Paradossi e antinomie
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Accanto all’analisi sistematica delle teorie del ragionamento, la logica antica ha sviluppato una “via antinomica” al pensiero, producendo una mole notevole di argomenti, formule, soluzioni per paradossi ed aporie. A guidarci nella ricostruzione di questa storia, dall’Antichità ai suoi sviluppi medievali (nella forma degli insolubilia) e alle formalizzazioni logiche moderne (come nel caso del paradosso di Russell), è stato il paradosso del Mentitore. Riferito ad un taumaturgo cretese del VII secolo a.C., Epimenide, lo ritroviamo in tutti i passaggi cruciali della storia della logica antica: in Aristotele, che ne offre una soluzione all’interno delle Confutazioni sofistiche, in Crisippo e nei filosofi della scuola megarica, in particolar modo nelle riflessioni di Diodoro Crono sulla natura dei condizionali. Il paradosso, in filosofia, non è stato solo una curiosità o un gioco intellettuale, ma l’occasione per verificare la solidità strutturale e la coerenza interna delle teorie logiche. La storia di questo percorso mostra come l’interesse nei confronti dei grandi paradossi, elaborati per la prima volta dalla filosofia greca, sia rimasto costante ed intenso, ed abbia sempre agito da stimolo per il dibattito logico-epistemologico, fino alle soluzioni complesse delle teorizzazioni moderne di Lewis, Tarski, Russell.
“Diodoro era alla corte di Tolomeo Soter quando Stilpone gl’indirizzà alcuni argomenti dialettici; non sapevondoli risolvere sull’istante, si ebbe il rimprovero del re [...]. Uscito dal banchetto, dopo avere scritto intorno ad un problema logico, morì per disperazione. ” (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, II, 111).
Parlare di logica antica significa senza dubbio muoversi tra l’impianto della sillogistica aristotelica e la logica proposizionale della scuola megarico-stoica. Ma i Greci hanno sempre coltivato, accanto all’analisi sistematica delle teorie del ragionamento, una sorta di gusto “dionisiaco” per il paradosso e per le contraddizioni che di volta in volta capitava loro di incontrare sulla strada dell’indagine della coerenza linguistica e semantica di enunciati e teorie che pretendono di parlare della realtà. I Greci erano insomma ben coscienti del valore di un approccio antinomico ai problemi logici. Ed era un gusto antico e radicato, se dobbiamo credere all’aneddoto su Omero messo in ridicolo da un indovinello puerile: “Dei bambini, che uccidevano pidocchi, lo ingannarono infatti dicendo: ciò che abbiamo visto e preso non l’abbiamo più, mentre ciò che non abbiamo né preso né visto lo portiamo con noi”. (Eraclito, Sulla natura, 22 DK B 56).
L’antinomia (antí, contro e nómos, norma) è un enunciato tale per cui sia la sua affermazione che la sua negazione implicano una contraddizione; non nega quindi alcun principio logico ma consiste nel fatto che il vero implica il falso ed il falso il vero. L’antinomia quindi genera conseguenze paradossali, dove per paradosso (dal gr. pará, contro e dóxa, opinione) si intende ogni affermazione che vada contro ciò che solitamente è ritenuto ovvio e, più precisamente, l’affermazione assurda che consegue da premesse plausibili attraverso procedimenti deduttivi all’apparenza corretti. In questo modo le antinomie colpiscono la coerenza interna delle teorie, evidenziandone le crepe, le incongruenze semantiche e i lati oscuri o irrisolti, ma possono anche certificarne la solidità se quei modelli di rappresentazione della realtà (sistemi) si mostrano capaci di resistere a quel vero e proprio “esperimento falsificante” che è il paradosso. Si tratta di una funzione che ritroviamo a partire già da Zenone di Elea, che Aristotele indicava come il fondatore della dialettica. Celebre per paradossi come quello di Achille e la tartaruga, Zenone rispondeva agli attacchi contro l’ontologia parmenidea con argomenti come questo: “Se vi è lo spazio, sarà in qualche dove; infatti tutto ciò che è, è in qualche dove; ma ciò che è in qualche dove è nello spazio, quindi anche lo spazio sarà nello spazio e questo all’infinito; dunque non c’è lo spazio.” (Simplicio, In Aristotelis physicorum libros, 562, A 24 DK tr. it. di V. Celluprica in La logica antica, Torino, Loescher, 1978, p. 45). Di Protagora, che pure si muoveva nel quadro di una sofistica ancora sensibile all’uso morale e politico delle argomentazioni dialettiche, si racconta come fosse rimasto vittima delle sottigliezze logiche che insegnava. Come racconta Aulo Gellio (Notti Attiche, V, 10): appresa l’arte oratoria da Protagora, il discepolo Evatlo ottenne di pagarlo dopo che avesse vinto la sua prima causa; ma Evatlo non esercitò mai la professione forense, e quando Protagora lo citò in tribunale per il mancato pagamento si rese conto che il discepolo lo aveva chiuso astutamente in un’impasse logica: se Evatlo avesse vinto, Protagora avrebbe dovuto pagare lui la pena, e se avesse perso, Protagora non avrebbe ugualmente ottenuto nulla, dal momento che il patto era che il pagamento seguisse la prima vittoria di Evatlo in una causa. Quanto a Platone, l’Eutidemo è un vero e proprio repertorio di paralogismi e paradossi, tutto giocato com’è sulla contesa eristica tra Dionisodoro ed Eutidemo, costruita su argomenti di questo genere:
“… Suo padre era Cheredemo e il mio, invece, Sofronisco”
“Ma padre era tanto Sofronisco quanto Cheredemo” […]
“Era, dunque, padre, pur essendo diverso dal padre? O tu sei lo stesso di questa pietra” […]
“Sì diverso”.
“Ed essendo diverso dalla pietra non sei pietra, ed essendo diverso dall’oro, non sei oro”.
“È così”
“Anche Cheredemo, dunque, essendo diverso dal padre, non è padre” […]
“E se Cheredemo è padre, intervenne Eutidemo, Sofronisco, a sua volta, essendo diverso dal padre, non è padre, sicché tu, Socrate, sei senza padre”. (Eutidemo, 298a a cura di G. Cambiano, in Platone, Dialoghi filosofici, Torino, Utet, 1970, p. 636).
Anche Aristotele, nel Protrettico, avrebbe fatto uso di argomentazioni paradossali per sostenere la necessità della filosofia: se si deve filosofare, allora si fa filosofia; se non si deve filosofare, si fa filosofia lo stesso nel momento in cui si argomenta contro la necessità del pensiero filosofico (l’argomento riproduce, in modo più piano e divulgativo, la tecnica usata da Aristotele per sostenere il principio di non contraddizione).
Si può parlare propriamente di antinomia semantica solo con quella che resterà la più celebre, studiata e declinata in infinite varianti: il logos pseudomenos, noto come paradosso del mentitore o di Epimenide. Il locus classico per l’attribuzione dell’antinomia ad Epimenide si trova in san Paolo, che ne offre già una formulazione matura: “un loro stesso profeta disse che i cretesi mentono sempre, che sono bestie malvagie, ventri pingui” (Ad Titum, I, 12).
Paolo di Tarso
Ad Titum, cap. I, 10-13
Vi sono infatti, soprattutto fra quelli che provengono dalla circoncisione, molti spiriti insubordinati, chiacchieroni e ingannatori della gente. A questi tali bisogna chiudere la bocca, perché mettono in scompiglio intere famiglie, insegnando per amore di un guadagno disonesto cose che non si devono insegnare. Uno dei loro, proprio un loro profeta, già aveva detto: “I Cretesi son sempre bugiardi, male bestie, ventri pigri”. Questa testimonianza è vera. Perciò correggili con fermezza, perché rimangano nella sana dottrina e non diano più retta a favole giudaiche e a precetti di uomini che rifiutano la verità.
Di questo taumaturgo cretese, vissuto tra il VII e il VI secolo a.C., sappiamo molto poco, ma quanto basta per intuire che la sua attenzione non era certamente rivolta al risvolto logico del suo giudizio (come l’ipotesi sulla provenienza della citazione paolina dal proemio di una Teogonia, sostenuta da Diels, parrebbe confermare). Diogene Laerzio attribuisce ad Eubulide, esponente di spicco della scuola megarica, la formulazione compiuta e la risoluzione del paradosso, e, per quanto non ci sia rimasta l’esatta versione eubulidea dell’antinomia, l’attribuzione sembra la più plausibile, confermata anche dal fatto che Platone sembra ignorare il paradosso, a differenza di Aristotele, contemporaneo di Eubulide (cfr. Confutazioni sofistiche, 180b2 sgg). La questione affascinò Teofrasto, che gli dedicò tre libri, e soprattutto lo stoico Crisippo, che sul tema del discorso ingannevole avrebbe composto sei opere (cfr. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII, 196), di cui quasi nulla ci è rimasto.
Per quanto riguarda Aristotele, pur senza esprimerlo nella sua forma paradigmatica, nelle Confutazioni sofistiche (180a32-180b7) offre un tentativo di soluzione. Il quadro è quello delle indicazioni sul modo di risolvere i paralogismi: non sono possibili enunciati contrari su uno stesso oggetto in senso assoluto. Piuttosto, tali enunciati vanno presi in modo tale da intenderne uno in senso assoluto e l’altro in senso relativo, perché per Aristotele non è possibile l’affermazione e la negazione in senso assoluto del medesimo oggetto; quindi l’antinomia non può restare tale ma attraverso questa distinzione viene riformulata e ricondotta all’impianto logico aristotelico. Il caso quindi viene adattato alla coerenza della teoria anche se non risolve esattamente il paradosso di Epimenide, nel quale si afferma proprio la falsità e verità in senso assoluto dello stesso enunciato.
Crisippo invece sosterrebbe come sia impossibile che uno stesso enunciato dica al contempo il vero e il falso: il paradosso del mentitore andrebbe inteso come un’espressione priva di significato, da non catalogare fra gli enunciati di cui si possa indicare la verità o la falsità. Pur nell’oscurità di un’argomentazione che possiamo solo intuire tra le molte lacune, appare chiaro come Crisippo respinga la soluzione aristotelica (cfr. Questioni logiche, Pherc307, in J. M. Bochenski, La logica formale dai presocratici a Leibniz, Torino, Einaudi, 1972, p. 179).
Le molteplici varianti, in forma di sofisma o di curiosità, hanno fatto la fortuna del logos pseudomenos in epoca ellenistica e romana, dove, a fronte di posizioni che mostrano di saperne cogliere le implicazioni logiche (è il caso di Cicerone), troviamo autori, come Aulo Gellio, nei quali la complessità del problema scade a livello di aneddotica (cfr. Notti attiche, XVIII, 2); fino alla storia di quel Fileta di Coo che, tentando inutilmente di risolvere l’antinomia, deperì fino a morirne (Ateneo di Naucrati, Deipnosophistarum libri XV, rec. G. Kaibel, Stuttgardiae 1961, lib. II, p. 375, 13-20).
Marco Tullio Cicerone
Academica priora, Libro II, 20
Se tu dici di mentire e dici che questo è vero, menti o dici il vero?
Aulo Gellio
Noctes Atticae, Libro XVI, cap. II
Suppongo che tu affermi o neghi di avere o non avere tutto ciò che non hai perduto; qualunque cosa si risponda, è una rovina. Infatti, se si nega di avere ciò che non si è perso, si conclude che non si hanno gli occhi, che non si sono persi; se, invece, si risponde di avere ciò che non si è perso, si conclude che si hanno le corna, che non si sono perse.
Nel commento alle Confutazioni sofistiche di Alessandro di Afrodisia, e in quello di un Anonimo, compare una prima formulazione rigorosa del paradosso: ego pseudomai.
Alessandro di Afrodisia
Commento agli Elenchi sofistici, 62
Conosci l’uomo che si avvicina ed è incappucciato? No. Se gli togliamo il cappuccio, lo riconosci? Si. Dunque conosci e non conosci la stessa persona.
Nel testo dell’Anonimo è messo in evidenza il carattere autoriflettente dell’enunciato (“Io mentitore dico una cosa vera, cioè che mento”); autoriflessività che fu chiara già agli antichi, quindi, anche se la mancanza dei testi stoici sull’argomento, che sappiamo dovevano essere numerosi, impedisce una valutazione più rigorosa. D’altra parte, l’intrecciarsi di diversi livelli di complessità logica è evidente nella ripartizione in quattro gruppi tentata da A. Rüstow per ridurre ad alcune tipologie fondamentali le numerose varianti storiche del paradosso:
I° gruppo: “Se dici che menti, e in ciò dici il vero, menti o dici la verità?”
II° gruppo: “Se dici che menti, e dici il vero, [allora] menti; ma dici che menti, e dici la verità; dunque menti”
III° gruppo: “Dico che mento, e [ciò dicendo] mento; dunque dico la verità”
IV° gruppo: “Se è vero, è falso; se è falso, è vero”
Dove il primo tipo pone semplicemente la domanda se il mentitore dica il vero o il falso, il secondo conclude che è vero, il terzo che è falso e il quarto entrambe le conclusioni contemporaneamente (cfr. J. M. Bochenski, op. cit, p. 178).
Delle due grandi scuole di pensiero logico dell’Antichità, quella peripatetica e quella megarico-stoica, è soprattutto la seconda a fare della teorizzazione logica un terreno fertile per le dispute euristiche. I megarici, in particolare, apportano tre contributi fondamentali allo sviluppo della logica: oltre alla formulazione di una serie di paradossi che resteranno celebri, riesaminano le nozioni modali e iniziano un importante dibattito sulla natura degli asserti condizionali. Il più fertile nell’elaborazione di antinomie semantiche sembra sia stato Eubulide, cui Diogene Laerzio attribuisce se non l’invenzione quantomeno la formulazione logica del paradosso del Mentitore e di altri sei, che sono stati riassunti sotto quattro tipologie fondamentali:
(1) Il mentitore. “Un uomo dice di mentire. Com’è ciò che egli dice? È vero, o invece è falso?”
(2) L’uomo incappucciato, l’Uomo Ignoto o l’Elettra. “Tu dici di conoscere tuo fratello. Ma quell’uomo, che è entrato or ora a capo coperto, è tuo fratello, e tu non lo hai riconosciuto.”
(3) L’Uomo Calvo, o il Mucchio. “Diresti che sia calvo un uomo che abbia un solo capello? Si. Diresti calvo uno che abbia solo due capelli? Si. Diresti..., ecc. Ove tracceresti il confine?”
(4) L’Uomo Cornuto. “Ciò che non hai perduto lo hai ancora. Ma tu non hai perduto le corna. Dunque, tu hai ancora le corna.”
Si nota come nel primo e più famoso paradosso del Mentitore sia presente il tentativo assurdo di far dire ad un asserto qualcosa intorno alla propria verità o falsità. Il linguaggio, di fronte a tali espressioni, perde il proprio senso consueto, fatto di stabilità e di un tacito accordo tra i parlanti, e rivela una collisione interna che apre lo spazio al non-senso e all’incrinatura del paradosso (W. e M. Kneale, Storia della logica, tr. it., Einaudi, Torino, p. 138). Se intendiamo il linguaggio in termini di forma avente la capacità di esprimere un contenuto, nel caso dell’antinomia del mentitore la forma dovrebbe avere come contenuto sè stessa: ma, nel momento in cui accade, la forma si presenta come contenuto e il contenuto rivendica a sé le caratteristiche della forma. In sostanza, l’oggetto contenuto può essere esplicato solo dal linguaggio che lo contiene, il quale a sua volta è esplicabile solo dal linguaggio che lo contiene a sua volta, e così si procede a ritroso in un rinvio all’infinito.
La scuola di Megara si distingue, insieme agli stoici, per le riflessioni sui condizionali, gettando le basi della logica modale, di quella logica cioè che studia il comportamento di enunciati in cui siano coinvolti operatori come possibile, impossibile, necessario, contingente, ovvero modi di essere degli enunciati ai quali si riferiscono. “Ecco anche i corvi sui tetti: ’Che cosa implica?’ gracchiano” ironizza Callimaco in un epigramma (fr. 393, tr. nostra, cit. in Sesto Empirico, Adversus Mathematicos, I, 309); ed in effetti la disputa sui condizionali è stata celebre nell’Antichità, e vede in prima linea in particolare Filone di Megara e Diodoro Crono, che si dividono sul modo di interpretare l’implicazione tra asserto antecedente e asserto conseguente di un condizionale. L’interesse per la discussione si lega al nostro tema, in quanto porterà Diodoro Crono a formulare una propria interpretazione dell’implicazione che genererà alcuni paradossi molto simili, tra l’altro, a quelli dell’implicazione stretta teorizzata nel 1918 da C.I. Lewis (cfr. S. Bobzien, Ancient Logic, 2006, Stanford Encyclopedia of Philosophy).
Diodoro riprende l’implicazione elaborata da Filone cercando di stabilire una connessione più stretta tra i due membri della proposizione condizionale; introduce quindi una nozione modale sostenendo che una proposizione è vera se né era né è possibile che il suo antecedente sia vero e il suo conseguente falso. Diodoro aggiunge quindi il fattore temporale: l’implicazione filoniana è vera in alcuni contesti, in altri no; quindi per essere valida, secondo i parametri diodorei, l’implicazione deve essere valida in ogni tempo. Per Diodoro, una condizionale non può cambiare il proprio valore di verità: se è vera o falsa in un determinato tempo, lo è in tutti i tempi (S. Bobzien, Dialectical School, 2004, Stanford Encyclopedia of Philosophy). L’implicazione non è quindi solo materiale come nel caso di Filone, dove per la verità del nesso tra antecedente e conseguente basta che de facto non si dia il caso che un antecedente sia vero e il conseguente falso. Seguiamo l’esposizione che ne dà Sesto Empirico (Contro i logici, II 112-117, tr. it. di V. Celluprica, op. cit., p. 175):
“Diodoro dice che è vera la proposizione ipotetica che né poteva né può cominciare con il vero e finire con il falso, cosa che contrasta con la tesi di Filone. Infatti questa ipotetica “se è giorno, io sto conversando”, quando attualmente è giorno e io sto conversando, secondo Filone è vera, perché comincia con il vero “è giorno” e finisce con il vero “io sto conversando”, mentre secondo Diodoro è falsa, poiché talvolta è possibile che cominci con il vero “è giorno” e finisca con il falso “sto conversando”, nel caso cioè che io smetta di parlare.”
Questo criterio di verità delle proposizioni condizionali comporta però che asserti paradossali come “Se non vi sono elementi atomici delle cose, allora vi sono elementi atomici delle cose” siano giudicate vere da Diodoro (secondo la testimonianza di Sesto Empirico in Pyrrhoneiae hypotyposes, II, 110-12). È l’accusa che avrebbe potuto rivolgergli Filone: “invece di dire che un condizionale è valido se esso non può cominciare con una verità e finire con una falsità, tu potresti altrettanto bene dire che esso è valido se esso non comincia con una verità e non finisce con una falsità”. (cfr. Kneale and Kneale, cit., p. 160). E dal momento che la proposizione in questione comincia proprio con l’antecedente falso “Se non vi sono elementi atomici delle cose” e termina sempre con il conseguente vero “esistono gli elementi atomici delle cose”, la proposizione sarà da considerare vera secondo i parametri diodorei; l’esempio sembra suggerire che ci fosse negli antichi una certa consapevolezza di questi esiti paradossali, tanto che Crisippo svilupperà un sistema logico proprio per evitare sia i paradossi di implicazione materiale che quelli di implicazione stretta.
A Diodoro Crono si deve anche una delle teorie più controverse della logica antica, il celebre Argomento Dominante o Dominatore, kurieuon logos. Non pervenutoci nella forma originale (possiamo ricostruirne la struttura da una citazione di Epitteto, Dissertazioni, II, 19, 1-5) l’Argomento si sarebbe articolato su tre proposizioni incompatibili tra loro:
1. Ogni proposizione vera concernente il passato è necessaria.
2. L’impossibile non deriva dal possibile.
3. È possibile ciò che non è attualmente vero e non lo sarà.
Se il passato è necessario, allora ciò che non si è realizzato nel passato era anche impossibile si realizzasse, quindi il passato non è che il possibile divenuto integralmente reale; e dal momento che dal possibile non può derivare l’impossibile, allora ciò che non è stato era anche impossibile che fosse. Quindi tutto il possibile si realizza e non rimangono mai possibilità non realizzate o non scelte: tutto ciò che accade è dunque necessario, così che le prime due proposizioni, secondo Diodoro indiscutibilmente vere, rendono falsa la terza, aprendo la strada ad una completa negazione della contingenza. Il ragionamento di Diodoro Crono conduce ad un determinismo che gli antichi rilevarono subito come estremo e paradossale, a partire da Aristotele, il quale (De interpretatione, 9) denuncia la fallacia del ragionamento rilevando, tra l’altro, l’insostenibilità delle conseguenze etiche che ne sarebbero derivate, cioè l’annullamento di quella libera scelta che fonda la dignità dell’uomo nella sua natura di animale razionale. Conclusioni simili a quelle riprese in seguito da Cicerone nelle sue considerazioni sull’“argomento pigro” (ignava ratio), quella argomentazione cioè che, se seguita, ci porterebbe a non fare assolutamente nulla nella vita: se il fato ha stabilito che una persona guarirà dalla malattia, che si mandi a chiamare un medico o meno, quella persona guarirà comunque; e se è destino che non guarisca, allo stesso modo necessariamente non guarirà (cfr. Cicerone, De fato, XII, 28-29).
Infine, sono attribuibili a Diodoro Crono una serie di paradossi sul movimento che riprendono l’argomentazione dialettica di Zenone di Elea.
Aristotele
Metafisica, 1046b-1047a
Ci sono alcuni (ad esempio i Megarici) i quali sostengono che c’è potenza solo quando c’è atto e che, quando non c’è atto, non c’è neppure potenza: così, ad esempio, chi non sta costruendo non avrebbe, a parer loro, neppure la potenza di costruire, ma sarebbe in possesso di tale potenza solo colui che sta costruendo, nel momento in cui egli sta costruendo: e ciò varrebbe anche per le altre cose. Ma non è difficile vedere in quali assurde conseguenze costoro vanno a cadere. A parer loro è evidente che non ci sarà neppure un costruttore, qualora questi non stia costruendo (in realtà, però, l’essenza di costruttore non è altro se non l’essere-capace-di-costruire) e così anche per le altre arti. Poiché pertanto è impossibile possedere queste vane arti senza averle imparate in un dato momento e senza averle acquisite, e poiché è impossibile non possederle più senza averle perdute in un dato momento, allora, se si ammette che uno, quando interrompa l’esercizio della sua arte, non avrà più in suo potere quest’arte, noi, vedendo che egli si è poi messo, ad esempio, nuovamente a costruire, ci chiediamo: come mai egli ha un’altra volta acquisito il possesso dell’arte? Inoltre, se ciò che è privo di potenza è impossibile, allora ciò che non è generato non potrà essere generato, e si cadrà in errore se si dirà che esiste o esisterà da che non ha la potenza di esistere […] e di conseguenza quei ragionamenti eliminano movimento e divenire.
Il primo parla dell’impossibilità per un corpo senza parti di muoversi, perché occuperà sempre esattamente lo spazio minimo che occupa: il corpo potrà essere in spazi diversi successivamente, ma non potrà mai essere in movimento, in transizione, perché significherebbe, secondo Diodoro, essere in parte nel luogo d’origine e in parte nel luogo di destinazione. Il secondo, nella versione di Sesto Empirico (Contro i matematici, X, 87, tr. nostra): “Se qualcosa si muove, si muove o nel luogo in cui è, o nel luogo in cui non è. Ma non si sta muovendo né nel luogo in cui è (perché è già lì) né in quello in cui non è (perché non è lì). Perciò nulla si muove”. Il terzo pare essere una variante del paradosso zenoniano della freccia: ciò che si muove è in un luogo, ma ciò che è in un luogo non si muove, perciò ciò che si muove non si muove. Il quarto, infine, è il più elaborato ed è una variante di quello del sorite formalizzato dal predecessore Eubulide: un corpo in movimento è composto da un insieme di parti minime, e il corpo si muove se e solo se una maggioranza dei suoi costituenti minimi si muove. Perciò, se venisse aggiunta un’altra parte minima immobile, ma non sufficiente da alterare il suo movimento, dal momento che è in minoranza rispetto alle altre tre parti (due che si muovono e una ferma), non fermerà il movimento della parte predominante. E parti minime immobili potrebbero essere aggiunte al corpo, una alla volta, finché questo non consista di 10 mila parti minime, due sole delle quali si muovono; e tuttavia, paradossalmente, il corpo continuerà a muoversi. Per quanto il richiamo ai paradossi eleatici sia evidente, queste argomentazioni diodoree sembrano rivolte, più che a confutare radicalmente l’esperienza fenomenica come quelli, a farcela riesaminare più attentamente. (cfr. D. Sedley, Diodorus Cronus, in Stanford Encyclopedia of Philosophy, 2009).
In tre momenti, nella storia della filosofia, il paradosso è stato al centro dell’attenzione: nella Grecia classica, nel Medioevo e in epoca moderna, a cavallo tra Ottocento e Novecento. I nomi diversi con cui è stato definito ci aiutano a capire quale significato rivestisse per coloro che così decidevano di designarlo: presso i Greci, i paradossi erano paralogismi, “pseudoragionamenti” o argomentazioni false ingannevolmente simili al ragionamento logico; per i medioevali insolubilia, cioè “problemi insolubili”, sophismata (ragionamento che porta a conclusioni paradossali) o fallaciae; per i moderni infine sono antinomie, pensieri che procedono “contro le regole” della logica, o appunto paradossi, ciò che va “contro l’opinione comune”. Gli insolubilia nelle tradizioni medievali diventano esercitazioni fondamentali, veri e propri esperimenti del pensiero, per mettere alla prova coerenza e validità semantiche di un ragionamento. L’importanza che viene data allo studio di questi argomenti è tale che Paolo Veneto, nella sua Logica Magna (prima metà del XV secolo), elencherà minuziosamente ben 15 differenti tentativi di soluzione del paradosso del Mentitore.
L’interesse per i paradossi non si esaurisce con le sottili distinzioni medievali, ma conosce un nuovo periodo di fervore nella ricerche logiche e matematiche della prima metà del Novecento, come testimonia il caso del celebre paradosso di Russell: “Un villaggio ha tra i suoi abitanti uno ed un solo barbiere, uomo ben sbarbato. Sull’insegna del suo negozio è scritto ’il barbiere rade tutti – e unicamente – coloro che non si radono da soli’”. La domanda che ne scaturisce è: chi rade il barbiere? Se infatti il barbiere si rade da solo, viola la premessa secondo cui il barbiere, rasandosi, non raderebbe unicamente coloro che non si radono da soli. Se invece il barbiere è rasato da qualcun altro, si viola la premessa secondo cui il barbiere rade tutti coloro, e solo coloro, che non si radono da soli: in altre parole, se il barbiere si rade da solo non dovrebbe radersi, se non si rade da solo dovrebbe radersi. Eppure, il barbiere è ben sbarbato.
Una trattazione di tipo insiemistico semplifica l’approccio al paradosso e ne rivela l’affinità con il logos pseudomenos, che i logici moderni considerano della stessa “famiglia” benché generalmente distinto da quello russelliano. Di fronte ai due diversi insiemi, quello degli uomini che si radono da soli e quello degli uomini che si fanno radere dal barbiere, il problema è collocare il barbiere in uno dei due, poiché la sua inclusione in entrambi creerebbe una contraddizione con la definizione stessa. La conclusione a cui arriverà Russell sarà di introdurre una nuova teoria nella quale gli insiemi siano distinti in diversi livelli, per cui al livello 0 avremo gli elementi, al livello 1 gli insiemi di elementi, al livello 2 gli insiemi di insiemi di elementi e così via: “Quando un uomo dice “sto mentendo”, dobbiamo interpretare le sue parole nel senso: “C’è una proposizione di ordine n, che io affermo, che è falsa”. Questa è una proposizione di ordine n + 1; perciò quest’uomo non sta affermando una proposizione di ordine n...” (Russell, Logic and Knowledge, 24, p. 79). Ovvero, l’ennesima palingenesi nella lunga storia del paradosso di Epimenide.