URBANO VIII, papa
URBANO VIII, papa. – Maffeo Virginio Romolo Barberini nacque il 5 aprile 1568 a Firenze da Antonio e da Camilla Barbadori.
Penultimo di sei fratelli, fu battezzato lo stesso giorno nel battistero del duomo di Firenze. I suoi avi, provenienti da Barberino di Val d’Elsa (di qui il cognome della famiglia che in origine si chiamava Tafani), commercianti di lana, tessuti e altre mercanzie avevano da generazioni conquistato e conservato a Firenze un modesto benessere. Verso il 1540 l’azienda familiare trasferì il centro delle sue attività ad Ancona, arricchendosi ed estendendo i commerci anche ai Paesi nordici e al Vicino Oriente. Il padre si era ritrasferito da Ancona a Firenze nel 1561 per morire prematuramente nel 1571; l’educazione dei figli rimase affidata alla madre sotto la tutela del cognato Francesco Barberini, primo laureato e primo sacerdote, poi prelato che la famiglia poté vantare, allora attivo nella Curia romana in qualità di protonotario apostolico. Maffeo, della cui giovinezza s’ignora quasi tutto, svolse gli studi di umanità presso il collegio fiorentino dei gesuiti. Nel 1584, lo zio Francesco fece venire il nipote a Roma per mandarlo al Collegio romano a perfezionare gli studi. Due anni più tardi si recò all’Università di Pisa, dove si addottorò, il 7 aprile 1588, in utroque iure. Dopo il ritorno a Roma s’occupò sempre di più delle faccende familiari e dell’amministrazione dei beni e degli affari dello zio impegnato nel mercato di compravendita degli uffici vacabili. Lo stesso zio gli comprò, il 7 ottobre 1588, per 8000 scudi d’oro, l’ufficio di abbreviatore di parco maggiore; questo investimento abbastanza ingente gli aprì le porte del servizio nella Curia pontificia, mentre il successivo acquisto, effettuato il 1° luglio 1589, di un ufficio di referendario utriusque Signaturae per 2000 scudi d’oro, lo alzò al rango prelatizio.
Il 15 febbraio 1592, l’appena eletto Clemente VIII, che già da cardinale aveva favorito la carriera di Barberini, lo nominò governatore di Fano, propria città natale. Durante i quattordici mesi della sua permanenza, Barberini dovette occuparsi, oltre che della gestione amministrativa, soprattutto del banditismo. Nella vicina Fossombrone gli vennero conferiti, il 24 giugno 1592, i quattro ordini minori, dopo aver ricevuto, il 7 aprile 1586, la prima tonsura a Roma, in S. Giovanni in Laterano. Nell’ottobre 1593, lo zio Francesco rinunziò al suo ufficio di protonotario partecipante in favore di Maffeo, che ne prese possesso il 24 ottobre. Alla fine di novembre del 1595, Barberini non poté effettuare, a causa di una grave malattia dello zio, una missione in Ungheria, in qualità di commissario generale, per controllare l’impiego dei sussidi pontifici per la guerra contro il Turco. Nel marzo del 1597 riuscì, dopo lunghe trattative e con 40.000 scudi d’oro circa, a ottenere la carica di chierico di Camera, uno dei più promettenti trampolini di lancio per raggiungere il cardinalato; ricevette però il relativo privilegio di immunità fiscale solo il 15 maggio 1601. Negli anni seguenti gli fu affidata una serie di incarichi straordinari, che lo allontanarono spesso e per lunghi periodi dalla Curia romana. Nel frattempo, il 28 maggio 1600, moriva lo zio Francesco, lasciandolo come unico erede fiduciario. Barberini assegnò vitalizi, nonché tutto il patrimonio immobiliare fiorentino, ai tre fratelli celibi mentre fece spostare a Roma la madre e, come suo agente e amministratore, il fratello maggiore Carlo con la famiglia. L’eredità dello zio deve essere stata ingente: almeno 100.000 scudi in valori mobili, cui andavano aggiunti una casa romana a Capodiferro e due casali nell’Agro romano. A Barberini appena trentenne questa eredità assicurava una ricchezza e una disponibilità di mezzi finanziari difficilmente raggiungibili da un qualsiasi prelato di Curia. In conseguenza, gli furono affidate da Clemente VIII missioni tanto dispendiose quanto prestigiose, che lo portarono fuori dai confini italiani e gli permisero di stabilire ottimi rapporti con la corte di Parigi e con il mondo politico e culturale francese. Il 22 ottobre 1601, Barberini fu nominato nunzio straordinario per portare a Parigi, in occasione della nascita del futuro re Luigi XIII, le lettere di congratulazioni, la benedizione e i doni del papa. Alla fine del mese partì da Roma, dal 19 al 25 novembre si fermò a Lione e il 3 dicembre arrivò a Parigi, dove fu ospitato dal nunzio ordinario Innocenzo Del Bufalo e dove prese parte, per più di un mese, a tutte le attività della legazione. Ben tre volte fu ricevuto in udienza dai reali; in tali occasioni intervenne, su commissione del papa, in alcune questioni correnti della nunziatura. Poco prima di Natale, si recò a Saint-Germain per far visita anche al delfino. Il 7 gennaio 1602 lasciò Parigi e rientrò a Roma a metà febbraio.
Le tappe decisive dell’ascesa sociale ed ecclesiastica di Barberini si verificarono nell’autunno del 1604: a trentasei anni egli venne promosso in Siena, fra il 19 e il 26 settembre, agli ordini maggiori. Già un mese dopo, il 20 ottobre, ottenne la nomina ad arcivescovo titolare di Nazaret (si trattava però di un vescovato titolare sui generis, dato che era unito con la sede vescovile di Barletta e dotato di entrate annue di circa 1300 scudi) con il privilegio di poter mantenere tutti gli uffici curiali e i luoghi di Monte in suo possesso. Fu il patriarca di Gerusalemme Fabio Biondo, il 28 ottobre, a conferirgli in Roma la consacrazione episcopale. Il 27 novembre successivo venne resa pubblica la sua nomina a nunzio ordinario presso la corte di Francia, decisa da Clemente VIII già all’inizio di settembre. Varie circostanze erano destinate a facilitare i compiti del nuovo nunzio in Francia: prima della partenza Barberini poté incontrare a Roma il suo predecessore che gli fornì informazioni molto più dettagliate e utili di quelle contenute nelle tardive e poco circostanziate istruzioni della Segreteria di Stato che lo raggiunsero a Parigi solo verso il 20 gennaio 1605. Questa volta, Barberini prese la via del mare, partendo da Civitavecchia attorno al 10 dicembre, per sbarcare a Marsiglia e arrivare quindi a Parigi all’inizio di gennaio del 1605.
Tre mesi più tardi moriva Clemente VIII e veniva eletto Leone XI. Durante il brevissimo pontificato di quest’ultimo, Barberini rischiò di venir richiamato a Roma, ma il neoeletto Paolo V, a maggio, lo confermò nella carica.
In campo politico, compito primario di Barberini nella sua qualità di nunzio era il mantenimento e il consolidamento della pace fra le potenze cattoliche. Tra Francia e Savoia, la pace siglata nel 1601 a Lione non sembrava in pericolo e perciò il nunzio poté limitare i suoi interventi a quei casi in cui gli scambi territoriali stabiliti nel trattato di pace toccavano gli interessi della Chiesa; così egli suggeriva la sostituzione dei governatori ugonotti nei territori conquistati dalla Francia. Molto più impegnativo, invece, risultò il consolidamento della Pace di Vervins conclusa nel 1598 tra Francia e Spagna. Su ordine di Clemente VIII prima e di Paolo V dopo, Barberini doveva protestare contro i sussidi militari e finanziari che la Francia forniva ai ‘ribelli eretici’ delle Provincie Unite nel loro conflitto armato contro gli spagnoli. Enrico IV non negava di aver prestato aiuti, accusava però la Spagna di sostenere gli ugonotti in Francia, com’era successo nell’accordo fra il re cattolico e Henri de La Tour d’Auvergne duca di Bouillon per impadronirsi di Narbona. Il nunzio, da parte sua, poteva solo rispondere che il papa avrebbe continuato a cercare alla corte di Madrid una conciliazione degli interessi contrastanti delle due Corone, non lasciando alcun dubbio che Roma non avrebbe mai preso partito in favore di Madrid contro Parigi. Durante la sede vacante nella primavera del 1605, quando il nunzio rimase senza istruzioni della segreteria di Stato, si sviluppò un’acuta crisi nelle relazioni tra le due Corone: venne scoperta una congiura che, con un colpo di mano, avrebbe dovuto consegnare Marsiglia alla Spagna. Nella congiura era coinvolto un segretario fiammingo dell’ambasciatore spagnolo a Parigi che fu arrestato e accusato del crimine di lesa maestà. È da attribuire in buona parte all’intercessione di Barberini presso Enrico IV se non s’arrivò a un grave conflitto giuridico e diplomatico.
Mentre durante il pontificato di Paolo V il progetto, sostenuto da Clemente VIII, di una lega franco-spagnola contro i turchi passava in seconda linea, Barberini portò avanti, per tutta la durata della sua nunziatura, progetti più concreti, anche se prematuri, per futuri matrimoni fra le case di Asburgo e Borbone. Compito più arduo fu la mediazione nel corso del crescente inasprimento dei conflitti giurisdizionali tra Roma e Venezia, iniziati sotto Clemente VIII e acutizzatisi nel 1605. L’interdetto di Venezia, annunciato da Paolo V nell’aprile del 1606, mise in imbarazzo Enrico IV perché la Repubblica veneta era un importante alleato della Francia. A Parigi si temeva che la Spagna, sotto il pretesto di difendere i diritti della Chiesa, intendesse intervenire militarmente nel conflitto; inoltre si giudicava esagerata e ingiustificata la dura decisione presa da Paolo V. In questa congiuntura il nunzio cercò di convincere Enrico IV che il rigore opposto dal papa alle ‘novità’ veneziane non avrebbe messo in discussione le libertà gallicane, visto che si trattava di privilegi riconosciuti alla Francia già da tempi remoti. Inoltre tentò di indurre il re a disapprovare apertamente il comportamento della Repubblica e a schierarsi dalla parte del pontefice. Per lunghi mesi, Barberini fece valere le sue capacità diplomatiche in reiterati colloqui con Enrico IV che non voleva mettere a rischio gli interessi francesi con una prematura presa di posizione. Solo alla fine di gennaio del 1607, in un durissimo confronto con l’ambasciatore veneziano, il re mise in chiaro che avrebbe rifiutato ogni appoggio ai veneziani che avevano sempre evitato di cercare un possibile accomodamento con Roma.
In campo ecclesiastico il compito preminente del nunzio era quello di promuovere l’accettazione dei decreti del Concilio di Trento. A Enrico IV era stato imposto nel 1593 l’obbligo di far pubblicare i decreti tridentini che egli aveva solennemente accettato. Barberini si rese ben presto conto che non erano sufficienti la personale decisione di Enrico IV e un suo corrispondente ordine formale: erano necessari l’approvazione e registrazione dei Parlamenti francesi. A Roma si era però sottovalutata la prevedibile opposizione dei Parlamenti di fronte a disposizioni considerate una grave limitazione del tradizionale diritto di controllo esercitato da quelle assemblee anche sulla giurisdizione ecclesiastica. Pure rimasero deluse le speranze di Barberini di promuovere l’accettazione del Concilio Tridentino in occasione dell’assemblea del clero francese che si riunì verso la fine del 1605; troppo forti risultarono i conflitti d’interesse tra i vescovi e i rappresentanti dei collegi capitolari. Alla fine, i ben ponderati interventi e le prudenti insistenze del nunzio rimasero senz’alcun risultato concreto, anche se i buoni rapporti tra la Corona e Roma ne avevano guadagnato. Data l’impossibilità di far accettare i decreti tridentini in toto, Barberini si vide costretto a rivolgersi caso per caso al re, quando si trattava di difendere i diritti della Chiesa, e ai singoli vescovi, quando si trattava di promuovere la riforma ecclesiastica o di eliminare situazioni considerate scandalose. Le occasioni non mancarono, soprattutto nel campo della scelta e formazione del basso clero o delle nomine dei vescovi.
In campo teologico, il nunzio intervenne, tra la fine del 1605 e l’inizio del 1606, nella controversia de auxiliis fra i domenicani e i gesuiti; di fronte all’inestricabile questione della efficienza o sufficienza della grazia divina, Barberini consigliò al papa di non censurare le opinioni, ma di ammetterle tutte e due.
L’11 settembre 1606, Paolo V promosse Barberini al cardinalato; poche settimane dopo, il 14 ottobre, a Fontainebleau Enrico IV consegnò il berretto rosso al nuovo cardinale alla presenza della corte reale. Alla sua promozione alla porpora contribuì una serie di fattori, fra cui gli ottimi successi raggiunti nella sua carriera, il favore del re di Francia e la grande quantità di uffici e luoghi di Monte vacabili in suo possesso che, con l’ascesa al cardinalato, ricadevano nelle casse pontificie, Dataria e Camera apostolica.
Cardinale da quasi un anno, Barberini poté finalmente lasciare Parigi il 25 settembre 1607 e ritornare a Roma. Nei tre anni trascorsi in Francia, si era guadagnato nella Curia romana la stima dei ‘padroni’ e alla corte di Parigi la benevolenza di Enrico IV. Nel frattempo, aveva sostituito i tre tafani dello stemma dei Barberini con le più nobili api. Subito dopo il suo ritorno a Roma, il 30 ottobre 1607, ricevette il cappello cardinalizio; il 12 novembre gli fu assegnato il titolo di S. Pietro in Montorio che avrebbe poi cambiato, il 5 maggio 1610, con quello di S. Onofrio. Non prese più residenza nella ‘casa grande’ in via dei Giubbonari perché, nonostante ingrandimenti e ristrutturazioni, il palazzo risultava sottodimensionato per le esigenze di un cardinale che, nel 1620, disponeva di una ‘famiglia’ di quarantasei persone; e gli stretti vicoli di accesso non favorivano il passaggio delle carrozze. Preferiva perciò abitare altrove, quando si trovava a Roma, prendendo in affitto prima il palazzo Salviati in piazza del Collegio romano, poi il palazzo Madruzzo in Borgo.
Ancora nel 1607, gli fu affidata la protezione della Scozia, suo primo incarico cardinalizio. Subito dopo aver rassegnato l’arcivescovato di Nazaret, il 27 ottobre 1608 fu designato vescovo di Spoleto. La severità con cui Paolo V faceva rispettare l’obbligo di residenza lo costrinse a trasferirsi alla sede vescovile; però, lasciò Roma solo nel maggio 1610 in seguito alla sua nomina a prefetto della Segnatura di giustizia, supremo tribunale della Curia romana, avvenuta l’8 gennaio. Ancora prima della partenza da Roma, Barberini aveva incaricato il suo vicario di inaugurare una visita pastorale della diocesi che iniziò il 6 ottobre 1609 con la città di Spoleto; dopo il trasferimento, egli visitò personalmente anche le regioni più impervie della diocesi. Attuando il programma delle riforme tridentine, si adoperò per migliorare la condotta dei parroci e dei monaci e per disciplinare la vita e l’attività di predicatori e confessori; si prese cura del già esistente seminario vescovile di Spoleto, ne fondò due altri e iniziò importanti restauri nel duomo romanico, il cui interno fece trasformare in stile barocco. Nel settembre del 1615 indisse un sinodo diocesano le cui decisioni vennero pubblicate nel 1616.
Il 31 agosto 1611, nel pieno delle attività pastorali a Spoleto, fu nominato legato di Bologna, secondo una decisione presa da Paolo V già due mesi prima. Verso la fine di settembre, Barberini si trasferì a Bologna, passando per Firenze, per esercitare le facoltà quasi assolute concessegli sia in temporalibus sia in spiritualibus. Realizzò una riforma monetaria, fece osservare con puntigliosità le regole tradizionali del cerimoniale, risolse controversie di confine con il Ducato di Modena e riuscì a evitare che la guerra mossa nella primavera del 1614 dal duca di Savoia contro i Gonzaga di Mantova per il Marchesato del Monferrato avesse ripercussioni sulle terre della Legazione. Mentre i suoi interventi in campo amministrativo e politico sembra siano stati tanto efficienti quanto graditi sia a Bologna sia a Roma, meno fortunate risultarono, verso la fine del suo mandato, le sue decisioni in campo istituzionale e giuridico. In un primo contrasto, nato nel 1613, con i magistrati di Bologna sulle competenze del tribunale della Grascia, il legato riuscì, in piena concordanza con gli interessi romani, a imporre la propria autorità; nella primavera del 1614, però, il suo inflessibile e anche discusso modo di procedere contro diversi membri dell’influente famiglia Pepoli, responsabili dell’assassinio del senatore Aurelio dall’Armi, sembra non fosse stato approvato da Roma e avesse perciò impedito un possibile prolungamento della legazione di Barberini oltre il solito triennio.
Nel settembre del 1614, egli tornò a Spoleto. Tre anni più tardi poté finalmente realizzare un progetto portato avanti sin dal 1612: il 17 luglio 1617 rassegnò la sua diocesi, facendosi assegnare dal suo successore Lorenzo Castrucci oltre a una pensione di 500 scudi anche un’abbazia che fruttava 1500 scudi. Si trattava di un buon affare perché le entrate della mensa vescovile di Spoleto non superavano i 2400 scudi e la rinuncia al vescovado rese possibile il suo ritorno alla Curia romana; infatti, si trasferì immediatamente a Roma dove, il 30 luglio, consacrò vescovo il suo successore.
Negli anni seguenti, Barberini si dedicò ai suoi impegni curiali e, soprattutto, a quelli presso la Segnatura di giustizia; inoltre, sin dal 1608, era membro della congregazione della Fabbrica di S. Pietro. Mancano notizie sull’eventuale appartenenza di Barberini, durante il pontificato di Paolo V, ad altre congregazioni cardinalizie. Gregorio XV invece lo nominò successivamente membro non solo di diverse congregazioni particolari, ma il 14 gennaio 1622 lo inserì anche nella nuova congregazione di Propaganda Fide; inoltre lo designò protettore del Collegio greco e, il 9 gennaio 1623, gli conferì le competenze di camerario del Collegio cardinalizio.
La cappella di famiglia che Barberini, sembra su proprio disegno, aveva fatto erigere, secondo lo stile ‘moderno’ in marmi policromi, sin dal 1604 da Matteo Castelli nella chiesa di S. Andrea della Valle, allora ancora in corso di costruzione, fu consacrata l’8 dicembre 1616. Mentre la decorazione pittorica era stata affidata a Domenico Passignano, le sculture furono eseguite in parte da Cristoforo Stati, in parte da Pietro e Gian Lorenzo Bernini, che consegnò, fra il 1618 e il 1620, i busti dei genitori di Barberini e quattro cherubini. Con l’acquisto di queste opere si saldò il durevole rapporto di mecenatismo fra Barberini e il giovane Bernini, iniziatosi nel 1617 con la commissione di un S. Sebastiano per la sua collezione d’arte, il cui primo acquisto era probabilmente costituito da un suo ritratto dipinto dal Caravaggio nel 1598. Nello stesso periodo, Barberini intensificò i rapporti, coltivati sin da giovane età, con gli ambienti della cultura affermata, diventando membro di diverse accademie di orientamento prevalentemente letterario. Da ottimo allievo dei gesuiti, già da giovane si era dilettato nel comporre epigrammi e poesie in italiano, ma soprattutto in latino e in greco.
Alcuni di questi ‘carmina’, dedicati al suo magister Aurelio Orsi, poeta di corte dei Farnese, vennero pubblicati a Brescia nel 1595, altri nel 1606 a Perugia, mentre una raccolta maggiore di circa trenta poemi fu data alle stampe nel 1620 a Parigi su iniziativa di Nicolas-Claude Fabri de Peiresc. Fino al 1644, questi Poemata latini, commentati anche da Tommaso Campanella, vedranno quasi venti edizioni in Italia e Oltralpe, di cui alcune illustrate dal Bernini e da Pieter Paul Rubens; il numero dei carmina raccolti nei Poemata continuò ad aumentare per arrivare, alla fine, a oltre centocinquanta.
Sin dall’inizio della sua carriera curiale, aveva raccolto attorno a sé numerosi letterati e latinisti, aggregandoli prima alla sua familia prelatizia, poi cardinalizia e più tardi alla corte pontificia. Questo ‘sodalizio barberiniano’ s’incentivò dal 1617 in poi grazie anche a frequenti villeggiature trascorse in compagnia al lago di Albano, dove Barberini risiedeva in una villa; nel 1626-29, questa villa fu poi trasformata nel palazzo pontificio di Castel Gandolfo che, dal 1626 al 1638, fu due volte all’anno la sua dimora preferita.
Il 19 luglio 1623, undici giorni dopo la morte di Gregorio XV, iniziò il conclave per l’elezione del nuovo pontefice, secondo le regole appena sancite da papa Ludovisi. L’elezione si delineò difficile perché dei cinquantacinque cardinali che parteciparono al conclave, una quindicina erano stimati papabili. Le tre fazioni in concorrenza, numericamente quasi uguali, erano caratterizzate molto di più dai rapporti di clientela che le legavano alla casa Aldobrandini o Borghese o Ludovisi, che non da appartenenze politiche filofrancesi o filospagnole. Dopo diciassette giorni di inutili scrutini e di continue sostituzioni o riproposizioni di candidature e mentre diventava insopportabile l’afa estiva accompagnata da una febbre infettiva che si diffuse fra i conclavisti, si rese finalmente possibile un compromesso fra le fazioni Borghese e Ludovisi; così la mattina del 6 agosto s’arrivò alla quasi unanime elezione di Barberini con cinquanta voti su cinquantaquattro. Il successo fu facilitato dal fatto che Barberini, pur essendo elevato al cardinalato da Paolo V, non era considerato strettamente dipendente dalla fazione borghesiana, perché i decisivi avanzamenti nella sua carriera datavano al pontificato di Clemente VIII, e non aveva avversari fra i relativamente pochi cardinali di Gregorio XV. Alla sua elezione, Barberini assunse il nome di Urbano. Rimane incerto se decise di denominarsi così in memoria di Urbano II, il papa della prima crociata (in concomitanza con le proprie inclinazioni sacro-retoriche per una guerra santa contro gli eretici e infedeli) o per esprimere la predilezione per l’Urbs Romae. Immediatamente dopo il conclave, Urbano VIII fu colpito dalla stessa malattia infettiva di cui, di lì a poco, morirono quasi quaranta dei conclavisti. Perciò la sua incoronazione avvenne solo il 29 settembre a S. Pietro, mentre la cerimonia della possessio si svolse il 4 novembre al Laterano.
Il nuovo pontefice era un uomo di bella presenza, dotato di una ferrea salute, un appassionato di equitazione, un esperto nel mondo delle arti e delle lettere, tanto da suscitare molte speranze in una generale rifioritura della cultura e delle scienze. Si sapeva che il neoeletto era solito mantenere uno stile di vita tanto ordinato quanto modesto e moralmente superiore a ogni sospetto. Da ottimo conoscitore sia del cerimoniale di corte sia del rituale e della liturgia della Chiesa, egli osservò (e fece osservare a tutti) con rigore le regole e le forme tradizionali. Ma questa severità sembra non lo avesse reso immune dal subire l’influenza dell’astrologia e persino di credenze magiche. Era molto apprezzato per la sua conversazione arguta e spiritosa, anche se tendeva a diventare brusco e inflessibile in materie che toccavano l’autorità sua personale e quella della giurisdizione ecclesiastica. Inoltre, i suoi interlocutori e collaboratori temevano certe sue reazioni rabbiose e le sue escandescenze in caso di contrarietà e contro chiunque osasse esprimere un parere differente dal suo, un atteggiamento che peggiorò nel corso degli anni.
Urbano VIII sapeva ben organizzare le molte ore del giorno dedicate al lavoro, con preferenza la mattina, alle udienze, alla partecipazione alle congregazioni cardinalizie, allo studio degli atti e alle istruzioni da impartire. Alle riunioni del S. Uffizio che, una volta la settimana, si svolgevano in sua presenza, intervenne quasi sempre fino agli ultimi anni di pontificato, mentre alle sedute della congregazione di Propaganda Fide partecipò sempre più raramente dopo il 1628 e, dal 1637 in poi, neanche quattro volte all’anno.
Dopo l’elezione, uno dei primi impegni di Urbano VIII fu la preparazione dell’imminente anno santo del 1625. A poca distanza vennero indette, nel marzo e aprile del 1624, prima una visita apostolica della diocesi di Roma (completata solo nel 1632), che doveva risanare le deficienze disciplinari, pastorali e materiali esistenti, poi l’anno santo che portò a Roma quasi seicentomila pellegrini, desiderosi di acquisire le molteplici indulgenze plenarie per la prima volta offerte, ma soprattutto bisognosi di accoglienza, di approvvigionamenti di viveri e di assistenza ospedaliera in caso di malattie. Urbano VIII fece ricostruire chiese antiche (il battistero lateranense, S. Sebastiano al Palatino e S. Bibiana, il primo lavoro in architettura di Bernini) e ordinò ai cardinali che restaurassero le loro chiese titolari. L’anno santo fu segnato anche da un’impressionante militarizzazione di Roma, ove si concentrarono truppe per un costo di oltre 200.000 scudi. Come nel caso dei nove giubilei straordinari indetti da Urbano VIII fra il 1628 e il 1638, sempre in concomitanza di guerre o epidemie, anche nel 1625 esistevano pericoli di conflitto. In primo luogo, per l’intricata questione valtellinese, rimasta in sospeso alla morte di Gregorio XV.
Per tutelare gli interessi anche religiosi della popolazione cattolica della Valtellina e per evitare, data l’importanza strategica della valle, lo scoppio di un conflitto militare fra Spagna e Francia, papa Ludovisi si era interposto come garante di pace, acconsentendo che, nella primavera del 1623, quasi tremila soldati pontifici prendessero in consegna dagli spagnoli le fortezze dislocate lungo la valle; tale custodia avrebbe dovuto durare fino al raggiungimento di un accordo definitivo tra le parti. Urbano VIII già da cardinale aveva messo in dubbio l’opportunità dell’impegno preso da Gregorio XV, sottolineando i rischi che un coinvolgimento militare della Sede apostolica comportava, anche a causa della debolezza delle truppe pontificie, per il prestigio del papa e la posizione di equidistanza tra le due Corone cattoliche.
Le trattative portate avanti a Roma sulla questione della Valtellina da Urbano VIII con gli ambasciatori francese e spagnolo, dal novembre del 1623 al settembre del 1624, non ottennero risultati utili e un accordo di compromesso raggiunto nel febbraio del 1624 grazie alla mediazione del papa fu respinto da Parigi. In dicembre, su ordine di Luigi XIII, François-Annibal d’Estrées marchese di Cœuvres avanzò nella Valtellina. Le guarnigioni pontificie, già ridotte per abbassarne i costi, non resistettero all’invasione; nel gennaio del 1625 caddero anche le fortezze di Bormio e Chiavenna. Nonostante l’offesa subita, Urbano VIII non volle allearsi con la Spagna e mantenne la posizione neutrale tra le due Corone, cercando per vie diplomatiche una soluzione pacifica. Il 25 febbraio 1625, egli decise di inviare suo nipote Francesco come cardinal legato a latere in Francia; questi, per oltre tre mesi, s’affaticò per far accettare dal cardinale Armand-Jean Du Plessis de Richelieu le richieste di Urbano VIII: la salvaguardia della reputazione della Sede apostolica e la piena autonomia politico-amministrativa della Valtellina, che non avrebbe mai più dovuto ritornare sotto la sovranità dei Grigioni protestanti. I francesi, invece, rimasero fermi nel difendere la loro alleanza con i Grigioni e nel chiedere il controllo esclusivo dei passi alpini. Quando il legato, verso la metà di novembre, s’imbarcò a Tolone per tornare a Roma, portò con sé l’esperienza traumatica della sua impotenza diplomatica: il prevalere degli interessi politici particolari e contrastanti delle Corone cattoliche difficilmente si poteva conciliare con l’universalismo romano e con il ruolo di padre comune che il papa si era ascritto. Il 5 marzo 1626 gli spagnoli e i francesi avevano già raggiunto, a Monzón, un accordo senza la partecipazione di Roma. Il trattato, poi ratificato il 3 maggio, stabiliva l’esclusivo esercizio del culto cattolico nella Valtellina; e anche se era prevista la restituzione della valle ai Grigioni, i valtellinesi conservarono una quasi totale autonomia in campo amministrativo e giuridico. Le fortificazioni dovevano essere riconsegnate alla Sede apostolica che ne avrebbe curato la distruzione. Nonostante l’esclusione della diplomazia pontificia dalle trattative, i cui risultati soddisfacevano solo parzialmente le rigide richieste politico-religiose di Urbano VIII, e benché il pontefice non avesse ricevuto alcuna riparazione per l’aggressione subita e per le ingenti spese sostenute, egli accettò senza protesta il trattato. Le convenzioni in materia di religione, stabilite con molto pragmatismo fra le due Corone cattoliche, alla fine risultarono molto più efficaci delle massime canonico-politiche sostenute da Roma. Una delle conseguenze che Urbano VIII sembrò aver tratto dall’esperienza valtellinese, fu quella di evitare con cura ogni futuro coinvolgimento materiale della Sede apostolica in conflitti tra le potenze cattoliche.
I preparativi militari a Roma nel 1625 erano collegati anche a possibili complicazioni della devoluzione del Ducato di Urbino allo Stato pontificio. Benché l’ultimo duca, Francesco Maria della Rovere, rimasto senza eredi, avesse facilitato un futuro passaggio del Ducato allo Stato della Chiesa, che così avrebbe conquistato un territorio ricco di risorse e di porti su quel tratto di Adriatico che univa la Marca alla Romagna, Urbano VIII temeva eventuali contromisure anche militari, soprattutto da parte del granduca di Toscana. Il passaggio di proprietà si svolse, invece, senza problemi: dopo la morte del duca, avvenuta nell’aprile del 1631, tutto il territorio fu integrato nello Stato della Chiesa. I primi due legati, preposti alla Legazione di Urbino ex novo costituita, erano i cardinal nepoti Antonio nel 1631, poi Francesco nel 1633. Quanto a Roma, il titolo onorifico di prefetto della città, prima spettante alla casa della Rovere, fu assegnato da Urbano VIII al nipote Taddeo. In virtù di questo titolo, i Barberini pretesero per Taddeo la precedenza su tutti gli ambasciatori, causando interminabili difficoltà diplomatiche e protocollari e vari incidenti. Un altro intervento di Urbano VIII nel cerimoniale e nelle titolature suscitò reazioni, anche se meno gravi: dopo oltre tre anni di discussioni nella congregazione del Cerimoniale, il 10 giugno 1630 Urbano VIII attribuì a tutti i cardinali il titolo di Eminenza: un provvedimento che distingueva i cardinali come corpo ma, equiparando i cardinali principi ad altri meno illustri porporati fu risentito come un ingiusto livellamento che annullava le gerarchie di sangue.
Il periodo di distensione tra Francia e Spagna, seguito al trattato di Monzón e culminato nel progetto di una comune invasione dell’Inghilterra, che venne sostenuto insistentemente dalla diplomazia pontificia negli anni 1625-26, terminò bruscamente con l’inizio del conflitto per la successione nel Ducato di Mantova e nel Marchesato di Monferrato. Dopo la morte dell’ultimo duca di casa Gonzaga, da sempre alleata con gli Asburgo, la Spagna voleva impedire a ogni costo l’insediamento del più prossimo erede, il duca Carlo I Gonzaga-Nevers, pari di Francia. Già prima del conflitto militare che si delineava, Urbano VIII era deciso sulla linea politica da seguire: usare tutti i mezzi a sua disposizione per ostacolare un ulteriore accrescimento del potere spagnolo in Italia, che minacciava, a suo parere, lo spazio politico-diplomatico dello Stato della Chiesa; e nello stesso modo – diceva – avrebbe contrastato anche la Francia se i francesi avessero goduto in Italia di un predominio simile a quello che la Casa d’Austria già possedeva.
Rimane poco trasparente l’intensa e intricata attività svolta dalla diplomazia pontificia durante e dopo la guerra di Mantova e del Monferrato che scoppiò alla fine del 1627. Nella ricerca di accomodamenti e armistizi fra le potenze belligeranti erano coinvolte quasi tutte le nunziature; inoltre, nel novembre del 1629 Urbano VIII nominò suo nipote Antonio cardinal legato per la pace, con a fianco un nunzio straordinario e, per missioni speciali, anche il giovane Giulio Mazzarino. L’incessante lavoro dei rappresentanti diplomatici di Urbano VIII non riuscì a rendere meno cruenta la guerra che si protrasse fino al 1631 e che trovò, nel luglio del 1630, il suo culmine nella conquista e nel saccheggio di Mantova da parte di un esercito imperiale, chiamato in aiuto dagli spagnoli. Da parte pontificia, il nunzio a Parigi, Giovanni Francesco Guidi di Bagno, favorì un primo intervento militare francese in Italia all’inizio del 1629 e promosse le trattative per una segreta alleanza difensiva tra Francia e Baviera che doveva indebolire il potere dell’imperatore Ferdinando II. Urbano VIII facilitò un secondo intervento francese più decisivo all’inizio del 1630, non ostacolando minimamente, nonostante le insoddisfacenti condizioni in materia religiosa, i trattati di pace conclusi con gli ugonotti e con l’Inghilterra nell’aprile e giugno del 1629; non protestò, nell’autunno del 1629, contro le trattative in corso che dovevano garantire alle Provincie Unite nuovi aiuti francesi contro la Spagna e finse di ignorare l’alleanza offensiva conclusa, nel gennaio del 1631, tra Francia e Svezia contro l’imperatore. Tutto indica che almeno negli anni 1628-33 esistesse tra Roma e Parigi un’intesa politica che inevitabilmente si opponeva agli interessi della pur cattolicissima Casa d’Asburgo e che contrastava con il teorema dell’assoluta imparzialità pontificia, sostenuta da Urbano VIII. L’esito della guerra premiò gli obiettivi di Richelieu: la Pace di Cherasco, firmata nell’aprile del 1631 e limitata al solo conflitto italiano, assicurò a Nevers l’investitura imperiale di Mantova e, grazie ad accordi segreti, la Francia s’impadronì, con Pinerolo, di una porta d’accesso in Italia. La guerra non aveva toccato il territorio pontificio e lo Stato della Chiesa non aveva subito la temuta invasione da parte dell’armata imperiale. La guerra di Mantova-Monferrato era un conflitto periferico della più ampia conflagrazione in corso in Europa: la guerra dei Trent’anni.
Sino al 1632 Urbano VIII intervenne soprattutto per quanto riguardava gli aspetti religiosi, controllando il processo di ricattolicizzazione dei vasti territori riconquistati, negli anni Venti, dalle armate dell’imperatore e della Lega cattolica. Ma a differenza dei suoi predecessori, Urbano VIII si era rifiutato di aiutare finanziariamente i principi cattolici in Germania, asserendo la totale mancanza di fondi. Solo all’inizio del 1632, quando l’avanzata delle armate di Gustavo II Adolfo di Svezia e dei suoi alleati tedeschi aveva ormai travolto quasi tutta la Germania e Praga stava per cadere in mano dell’esercito sassone, mentre gli svedesi stavano per occupare la Renania e la Baviera, per la prima volta Urbano VIII concesse sussidi all’imperatore e alla Lega cattolica: poco più di 477.000 scudi; i pagamenti furono finanziati attraverso decime imposte al clero italiano e perciò non si trattava di donativi del papa. Nel Concistoro dell’8 marzo 1632 il cardinale Gaspar de Borja y Velasco, facendosi portavoce del partito spagnolo nel Sacro Collegio, accusò Urbano VIII di essere corresponsabile, per la sua indifferenza, della rovina del cattolicesimo in Germania. A questa protesta Urbano VIII reagì adottando misure disciplinari per allontanare da Roma i cardinali coinvolti, producendo scritture che dovevano dimostrare l’infondatezza delle accuse rivoltegli ed elaborando grandi gesti politici. Il 1° maggio 1632 nominò tre nunzi straordinari che dovevano promuovere alle corti di Madrid, Vienna e Parigi la composizione dei contrasti fra le Corone cattoliche e unirle in una guerra comune contro gli svedesi eretici. La mediazione pontificia era condannata a priori al fallimento, perché non teneva conto delle alleanze della Francia con la Svezia luterana. Convinto di limitarsi alla sola azione diplomatica Urbano VIII continuò a respingere ogni invito rivoltogli a entrare in leghe politiche o militari e, nel 1634-35, insistette invano per la convocazione di un congresso di pace a Roma o in un altro luogo neutrale; ma lentamente si stava dissimulando o persino ammettendo la possibilità che parallelamente, in un convegno subordinato, si svolgessero trattative separate fra cattolici e protestanti. Contro i risultati di queste, però, i nunzi avrebbero dovuto opporsi con forza, se avessero leso i diritti della Chiesa o comportato la perdita di beni ecclesiastici. L’aperta entrata in guerra della Francia, nel maggio del 1635, rese ancora più difficile ogni mediazione pontificia. Dal 1636 al 1644 valsero le stesse invalicabili limitazioni per gli incessanti e anche dispendiosi tentativi della diplomazia pontificia: nessun coinvolgimento del pontefice nelle negoziazioni in atto o nel futuro contratto di pace, in qualità di arbitro, garante o depositario; assoluta neutralità e imparzialità da parte dei nunzi o legati, che dovevano astenersi da qualsiasi presa di posizione o propria iniziativa. In questo modo, però, la mediazione pontificia si riduceva a un rituale ripetitivo che poteva approdare solo a risultati formali più o meno marginali, mentre nel frattempo anche i rapporti con la Francia si erano deteriorati fino al punto da far temere, negli anni 1639-40, una rottura delle relazioni diplomatiche.
Per mera casualità la protesta del cardinale Borja concise con un’altra differente crisi che segnò il pontificato di Urbano VIII. Nel marzo del 1632 giunsero a Roma le prime copie del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo Galilei che un anno dopo (22 giugno 1633) il S. Uffizio mise all’Indice, mentre l’autore fu condannato per grave sospetto di eresia. Rimangono incerte le ragioni che indussero Urbano VIII, nel luglio-settembre del 1632, a far sequestrare tutte le copie rintracciabili del Dialogo, a sottoporre a un rigoroso riesame l’opera (alla cui stampa le autorità ecclesiastiche avevano pur dato il permesso) e, in seguito, a mandare Galilei davanti al tribunale dell’Inquisizione per un processo le cui motivazioni erano di tipo extragiudiziale. Maffeo Barberini da cardinale era stato un ammiratore di Galilei sin dai primi incontri nel 1611 a Roma e a Firenze. Negli anni seguenti, fra di loro si era stabilito un contatto per corrispondenza e quando Galilei fu coinvolto, nel 1615-16, nel procedimento promosso dalla congregazione dell’Indice contro il copernicanesimo, Barberini cercò di proteggerlo; nel contesto della condanna, la quale dichiarò stolta e formalmente eretica la teoria della mobilità della Terra perché contraria alle Sacre Scritture, a Galilei si intimò di abbandonare la dottrina eliocentrica. Poco dopo, nel 1620, il cardinale scrisse e pubblicò in onore dello scienziato una poesia elogiativa delle sue scoperte astronomiche; e questi fece dedicare, nel 1623, il suo Saggiatore al neoeletto pontefice che provava gran gusto nel leggere le arguzie e le invettive toscane contenute nel polemico trattato. Nella primavera del 1624, infine, Urbano VIII ricevette Galilei ben sei volte in udienza; sembra che questi incontri abbiano incoraggiato lo scienziato a scrivere un’opera da tempo progettata che doveva mettere a raffronto, pur rispettando le prescrizioni ecclesiastiche e procedendo per pura e semplice ipotesi matematica, il sistema tolemaico-aristotelico e la teoria copernicana. Nel maggio del 1631 Galilei, con il consenso del papa, consegnò il manoscritto ai censori romani che diedero nel luglio del 1631 la licenza per la stampa. La dura reazione di Urbano VIII alla pubblicazione del Dialogo si può spiegare in diversi modi: o il papa giudicava lesa la sua autorità da certe impostazioni del testo, o si era lasciato convincere che l’opera intendesse solo propugnare la validità della condannata dottrina eliocentrica, o si dovette accorgere che a Galilei era stato assolutamente vietato di occuparsi in qualsiasi modo delle teorie copernicane. In ogni caso, la condanna di Galilei – promossa dallo stesso Urbano VIII che, da cardinale, si era ancora dimostrato probabilista – esautorò la ‘nuova scienza’ galileiana e convalidò ulteriormente la corrente rigorosamente tradizionalista da tempo dominante nella Chiesa cattolica postridentina in campo teologico e filosofico.
Le ‘novità’ riformatrici introdotte da Urbano VIII nella vita ecclesiastica sono da inserire in un processo di ‘disciplinamento’ in atto da decenni, segnato dall’irrigidimento e dall’estensione di norme già in vigore nonché dal rafforzamento del potere centrale pontificio. Questo vale per il risalto dato più volte all’obbligo di residenza dei vescovi (1623-26, 1634 e 1636), per la revisione e l’uniformazione delle facoltà da concedere a nunzi e missionari (1632-37) e per la riforma del breviario e del martirologio romano (1629-31). Di quest’ultima riforma fece parte pure la revisione degli antichi inni del breviario che subirono quasi mille correzioni per adeguarli allo stile e alla metrica classici (il risultato definitivo fu imposto alla Chiesa universale nell’aprile 1643). Seguì l’approvazione di una riforma del messale (1634) nonché del pontificale (1643). Con una serie di decreti emanati dalle congregazioni dell’Indice e dei Riti dal 1624 al 1634, Urbano VIII vietò ogni forma di venerazione di servi di Dio non riconosciuti tali da Roma e stabilì le procedure da seguire nei ben distinti processi di beatificazione e di canonizzazione, riservati ora alla sola Sede apostolica e limitati a persone morte in odore di santità da almeno cinquant’anni. In conformità alle rigorose disposizioni, creò solo due nuovi santi mentre procedette a numerose beatificazioni (trentotto in tutto, fra cui ventisei missionari, martiri in Giappone). Con una bolla del 22 dicembre 1642 ridusse le feste di precetto, a parte le domeniche, a ventisette.
Infine, in campo teologico, Urbano VIII lasciò ai suoi successori una difficile eredità in conseguenza della condanna, con la bolla In eminenti del marzo del 1642 (ma promulgata solo nel giugno 1643 e confermata un anno dopo), dell’Augustinus di Cornelius Jansenius. La condanna si basava su diversi decreti dei papi precedenti, riformulati da Urbano VIII già negli anni 1625 e 1641, che vietavano qualsiasi pubblicazione la quale trattasse, senza esplicito permesso dell’Inquisizione, la tematica della grazia divina.
Sotto Urbano VIII la congregazione di Propaganda Fide divenne il fulcro dell’azione missionaria della S. Sede, sia per la vastità di giurisdizione di cui la rivestì, sia per la mole degli affari svolti dal segretario Francesco Ingoli. Nel novembre del 1633 la congregazione stabilì la sua sede in un palazzo situato nell’odierna piazza di Spagna, in cui venne sistemata anche la Tipografia poliglotta, istituita nel 1626. Nello stesso edificio Urbano VIII eresse, nell’agosto del 1627, il pontificio Collegio Urbano per la formazione di ecclesiastici secolari provenienti dalle terre di missione e destinati a tornarci. Grazie alle donazioni di suo fratello, il cardinale Antonio, che finanziò anche la costruzione, all’interno di quel fabbricato, di una chiesa, progettata da Bernini, nel 1637-39 il Collegio poté ospitare fino a trentacinque alunni. La grande maggioranza dei futuri missionari venne, però, formata o nei molti collegi nazionali esistenti da tempo a Roma e altrove nell’Europa cattolica (in buona parte sovvenzionati dalla congregazione) o negli istituti degli Ordini religiosi.
Urbano VIII riformò, fino al 1642, molte congregazioni cardinalizie e ne istituì sei nuove: nel 1624, in preparazione dell’anno santo e con competenze limitate alla sola diocesi di Roma, fondò una speciale congregazione della Visita apostolica; nel 1626 l’importante congregazione dell’Immunità ecclesiastica, nel 1627 la congregazione dei Confini per la salvaguardia dell’integrità territoriale (e anche sanitaria) dello Stato della Chiesa e per la soluzione di controversie sui limiti territoriali delle diverse giurisdizioni all’interno dello Stato; nel novembre del 1630, in occasione del dilagare della peste, la congregazione di Sanità; nel maggio del 1636, la congregazione della Residenza dei vescovi, all’inizio del 1641 la Congregazione di Portogallo, istituita ad hoc in occasione del distacco di questo reame dalla Corona di Spagna. Creò inoltre settantaquattro cardinali in otto promozioni che, nel primo decennio del pontificato, si susseguirono a breve distanza, mentre dal 1633 ci fu un intervallo di otto anni, tanto che alla fine del 1641, prima della penultima creazione, vacarono ben ventisei posti nel Collegio cardinalizio. In deroga a tutte le contrastanti disposizioni in vigore, elevò al cardinalato tre suoi consanguinei e almeno altre otto delle ‘creature’ di Urbano VIII erano suoi parenti. Nella crescente crisi finanziaria, che segnò gli ultimi anni del pontificato, aumentarono le elevazioni al cardinalato di prelati di Camera (venticinque in tutto), la cui promozione dava la possibilità di rivendere i loro uffici vacabili: così, nelle ultime due creazioni del 1641 e 1643 di ventinove cardinali, la nomina di otto ufficiali della Camera apostolica portò nelle casse pontificie oltre mezzo milione di scudi; nelle stesse due promozioni, ben quattro dei nuovi cardinali erano genovesi – e dalle banche genovesi dipendeva ormai la sopravvivenza economica della Sede apostolica.
Se Urbano VIII aveva pensato di assicurare, attraverso le nomine cardinalizie, al cardinale nepote una stabile maggioranza clientelare in seno al Sacro Collegio, tali intenzioni vennero disastrosamente deluse dall’esito degli scrutini nel conclave dell’estate del 1644: vi parteciparono in tutto cinquantasei cardinali, di cui quasi cinquanta erano ‘creature’ del defunto Urbano VIII, ma solo un’esigua minoranza di cinque cardinali votò in favore di Giulio Sacchetti, il candidato della fazione barberiniana. Ovviamente le cause della defezione di tanti cardinali non sono da cercare solo nei disastri politico-militari e finanziari che contrassegnarono l’ultimo periodo del pontificato; è da presumere, invece, che nel Sacro Collegio fosse vivo un diffuso rancore contro i Barberini, perché il nepotismo di Urbano VIII (il termine stesso compare per la prima volta proprio nel suo pontificato, anche se il fenomeno esisteva da secoli) aveva danneggiato gli interessi personali di molti cardinali che erano rimasti esclusi dalle tradizionali fonti ecclesiastiche di ricchezza o di sostentamento, drenate dai consanguinei del pontefice.
Non esistono stime dei costi complessivi del mecenatismo artistico e delle iniziative di Urbano VIII in campo architettonico e urbanistico; si dispone solo di numerose indicazioni e valutazioni parziali che non possono fornire un quadro completo. Gli interventi più spettacolari riguardarono l’abbellimento dell’interno della nuova basilica di S. Pietro, consacrata da Urbano VIII il 18 novembre 1626. Nel marzo del 1625 iniziarono i lavori per la costruzione dell’imponente baldacchino sopra la tomba di Pietro, capolavoro di Bernini. Seguì, negli anni 1629-41, l’esecuzione delle grandi nicchie a due piani nei quattro pilastroni della cupola e delle quattro statue di santi da collocarvi. Nel sotterraneo Urbano VIII fece costruire quattro altari, addossati alle fondamenta dei piloni, che vennero dotati, nell’ottobre del 1631, di otto cappellanie di giuspatronato di casa Barberini che, in questo modo, s’impadronì, materialmente, giuridicamente e liturgicamente, della base e del centro della basilica. Nel corso del pontificato, Urbano VIII innalzò in S. Pietro oltre due dozzine di altari e commissionò le relative pale, lasciando piena libertà stilistica ai diciannove pittori incaricati dell’esecuzione. Nella tribuna della basilica, in intenzionata simmetria con la tomba di Paolo III Farnese, troneggiò sin dall’agosto del 1631 la statua bronzea per il monumento funebre che immortalò Urbano VIII ancora in vita; l’opera fu completata da Bernini solo dopo il 1638 e inaugurata nel 1647. Nella città di Roma, Urbano VIII ha lasciato relativamente poche tracce architettoniche. A parte il restauro di chiese antiche e l’allargamento di qualche piazza, non intervenne quasi per niente nel contesto della città. Fra le imprese maggiori sono da elencare l’aggiunta del piano attico al palazzo della Sapienza (1628-32) e l’inizio della costruzione della chiesa universitaria di S. Ivo, cominciata nel 1643 da Francesco Borromini, nonché la sistemazione di tre fontane, commissionate a Bernini: la fontana della Barcaccia in piazza di Spagna (1627-29), la fontana del Tritone in piazza Barberini (1640-43), al cui angolo si trova oggi anche la piccola fontana delle Api (1644). L’iniziativa urbanistica più incisiva consistette nella costruzione delle mura gianicolensi, che completarono la cinta difensiva della città verso il mare e racchiusero nella difesa muraria la via della Lungara e il colle del Gianicolo, dove si erano insediate molte nuove costruzioni e ville anche dei Barberini. Le misurazioni necessarie e le progettazioni cominciarono nel luglio del 1641; con l’impiego di migliaia di operai, le fortificazioni, con dodici baluardi, furono erette in grande fretta e con ingenti spese nel 1642-44. I lavori si estesero per oltre tre chilometri, su un difficile terreno, da porta Cavalleggeri, attraverso la restaurata porta S. Pancrazio, fino a scendere sulla riva del Tevere, inglobando il rione di Trastevere; qui, l’arretramento della cinta muraria di quasi 500 metri dietro le mura aureliane rese necessaria la sostituzione dell’antica porta Portuense con la nuova porta Portese nonché lo spostamento a monte del porto di Ripa grande.
Queste fortificazioni romane furono causate dall’inasprimento del dissidio fra Urbano VIII e Odoardo Farnese, duca di Parma e Piacenza, che era anche feudatario del Ducato di Castro e Ronciglione, situato entro i confini dello Stato pontificio. Tale Ducato, grazie alla ricca produzione granaria, era di primaria importanza per il rifornimento annonario della vicina città di Roma. Nel 1641 i debiti camerali del Farnese furono indicati da Urbano VIII in un milione e mezzo di scudi, corrispondenti a circa un decimo del debito pubblico allora accumulato nei Monti gestiti dalla Camera; non è però possibile dare un giudizio netto sulle ragioni dell’acutizzarsi del conflitto che concerneva sia ingenti interessi politico-finanziari sia il prestigio sociale delle casate. Lo scontro tra i Barberini e il duca di Parma sfociò, nell’autunno del 1641, nella tanto inutile quanto devastante guerra di Castro, chiamata anche guerra Urbana dal nome proprio del pontefice. Su invito di Urbano VIII, Odoardo Farnese venne a Roma nel novembre del 1639 per tre mesi, durante i quali le trattative per una riduzione del tasso d’interesse dei debiti si mescolarono con scambi di cortesie e sgarbi nel cerimoniale; alla fine di febbraio del 1640 il duca lasciò bruscamente Roma dopo aver respinto sia la proposta di una futura alleanza matrimoniale tra le case Barberini e Farnese, sia una nuova offerta di acquisto del Ducato di Castro da parte dei Barberini. Erano affittuari-appaltatori del Ducato di Castro i fratelli Giovanni e Alessandro Siri – mercanti-banchieri savonesi, attivi a Roma anche come banchieri di fiducia dei Barberini sin dal 1630 e, dal maggio 1639, depositari generali della Camera apostolica, nonché tesorieri segreti di Urbano VIII in successione ai fratelli Sacchetti, insieme ai quali gli stessi Siri erano depositari dei vecchi Monti Farnese. I Siri, in una manovra concertata, tutt’altro che trasparente, nel 1640-41 si rifiutarono, sotto pretesti giuridici, di adempiere il contratto di affitto per Castro, stipulato con il Farnese sul principio del 1638 per un ammontare di quasi 100.000 scudi annui. In conseguenza, il duca smise di pagare gli interessi spettanti ai suoi creditori, titolari dei luoghi di Monte Farnese. Le proteste delle numerose istituzioni ecclesiastiche e delle persone danneggiate dall’insolvenza vera o provocata del duca erano atte a destabilizzare, date le dimensioni del caso, tutto il sistema ‘montistico’ pontificio e rendere pertanto difficile la vendita quanto rischioso l’acquisto di luoghi dei Monti gestiti dalla Camera apostolica. Un danno rilevantissimo, poiché solo sul mercato dei Monti era possibile coprire le forti spese straordinarie e consolidare l’indebitamento velocemente crescente della Sede apostolica proprio in questi anni. Nel marzo del 1641, il cardinale Antonio Barberini, camerlengo di Santa Chiesa, strinse il Farnese in una morsa, fra l’altro vietando ogni esportazione di cereali dal Ducato di Castro e sequestrando un barcone carico di grano nel porto di Montalto. Odoardo Farnese, facendo la sua parte nell’assurdo gioco, fortificò la cittadella di Castro e rifornì il territorio di truppe e di munizioni. Poi, il 20 luglio, la Camera emanò, in nome dei creditori, un monitorio che imponeva al Farnese l’immediata restituzione dei debiti, minacciandolo dell’incameramento di beni di sua proprietà per il corrispondente valore; il 21 agosto seguì un secondo monitorio, con il quale Urbano VIII ingiunse al suo ‘vassallo’, sotto pena della scomunica e della perdita del feudo ducale, il licenziamento delle truppe e la demolizione delle fortificazioni. Il duca non reagì minimamente; ma da parte pontificia si diede inizio a forti armamenti e all’arruolamento di un esercito straordinariamente numeroso di dodicimila soldati e tremila cavalieri, ammassato a Viterbo, che il 28 settembre conquistò quasi senza combattimenti prima Montalto, poi gli altri luoghi fortificati del Ducato e finalmente, a metà ottobre, anche Castro. Nel gennaio del 1642, Urbano VIII dichiarò Odoardo scomunicato, reo di lesa maestà, decaduto da tutti i suoi feudi e incorso nella confisca di tutti i suoi beni in territorio pontificio. In luglio, un’armata pontificia mosse da Ferrara verso Parma, occupando la neutrale signoria di Mirandola. Per fronteggiare la destabilizzante politica belligerante dei Barberini, il 31 luglio 1642 la Toscana, Venezia e Modena conclusero un’alleanza difensiva, appoggiata dalla Francia, che da tempo si trovava in forte tensione con Roma, fornendo al duca di Parma sussidi di ben 25.000 scudi al mese. Senza che fosse esistito un comune piano strategico degli alleati, il Farnese in settembre entrò dal territorio modenese nello Stato della Chiesa con tremila uomini a cavallo e tremila a piedi; mettendo in fuga l’esercito pontificio, conquistò Imola, Faenza e Forlì, mentre a Roma si rafforzarono gli armamenti e Urbano VIII si ritirò dal Quirinale al più sicuro Vaticano. Nell’ottobre, Odoardo Farnese stabilì il suo quartier generale sul lago Trasimeno e avanzò fino ad Acquapendente vicino a Orvieto, ma poi dovette ritirarsi anche per la scarsezza di viveri e foraggi, distrutti dalle truppe pontificie nella loro fuga. Mentre Urbano VIII insisteva sulle richieste iniziali – esplicita domanda di perdono e di assoluzione da parte del Farnese, rinuncia a Castro e Montalto, pagamento dei debiti –, la ripresa delle ostilità nella primavera del 1643 portò a successi alterni su tutti i fronti. Verso la fine del 1643, tutti i belligeranti erano esausti, le risorse militari e finanziarie della Sede apostolica erano esaurite. Dopo un’ultima, cruenta disfatta, subita a metà marzo del 1644 dall’esercito pontificio nei pressi di Ferrara, si arrivò finalmente alla pace, ricercata da molti mesi con varie proposte da tutte le parti in causa. Con il decisivo intervento della Francia, che fu garante degli accordi, furono sottoscritti a Venezia, il 31 marzo, due trattati di pace della Sede apostolica con gli alleati e, separatamente, con Odoardo Farnese. Tutto tornò allo status quo ante, e non solo per quanto riguardava la reciproca restituzione delle conquiste territoriali: Urbano VIII concesse perdono e assoluzione al duca di Parma, il quale dovette far demolire le nuove fortificazioni a Castro e Montalto che, in questo modo, venivano presentate come la vera e unica causa della guerra, mentre i debiti farnesiani non vennero neanche menzionati.
Rimangono difficilmente calcolabili le perdite di prestigio politico, militare e morale che la Sede apostolica subì in Italia e in Europa in questo conflitto iniziato con esorbitante leggerezza e irresponsabilità. Sui costi materiali dell’assurda guerra le molte indicazioni dei contemporanei contrastano. Anche la stessa Roma rimase sconvolta dalla guerra; nel 1643-44, la città fu messa a soqquadro più volte da tumulti, rapine e ferimenti da parte dei soldati ivi ammassati, che, alla fine, erano rimasti senza paga per lunghi mesi. Ma non era tanto questo clima di diffusa violenza, quanto la rapida crescita della pressione fiscale e il conseguente rincaro della vita quotidiana che gravavano sempre di più sulla popolazione di Roma e dello Stato. Per coprire le spese in rapida ascesa, Urbano VIII aumentò o impose ex novo fino a sessantatré imposte di consumo, in buona parte su beni di prima necessità, e si acquistò l’epiteto di ‘papa gabella’. Verso la fine del 1643, i parroci furono incaricati di stendere degli elenchi per fornire informazioni sullo status economico dei loro parrocchiani in preparazione di una patrimoniale che avrebbe dovuto fruttare 600.000 scudi a Roma e 3 milioni in tutto lo Stato; ma le proteste e resistenze sociali e pure ecclesiastiche opposte a questa disposizione fecero cambiare alla Camera il modo di procedere. Alla fine, nel gennaio del 1644, fu imposto, ma poi di fatto solo in parte riscosso, un semplice testatico che socialmente sarebbe stato ancora più ingiusto.
Si è affermato che il gettito degli aumenti tributari effettuati durante il pontificato di Urbano VIII avesse reso capace la Camera apostolica di pagare gli interessi per complessivamente 14 milioni di debiti. Certo è che il provento delle gabelle così fortemente accresciute negli anni 1639-44 fu in gran parte o del tutto usato per poter emettere sul mercato nuove aggiunte a vecchi Monti o a quelli eretti ex novo come il Monte del sale o il Monte del macinato Non si dispone di indicazioni sul valore capitale di questi nuovi Monti e delle aggiunte a quelli già esistenti negli ultimi anni del pontificato, ma si stima che sotto Urbano VIII il debito pubblico consolidato nei Monti camerali fosse salito da 12 a 25-26 milioni di scudi e che negli anni 1623-44 l’indebitamento complessivo della Sede apostolica fosse raddoppiato da circa 18-19 milioni a 36-40. Resta da chiarire se una parte di questo enorme debito consistesse in prestiti, concessi in moneta contante da banche e banchieri genovesi.
Negli ultimi otto-dieci anni della sua vita, Urbano VIII fu affetto da gravi infermità che lo debilitarono in modo progressivo. Da quanto si riesce a dedurre dagli scarsi accenni contemporanei sui vari ‘accidenti’ che colpirono il papa, si trattò di una serie di distanziati e gravi colpi apoplettici o apoplettiformi, causati probabilmente da trombosi vascolar-cerebrali e collegati a una ipertensione cronica. Un primo ‘accidente’ di questo genere si manifestò il 1° aprile 1635. In forma molto più seria, lo stesso malessere si ripeté due anni più tardi, il 27 aprile 1637 e solo all’inizio di agosto egli sembrò pienamente ristabilito, ma in autunno subì una ricaduta dalla quale si riprese alquanto a metà novembre. Il 25 aprile 1638 si ripresentò, in forma ancora più grave, lo stesso malessere che si protrasse fino all’estate. Negli anni seguenti, Urbano VIII fu sempre più spesso assente alle cerimonie liturgiche e alle feste civili a cui era solito partecipare. Nel 1639 attese alla processione del Corpus Domini (22 giugno) per la prima volta non a piedi, ma portato sulla sedia gestatoria; dall’anno seguente (30 maggio) non vi partecipò mai più. Nelle fasi critiche della sua infermità non era capace di svolgere i compiti del suo ufficio tanto che già nell’autunno del 1637 il nipote Antonio firmò per un po’ in sua vece i brevi apostolici. Rimane quindi aperta la questione se e in quale misura Urbano VIII fosse personalmente cosciente, partecipe o responsabile negli ultimi anni e, soprattutto, negli ultimi mesi della sua vita, delle decisioni prese dal governo pontificio in tutti i campi. Verso la fine del 1643 si verificò un altro, gravissimo episodio che costrinse il papa quasi ininterrottamente a letto; si fece vedere in pubblico solo il 27 marzo 1644, in occasione della benedizione pasquale che impartì da una finestra del Palazzo Vaticano. In giugno il suo stato peggiorò, il 22 luglio ricevette dal suo confessore, il gesuita Luigi Albrizzi, il viatico, tre o quattro giorni dopo l’olio santo. Morì verso le ore sette di venerdì 29 luglio 1644, all’età di settantasei anni. La notizia della sua morte provocò immediate dimostrazioni di gioia e di odio: il popolo romano cercò di distruggere la statua di Urbano VIII, opera di Bernini, custodita dal 1640 nel Palazzo Capitolino; non riuscendoci, fece a pezzi un suo ritratto in stucco, collocato nel cortile-giardino del Collegio Romano. Dopo l’autopsia del cadavere, eseguita dal medico Giovanni Trulli, che non portò a risultati notevoli, la sua salma, già in progredita decomposizione, fu esposta a S. Pietro dal 31 luglio al 2 agosto e poi sepolta nell’ancora incompiuta sua tomba nell’abside della basilica.
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