paradosso
Dal gr. παράδοξος, comp. di παρα- nel sign. di «contro» e δόξα «opinione»; lat. paradoxum. Affermazione, proposizione, tesi, opinione che, per il suo contenuto o per la forma in cui è espressa, appare contraria all’opinione comune o alla verosimiglianza e riesce perciò sorprendente o incredibile. Il termine fu usato già anticamente dagli stoici, per designare quelle tesi, specialmente etiche, che apparivano contrastanti con l’esperienza comune (per es., che il dolore non fosse un male); Paradoxa stoicorum (trad. it. I paradossi degli stoici) è il titolo di un’opera di Cicerone (46 a.C.). In senso oggettivo, si denomina p. una tesi che sembra contraddire l’opinione comune o i principi generali di una scienza, ma che, all’esame critico, si dimostra valida; oppure, al contrario, una dimostrazione che, partendo da un presupposto falso e condotta con apparente rigore logico, si risolve definitivamente in un sofisma: erano tali, per es., gli argomenti arrecati da Zenone di Elea contro la molteplicità e il movimento, e sono tali alcuni p. della matematica e, nella fisica, il cosiddetto p. o principio di d’Alembert (➔ Alembert, Jean-Baptiste Le Rond d’).
Il p. è un enunciato contrario all’opinione comune, ossia che si presenta in sé stesso contraddittorio. Allorché si tratta dei cosiddetti p. logici e linguistici (➔ oltre), il termine è usato come sinon. di antinomia. La scoperta di p. è stata in ogni tempo estremamente fruttuosa, poiché ha spinto all’approfondimento dei problemi implicati e ha aperto la via a fondamentali progressi delle teorie logiche; questo è accaduto soprattutto a partire dall’inizio del sec. 20°, determinando una svolta radicale nelle ricerche sui fondamenti della matematica e nella stessa logica. Tra i p. classici si ricordano quelli di Zenone di Elea, le antinomie kantiane (➔ antinomia), quelli dell’infinito (raccolti da Bolzano in I paradossi dell’infinito, post., 1851), i p. dell’implicazione materiale. Questi ultimi, già sostanzialmente noti ai logici megarici (➔ megarica, scuola), sono esprimibili, nei termini del calcolo proposizionale, mediante le due formule A→(B→A) e ¬ A→(A→B); essi sono chiamati p. non perché conducano a contraddizioni, ma perché sono lontani dall’intuizione comune, in quanto stabiliscono rispettivamente che se un enunciato è vero, allora è implicato da qualsiasi altro enunciato (verum sequitur ad quodlibet), e che se un enunciato è falso, allora esso implica qualsiasi enunciato (ex falso sequitur quodlibet). Qui, dopo una breve presentazione di alcuni dei principali p., si procederà a una loro classificazione e saranno poi indicati alcuni metodi per evitare il loro sorgere. P. di Epimenide (detto anche p. del mentitore): Epimenide, cretese, afferma: «Tutti i Cretesi sono mentitori». Dice la verità o mente? Se dicesse la verità egli mentirebbe, viceversa se mentisse direbbe la verità. P. del coccodrillo, che può ricondursi al p. di Epimenide: un coccodrillo ha rapito un ragazzo e promette al padre di questo di restituirgli il figlio a condizione che egli indovini se il ragazzo sarà restituito o no; cosa dovrà fare il coccodrillo se il padre prevede che il figlio non sarà restituito? P. di Burali-Forti: ogni insieme bene ordinato ha un suo numero ordinale, ma l’insieme T di tutti i numeri ordinali disposti secondo grandezza è bene ordinato, quindi ha un suo ordinale, massimo tra tutti gli ordinali; indichiamolo con τ. Allora l’insieme bene ordinato secondo grandezza T ⋂ {τ} ha il suo ordinale, che risulta τ+1 e quindi è maggiore di τ; quest’ultimo perciò non è il massimo tra tutti gli ordinali. P. di Cantor: per il teorema di Cantor il numero cardinale dell’insieme ℑ (m) di tutti i sottoinsiemi di un dato insieme m è maggiore del numero cardinale di m. Sia allora M l’insieme di tutti gli insiemi. Il suo numero cardinale è ovviamente il più grande numero cardinale possibile. Ma, per il teorema di Cantor, il numero cardinale dell’insieme ℑ (M) di tutti i sottoinsiemi di M è maggiore del numero cardinale di M. Questo paradosso, scoperto da Georg Cantor nel 1899, non fu pubblicato che nel 1932. Esso però non rimase ignoto, e nel giugno 1901 ne venne a conoscenza Russell che, sotto il suo stimolo, costruì un paradosso che porta il suo nome. P. di Russell: chiamiamo regolari gli insiemi che non contengono sé stessi come elementi, irregolari quelli che contengono sé stessi come elementi. Sia R l’insieme di tutti e solo gli insiemi regolari. Si domanda se R è regolare o no, cioè se R∈R oppure R∉R. Ma, se R∈R, allora R non è regolare, cioè R∉R. Viceversa, se R∉R, allora R è regolare e quindi R∈R. Cioè, R∈R→R∉R. Il che è assurdo. P. di Richard: si consideri l’insieme D costituito da tutti i numeri reali definibili con un numero finito di parole della lingua italiana. D è numerabile perché è certamente finito il suo sottoinsieme Dk (k=1, 2, 3, ...) costituito da tutti i numeri reali definibili con k parole. D può, allora, essere ordinato in modo naturale disponendo prima il sottoinsieme D1, poi D2, poi D3, ecc., e in ciascuno di questi ordinando a loro volta le varie definizioni lessicograficamente (cioè come in un dizionario). Chiamiamo n-esimo numero di Richard l’n-esimo numero dell’insieme ordinato D. Consideriamo ora il numero reale così definito: «il numero la cui i-esima cifra decimale è 1 se l’i-esima cifra decimale dell’i-esimo numero di Richard è diversa da 1, altrimenti è 2». Questo numero reale è definito con 26 parole, quindi deve appartenere a D, dove occuperà un ben determinato posto, diciamo il p-esimo. Ma, per il modo con cui è stato definito, esso è certamente diverso dal p-esimo numero di Richard nella p-esima cifra. Di qui il paradosso. Questo discorso è analogo a quello relativo al procedimento diagonale di Cantor. P. di Berry (è una presentazione semplificata di quello di Jules Antoine Richard): in italiano vi è un numero finito di sillabe, perciò finito è anche il numero delle definizioni di numeri naturali formulabili con non più di cinquanta sillabe. Definiamo numero di Berry «il più piccolo numero naturale non definibile con una frase composta di cinquanta sillabe al massimo». Ma questa definizione contiene meno di cinquanta sillabe, dunque, paradossalmente, il numero di Berry è definibile con non più di cinquanta sillabe. P. di Grelling: un aggettivo si dice autologico se conviene a sé stesso, eterologico se non conviene a sé stesso. Per es., l’aggettivo «polisillabico» è autologico, invece «monosillabico» è eterologico. Si domanda se l’aggettivo «eterologico» è eterologico oppure no. È chiaro che esso è eterologico se e solo se esso non è eterologico. P. del risvegliatore: secondo il diritto consuetudinario, in un villaggio c’è il risvegliatore che sveglia tutti e solo gli abitanti che non si svegliano da sé. Si domanda chi sveglia il risvegliatore, ammesso che egli qualche volta dorma. Non lui stesso, perché lui sveglia soltanto gli altri, non un altro, perché l’unico che può svegliare gli altri è lui stesso. Analogamente per un barbiere che rada tutti e solo gli abitanti che non si radono da sé stessi. Si tratta, in questi casi, di volgarizzazioni di p. riferite da Russell. P. di Skolem: (➔ Skolem, Thoralf).
Beth ha distinto dai p. gli pseudoparadossi come quello del risvegliatore e simili, in quanto il fatto che una norma di diritto abbia delle conseguenze assurde (non è possibile che esista un tale risvegliatore) non è una contraddizione logica e non interessa perciò la logica ma appunto il diritto. Lo stesso potrà dirsi per quello del barbiere, e qualcosa di analogo per quelli del coccodrillo e simili. I veri p. sono, dunque, caratterizzati dal fatto che essi si riferiscono a concetti logici o matematici: quello di Cantor e di Burali-Forti al concetto di numero cardinale e ordinale; quello di Russell alla nozione di insieme; il p. di Epimenide al concetto logico-semantico di verità e falsità; le antinomie di Richard e di G.G. Berry ai concetti di definizione e di numerabile; il p. di Grelling alla nozione di applicazione di un aggettivo; quello di Skolem al concetto di modello e di numerabile. Sono questi i p. dei quali bisogna dare una spiegazione. Ramsey, nel 1926, riprendendo l’osservazione di Peano secondo la quale «l’esempio di Richard non concerne la matematica ma la linguistica», suddivise tutti i p. in due classi, quella delle antinomie logiche e quella della antinomie linguistiche (queste ultime dette pure semantiche o sintattiche). Appartengono alla prima classe i p. di Burali-Forti, Cantor e Russell, alla seconda classe tutti gli altri. Russell aveva notato che una caratteristica comune a tutte le antinomie (sia logiche sia linguistiche) sembra essere l’uso incondizionato dell’aggettivo «tutti», cioè un certo procedimento riflessivo per cui qualcosa è riferita a sé stessa in modo da stabilire un circolo vizioso. Poincaré, nel 1906, propose di escludere qualunque definizione impredicativa (cioè, che definisce un oggetto mediante la totalità cui l’oggetto appartiene), perché in sostanza tutte le antinomie si fondano su una definizione impredicativa. Ma l’esclusione delle definizioni impredicative, pur essendo sufficiente a eliminare tutti i p., non è né necessaria né matematicamente conveniente. Infatti, importanti teoremi, come quello di Cantor (non esiste una corrispondenza biunivoca tra un insieme e il suo insieme potenza) o come quello che afferma che ogni insieme limitato di numeri reali ammette un estremo superiore, si dimostrano facendo uso di alcune definizioni impredicative. Pertanto la proposta di Poincaré non fu accolta. Per quanto riguarda le antinomie linguistiche, già Ramsey aveva individuato la loro radice comune nella confusione tra linguaggio e metalinguaggio (➔), confusione superabile mediante la formalizzazione del linguaggio. Tarski, nel 1930, dimostrò che non è possibile in generale definire il concetto semantico di verità all’interno della sintassi di una teoria elementare e finalmente risolse così in forma, a quanto pare, definitiva l’antico p. di Epimenide. Egli in sostanza fece osservare che non è lecito usare lo stesso enunciato per affermare qualcosa e simultaneamente la verità o la falsità dell’enunciato stesso. Un trattamento simile si può applicare all’antinomia di Berry. Se formalizziamo l’aritmetica in un sistema S con un numero finito di simboli elementari, per es. x, 0, 1, 2, 3, ..., 9, sufficienti a esprimere un’infinità di simboli composti: x0, x1, x2, ..., allora il numero di Berry resta così definito: «il più piccolo numero del sistema S non definibile con un’espressione di S composta al massimo di cinquanta simboli elementari». È allora chiaro che il p. non sussiste più. Anche per il p. di Richard si possono fare considerazioni analoghe. L’antinomia di Kurt Grelling si risolve osservando che «eterologico» si riferisce ai simboli piuttosto che alle proprietà, cioè, per es., all’espressione «monosillabico» intesa come simbolo rappresentativo di una proprietà; si stabilisce quindi anche qui una distinzione di linguaggi come nei precedenti p. linguistici.
Il primo è dato dalla teoria semplificata dei tipi: la teoria dei tipi fu abbozzata e poi elaborata (come teoria ramificata dei tipi) da Russell, e in seguito modificata da Leon Chwistek e Ramsey. Essa esige che esista un insieme costituito dagli individui chiamati del tipo zero: x0, y0, z0, ... Tutti i sottoinsiemi di questo insieme sono gli insiemi del primo tipo: x1, y1, z1, ... I sottoinsiemi di questo nuovo insieme sono gli insiemi del secondo tipo: x2, y2, z2, ... E così di seguito. Ora, se si vuole introdurre un insieme bisogna che questo abbia elementi appartenenti tutti allo stesso tipo. Più precisamente avranno senso soltanto espressioni della forma xk∈xk+1. È ovvio che in questo modo è esclusa l’antinomia di Russell, non potendosi avere più un’espressione del tipo R∈R: non è più possibile cioè il riferimento a sé stesso che, per Russell, sta alla base delle antinomie. Il secondo metodo per evitare i p. logici è rappresentato dalle teorie assiomatiche degli insiemi del tipo di Zermelo, Fraenkel, Skolem. Nel 1908 E. Zermelo dette inizio a un nuovo metodo, oggi preferito dalla maggioranza dei matematici, mediante il quale non si limitano (come nella teoria dei tipi) le espressioni logicamente ammissibili, ma piuttosto si stabiliscono norme precise per la formazione degli insiemi, rifiutando l’ipotesi (implicita nell’ingenua definizione cantoriana) che per qualsiasi proprietà P esista il corrispondente insieme costituito da tutti gli oggetti cui P conviene. Sono postulati come insiemi elementari: l’insieme vuoto Ø, per ogni x l’insieme unità di x, cioè {x}, per ogni x e y il loro insieme coppia, cioè {x, y}; è postulato anche l’insieme infinito, cioè l’insieme cui appartiene Ø e, con ogni elemento x, anche l’elemento {x}. Sono poi ammissibili gli insiemi che si ottengono con le operazioni insiemistiche unione, potenza, scelta e con il procedimento logico di isolamento: se un predicato P è definito per tutti gli elementi di un insieme I, allora esiste un sottoinsieme S di I che contiene come elementi esattamente gli elementi x di I cui conviene il predicato P. Si vede subito che questo procedimento di isolamento (detto pure di estrazione) sostituisce l’illimitato procedimento di comprensione della teoria ingenua di Cantor delimitandolo opportunamente in modo che il predicato P, caratterizzante la condizione, non sia arbitrario ma definito per ogni singolo elemento di un insieme I già esistente. Così, la teoria di Zermelo esige che un insieme possa essere ammesso solo se costruito in conformità a certi assiomi. A partire dal 1922, soprattutto per opera di A.A.H. Fraenkel e di Skolem, la teoria assiomatica di Zermelo fu perfezionata sia nel senso che si cercò di precisare il concetto di «predicato definito», troppo generico per un’assiomatizzazione rigorosa, sia nel senso che si cercò di rafforzarla in modo che essa potesse costituire la base per l’intera teoria del transfinito, sia nel senso che si evitò che in essa potessero ancora costruirsi (come avveniva nella formulazione originaria) certi insiemi indesiderabili, come i cosiddetti insiemi straordinari di Dimitrij Mirimanov contenenti tra i loro elementi catene infinite di insiemi legati dalla relazione di appartenenza. Infine, il terzo metodo per evitare i p. logici è costituito dalle teorie assiomatiche degli insiemi del tipo di von Neumann, Robinson, Bernays, Gödel. Queste teorie sono basate sull’idea esposta da von Neumann, secondo cui le antinomie non sorgono dal fatto che si possano costruire aggregati di elementi in corrispondenza di qualsiasi proprietà, bensì dalla pretesa che questi aggregati possano essere sempre considerati, a loro volta, come «oggetti matematici», in altri termini come elementi di un insieme. Esistono infatti aggregati tali che l’ipotesi che tutti i loro elementi costituiscano un insieme conduce a una contraddizione; questi aggregati si dicono inconsistenti o assolutamente infiniti o anche classi (tali sono, per es., la totalità di tutti i concetti, la totalità di tutti gli oggetti matematici). Esistono, al contrario, aggregati tali che tutti i loro elementi costituiscono un insieme, e solo questi aggregati saranno appunto chiamati insiemi o molteplicità consistenti o infine molteplicità comprimibili. I sistemi assiomatici di R.M. Robinson (1937), di Bernays (1936-1958) e di Gödel (1938) possono considerarsi come sviluppi di quello di von Neumann.