Vedi Papua Nuova Guinea dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Papua Nuova Guinea è uno stato indipendente dal 1975, anno in cui ebbe termine la dominazione australiana sulla parte orientale dell’omonima isola di Papu: la parte occidentale, annessa dall’Indonesia nel 1969, costituisce tutt’oggi la provincia indonesiana di Papua Occidentale. Il principale partner del paese è l’Australia, alla quale è legato da un elevatissimo interscambio commerciale e dal retaggio storico. Le relazioni tra i due paesi sono recentemente migliorate, soprattutto da quando Papua Nuova Guinea si è ufficialmente assunta l’impegno di controllare le emigrazioni per mare verso l’Australia. Canberra continua comunque a guardare con diffidenza il vicino. Papua Nuova Guinea, infatti, è un paese instabile, tra i più fragili al mondo a causa della sua frammentazione politica, economica e sociale: l’Australia teme che ciò possa avere ripercussioni sul suo territorio. Negli anni Novanta, le spinte indipendentiste dell’isola di Bougainville hanno portato a uno scontro aperto con le forze governative papuane. Il conflitto si è concluso solo nel 1998, con un accordo che ha garantito all’isola ampia autonomia. D’altra parte, il paese sta cercando di smarcarsi dalla preponderante influenza politica ed economica australiana e di avvicinarsi alla Cina, con cui sin dal 1976 ha una stabile relazione diplomatica basata sull’adesione alla ‘One-China Policy’, consistente nel non intrattenere relazioni diplomatiche con Taiwan. A oggi, l’interscambio con Pechino è ancora relativamente basso, ma la tendenza indica che nei prossimi anni la quota crescerà progressivamente. Inoltre, tanto gli aiuti quanto gli investimenti provenienti dalla Cina sono in netto aumento: nel 2004 la China Metallurgical Construction Company ha avviato un progetto da 670 milioni di dollari per lo sfruttamento delle riserve di nickel e cobalto: si tratta del più grande investimento nella regione meridionale dell’Oceano Pacifico. La necessità di reperire nuove risorse energetiche e materie prime guida la politica estera di Pechino in diretta concorrenza con l’analoga politica perseguita dagli Usa nell’area del Pacifico: Papua Nuova Guinea ha beneficiato di un investimento pari a 15 miliardi di dollari da parte della Exxon Mobil nel settore del gas naturale liquefatto. Nonostante le tensioni abbiano portato al boicottaggio di alcuni macchinari da parte degli abitanti espropriati, nel 2010 sono iniziati i lavori, che si sono conclusi nel 2014. Oltre che politiche, le ripercussioni di tale investimento sono innanzitutto economiche, dato che il governo papuano ne ricaverà verosimilmente circa 3 miliardi di dollari all’anno, ovvero una quota pari al 37% dell’attuale pil nazionale. La stessa compagnia statunitense ha annunciato la costruzione di un secondo impianto nel paese per la produzione di gas liquido naturale.
Intense sono anche le relazioni di Papua Nuova Guinea con i vicini malesi. Il governo papuano ha annunciato nel settembre 2013 un ampliamento del programma di aiuti del paese, con pacchetti da assegnare alle Isole Marshall, Tuvalu e Tonga. Altro paese con cui Papua intrattiene un forte rapporto, nonostante a livello commerciale non vi sia un interscambio rilevante, è il Regno Unito. Il paese è membro del Commonwealth e ha come capo di stato il monarca britannico, rappresentato da un governatore generale avente perlopiù funzioni cerimoniali.
La scena politica papuana ha attraversato, a partire dal 2011, una fase di forte instabilità determinata dalla incriminazione (formalizzata dal Leadership Tribunal, competente in materia di corruzione) di Michael Somare, che ha egemonizzato la vita politica del paese sin dalla conquista dell’indipendenza rivestendo la carica di primo ministro per ben 17 anni. Somare fu sospeso per due settimane per i capi d’accusa; in seguito a una malattia lasciò temporaneamente il paese e la famiglia ne annunciò le dimissioni. Tuttavia, Somare negò di averle mai presentate e continuò a guidare un governo parallelo a quello di Peter O’Neill, nel frattempo nominato premier. Le elezioni parlamentari del giugno-luglio 2012 hanno tuttavia segnato la vittoria del Congresso nazionale del popolo, partito guidato da O’Neill, la cui ampia affermazione sembra aver legittimato il suo governo e posto le basi per la conclusione di una delle crisi istituzionali più delicate della storia recente del paese. Il primo ministro può contare su una vastissima coalizione, composta da 95 parlamentari a lui fedeli su 111, e il suo governo è, tra l’altro, favorito dall’introduzione di una nuova legge che impedisce il ricorso alla mozione di sfiducia per i primi trenta mesi di mandato.
L’instabilità che ha caratterizzato il sistema politico papuano deriva soprattutto dalle radici personalistiche ed etniche su cui poggia, determinate dalla peculiare etnografia di Papua. I papuani parlano oltre 800 idiomi e sono frammentati in gruppi con culture e tradizioni profondamente differenti a causa della morfologia del territorio, montagnoso e per la maggior parte ricoperto da foreste, che nel corso della storia ha ostacolato i contatti e tuttora rende debole l’identità nazionale. Un tale isolamento comporta tensioni tra i vari gruppi etnici e, più in generale, tra la popolazione – che concepisce la terra come un bene comunitario – e le multinazionali, attratte dalle ingenti risorse minerarie ed energetiche del sottosuolo. Per affrontare le tensioni, lo stato ha ripristinato nel 1991 la pena di morte. Al 2015, i prigionieri nel braccio della morte sono 13, anche se la data dell’ultima esecuzione risale al 1954.
L’economia si basa sulla ricchezza di risorse naturali minerarie, energetiche e forestali: la loro esportazione costituisce la piccola porzione di economia formale esistente. Il paese possiede ingenti riserve di oro, rame, gas naturale e petrolio, che permettono alla bilancia commerciale di mantenersi costantemente in positivo e costituiscono la maggior parte del pil. In genere però, l’economia viaggia su canali informali, che impiegano la maggior parte della popolazione. Solo il 2% del territorio è coltivabile e dunque l’agricoltura, pur occupando oltre il 70% della forza lavoro e fornendo sostentamento all’85% della popolazione, è essenzialmente di sussistenza. Se a ciò si aggiunge la strutturale carenza di infrastrutture, il trauma dell’urbanizzazione di persone abituate alla vita del villaggio e lo scarso sviluppo del capitale umano, si comprende come la dipendenza dalle esportazioni di materie prime sia da un lato fonte di reddito, ma dall’altro causa di fragilità e squilibri strutturali.