Pio XII sin dalla sua prima enciclica Summi Pontificatus del 20 ottobre 1939 rimarcandone il valore alternativo rispetto ai sistemi elevanti «lo Stato e la collettività a fine ultimo della vita, a criterio sommo dell’ordine morale e giuridico», apparve ben difficilmente compatibile con le forze in gioco nelle due grandi coalizioni che presero forma tra il 1940 e il 1941. Questi e simili fattori furono comunque giudicati dal pontefice di tal natura da limitare la sua «possibilità di operare efficacemente», e invocati, nel febbraio 1944, come una delle ragioni della «necessità per la Santa Sede […] di chiudersi in un riserbo prudenziale anche dove sarebbe occorsa un’azione energica» (Actes et documents, 1965-81, II, p. 355 ss.).
Gli atteggiamenti di «riserbo» e di «imparzialità» tra le parti, assunti da Pio XII come norma generale, e fatti anche valere di fronte alle opposte, reiterate, sollecitazioni a conferire una legittimazione religiosa alla guerra contro l’Unione Sovietica, da un lato, o contro la Germania nazionalsocialista, dall’altro, non corrispondevano solamente a una linea tradizionale della S. Sede; ma dipesero anche dalla percezione dei gravissimi pericoli per l’intera cristianità insiti sia nell’eventuale (e all’inizio assai verosimile) vittoria dell’Asse dominato dalla Germania nazionalsocialista, sia, viceversa, nella vittoria di una coalizione in cui si trovasse in posizioni di forza l’Unione Sovietica, centro propulsore del comunismo internazionale. In questa cornice acquistò crescente importanza il canale diplomatico tra la S. Sede e il governo americano aperto dal febbraio 1940 (quindi prima dell’entrata in guerra degli Stati Uniti) con l’invio a Roma di un rappresentante personale di Roosevelt nella persona di Myron Taylor, le cui missioni proseguirono per tutta la durata del conflitto e oltre, intrecciandosi con numerosi scambi di messaggi tra Pio XII e il presidente americano. Siffatti messaggi, per quanto improntati a reciproca stima e spirito di collaborazione, fecero anche emergere taluni motivi di dissenso tra i due interlocutori, riguardanti, per esempio, il principio della ‘resa incondizionata’ proclamato dagli Alleati alla conferenza di Casablanca del gennaio 1943 o la credibilità delle promesse avanzate da Stalin in materia di libertà religiosa.
A rendere alieno Pio XII dal compiere atti pubblici suscettibili di essere interpretati come sostegno a uno dei due schieramenti bellici giocarono, in non minore misura, valutazioni di natura soggettiva, dipendenti dalla concezione che Pacelli aveva del proprio ruolo di capo della Chiesa, sposandosi con l’attesa e l’approvazione di più puntuali e circostanziati interventi da parte dei vescovi locali. Sotto questo profilo, un punto controverso sin dall’epoca bellica fu il rifiuto da parte di Pio XII di valicare il confine degli appelli e delle riprovazioni contro gli orrori della guerra e la loro estensione alle popolazioni civili, o delle parole di solidarietà verso le vittime e i perseguitati «senza veruna colpa propria, talora solo per ragioni di nazionalità o di stirpe» – come suonava il radiomessaggio natalizio pontificio del 1942 –, per accedere a specifici atti di condanna ecclesiastica o a precise imputazioni di responsabilità a proposito degli eccidi di civili e dello sterminio degli ebrei: sul quale la S. Sede disponeva di precoci e autorevoli informazioni. Non meno controverso, allora e dopo la guerra, fu l’argomento fatto valere da Pio XII per giustificare il proprio riserbo, vale a dire l’intento di evitare mali peggiori (ad maiora mala vitanda) a carico delle vittime.
Alla percezione, non priva di autentici conflitti interiori, dei limiti che gli erano imposti dalla guerra, e dal corso di quella guerra, nei confronti degli Stati che vi erano coinvolti, e in parte anche delle relative Chiese nazionali, si accompagnarono diversi tratti significativi del pontificato di Pio XII in tempore belli.
Tra questi va in particolare menzionato il dispiegarsi del magistero pubblico di Pio XII di fronte alle molteplici problematiche suscitate dalla guerra, con speciale riferimento alla identificazione delle sue matrici, ai principi ispiratori di un nuovo ordine internazionale e interno degli Stati, ai compiti della Chiesa e dei credenti dopo la fine del conflitto.
Già nella ricordata enciclica Summi Pontificatus le cause della guerra erano ricondotte all’abbandono di un ordine fondato sulla legge morale e sulla Rivelazione, al distacco dei popoli «dall’unità di dottrina e di fede, di costumi e di morale una volta promossa dall’opera indefessa e benefica della Chiesa», alle concezioni esaltanti un potere illimitato degli Stati. Nel successivo radiomessaggio natalizio del 1939, che inaugurò un genere di interventi poi frequentemente praticato, Pio XII enunciò per la prima volta (quando il teatro di guerra non si era ancora esteso a occidente) un insieme di condizioni per il ristabilimento di una «pace giusta». Il tema di un nuovo ordine internazionale, che attingesse i suoi principi regolatori da un ordine naturale e oggettivo di giustizia risalente a Dio, fu posto al centro dei radiomessaggi natalizi del 1940 e del 1941. Tra la fine del 1942 e il 1944, nella fase di svolta della guerra, i messaggi di Pio XII si polarizzarono sulle questioni attinenti all’ordine interno delle nazioni e al ruolo della Chiesa e dei credenti nella ricostruzione della società postbellica. Il radiomessaggio natalizio del 1942, anticipato da quello del 1° giugno 1941 per il cinquantenario dell’enciclica Rerum novarum, affrontò la questione della riforma sociale su basi cristiane come risposta agli sconvolgimenti bellici, affidandone il perseguimento «ai migliori e più eletti membri della cristianità» sollecitati all’azione ricostruttiva. Sull’argomento Pio XII ritornò nel discorso di Pentecoste (13 giugno 1943) rivolto a venticinquemila operai confluiti in piazza S. Pietro. Nel radiomessaggio del settembre 1944, Per la civiltà cristiana, Pio XII fece risuonare il richiamo al comune patrimonio di valori trasmesso all’Europa dal cristianesimo come deposito insostituibile a cui attingere nell’«opera gigantesca della restaurazione della vita sociale, economica e internazionale», precisando che la sua «strenua difesa contro le correnti atee e anticristiane» non poteva essere sacrificata «a nessun vantaggio provvisorio». Ampia risonanza ebbe infine il radiomessaggio natalizio del 1944 sui problemi della democrazia. Appellandosi al diritto-dovere della Chiesa di esprimersi in materia di ordinamenti politici pur senza perseguire finalità politiche, Pio XII vi disegnò le condizioni di una democrazia ispirata ai valori etici della civiltà cristiana come unica risposta adeguata all’emergenza dei totalitarismi, in se stessi fomentatori di guerre.
I contenuti del magistero pacelliano in epoca bellica non costituirono soltanto un articolato complesso dottrinale che rielaborava, sulla scorta degli sviluppi del diritto naturale d’impianto tomistico e declinato in senso personalista, vari aspetti del precedente magistero pontificio, ma assunsero il profilo di un progetto storico che si proiettava oltre la guerra, tendente a collocare in posizione eminente, sulle rovine di un ‘mondo antico’ andato in frantumi, la Chiesa cattolica come maestra e educatrice degli uomini e dei popoli (allocuzione concistoriale del 20 febbraio 1946 su Potenza e influsso della Chiesa per la verace restaurazione del mondo).
Alle molteplici difficoltà incontrate nelle relazioni con i governi e gli Stati belligeranti Pio XII contrappose la comunicazione diretta della propria voce e immagine al popolo dei fedeli (in occasione, per esempio, dei grandi raduni in piazza S. Pietro iniziati nel corso del conflitto o ricorrendo con frequenza alle trasmissioni della radio vaticana e, sul finire del pontificato, della televisione): una comunicazione di natura tutt’insieme carismatica e istituzionale, in cui si riverberavano i lineamenti della dottrina ecclesiologica messa a fuoco nell’enciclica Mystici Corporis del 29 giugno 1943: dove taluni spunti tratti dalla recente teologia della Chiesa rappresentata come «corpo mistico» erano ricondotti all’interno di una più tradizionale cornice gerarchica, imperniata sulla figura del vicario di Cristo, supremo custode dell’unità disciplinare e dottrinale della Chiesa e sua guida indefettibile.
La ridefinizione del carisma pontificio in rapporto alla Chiesa universale e al mondo contemporaneo trovò una sua tendenziale convalida nella proiezione della figura e dell’opera di Pio XII sullo scenario italiano, particolarmente dopo il crollo del regime fascista, l’arrivo della guerra guerreggiata sul territorio nazionale, l’occupazione della penisola, il prorompere della guerra civile.
Nell’Italia lacerata e invasa, Pio XII si dedicò con sollecitudine alla salvaguardia dell’unità della Chiesa in situazioni altamente conflittuali, tenendo aperti, per quanto possibile, i collegamenti con le periferie ecclesiastiche. Dedicò speciali attenzioni alle sorti di Roma, cercando, senza successo, di rendere effettivo il suo status di ‘città aperta’ e di preservarla dalle incursioni aeree, dagli scontri armati, dagli attentati – disapprovati con fermezza come atti inconsulti, fomite di rappresaglie –; partecipando di persona ai lutti cittadini in occasione dei bombardamenti dell’estate 1943; estendendo gli aiuti materiali e morali alle popolazioni. Incoraggiò la formazione di una rete di accoglienza in istituti ecclesiastici (compresa la Città del Vaticano) per migliaia di persone, inclusi ebrei e ricercati per ragioni politiche, pur evitando di esporsi con interventi diretti sulle autorità militari di occupazione responsabili di atti efferati, come la razzia e deportazione degli ebrei romani (16 ottobre 1943) o l’eccidio delle Fosse Ardeatine (24 marzo 1944). Il sentimento popolare che Roma fosse stata salvata dal papa si espresse, all’indomani della liberazione avvenuta nel giugno del 1944, quando una folla di cittadini si riversò in piazza S. Pietro a salutare Pio XII quale unico autentico «defensor civitatis». Lo speciale legame stabilitosi tra il papa e la sua città giunse a prefigurare, in una certa misura, il ruolo che Pio XII intendeva riservare a sé e alla Chiesa nel mondo postbellico facendo leva sull’idea di Roma come rinnovato centro d’irradiazione della fede e della civiltà cristiana.
In linea più generale, la personalità di Pio XII emerse dal turbine della guerra circondata da un grado elevato di prestigio e di fiducia anche su scala internazionale. Posto al vertice di una Chiesa che, nonostante tutti i suoi travagli, aveva mantenuto la propria saldezza istituzionale e guardata ora da molti come un luogo di riconciliazione o più semplicemente di rifugio, papa Pacelli fu considerato interlocutore autorevole dai governanti occidentali. S’infittirono in particolare le relazioni tra la S. Sede e l’amministrazione statunitense, in seguito ai crescenti allarmi vaticani relativi alla diffusione del comunismo in Europa e in Italia, come pure in vista dell’erogazione (e della gestione) degli aiuti americani alle popolazioni civili. In molte aree europee, come l’Italia, la Francia, il Belgio, la Germania occidentale, i partiti politici e gli organismi di varia natura radicati nell’associazionismo confessionale (come quello raccolto in Italia nell’Azione cattolica) guardarono al magistero di Pio XII come a un punto di riferimento imprescindibile per i loro programmi.
I principali interventi di Pio XII nell’immediato dopoguerra furono tesi a ribadire l’esistenza di un intimo nesso tra la guerra e il «totalitarismo dello Stato forte», estremo frutto di «un umanesimo secolarizzato» che aveva prodotto «la negazione e il disprezzo del pensiero e dei principi cristiani» (allocuzione al S. Collegio del Natale 1945). Era questo il presupposto della riaffermata vocazione della Chiesa a incidere «sul fondamento, sulla struttura e sulla dinamica della società umana». Nell’allocuzione pronunciata in occasione del Concistoro del 20 febbraio 1946 indetto per la creazione di trentadue nuovi cardinali, il pontefice pose l’accento sul fatto che la Chiesa aveva raggiunto una dimensione realmente e non solo idealmente universale, riferendosi alla nazionalità dei nuovi porporati, di cui solo quattro erano italiani, affiancati da numerosi prelati del continente americano, da tre tedeschi, da un cinese, da un ungherese, da un polacco e da un armeno. In quella circostanza egli riprese il tema della incomparabilità della Chiesa con qualsiasi altra società umana, perché innestata nel «cuore dell’uomo», e da qui destinata a riverberarsi «su tutti i campi dell’attività di ciascuno», senza essere «infeudata» ad alcun gruppo etnico o classe sociale né «impietrita» in un particolare momento della sua storia, fonte inesauribile di educazione della persona e al tempo stesso «figura e forma della società umana», fondamento delle sue «due colonne principali», la famiglia e lo Stato. Al punto di sutura tra «il corpo vivente di Cristo» e il mondo secolare era posto il laico cristiano, definito dal suo essere membro visibile della Chiesa, fedele alla sua autorità, docile alla parola della sua gerarchia imperniata sul vicario di Cristo.
Il senso di un rinnovato compito missionario della Chiesa, incardinato sulla promozione attiva, dotata di adeguati strumenti associativi, di un ordine di valori opposto a quello che, nella visione di Pio XII, aveva condotto alla guerra, si rifletteva sulla collocazione del papato nel rapido processo di contrapposizione bipolare sfociante nella guerra fredda.
Per questo aspetto, la rappresentazione pacelliana della realtà postbellica come attraversata da una «lotta titanica tra i due spiriti opposti che si disputano il mondo» (radiomessaggio natalizio del 1947), poteva suggerire accostamenti a quella stessa polarizzazione geopolitica – e come tale fu ampiamente utilizzata dalla propaganda –, ancorché riprendesse l’immagine agostiniana delle due civitates, caricandosi di valenze escatologiche e apocalittiche. Fatto sta che Pio XII ebbe massima cura di evitare un’identificazione della Chiesa con il ‘mondo occidentale’ (tanto meno se orientato alla diffusione dell’American way of life) sebbene riconoscesse nei suoi ordinamenti e nella sua cultura le tracce, consapevolmente o meno conservate, di un originario ordine cristiano, e una residua fedeltà, nonostante i gravi errori in cui era incorso soprattutto nel campo della morale familiare, ai dettami del diritto naturale. Ne discendeva uno speciale riguardo per le sorti dell’Europa, alla cui rinascita, nel segno di una missione libera dai «germi venefici dell’ateismo e della rivolta» e da «malsani influssi stranieri», lo stesso radiomessaggio del 1947 attribuiva un’importanza decisiva per il mantenimento della pace. Negli anni seguenti i pronunciamenti papali a favore di un’integrazione europea da realizzarsi in nome e per mezzo delle sue radici cristiane andarono moltiplicandosi.
L’asserita autonomia della Chiesa nei confronti dell’Occidente rispondeva d’altra parte all’esigenza di preservare e se possibile estendere la sua presenza nelle aree mondiali interessate dai processi di decolonizzazione. In tal senso Pio XII incoraggiò la trasformazione delle Chiese missionarie in Chiese autoctone, proclamandone l’opportunità nelle encicliche Evangelii praecones del 1951 e Fidei donum del 1957, senza tacere dei pericoli che incombevano sulla loro esistenza ancora precaria, e riconoscendo, pur con qualche limite, il diritto all’indipendenza dei popoli colonizzati.
Ma a dare un’impronta marcata al pontificato di Pio XII negli anni del dopoguerra fu la contrapposizione al comunismo come grande avversario della Chiesa e della civiltà cristiana. La saldatura tra l’espansione militare e imperiale dell’Unione Sovietica, l’istituzione delle repubbliche popolari nei paesi dell’Est europeo e il consenso raccolto dai partiti comunisti in Occidente, prospettò una situazione che andava al di là degli allarmi già espressi dalla S. Sede durante il conflitto, e destinata a precipitare tra il 1947 e il 1949: quando in tutto lo spazio a dominanza comunista (con la parziale eccezione della Polonia) l’offensiva ideologica e istituzionale nei riguardi delle comunità e delle gerarchie religiose, in specie di quelle cattoliche, assunse forme apertamente e duramente persecutorie, accompagnandosi al disegno di favorire la nascita di Chiese autonome subordinate ai rispettivi regimi politici.
Mentre sul piano diplomatico Pio XII tentò di tenere aperto qualche canale con i Paesi dell’Est europeo, sul piano dottrinale e disciplinare accentuò i toni dell’intransigenza, rivolti in particolare a quei settori del cattolicesimo che, in Occidente, si mostravano più propensi a una collaborazione (o, in certi casi, a un’aperta convergenza) con i movimenti comunisti. Per diretto intervento pontificio il S. Uffizio pubblicò, il 15 luglio 1949, una solenne dichiarazione che comminava la scomunica ai fedeli che professassero la dottrina comunista ed escludeva dai sacramenti i cattolici iscritti ai partiti che vi si ispiravano o che li sostenessero in qualsiasi forma. Ma già in precedenza, come in occasione delle elezioni italiane e francesi dell’aprile 1948, Pio XII aveva personalmente e in vari modi sollecitato la mobilitazione dei fedeli, specialmente di quelli raccolti nelle associazioni confessionali, a fungere da barriera contro l’avanzata delle sinistre, ed espresso ostilità nei riguardi dei governi e dei movimenti sindacali di cui i comunisti facessero parte, o che non mostrassero sufficiente impegno e convinzione nel contrastarli. Con il trascorrere del tempo l’atteggiamento di Pio XII finì per concedere spazio crescente ai settori curiali ed ecclesiastici che ancora consideravano con favore le condizioni della Spagna franchista (con cui nel 1953 fu stipulato un concordato molto favorevole alla Chiesa), come pure alle organizzazioni cattoliche più connotate da un attivismo integralista, o alla galassia del cosiddetto partito romano in posizione dissonante rispetto alla dirigenza e agli orientamenti del partito democraticocristiano; mentre suscitò amarezze in un leader politico di provata fedeltà alla Chiesa come Alcide De Gasperi e provocò qualche crisi tra le stesse file dell’associazionismo laicale.
L’ideale pacelliano di una Chiesa costituita da «immense falangi di apostoli», nei quali l’intensità della pratica religiosa personale e di gruppo doveva connettersi a una rigorosa adesione ai dettati del magistero e alle indicazioni della gerarchia ecclesiastica, si trovò peraltro a misurarsi con i processi di secolarizzazione dei costumi e degli stili di vita affioranti nel dopoguerra come pure con i fermenti di rinnovamento, profilatisi almeno dagli anni Trenta, nel campo della teologia cattolica, della vita liturgica, della pratica pastorale. Pio XII si pose nei confronti di tali fenomeni come suprema istanza di controllo e di riunificazione, delimitandone, sul piano dottrinale e pratico, i tratti più innovativi, secondo una linea che assunse forme più rigide in area italiana. Nel campo dell’apostolato laicale, principalmente ma non esclusivamente espresso dall’Azione cattolica, il papa fu prodigo di incoraggiamenti e di direttive, che consentivano un’articolazione di forme e metodi pastorali più estesi che all’epoca di Pio XI, ma tenendo ben saldo il principio secondo cui si trattava di una «speciale e diretta collaborazione con l’apostolato gerarchico della Chiesa», come recitavano i nuovi statuti dell’Azione cattolica italiana entrati in vigore nel 1946. Fuori d’Italia, specialmente in Belgio e in Francia, fu tollerato l’apostolato d’ambiente (a partire dai gruppi giovanili operai e studenteschi) purché approvato dagli episcopati locali. Venne invece interrotta nel 1954 per disposizione vaticana l’esperienza dei preti operai francesi, richiamati al rispetto delle regole imposte dalla consacrazione e dal ruolo sacerdotale (oggetto della costituzione apostolica Sacramentum ordinis del 1947) e all’obbligo di non confondere l’opera missionaria con l’azione sindacale o politica, che li aveva resi contigui sotto certi profili al movimento comunista.
In linea più generale Pio XII infittì gli atti magisteriali volti a fissare i confini entro i quali le diffuse istanze di rinnovamento in campo teologico, esegetico, liturgico, pastorale potevano essere accolte. Già durante la guerra, con l’enciclica Divino afflante Spiritu del 1943, facendo proprie talune delle istanze della moderna critica biblica, ne aveva però ridotta fortemente l’estensione e la portata. Con l’enciclica Mediator Dei del 1947, stabilendo uno stretto rapporto tra l’ecclesiologia del ‘corpo mistico’ e la liturgia, aveva legittimato una più diretta partecipazione dei fedeli agli atti di culto e aperto la via, con molte precauzioni, ad alcune riforme in campo liturgico via via introdotte negli anni successivi. Con l’enciclica Humani Generis, del 1950, fissò regole invalicabili per la ricerca teologica, denunciando la diffusione nella Chiesa di una mentalità relativistica e soggettivistica, analoga a quella del modernismo, e richiamando lo stretto dovere dei teologi di attenersi ai criteri stabiliti dal magistero per la difesa e lo sviluppo della dottrina cattolica. Ne furono colpiti, con censure e limitazioni di vario genere, soprattutto gli esponenti di punta della teologia cattolica raccolti sotto la definizione di nouvelle théologie. Una particolare attenzione fu dedicata da Pio XII al campo della dottrina morale, con speciale riguardo alla sfera della morale familiare e sessuale, confermando, nella sostanza, le dottrine tradizionali circa il rapporto tra matrimonio e procreazione, o circa il ruolo della donna nella famiglia e nella società, o sulla rigorosa limitazione ai metodi detti ‘naturali’ a fini anticoncezionali.
La prospettiva pacelliana di un popolo cristiano ligio alla gerarchia ecclesiastica e pronto a mobilitarsi in comunione di spirito con il suo vertice carismatico trovò uno dei momenti di maggior risalto nel giubileo del 1950, indetto con il programma di un «grande ritorno» a Dio e alla sua Chiesa rivolto a tutti coloro che ne erano lontani (inclusi i cristiani separati da Roma). Fu un evento amplificato dai mezzi di comunicazione, preparato da stuoli di predicatori, tra i quali si segnalò il padre gesuita Riccardo Lombardi, il ‘microfono di Dio’ aduso a colmare le piazze d’Italia con la sua presenza, sostenuto dai movimenti di massa dell’Azione cattolica, come la Gioventù cattolica di Luigi Gedda, e infine convalidato da un imponente afflusso di pellegrini a Roma e dalla promulgazione di atti pontifici di grande portata.
Tra questi, oltre alla pubblicazione, il 12 agosto, della citata enciclica Humani Generis, ci fu la solenne proclamazione del dogma dell’Assunzione della Vergine con la bolla pontificia Munificentissimus Deus, del 1° novembre, alla presenza di 662 vescovi e di mezzo milione di fedeli.
La definizione del nuovo dogma costituì il punto apicale di sviluppo del culto mariano, segno distintivo di tutto il pontificato, tanto sul piano della pietà personale di Pio XII, quanto sul piano liturgico e della devozione popolare. Già in epoca bellica, il 31 ottobre 1942, il pontefice aveva consacrato l’umanità intera al Cuore immacolato di Maria; altri successivi impulsi al culto sarebbero poi venuti dall’istituzione del primo anno mariano, nel 1954, in coincidenza con il centenario del dogma dell’Immacolata Concezione, e della festività di Maria regina.
Primato di Pietro, e dei suoi successori, e culto della Vergine improntarono altresì i modelli di santità privilegiati da Pio XII: come nel caso della canonizzazione di Maria Goretti, annunciata in occasione dell’anno santo, e della beatificazione, nel 1951, seguita dalla canonizzazione, nel 1954, di Pio X, il papa dell’antimodernismo. Restò invece irrealizzato il progetto, posto allo studio di una commissione pontificia, di far coincidere con l’anno santo la convocazione di un concilio ecumenico.
Nel febbraio del 1952 Pio XII lanciò un nuovo appello per dare inizio, partendo da Roma, a un movimento di popolo «per un mondo migliore», rivolto a scuotere i credenti da un «funesto letargo», tanto più deplorevole di fronte a un mondo che attendeva di essere integralmente riconvertito. L’appello trovò nuovamente larga eco nella predicazione di padre Lombardi e tra le file dell’Azione cattolica, ora presieduta da Luigi Gedda. Ma cadde in un contesto religioso e civile divenuto già più tiepido nei confronti delle mobilitazioni di massa.
Anche il rinnovamento e l’internazionalizzazione degli organismi curiali erano entrati in una fase di stallo dopo il concistoro del gennaio 1953 che aveva visto la creazione di ventitré nuovi cardinali. Un numero sempre più ristretto di collaboratori sempre più anziani affiancò un pontefice colpito, nel 1954, da una grave malattia. Il trasferimento da Roma di Giovanni Battista Montini, divenuto nel 1952 prosegretario di Stato, ma nel novembre del 1954 consacrato arcivescovo di Milano, accentuò l’effetto di sbilanciamento negli apparati di Curia a favore di cardinali e personalità vaticane meno sensibili alle istanze di una società e di una Chiesa attraversate da accelerate dinamiche di trasformazione. Raffigurato come il Bianco Padre e il Pastor Angelicus, celebrato anche in produzioni cinematografiche ricolme di devozionalismo, Pio XII trascorse in realtà l’ultimo scorcio del pontificato in una crescente solitudine che, da un lato, conferiva maggior risalto ai tratti ieratici della sua immagine e, dall’altro, lasciava emergere il sostanziale fondo di pessimismo, poco incline a riporre fiducia nell’opera umana, proprio della sua indole. I giorni estremi di un pontefice collocato sul crinale di due epoche e di due mondi diversi, chiamato a reggere la barca di Pietro in una delle fasi più turbinose della storia, si consumarono in un clima di esaltazione miracolistica, veicolata dai mezzi di comunicazione e accompagnata da un poco decoroso sfruttamento della sua immagine (e, dopo la morte, di quella delle sue stesse spoglie), che era in totale contrasto con le ragioni effettive della sua indiscutibile statura di venerato, quanto discusso, pontefice. La sua morte sopravvenne nella residenza pontificia di Castelgandolfo il 9 ottobre 1958.
Un capitolo a parte riguarda la complessa e prolungata storia della causa di beatificazione e di canonizzazione di Pio XII, annunciata da Paolo VI, che gli era molto legato, alla conclusione del Concilio Vaticano II, formalmente introdotta con l’apertura del processo diocesano dallo stesso pontefice il 18 ottobre del 1967, indi proseguita tra alterne vicende e contrastanti reazioni (connesse in particolare, ma non soltanto, alla questione dei cosiddetti ‘silenzi’ di Pio XII nei riguardi della shoah) con la nomina di un postulatore della causa e la stesura di una voluminosa Positio, ma rimasta sino a oggi senza uno sbocco definitivo.
Fonti e Bibl.: La recente apertura alla consultazione dei fondi dell’Archivio segreto Vaticano relativi al pontificato di Pio XI, includenti le carte della segreteria di Stato e degli Affari ecclesiastici straordinari nonché delle Nunziature di Monaco e di Berlino (tra le altre), ha messo a disposizione degli studiosi un’ingente documentazione riguardante anche Eugenio Pacelli, nella sua veste prima di nunzio e poi di segretario di Stato. Di particolare rilevanza sono risultati gli oltre seimila dispacci da lui inviati a Roma come nunzio, la cui edizione critica on-line è ora reperibile sul sito http://www.pacelli-edition.de (10 luglio 2015), e i suoi appunti personali riguardanti le udienze con Pio XI (I «fogli di udienza» del cardinale Eugenio Pacelli segretario di Stato, I (1930), II (1931), a cura di S. Pagano - M. Chappin - G. Coco, Città del Vaticano 2010-14). I discorsi tenuti da Pacelli come nunzio e al tempo della segreteria di Stato furono raccolti e pubblicati con grande tempestività: i primi in Gesammelte Reden, a cura di L. Kaas, Berlin 1930, e i secondi in Discorsi e panegirici. 1931-1938, Milano 1939, Città del Vaticano 19562.
Non ancora accessibili sono invece le carte degli archivi vaticani relative al pontificato di Pio XII, ma se ne prevede imminente l’apertura agli studiosi. La raccolta di Discorsi e radiomessaggi di S.S. P. XII è stata pubblicata in 20 volumi, Città del Vaticano 1941-59. Le encicliche e i principali atti di Pio XII si trovano in Tutte le encicliche e i principali documenti pontifici emanati dal 1740, a cura di U. Bellocchi, XI (2 tomi), P. XII (1939-1958), Città del Vaticano 2004. Considerevole, ma selezionata, documentazione concernente il periodo bellico in Actes et documents du Saint-Siège relatifs à la seconde guerre mondiale, a cura di P. Blet et al., I-XI, Città del Vaticano 1965-81 (il II volume, con integrazioni, è uscito anche in tedesco con il titolo Die Briefe P. XII. an die deutschen Bischöfe. 1939-1944, a cura di B. Schneider, Mainz 1966). Sul piano documentario sono da segnalare: La corrispondenza tra il presidente Roosevelt e papa P. XII durante la guerra, a cura di M.C. Taylor, Milano 1948; D. Albrecht, Der Notenwechsel zwischen dem Heiligen Stuhl und der deutschen Reichsregierung, I-III, Mainz 1965-1980; E. Di Nolfo, Vaticano e Stati Uniti. 1939-1952 (dalle carte di M.C. Taylor), Milano 1978; Id., Dear pope. Vaticano e Stati Uniti. La corrispondenza segreta di Roosevelt e Truman con Papa Pacelli, Roma 2003.
Ai profili biografici di Pio XII (molti dei quali a carattere apologetico) pubblicati nel passato si sono aggiunti di recente: Ph. Chenaux, P. XII. Diplomatico e pastore, Cinisello Balsamo 2004; A. Tornielli, P. XII. Eugenio Pacelli, un uomo sul trono di Pietro, Milano 2007; R.A. Ventresca, Soldier of Christ. The life of Pope P. XII, Cambridge 2013.
Su Pacelli prima del pontificato: E. Fattorini, Germania e Santa Sede. Le nunziature di Pacelli tra la grande guerra e la Repubblica di Weimar, Bologna 1992; P. Blet, Le card. Pacelli secrétaire d’État de Pie XI, in Achille Ratti Pie XI, a cura di Ph. Levillain, Rome 1996, pp. 197-213; Ph. Chenaux, Pacelli, Hudal et la Question du nazisme (1933-1938), in Rivista di storia della Chiesa in Italia, LVII (2003), 1, pp. 133-154; G. Besier, Der Heilige Stuhl und Hitler-Deutschland. Die Faszination des Totalitären, München 2004; G. Sale, Hitler, la Santa Sede e gli ebrei, Milano 2004; Die Lage der Kirche in Deutschland: Der Schlussbericht des Nuntius vom 18. November 1929, a cura di K. Unterburger - H. Wolf, Paderborn 2006; H. Wolf, Il Papa e il diavolo. Il Vaticano e il Terzo Reich, Roma 2008; Pius XI: Keywords. International Conference Proceedings June 9-10th 2009 at Milan, a cura di A. Guasco - R. Perin, Münster-Berlin 2010.
Sui vari aspetti del pontificato: P. XII, a cura di A. Riccardi, Roma-Bari 1985; I. Garzia, P. XII e l’Italia nella seconda guerra mondiale, Brescia 1988; G. Miccoli, Aspetti e problemi del pontificato di P. XII, in Cristianesimo nella storia, IX (1988), pp. 343-425; A. Riccardi, Il potere del papa da P. XII a Paolo VI, Roma-Bari 1988; G. Verucci, La Chiesa nella società contemporanea. Dal primo dopoguerra al Concilio Vaticano II, Roma-Bari 1988; Chiesa e Papato nel mondo contemporaneo, a cura di G. Alberigo - A. Riccardi, Roma-Bari 1990; J.-D. Durand, L’Église catholique dans la crise de l’Italie (1943-1948), Roma 1991; S. Ferrari, Vaticano e Israele. Dalla seconda guerra mondiale al conflitto nel Golfo, Firenze 1991; F. Traniello, P. XII, la seconda guerra mondiale e l’ordine postbellico, in I cattolici nel mondo contemporaneo (1922-1958), a cura di M. Guasco - E. Guerriero - F. Traniello, Cinisello Balsamo 1991, pp. 65-103; O. Chadwick, The Christian Church in the cold war, London 1992; A. Riccardi, Il Vaticano e Mosca. 1940-1990, Roma-Bari 1992; G. Miccoli, La Chiesa di P. XII nella società italiana del dopoguerra, in Storia dell’Italia repubblicana, dir. F. Barbagallo, I, La costruzione della democrazia. Dalla caduta del fascismo agli anni cinquanta, Torino 1994, pp. 535-613; P. Blet, P. XII e la seconda guerra mondiale negli archivi vaticani, Cinisello Balsamo 1999; M. Feldkamp, P. XII. und Deutschland, Göttingen 2000; G. Miccoli, I dilemmi e i silenzi di P. XII. Vaticano, Seconda guerra mondiale e Shoah, Milano 2000 (nuova ed. ampliata Milano 2007); R. Moro, La Chiesa e l’Olocausto, Bologna 2002; J.M. Sanchez, P. XII and the Holocaust. Understanding the controversy, Washington D.C. 2002; B. Schneider, P. XII. Pace, opera della giustizia, Milano 2002; A.A. Persico, Il caso P. XII. Mezzo secolo di dibattito su Eugenio Pacelli, Milano 2008; M. Phayer, P. XII, the Holocaust and the cold war, Bloomington 2008; A. Riccardi, L’inverno più lungo 1943-44: P. XII, gli ebrei e i nazisti a Roma, Roma-Bari 2008 (nuova ed. 2012); L’eredità del magistero di P. XII, a cura di Ph. Chenaux, Città del Vaticano 2010; F.J. Coppa, The policies and politics of pope P. XII. Between diplomacy and morality, New York 2011.