Paralisi Costituente
Piero Calamandrei sosteneva che il presidenzialismo condiziona il sistema dei partiti, mentre il parlamentarismo ne è condizionato. Oggi la nostra Repubblica è di nuovo al bivio, ma il rischio peggiore è l’immobilismo. L’opinione di un costituzionalista di centrodestra.
Il presidenzialismo da noi è stato sempre minoritario. Fin dai tempi dell’Assemblea costituente. Allora a farsene paladina fu la sparuta pattuglia del Partito d’azione. E nessuno meglio di Piero Calamandrei ne sostenne la validità. Nella seduta del 5 settembre 1946 la seconda Sottocommissione approva l’ordine del giorno presentato il giorno prima dal repubblicano Tomaso Perassi, contrario sia al presidenzialismo sia al governo direttoriale e invece favorevole al sistema parlamentare «da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e a evitare le degenerazioni del parlamentarismo». 22 i voti favorevoli, 6 le astensioni. Si astengono i socialcomunisti, contrari a mettere una camicia di Nesso al parlamentarismo di una volta e fiduciosi in una evoluzione determinata dalla politica. Calamandrei non ci sta.
Nella stessa seduta della seconda Sottocommissione osserva che nella Repubblica presidenziale è più facile che sul programma del candidato alla Casa Bianca risultato vincitore «si formi una coalizione che abbia probabilità di essere più stabile di quella illusoria che si può invece attendere dai sistemi proposti da chi dà la preferenza alla Repubblica parlamentare». Gli argomenti sfoderati dall’illustre giurista fiorentino non fanno una piega.
In effetti, il presidenzialismo condiziona il sistema dei partiti, mentre il parlamentarismo ne è condizionato. E siccome da noi i partiti sono tanti e caratterizzati da una notevole distanza ideologica, ne consegue che il parlamentarismo, risultati illusori gli stabilizzatori automatici vagheggiati dall’ordine del giorno Perassi, non garantirà la stabilità ministeriale e non eviterà quelle degenerazioni del parlamentarismo verificatesi durante la Terza Repubblica francese. Eppure, la forma di governo parlamentare è una scelta obbligata. Un po’ perché, dopo una dittatura ventennale, un uomo solo al comando fa paura. Non a caso il liberale Aldo Bozzi osservò che i lavori della Costituente furono dominati dal complesso del tiranno: quello morto e sepolto e quello che, gettata la maschera perbenista, aspirava a conquistare tutto il potere. Un po’ perché, dopo quella tra monarchici e repubblicani, non si voleva un’altra frattura tra i sostenitori dei candidati al Quirinale. E un po’ perché si ritenne prudente non rinnegare le proprie radici: quel parlamentarismo affermatosi fin dai tempi dello Statuto albertino. Nelle sue Memorie della mia vita, Giovanni Giolitti sostenne che le leggi devono tener conto dei difetti e delle manchevolezze di un paese. Perciò un sarto che deve tagliare un abito per un gobbo, deve fare la gobba anche all’abito. E negli stessi termini s’era già espresso Vincenzo Cuoco nel suo Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799.
Nel 1953 non scatta di un soffio la legge elettorale maggioritaria e l’instabilità ministeriale è a malapena mascherata dalla staticità politica. Nel 1958 la Repubblica francese, grazie a Charles de Gaulle, cambia di numero e si afferma il semipresidenzialismo, dalle sinistre demonizzato di là e di qua dalle Alpi fino all’elezione di François Mitterrand. Le 2 commissioni bicamerali presiedute rispettivamente da Bozzi e da De Mita e Nilde Iotti propongono qualche modesto correttivo al parlamentarismo, osteggiato dalle sinistre perché nella nostra democrazia bloccata le forze politiche al governo sono pressappoco sempre le stesse. Mentre la commissione presieduta nel 1997 da Massimo D’Alema opta sì per l’elezione popolare diretta, ma lasciando inalterati i poteri del capo dello Stato. Con il pericolo, dunque, di un cortocircuito.
In tale contesto è comprensibile che i fautori del presidenzialismo abbaino alla luna. Con la sua ‘Nuova Repubblica’ Randolfo Pacciardi intende dare uno schiaffo alla partitocrazia. Giuseppe Maranini sostiene che basta una particolare interpretazione del dettato costituzionale per arrivare a una forma di governo presidenziale all’americana, con un esecutivo autorevole e forti autonomie locali. Giorgio Almirante e più tardi Bettino Craxi, sulle orme di un insospettabile Léon Blum, si faranno paladini di questa forma di governo con la speranza che la loro candidatura al Quirinale abbia un effetto di trascinamento sui rispettivi partiti. Ma tutto è rimasto nel libro dei sogni.
La nostra Repubblica è di nuovo al bivio. E il rapporto tra le 2 forme di governo è meno squilibrato di un tempo. Proprio quando sembrava che al premierato di marca britannica si aprisse un’autostrada, il semipresidenzialismo non è più apparso come una sorta di bestia nera. E per un momento si è pensato di coniugare un semipresidenzialismo accarezzato dal centrodestra con l’elezione a doppio turno dei rappresentanti del popolo come in Francia, cavallo di battaglia del centrosinistra. Il guaio è che nel nostro Belpaese non c’è nulla di più progressivo della paralisi. A dispetto dell’impegno dei saggi della Commissione presieduta dal ministro Gaetano Quagliariello, le riforme costituzionali veleggiano in alto mare. È probabile che non se ne faccia nulla per l’ennesima volta. Ecco materializzarsi una volta di più la solita terza via dell’immobilismo. In tal caso tornerebbero d’attualità le famose parole pronunciate da Oliver Cromwell alla Camera dei comuni: «In nome di Dio, andatevene». Perché una classe politica fallimentare non potrebbe squadernare più nessuna scusante.
Piero Calamandrei
Giurista, scrittore e uomo politico italiano (Firenze 1889-ivi 1956). Insegnò dal 1924 diritto processuale civile nell’Università di Firenze; socio nazionale dei Lincei (1947). Insigne avvocato, strenuo antifascista, fu tra i fondatori del Partito d’azione; fu membro della Consulta nazionale, poi della Costituente, dal 1948 al 1953 deputato alla Camera. Fondò, con G. Chiovenda e F. Carnelutti, la Rivista di diritto processuale civile. Accanto alle opere monografiche (La Cassazione civile, 1920; Il procedimento monitorio nella legislazione italiana, 1926) e alle Istituzioni di diritto processuale civile secondo il nuovo codice (1941-43), va ricordata la serie di saggi raccolti negli Studi sul processo civile (6 voll., 1930-56). Le esperienze di uomo di legge gli hanno fornito materia di arguta riflessione morale (Troppi avvocati!, 1921; Elogio dei giudici scritto da un avvocato, 1935), così come le sue memorie autobiografiche gli hanno ispirato le pagine, di schietto valore poetico, dell’Inventario della casa di campagna (1941, 2ª ed. ampliata 1945).
No alla riforma
Nell’ambito del dibattito sul percorso intrapreso per la revisione della Costituzione – tema di cruciale rilevanza nel corso della XVII legislatura – sono emerse articolate posizioni critiche sia nel metodo che nel merito. Fra le questioni più discusse, la procedura delineata per la riforma della Carta, con l’istituzione di una Commissione di saggi e di un Comitato parlamentare per le riforme costituzionali ed elettorali; quest’ultimo tramite un disegno di legge costituzionale in deroga all’art.138 che disciplina l’iter per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali. Contro l’iniziativa si sono in particolare schierati intellettuali e illustri costituzionalisti come Stefano Rodotà e il presidente emerito della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky, fra i promotori della manifestazione Costituzione: la via maestra del 12 ottobre in difesa della Carta. Contrari all’ipotesi di adozione di forme più o meno decise di presidenzialismo, i giuristi hanno espresso riserve sulle possibili implicazioni del percorso intrapreso. Rodotà si è detto favorevole a interventi mirati al superamento del bicameralismo perfetto, alla riduzione del numero dei parlamentari e alla modifica del Titolo V, ma ha rilevato come tali riforme possano essere portate a termine attraverso l’iter previsto dall’art.138; mentre Zagrebelsky ha evidenziato la preoccupazione che alcune delle modifiche proposte alla seconda parte della Carta, in virtù delle connessioni esistenti, possano compromettere l’attuazione della prima parte, quella relativa ai diritti e ai doveri dei cittadini sui cui contenuti è stato espresso unanime apprezzamento.
Forme di governo a confronto
Un governo parlamentare: Italia
Elemento costitutivo della forma di governo parlamentare è il rapporto fiduciario fra l’esecutivo e il Parlamento. In Italia il governo, vertice del potere esecutivo, è tenuto a presentarsi alle Camere entro 10 giorni dalla sua formazione per ottenere la fiducia, e questa può essere revocata mediante mozione motivata e votata per appello nominale. La carica di presidente del Consiglio dei ministri è di fatto quella di maggior rilievo nella vita politica generale.
Un governo semipresidenziale: Francia
La forma di governo semipresidenziale unisce elementi tipici del governo parlamentare – come il rapporto fiduciario fra Parlamento e governo e il potere presidenziale di scioglimento delle Camere – con elementi del governo presidenziale – come l’elezione popolare del presidente della Repubblica. In Francia – principale esempio di sistema semipresidenziale – il presidente è dotato dalla Costituzione del 1958 di ampi poteri in materia di iniziativa e di dibattito legislativi e quando la maggioranza presidenziale e quella dell’Assemblea nazionale coincidono, il presidente assume il ruolo di vera e propria guida del governo, mentre il Primo ministro si trasforma nel suo principale collaboratore.
Un governo presidenziale: Stati Uniti
Il presidente degli Stati Uniti è a un tempo il capo dello Stato e capo del governo. Il presidente è eletto a scrutinio segreto da 538 ‘grandi elettori’ appartenenti ai 2 principali partiti politici, designati dall’elettorato. Dura in carica 4 anni ed è rieleggibile una sola volta. I rami del Parlamento sono 2: la Camera dei rappresentanti (435 membri in misura proporzionale alla popolazione dei singoli Stati) e la Camera alta del Congresso federale (2 membri per ciascuno Stato).
Il premierato inglese
Pur non essendo una forma di governo a sé stante, il modello del premierato – che rimane una declinazione del governo parlamentare – si caratterizza per la centralità della figura del primo ministro, a cui spettano poteri quali la nomina e la revoca dei suoi ministri o il potere ‘sostanziale’ di scioglimento anticipato del Parlamento. Tale modello – che ha nella Gran Bretagna il suo principale riferimento – si concilia con sistemi bipartitici o nettamente bipolari: in tale contesto, dalle urne emerge una chiara indicazione sulla formazione dell’esecutivo, che sarà presieduto dal leader del partito (o della coalizione) che ha ottenuto la maggioranza dei seggi.