paradosso
paradosso (dal greco pará, «oltre, contro», e dóxa, «opinione») termine applicato, nella sua accezione più ampia, a qualsiasi affermazione o ragionamento che contrasti con l’opinione comune e con ciò che di solito è ritenuto ovvio. In accezioni più specifiche, il termine è usato per indicare:
• un’affermazione che si presenta strana, perché in contrasto con l’intuizione comune, ma che è in realtà corretta;
• una vera e propria contraddizione, ossia una conclusione della forma «A e non A». In quest’ultimo caso si parla più propriamente di antinomia.
Nonostante le antinomie si distinguano dai paradossi per il loro evidenziare una irriducibile contraddizione, le più note antinomie sono spesso indicate come paradossi: così, per esempio, l’antinomia di Richard (1905) è nota come paradosso di Richard, o l’antinomia di Berry (1906), riportata anche come paradosso di Berry.
I paradossi possono nascere all’interno di una teoria, mettendone in evidenza i limiti, i possibili errori e le contraddizioni. È il caso dei paradossi della teoria degli insiemi, dei paradossi dell’infinito, dei paradossi algebrici o geometrici, dei paradossi della probabilità o della teoria della misura. In altri casi un paradosso può nascere dall’ambiguità insita nel linguaggio comune non formalizzato: è ciò che accade per i paradossi linguistici o → paralogismi.
La più famosa antinomia dell’antichità è il cosiddetto paradosso del mentitore o paradosso del cretese; Diogene Laerzio ne attribuisce la paternità a Eubulide di Mileto, esponente della scuola di Megara (iv secolo a.C.) cui la tradizione filosofica fa risalire la scoperta dei paradossi quale esito del tentativo di mostrare come, portata alle sue estreme conseguenze, la dialettica socratica finisca per decretare il fallimento stesso degli strumenti linguistici di cui si avvale. Una versione di tale antinomia è riportata nella Epistola a Tito di Paolo (i, 12) che, parlando dei cretesi, così si esprime: «Del resto uno di loro, proprio un loro profeta, ha detto: “I cretesi sono sempre bugiardi, male bestie, ventri pigri”. E tale testimonianza è verace». Secondo una (erronea) tradizione tale filosofo è stato identificato nel cretese Epimenide e per questo l’antinomia è spesso riportata anche come paradosso di Epimenide.
Il problema dei paradossi si ripropose con urgenza nella matematica di fine Ottocento. Il primo paradosso “moderno” fu scoperto nel 1897 dal matematico italiano Burali-Forti e riguarda il massimo numero ordinale (si veda il paragrafo: «Paradossi della teoria degli insiemi»). Ma il paradosso che minacciò di scuotere dalle fondamenta l’edificio della matematica fu individuato qualche anno dopo da Russell in relazione alla definizione di numero naturale data da Frege: Frege aveva definito il numero a partire dal concetto di classe; Russell rilevò che la nozione di classe, se usata indiscriminatamente, può condurre a una contraddizione, come la «classe di tutte le classi che non contengono sé stesse come elemento». L’antinomia di → Russell, o paradosso di Russell, si basa sul principio di → comprensione, secondo il quale, data una qualsiasi proprietà P, è possibile considerare l’insieme di tutti gli elementi che soddisfano P. Per esempio è possibile considerare «l’insieme di tutti i numeri compresi fra 4 e 10», «l’insieme di tutti i poligoni regolari» ecc. Seguendo questo principio, Russell propose di considerare «l’insieme A di tutti gli insiemi che non contengono sé stessi come elementi». Ci sono infatti insiemi che contengono sé stessi come elementi (per esempio l’insieme di tutte le astrazioni è a sua volta un’astrazione) e insiemi che non contengono sé stessi come elementi (per esempio l’insieme di tutti i numeri non è un numero). L’antinomia consiste nel chiedersi se l’insieme A contenga o meno sé stesso. Infatti, se A contiene sé stesso allora A è uno degli insiemi che non contengono sé stessi come elemento, quindi non contiene sé stesso. Se invece A non contiene sé stesso, allora A non è uno degli insiemi che non contengono sé stessi e quindi contiene sé stesso.
Nel giro di un decennio tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento si scoprirono altre antinomie (più spesso chiamate paradossi) come quella di Cantor (1899), di Richard (1905), di Grelling-Nelson (1908) o quello di Jourdain (1913) esemplarmente semplice nelle due frasi che la compongono: «la frase seguente è falsa» e «la frase precedente è vera». Queste antinomie contribuirono a mettere in crisi le basi logico-concettuali che la matematica si era data in quanto coinvolgevano e (apparentemente) compromettevano i concetti fondamentali della logica e della matematica: il concetto di classe o di insieme nell’antinomia di Russell; i concetti di numero cardinale e ordinale nelle antinomie di Cantor e Burali-Forti; i concetti di verità e falsità in quello di Jourdain e in altre simili; il concetto di attribuzione di un predicato nell’antinomia di Grelling; i concetti di definizione (o → definibilità) e di numerabile nelle antinomie di Berry e Richard; il concetto di modello numerabile nell’antinomia di Löwenheim-Skolem.
Il paradosso di Russell e gli altri che presentano la stessa struttura logica si basano sulla possibilità di attribuire un valore di verità a un qualsiasi enunciato in maniera univoca. Essi fondano la loro struttura sull’→ autoreferenzialità, cioè esprimono predicati che si riferiscono a sé stessi. Un modo per evitare le antinomie basate sul principio di comprensione potrebbe essere quello di escludere l’autoreferenzialità, precisando che la proprietà P, a cui ci si riferisce, non riguarda il soggetto in questione. Per esempio, nel paradosso del barbiere (vedi oltre) la frase «tutti coloro che non radono sé stessi» può ben riguardare tutti gli abitanti del villaggio tranne il barbiere stesso. Tuttavia questo tipo di limitazione non elimina comunque la contraddizione insita nella teoria ingenua degli insiemi così come evidenziato dall’antinomia di Russell. Le affermazioni fondate sull’autoreferenzialità hanno una notevole importanza dal punto di vista concettuale perché rappresentano uno schema di ragionamento analogo a quello che è alla base della dimostrazione del primo teorema di → Gödel. Egli, per dimostrare che esistono, nell’aritmetica formalizzata, formule che non possono essere né dimostrate né refutate, costruì, nel linguaggio formale dell’aritmetica, una formula la cui interpretazione è: «questa formula non è dimostrabile». In questo modo, sfruttando le contraddizioni che nascono dall’autoreferenzialità, Gödel dimostrò che l’aritmetica non è sintatticamente completa, cioè esistono formule aritmetiche che, pur essendo vere, non sono dimostrabili con i metodi dell’aritmetica stessa (→ completezza logica).
Non esiste una classificazione univoca dei paradossi, anche se si distingue tra quelli che sono connessi al concetto di verità (e che costituiscono delle antinomie) e quelli che sono invece riferibili alla teoria degli insiemi. I paradossi che riguardano la nozione di verità e altre nozioni a essa collegate, come quella di definibilità, sono detti semantici e costituiscono delle rielaborazioni del paradosso del mentitore. Quelli insiemistici evidenziano i limiti di una teoria ingenua degli insiemi e mostrano la necessità del passaggio a nuovi ambiti teorici.
Esprimono una contraddizione insanabile: si tratta di proposizioni autocontraddittorie, ossia di proposizioni che, pur essendo costruite in apparente conformità con le regole di formazione degli enunciati, sono tali che è impossibile asserirne la verità senza asserirne contemporaneamente la falsità, e viceversa. È questo il caso dell’affermazione «io mento»: se colui che la pronuncia dice il vero, allora, per ciò che sta affermando, egli mente, cioè dice il falso; viceversa, se chi pronuncia la frase dice il falso allora egli non mente e quindi dice il vero. Oltre al paradosso del mentitore, esistono altre antinomie strutturalmente tra loro simili (indifferentemente indicate come antinomie o paradossi), che rappresentano sostanzialmente varianti o sceneggiature dell’utilizzo di definizioni autoreferenziali:
• Paradosso di Grelling-Nelson o paradosso dell’eterologicità (1908), formulato dal logico tedesco K. Grelling e dal matematico e filosofo, anch’egli tedesco, L. Nelson. Un aggettivo si dice autologico (o omologico) se soddisfa la proprietà che esprime mentre si dice eterologico se non soddisfa la proprietà che esprime. Per esempio, l’aggettivo «polisillabo» è autologico (perché è effettivamente composto da più sillabe) mentre l’aggettivo «monosillabo» è eterologico (perché non è costituito da una sola sillaba). Si consideri l’aggettivo «eterologico»: se esso è eterologico allora non soddisfa la proprietà che esprime e quindi non è eterologico, bensì autologico per definizione (ossia è predicabile di sé stesso); se invece non è eterologico, allora è autologico, cioè può predicarsi di sé stesso, ma in tal caso la proprietà che esso si attribuisce è proprio quella della eterologicità, dunque è eterologico.
• Paradosso dei filosofi. Si supponga che nel futuro ci siano infiniti anni e infiniti filosofi, uno per ogni anno. Ogni filosofo afferma: «Tutti i filosofi che vengono dopo di me sbagliano». Indicato con Fn il filosofo dell’n-esimo anno, se egli dice la verità allora tutti i filosofi che vengono dopo di lui sbagliano. Ciò significa che anche il filosofo dell’anno successivo Fn+1 (l’anno n + 1-esimo) sbaglia a dire che tutti i filosofi che vengono dopo di lui sbagliano. Da ciò deriva che dopo l’anno n + 1-esimo ci sarà almeno un filosofo che non sbaglia. Ma ciò è in contraddizione con quanto è stato detto dal filosofo Fn. Se invece si suppone che il filosofo Fn non dica la verità, allora vuol dire che c’è almeno un filosofo Fm vissuto dopo l’n-esimo (m > n) anno che non sbaglia; si può quindi ripetere per Fm lo stesso ragionamento fatto precedentemente per il filosofo Fn ottenendo comunque una contraddizione.
• Paradosso di Löb, dal nome del matematico tedesco M.H. Löb. Si consideri la proposizione: «Se questa frase è vera allora 2 + 3 = 7», in cui l’aggettivo determinativo «questa» si riferisce a tutta la frase. Infatti, la proposizione è falsa solo se l’antecedente è vero e la conseguenza è falsa; ma dire che l’antecedente (che in questo caso esprime la verità dell’intera frase) è vero è in contraddizione con la stessa richiesta che la proposizione sia falsa. Il paradosso riprende quello di H.B. Curry che lo propose nella forma «se questa frase è vera allora Babbo Natale esiste».
• Paradosso dell’avvocato o di Protagora. Si dice che il filosofo greco Protagora di Abdera, vissuto nel v secolo a.C., avesse insegnato legge a uno studente di nome Euatlo. Gli accordi fra i due erano che Euatlo, non appena avesse vinto la prima causa, avrebbe pagato Protagora. Tuttavia, una volta terminati gli studi, Euatlo si dedicò ad altre attività abbandonando la carriera forense. A un certo punto Protagora, stanco di aspettare il pagamento, si rivolse a Euatlo il quale si rifiutò di corrispondergli l’onorario pattuito forte degli accordi precedentemente presi. A quel punto Protagora citò Euatlo in giudizio e al processo disse: «Se Euatlo perde la causa allora deve pagarmi per obbedire alla corte, e se Euatlo vince la causa anche allora deve pagarmi perché questa diventerà la sua prima causa vinta». Dal canto suo Euatlo disse: «Se vinco la causa non devo pagare perché così è stato deciso dalla corte; anche se perdo non pagherò perché, non avendo ancora vinto la mia prima causa, l’accordo fatto con Protagora non mi vincola». Il paradosso è riportato dallo scrittore latino del ii secolo d.C. Aulo Gellio.
• Paradosso del barbiere. Fu proposto nel 1918 da B. Russell per illustrare l’antinomia da lui individuata nel 1902. In un villaggio c’è un solo barbiere il quale ha ricevuto il seguente ordine: «Devi radere tutti e solo coloro che non radono sé stessi». Il paradosso consiste nel chiedersi se il barbiere rade sé stesso oppure no. Se il barbiere rade sé stesso allora non può radersi per l’ordine che ha ricevuto. Se egli non rade sé stesso allora deve radersi per lo stesso motivo. In realtà questo paradosso non conduce a una contraddizione vera e propria, ma evidenzia che l’ordine ricevuto dal barbiere, per sembrando plausibile, in effetti non può essere eseguito.
• Paradosso del risvegliatore. Secondo il diritto consuetudinario, in un villaggio c’è il risvegliatore che sveglia tutti e solo gli abitanti che non si svegliano da sé. Si domanda chi sveglia il risvegliatore. Non lui stesso, perché lui sveglia solo gli altri, non un altro, perché l’unico che può svegliare altri è lui stesso.
Sono riconducibili a questa classe di paradossi anche le antinomie di → Richard e di → Berry, che concernono la → definibilità di numeri e di insiemi numerici a partire dalla lingua naturale. La soluzione più nota al problema dei paradossi semantici è quella proposta da A. Tarski, che si fonda sulla distinzione tra metalinguaggio e linguaggio-oggetto.
Rientrano in questa classe i paradossi che evidenziano il limite della teoria ingenua degli insiemi, quali, per esempio, il paradosso di Burali-Forti e il paradosso di Cantor. Anche in questi casi si tratta più propriamente di antinomie e, infatti, fra essi va inclusa anche la già citata antinomia (o paradosso) di Russell che esprime la necessità di passare dall’ambito teorico insiemistico (o delle classi) a quello della teoria dei → tipi.
• Il paradosso di Burali-Forti è il primo paradosso insiemistico, pubblicato nel 1897 da C. Burali-Forti, e basato sul concetto di numero ordinale all’epoca accettato, che, secondo il principio di comprensione, permetteva di formare l’insieme Ω di tutti gli ordinali e di considerarlo esso stesso un numero ordinale. Il paradosso consiste nel fatto che mentre l’insieme Ω, contenendo tutti gli altri ordinali, è il massimo ordinale, d’altro canto Ω è minore del suo successore Ω′ (→ Burali-Forti, paradosso di).
• Il paradosso di Cantor (o antinomia della classe totale) fu comunicato da Cantor in una lettera a Dedekind del 1899, ma rimase ignoto fino alla pubblicazione dell’epistolario tra i due, da parte di Zermelo, nel 1932. Il paradosso nasce dall’accettare l’esistenza dell’“insieme di tutti gli insiemi” e si articola nei seguenti passaggi: a) dato un qualsiasi insieme X è possibile dimostrare – e lo dimostrò Cantor stesso – che l’insieme dei sottoinsiemi di X (detto anche insieme delle parti di X), indicato con ℘(X) ha cardinalità maggiore X: |℘(X)| > |X| (teorema di Cantor); b) si considera l’insieme U di tutti gli insiemi. Per quanto detto al punto precedente deve anche essere |℘(U)| > |U|, ossia l’insieme dei sottoinsiemi di U ha una cardinalità maggiore di U; c) d’altra parte, l’insieme ℘(U) è un sottoinsieme dell’insieme U (essendo U l’insieme di tutti gli insiemi) e quindi deve anche essere |℘(U)| ≤ |U|, ossia la sua cardinalità è minore o uguale di quella di U: di qui la contraddizione, per cui il massimo numero cardinale non è, nello stesso tempo, il massimo numero cardinale.
È riconducibile a questa classe di paradossi anche l’antinomia di Löwenheim-Skolem (1923), nota come paradosso di Löwenheim-Skolem (→ Löwenheim-Skolem, teorema di), che concerne l’estensione alla teoria degli insiemi del teorema che afferma l’esistenza di un modello finito o numerabile per ogni teoria che ammetta un modello.
Il nome «paradossi» con cui vengono riportati in letteratura è giustificato dal fatto che, pur essendo antinomie all’interno di una data teoria, possono essere risolti con l’introduzione di una teoria più ampia. Per esempio, per risolvere l’inconsistenza della teoria ingenua degli insiemi sono state formulate delle teorie assiomatiche di cui sono esempi la teoria di → Zermelo-Fraenkel e la teoria di → Neumann-Bernays-Gödel.
Fra le classificazione “storiche” dei paradossi sin qui esaminati, va ricordata quella proposta da F.P. Ramsey (da cui si discosta la classificazione adottata in questa voce), che pur distinguendo tra paradossi insiemistici e paradossi semantici, chiamò logici i primi e linguistici i secondi, individuando nella teoria degli insiemi la fonte dei paradossi del primo gruppo e nella indiscriminata possibilità di attribuire un valore di verità a ogni affermazione, quella del secondo.
Un’altra categoria di paradossi, i cosiddetti paradossi dell’infinito, nasce dalla trattazione di insiemi con un numero infinito di elementi. Si tratta di paradossi in senso proprio e non di antinomie, perché possono essere risolti attraverso una definizione diversa degli oggetti di cui trattano, in particolare attraverso una definizione appropriata di insieme infinito. È il caso del paradosso di Galileo, che stabilisce una corrispondenza biunivoca tra un insieme infinito e un suo sottoinsieme proprio, in contraddizione con il principio euclideo secondo il quale «l’intero è maggiore della parte» (una delle nozioni comuni degli Elementi di Euclide). Galileo, nel suo Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze afferma che il paradosso è dovuto alle «difficoltà che derivano dal discorrer che noi facciamo col nostro intelletto finito intorno a gl’infiniti, dandogli quelli attributi che noi diamo alle cose finite e terminate». Tuttavia sarà R. Dedekind (1888) a definire un insieme infinito o, più precisamente, l’infinità attuale di un insieme in modo tale da sciogliere il paradosso: «Un insieme è infinito quando e soltanto quando può essere posto in corrispondenza biunivoca con una sua parte propria». Già Cantor del resto, nel 1877, aveva scoperto la possibilità di stabilire una corrispondenza biunivoca tra i punti di un segmento e i punti del quadrato costruito su di esso e, a partire da questo, che «i punti dello spazio sono tanti quanti i punti di un segmento piccolo a piacere», evidenziando così che è possibile che l’intero insieme sia equivalente a una sua parte, a patto che il termine «equivalente» sia inteso nel senso di «avente la stessa cardinalità», cioè come sinonimo di «equipotente» (→ equipotenza). Per illustrare il ragionamento seguito da Cantor si consideri, nel piano cartesiano, un quadrato di lato 1 con un vertice in O e due lati lungo gli assi cartesiani. Ogni punto P del quadrato è individuato da due coordinate x e y il cui valore è compreso fra 0 e 1, si ha pertanto: x = 0,a1a2a3a4… e y = 0,b1b2b3b4… dove i puntini di sospensione indicano le cifre dopo la virgola le quali potrebbero essere tutte uguali a zero da un certo punto in poi oppure ripetersi periodicamente (→ numero razionale) oppure essere infinite, non periodiche e non tutte uguali a zero (→ numero irrazionale). È possibile associare a ogni punto P, di coordinate (x, y) e appartenente al quadrato, un numero reale r compreso fra 0 e 1 (cioè un punto di un segmento di retta reale di estremi 0 e 1) nel modo seguente: r = 0,a1b1a2b2a3b3a4b4… Viceversa a ogni numero reale r = 0,c1c2c3c4c5c6… compreso fra 0 e 1 è possibile associare un punto P del quadrato di lato 1, che abbia come coordinate i numeri x e y compresi fra 0 e 1 e costruiti prendendo come cifre dopo la virgola del numero x quelle di indice dispari del numero r e come cifre decimali di y quelle di ordine pari: x = 0,c1c3c5… e y = 0,c2c4c6…
Una delle metafore che illustrano meglio le anomale circostanze legate agli insiemi infiniti è il paradosso dell’albergo di Hilbert. L’albergo di Hilbert ha una infinità numerabile di camere e ogni camera è contrassegnata da un numero naturale non nullo: 1, 2, 3… Supponendo che l’albergo sia al completo è comunque possibile sistemare un nuovo cliente. Per farlo, è sufficiente che il cliente della camera numero 1 si trasferisca spostandosi nella camera numero 2, quello della camera numero 2 si trasferisca nella camera numero 3 e, in generale, il cliente della camera numero n si trasferisca nella camera numero n + 1. In tal modo resta libera la camera numero 1 per il nuovo cliente. Ancora più sconcertante è la possibilità di sistemare, nell’albergo già al completo, una infinità numerabile di clienti. Basta far trasferire il cliente della camera 1 nella camera 2, il cliente della camera 2 nella 4, il cliente della 3 nella 6 e, in generale, il cliente della camera n nella camera 2n. In questo modo i clienti già presenti nell’albergo si troveranno ad occupare solo le camere contrassegnate da numeri pari. Rimarranno quindi libere, per i nuovi clienti, le infinite camere contrassegnate da numeri dispari. Il paradosso dell’albergo di Hilbert può essere tradotto in termini rigorosi affermando che «l’unione di due insiemi numerabili è anch’esso un insieme numerabile».
I paradossi dell’infinito fin qui esaminati sottintendono la possibilità di considerare quantità infinite come date a priori; cioè presuppongono l’esistenza di un infinito in atto o infinito attuale. Altri paradossi riguardano invece il concetto di infinito potenziale, che si fonda sulla possibilità di aggiungere, a una grandezza data, quantità finite per un numero illimitato di volte. Un esempio di ciò sono i paradossi di Zenone, formulati dal filosofo greco per corroborare le tesi contro il movimento e la molteplicità sostenute dal suo maestro, Parmenide. Fra questi i più famosi sono il paradosso di Achille e la tartaruga, che il “piè veloce non raggiungerà mai”, il paradosso della dicotomia, per cui un punto mobile non giungerà mai a una meta fissata, entrambi finalizzati a mettere in crisi il concetto di movimento, e il paradosso dello stadio (→ Zenone, paradossi di). Analoga è l’argomentazione che Zenone utilizza per mostrare che una freccia lanciata da un arco appare in movimento ma è in realtà immobile (paradosso della freccia) perché in ogni istante la freccia occupa uno spazio che è pari a quello della sua lunghezza e poiché il tempo è costituito di singoli istanti in ognuno di tali istanti essa è immobile. Questi paradossi sono stati dipanati da B. Bolzano il quale, nella sua opera I paradossi dell’infinito (1851), sostiene che non è vero che «ogni quantità che noi consideriamo come somma di un insieme infinito di altre quantità tutte finite debba a sua volta essere infinita. […] L’apparente paradosso trae origine dal fatto che si dimentica che i termini da sommarsi diventano sempre più piccoli». A sostegno di ciò egli riporta l’esempio di un numero irrazionale come √(2) che, avendo infinite cifre decimali, può essere scritto come somma di infinite frazioni; nonostante ciò esso ha un valore finito compreso fra 1,4 e 1,5.
Un altro paradosso che si basa sull’iterazione di un procedimento all’infinito (e, quindi, sul concetto di infinito potenziale) è il paradosso dell’ipergioco. Un gioco fra due partecipanti A e B si dice finito quando ogni partita ha termine dopo un numero finito di mosse. L’ipergioco fra A e B è definito nel seguente modo:
1. A sceglie un gioco finito;
2. B fa la prima mossa del gioco scelto da A;
3. il gioco va avanti secondo le sue regole.
Da questa definizione segue che l’ipergioco è un gioco finito in quanto la prima mossa è quella di A (che sceglie un gioco finito) mentre le altre mosse di B devono essere necessariamente finite. Tuttavia, se l’ipergioco è un gioco finito allora si può giocare la seguente partita: A sceglie come gioco finito proprio l’ipergioco e lascia a B la prima mossa (cioè: scegliere un gioco finito), B a sua volta sceglie l’ipergioco lasciando ad A la scelta del gioco, A sceglie ancora l’ipergioco, e così via… L’aspetto paradossale consiste nell’aver ideato una partita infinita a un gioco finito.
Consistono in una applicazione scorretta delle regole del calcolo algebrico oppure in un errore in una sequenza di deduzioni oppure ancora in una ingannevole rappresentazione. Si tratta, quindi, di passaggi o deduzioni che possono apparire corretti a una lettura superficiale, ma che contengono in realtà errori, come il seguente con cui si “dimostra” che tutti i numeri sono uguali. Si considerano due numeri per ipotesi uguali, perciò:
• siano a e b due numeri tali che a = b;
• moltiplicando entrambe le parti dell’uguaglianza per a si ottiene a2 = ab;
• sottraendo a entrambe la parti la stessa quantità b2 si ottiene ancora una uguaglianza: a2 − b2 = ab − b2;
• scomponendo in fattori si ottiene (a − b)(a + b) = b(a − b);
• dividendo da entrambe le parti per a − b, si ottiene a + b = b;
• sappiamo per ipotesi che a = b e perciò sostituiamo b ad a, ottenendo a + a = a;
• perciò 2a = a e, dividendo per a, si ha che 2 = 1;
• se 2 = 1, addizionando successivamente 1, si ottiene anche 3 = 2, 4 = 3, e così via…: i numeri interi sono tutti uguali tra loro!
La conclusione ottenuta è ovviamente errata e l’errore consiste nell’aver diviso entrambi i termini per a − b:
infatti, per ipotesi a = b e quindi a − b = 0, ma la divisione per 0 non ha significato e non può essere eseguita.
Un esempio di paradosso geometrico si ha nella configurazione seguente:
Il quadrato e il rettangolo appaiono formati dagli stessi tasselli: due triangoli (A e B) e due trapezi (C e D). Eppure il quadrato ha area 8 × 8 = 64 mentre il rettangolo ha area 5 × 13 = 65. Il paradosso nasce dal fatto che nella seconda figura i lati dei trapezi e dei triangoli non appartengono alla stessa retta e quindi non combaciano con la diagonale del rettangolo. La seconda figura non è perciò un rettangolo, perché ha un “buco” delle dimensioni di 1 quadretto, non visibile perché è “diluito” lungo tutta la diagonale e “coperto” dallo spessore del tratto.
Uno degli esempi più noti è il paradosso della scimmia proposto da É. Borel, dovuto alla considerazione di spazi di probabilità infiniti: la possibilità per l’animale di digitare in modo casuale e un numero infinito di volte su una tastiera di una macchina da scrivere comporta la possibilità per esso di digitare l’intera Divina Commedia; infatti se la tastiera ha s tasti e la scimmia esegue k digitazioni casuali la probabilità di scrivere l’intera opera dantesca è p = 1/(sk) che è ovviamente un valore diverso da zero (→ Borel, paradosso di). Di tipo probabilistico è anche il paradosso di Bertrand, la cui caratteristica paradossale consiste nel ricavare differenti soluzioni a seconda del metodo di selezione casuale scelto in una determinata situazione geometrica (→ Bertrand, paradosso di). Un ulteriore paradosso probabilistico è il paradosso dei compleanni, proposto nel 1939 da R. von Mises: la probabilità che in un gruppo di k persone almeno due compiano gli anni nello stesso giorno è molto maggiore di quanto si possa intuitivamente supporre. Infatti tale probabilità è uguale a
Se il numero k di persone è 50, la probabilità è circa il 97%.
Un esempio di paradosso di questo tipo è il paradosso di Banach-Tarski, dal nome dei due scienziati polacchi S. Banach e A. Tarski, il primo matematico, il secondo logico. Essi, utilizzando l’assioma della → scelta, dimostrarono che una sfera può essere scomposta in un numero finito di parti ricomponendo le quali si forma una sfera di raggio doppio (→ Banach-Tarski, paradosso di): non si tratta di una contraddizione perché le parti in cui si è scomposta la sfera non sono misurabili secondo Lebesgue (→ Lebesgue, misura di).
Spesso i paradossi traggono origine dal fatto che la ricchezza e l’espressività del linguaggio naturale non possono essere ingabbiate in schemi formali troppo rigidi. Ciò è evidente anche nel seguente paradosso che nasce dall’applicazione della logica binaria a un contesto linguistico singolare e che è riportato come paradosso del sorite o del mucchio. Questo paradosso risale ai filosofi greci della scuola di Megara (iv secolo a.C.) e può essere espresso così: «Un chicco di grano non costituisce un mucchio; inoltre, per creare un mucchio, non basta aggiungere un chicco a qualcosa che non è un mucchio. Quindi è impossibile formare un mucchio aggiungendo un chicco di grano alla volta». Esistono molte varianti di questo paradosso, una delle quali è quella dell’uomo ricco:
• se un uomo ha una moneta, non è ricco;
• se un uomo non è ricco, ricevendo un’altra moneta non diventerà ricco;
• quindi, indipendentemente dal numero di monete che riceve, un uomo non diventerà mai ricco.
Una versione analoga è nota come paradosso di Anfibio: un girino di nome Anfibio viene filmato per tre settimane di seguito in uno stagno. Alla fine della terza settimana Anfibio è diventato una rana. Se la cinepresa funziona a ventiquattro fotogrammi al secondo, allora sono stati catturati 43 milioni e mezzo di fotogrammi: nel primo fotogramma Anfibio è un girino mentre nell’ultimo fotogramma è una rana. Ci deve essere quindi un momento in cui Anfibio da girino diventa rana, cioè un fotogramma in cui è un girino e, nel fotogramma successivo, cioè dopo un ventiquattresimo di secondo, è già una rana.
Questi ragionamenti paradossali si basano sulla possibilità di definire in modo preciso e senza sfumature «mucchio», «ricchezza» e «girino/rana», attraverso l’applicazione restrittiva della logica binaria secondo cui una frase come «quell’uomo è ricco» può avere solo due valori di verità (vero o falso) in base al principio del terzo escluso. Nel linguaggio naturale molti termini assumono invece significati ricchi di sfumature; per esempio il concetto di «uomo ricco» può variare a seconda del contesto, così l’affermazione «quell’insieme di chicchi di grano è un mucchio» può avere diversi gradi di verità. In questo senso una logica a più valori come la → fuzzy logic si presta meglio a esprimere e formalizzare affermazioni di questo tipo.
A questa categoria di paradossi appartiene anche il cosiddetto paradosso dell’impiccato (o dell’impiccagione imprevista). Anche questo truce paradosso può essere formulato in modi diversi; in ogni versione tratta comunque di un prigioniero a cui è stata inflitta la seguente condanna: «Sarai impiccato un giorno della prossima settimana, ma l’esecuzione arriverà in modo inaspettato». Il prigioniero, ragionando sulla condanna comminatagli, conclude che non potrà essere giustiziato l’ultimo giorno della settimana, cioè la domenica, perché altrimenti il sabato sera potrebbe già prevedere l’esecuzione, che non sarebbe più inaspettata. Allo stesso modo egli esclude il sabato perché, scartata la domenica, il venerdì sera già capirebbe di essere alle soglie dell’esecuzione. Iterando il ragionamento conclude che non potrà mai essere giustiziato. In questo modo, quando il martedì lo prelevano per condurlo alla forca, il condannato viene colto di sorpresa. Il paradosso viene spiegato considerando che la condanna si articola in due proposizioni («sarai impiccato un giorno della prossima settimana» e «l’esecuzione sarà inaspettata») che sono fra loro in contraddizione se analizzate secondo la logica binaria. Il fatto che la condanna sia contraddittoria spinge il prigioniero a pensare che essa sia falsa e a non preoccuparsi più dell’ipotetica impiccagione; perciò, quando questa avviene, risulta inaspettata. Si noti che anche qui è in gioco l’attribuzione del valore di verità alle proposizioni coinvolte.
Accanto ai paradossi logici, matematici e linguistici, va segnalato un paradosso che storicamente caratterizza i sistemi elettorali democratici e che venne formulato dal marchese di Condorcet. Si supponga che a una elezione ci siano tre candidati, A, B e C e che il 40% degli elettori manifesti di preferire A rispetto a B e B rispetto a C: per questo 40% dell’elettorato si ha, quindi, come relazione di preferenza A > B > C. Si supponga poi che per il 35% dell’elettorato la relazione sia invece B > C > A e per il restante 25% sia invece C > A > B. Il paradosso proviene dal fatto che, qualunque sia la modalità di scrutinio utilizzata per designare il vincitore si avrà sempre una maggioranza degli elettori che non si sentirà rappresentata, per cui nessuno risulterà un vincitore indiscutibile. Infatti se il vincitore sarà A, allora gli altri due gruppi di elettori (che costituiscono il 60%) si sentiranno meglio rappresentati da C; se il vincitore sarà B, il 65% si sentirà meglio rappresentato da A; infine se vincerà C, sarà il 75% a sentirsi meglio rappresentato da B. Nessuno è quindi un vero vincitore.