DAL POZZO (de Puteo, Aputeo, de Puzzo, Apuzzo), Paride
Alla buona fama ch'ebbe il D. nel Cinquecento fanno riscontro apprezzabili biografie sei o settecentesche, ma un vuoto pressoché totale nella documentazione oggi disponibile. Dovette nascere a Castellammare di Stabia (Napoli) nel 1411, o poco prima, da Carletto e da Agnese, della quale non si conosce la casata; dalla nobile moglie Nardella Galeot a ebbe cinque figli, Simone, Bernardino, Lisa, Lucrezia e Maddalena. Il ceppo della famiglia era da lungo tempo stabilito a Pimonti, nel ducato d'Amalfi, a un paio di miglia da Castellammare.
Sebbene accreditata dal Candida Gonzaga, la tradizione che i Dal Pozzo presenti dal sec. XIV nel Napoletano, come d'altronde quelli che compaiono in Sicilia, fossero ramificazioni della potente famiglia lombardo-piemontese sparsasi un pol ovunque, non è suffragata da prove sicure. La mise peraltro in dubbio già nel '500 il Panziroli e nel '600 il fantasioso Libone; né può darsi peso alla peregrina testimonianza dell'alessandrino Giulio Chiari che credette il D. un compatriota (Sententiarum V, Pract. crim., Venetiis 1587, II, c. 213va, quaestio 81, stat. 7). Tuttavia, se non si conosce l'origine del Francesco che era familiare del duca di Calabria Carlo Illustre (Candida Gonzaga), si sa ch'era di Alessandria il Lorenzo segretario di Ladislao nel 1391 (A. Cutolo, Re Ladislao d'Angiò Durazzo, Napoli 1969, p. 176 n. 62), forse lo stesso che fu balì dell'Ordine gerosolimitano in Napoli nel 1419; ed era parimenti piemontese un Giacomo suo successore nella carica nel 1428 (F. Bonazzi, Elenco dei cavalieri del S. M. Ord. di S. Giovanni di Gerusalemme, I, Napoli 1897, p. 111): quel che resta incerto è che tali personaggi fossero connessi in qualche modo con il ceppo stabilitosi a Pimonti già nei primi anni del Trecento (Camera, II, p. 649, n. 4 segnala un doc. del 1314). Si può invece supporre che a tale ceppo fosse collegato il nobile mercante amalfitano Cicco deceduto a Napoli nel 1420 e sepolto in S. Lorenzo (C. D'Engenio Caracciolo, Napoli sacra, Napoli 1624, p. 121). Potrebbe esser il padre del D. quel Carlo nominato castellano di Montemiletto nell'Avellinese da re Ladislao (Candida Gonzaga), lo è con sicurezza il Carletto ch'ebbe per privilegio dal medesimo sovrano la cittadinanza di Casteliammare nel 1412 (Capaccio). Quest'ultimo episodio spiega come in . questa città, appunto, sia nato il D. (Martucci), mentre la diffusa opinione che lo fa di Pimonti considera il paese d'origine della famiglia, dove questa continuò peraltro a possedere beni e al quale il D. stesso dedica una citazione (De feud. reintegr., Et advertendum, n. 12). È infondata l'ipotesi ch'egli fosse di Gragnano (Persico).
Zio per parte del padre è il Tirone di Pimonti che nomina il D. esecutore testamentario nel 1445 (Capaccio; Martucci, p. 78); fratelli maggiori del D. furono Brancaleonee Mazzeo (Capaccio), il cui vero nome sembra fosse Ranieri (Martucci): anche questo sarebbe stato familiaris di re Ferrante e al figlio Cola Francesco la regina Isabella avrebbe comunicato la propria maternità con una lettera dell'aprile 1499 (Martucci, p. 79). Il primo figlio dei D., Simone, sarebbe stato invece giudice della Vicaria nel 1516, e quindi presidente della Regia Camera (Martucci, p. 79); la lapide di un pronipote Scipione morto nel 1584 ricorda. con fierezza ch'egli avrebbe seguito le orme del prozio (Camera, II, p. 649); tra i nomi di dottori ricordati nel catalogo del Recco (C. De Frede, Studenti e uomini di leggi a Napoli nel Rinascimento, Napoli 1957, pp. 115a, 116a, 120a) ricorrono quelli di Tommaso Aniello, Giovanni Carlo e del Francesco designato alla carica di consigliere regio da Filippo II (Aldimari, p. 204). La famiglia non manca di altri componenti illustri; in epoca imprecisata sembra venisse ascritta a Napoli al nobile seggio di Capuana (Aldimari, p. 206; Candida Gonzaga), sebbene il Tutini (Del origine e fundatione de' seggi di Napoli, Napoli 1644) in proposito taccia, e nel Regno citra Farum rientrò nei patriziati di Salerno, Amalfi, Montuoro, Castellammare e Lucera.
La tradizione narra che il D. avrebbe compiuto studi giuridici in un gran numero di università: il Chioccarelli (dal quale traggono Toppi, Tafuri e altri) parla di Roma, Pavia, Firenze, Bologna, Perugia; il Giannone aggiunge per errore Milano; il De Fortis preferisce Padova a Pavia; il Giustiniani, con argomentazioni imperfette, limita la rosa a Padova, Firenze e Ferrara. In realtà, le sole informazioni che il D. stesso offre alludono a soggiorni in Toscana e a Bologna; in questa città, d'altronde, poté udire nei primi anni '40 tutti i suoi maestri. Ma non vi conseguì la laurea, né d'altronde il suo nome è rintracciabile altrove in alcuno degli elenchi di dottorati pervenutici. A Bologna egli compare ancora nel 1445 soltanto come "bacalarius in decretis": il titolo, usuale nelle scuole di teologia, ma non in quelle italiane di diritto, è tuttavia esplicitamente ricordato nella riforma del Collegio dei dottori giuristi stabilita da Giovanna II nel 1428, sicché appare plausibile che il D. avesse compiuto buona parte dei suoi studi a Napoli. Qui potrebbe averli peraltro anche conclusi giacché il Collegio dei dottori continuò a conferire i gradi anche nei periodi in cui l'università fu chiusa, o comunque funzionò imperfettamente, come sembra fosse appunto il caso fino al '51.
Le dimore in Toscana e a Bologna sono attestate nel De syndicatu (v. Oblatio, Si officialis sit condemnatus, e v. Manivoltus, An officialis possit cogere subditum, nr. 5); i numerosi riferimenti alla Lombardia che ricorrono in quest'opera hanno tratto in errore taluni biografi, ma sono il frutto d'interpolazioni d'un annotatore. È in sé possibile che il D. udisse il Mincucci a Firenze nel 1430-31, ma è più verosimile ne fosse scolaro a Bologna dopo il 1438, quando ebbe occasione di apporre qualche additio a quella misteriosa lectura del maestro sui Libri feudorum (De synd., v. Iudicare III, An si iudex qui dedit sententiam, nr. 12) ch'era nota finora per un fuggevole richiamo di Giasone (E. A. Laspeyres, Ueber die Entstehung... der Libri feudorum, Berlin 1830, p. 124, n. 340). A Bologna il D. poté seguire il Barbazza almeno dal 1442 (De synd., v. Oblatio, Si officialis sit condemnatus; De feud. reintegr., 135 Sequitur vulgaris quaestio, nr. 11), il Gambiglioni fino al 1444 (De synd., v. Doctor II, An doctor seu advocatus, nr. 8 e ivi, De off. synd. I, Per syndicatores, nr. 13. ove narra del pericolo corso dal maestro di subire una condanna capitale), mentre dalla "viva voce" del Tartagni (De feud. reintegr., 39 An per divisionem, nr. 5) ascoltò probabilmente solo le pubbliche disputationes tenute nel 1443-44 prima della laurea (A. Sabattani, De vita et operibus Alexandri Tartagni de Imola, Milano 1972, p. 21). Il 18 giugno 1445 il D. si trovava ancora a Bologna e compare in un atto col titolo di baccelliere di diritto canonico (C. Piana, Nuovi documenti sull'università di Bologna e sul Collegio di Spagna, Bologna 1976, II, p. 840, doc. 2082).
Tornato a Napoli, entrò subito in contatto con la corte aragonese, fu scelto da re Alfonso come maestro del giovane Ferrante ed presumibile lo guidasse in quegli studi di diritto che il principe cominciò ad approfondire nell'ottobre 1448. Ma già durante la spedizione di Alfonso in Toscana, tra il '47 e il '48, il D. era stato non-únato uditore di Ferrante vicario del padre assente, conseguendo un'alta carica paragonabile a quella dei successivi collaterali. Si può supporre che più o meno contemporaneamente entrasse nel numero dei consiglieri del sovrano e fosse chiamato poco dopo - sempre al tempo di re Alfonso - a far parte del massimo organo giudiziario, il Sacro Regio Consiglio.
Lo stesso D. informa d'esser stato auditor del duca di Calabria quando questi era vicario del re (De feud. reintegr., 269 An vicarius generalis, n. 10) e di averlo avuto allievo (De synd., Prooem., n. 6). Che il principe avesse iniziato studi approfonditi di diritto l'8 ott. 1448 risulta da una nota del suo bibliotecario Pascual Diaz Garlón al Breviarium legistico autografo del giovane (T. De Marinis, La Bibl. napol. dei re d'Aragona, Suppl., II, Milano 1969, tav. 52b). Nella veste di consigliere il D. fu interrogato da Alfonso sulla legittimità delle pretese dei fratello Giovanni alla corona di Sicilia (De feud. reintegr., 251 An frater secundo genitus); come giudice nel Sacro Regio Consiglio del Magnanimo fu relatore di cause (De synd., De off. synd. IV, Quidam de regno Siciliae).
Dopo l'assunzione al trono di Ferrante nel 1458, non sembra venisse seriamente utilizzato in affari politici al pari di altri giuristi dei suo tempo, ma continuò ad avere la carica di consigliere del sovrano e probabilmente, almeno per un po', quella di membro del Sacro Regio Consiglio, ove, secondo il Toppi (II, p. 193), coniparirebbe ancora nel 1466. Fu anche Commissarius regni con ampi poteri per la repressione della criminalità e giudice della Vicaria non più tardi del 1473. Poco dopo abbandonò le alte magistrature; non doveva più ricoprime alcuna quando sottoscrisse come semplice doctor un documento del 1477.
Nella qualità di consigliere regio suggerì a Ferrante nel 1458 di chiedere l'investitura pontificia del Regno, contestata da Callisto III per l'illegittimità dei natali, non iure successionis, ma ut homo novus (De reintegr. feud., 130 Et circa praedicta quaero, n. 10). Come componente, poi, dei Sacro Regio Consiglio dovette esser incaricato almeno di taluna delle numerose commissiones che, soprattutto in materia di reintegrazione dei feudi, usa ricordare nelle proprie opere. L'ufficio di commissarius regni, che gli consentì di procedere sul luogo alla condanna crudele di un bestemmiatore incontrato casualmente in un bosco (De synd., v. Condemnatio IV, An potestas qui misit ad supplicium, n. 13), ha ispirato la tradizione che Ferrante gli avesse dato poteri straordinari per combattere la criminalità nel Regno (Chioccarelli) o che addirittura l'avesse nominato nel 1459 "inquisitore generale" (Giustiniani). Quanto all'assunzione nella Magna Curia Vicariae, il Toppi (I, 113) lo inserisce in un elenco di giudici di cui taluni appaiono nominati nel 1473, ma è possibile la designazione del D. fosse anteriore. Comunque, l'importante serie di prammatiche sull'ordine giudiziario, solennemente pubblicata nel Sacro Regio Consiglio e nella Vicaria il 30 ott. 1477, e presso i sedili di Napoli il 2 novembre successivo, porta le sottoscrizioni dei giuristi più rappresentativi del tempo corredate della qualifica di ciascuno e del tribunale di appartenenza: ma presenta il D. solo come "utriusque iuris doctor" (Napoli, Biblioteca nazionale, ms. I.H.22, f. 136rb). Ch'egli non ricoprisse più magistrature nemmeno alla fine della vita può essere dedotto dal silenzio che su di lui mantiene l'unico registro quattrocentesco dei verbali del Sacro Regio Consiglio che ci sia rimasto (relativo al periodo compreso tra il tardo 1485 e il 1489: Archivio di Stato di Napoli, Sentenze S. R. C., I, 1486-489).
Non v'è motivo di dubitare della tradizione che avesse esercitato anche l'avvocatura: egli stesso ricorda d'aver prestato il proprio patrocinio a favore di un imputato d'omicidio (De synd., v. Poena I, An si tempore officialis, in fi.). A partire almeno dal 1473 insegnò diritto civile all'università, magari saltuariamente ma comunque a lungo, forse fino al 1485 e oltre.
La totale assenza dai rotuli e dalle cedole (E. Cannavale, Lo Studio di Napoli nel Rinascimento, Napoli 1895), che pure hanno pochi vuoti tra la riapertura dello Studio nel 1465 e il 1480, ha suscitato dubbi sulla realtà di un insegnamento pur celebrato da tutti i biografi (R. Filangieri, in Storia della università di Napoli, Napoli 1924, pp. 191 s.). Ma conferme sicure vengono dallo stesso D. nel proemio del De syndicatu e dalla notizia offerta dal Chioccarelli, e ripresa con una inesattezza dal Giustiniani, che Giambattista Di Bella conservava ancora nel Seicento le recollectae manoscritte delle lezioni del D. su taluni titoli del Digestum Vetus (D. 4. 1-2-3-8). Ricorrendo anche altri casi di mancate registrazioni di docenti, e date le imperfette conoscenze che abbiamo dei sistemi didattici, si può solo ipotizzare che venissero anche utilizzati, senza oneri per Perario, insigni professionisti e magistrati per corsi collaterali, magari intesi alla formazione specifica delle nuove leve della burocrazia: in particolare il De syndacatu, pur rivolto principalmente alla pratica, rivela agganci con la scuola, e per di più con un tipo di studio "in alphabetis", ossia su trattazioni ordinate come dizionari, che non rientra nei metodi consueti (cfr. voce Tortus V, An in causa pecuniaria, n. 2, e Tortus XIII, Dicitur communiter, n. 3 in fi.). Si può osservare che il richiamo agli scolari "in alphabetis" è introdotto nell'edizione del 1485, e consente pertanto di supporre che il D. fosse quell'anno ancora attivo nella scuola. Quando avesse cominciato non si sa: nel proemio dell'ed. 1473 già si qualifica professore, ma poteva esserlo da tempo, persino dalla riapertura dello Studio nel '65.
Negli anni '70 e '80 del secolo il D. si dedicò alacremente all'attività scientifica e profittò bene dell'introduzione della stampa per divulgare i propri scritti e la propria fama. L'opera maggiore, il De syndicatu, rivela una formazione graduale che si colloca tra la prima stesura imperfetta, surrettiziamente sottratta all'autore e stampata con i tipi di Riessinger verso il 1473, e la redazione definitiva, profondamente rimaneggiata, apparsa nel 1485 per le cure e le spese di Francesco del Tuppo. L'inconsueto trattatello De ludo, pubblicato in appendice a entrambe le edizioni, è scritto da un ignoto copista già nell'ottobre del '72, e viene presentato come un compendio di opere precedenti forse dello stesso autore, ma forse anche altrui. È pure anteriore al De syndicatu, che lo cita (v. Tortus XI, Sequitur modo notabilis quaestio, nr. 3), il De re militari o De duello, dedicato a un tema di grande successo nel Quattro e Cinquecento, la cui scelta potrebbe testimoniare o i perduranti rapporti dei D. con la corte e gli ambienti nobiliari, o il desiderio di ravvivarli. La stampa per mano del Riessinger, ricondotta al 1472 dal Copinger e al 1476-77 da Fava e Bresciano, fu presto seguita da quella della traduzione in volgare, un po' compendiata, sempre per i tipi del Riessinger tra il 1475 e il 1478.
Già Matteo D'Afflitto (In Const., I, In quaestionibus, n. 3) osserva che il De duello si ispira al duecentesco De pugna di Roffredo da Benevento, e in effetti interi passi appaiono copiati (H. Kantorowicz, De pugna, in Rechtshist. Schriften, Karlsruhe 1970, p. 270). La traduzione in volgare fu curata dal D. stesso (L. Nicodemi, Addizioni a N. Toppi, Biblioteca napoletana, Napoli 16833 p. 197) ed edita nel 1475 (Copinger) o 1476-77 (Fava-Bresciano) o 1477-78 (Indice generale degli incunaboli: indici I.G.I.); nel '500 apparve ripetutamente anche una traduzione in castigliano. Se il De ludo meritò una terza edizione incunabola a Pavia, per Cristoforo Cane, nel 1495, l'opera latina e volgare sul duello ebbe numerosissime stampe soprattutto nella prima metà dei Cinquecento; dell'originale latino resta oggi un ms. a Bergamo (Biblioteca civica, γ VI. 32). Sia il De ludo, sia il De re militari latino vennero compresi nelle grandi raccolte di Tractatus (Lugduni 1549, I, ff. 164r-168r e rispettivamente VI, ff. 112v-156r; Venetiis 1548-1550, IX, ff. 72v-76r e V, ff. 332r-376v; Venetiis 1584, VII, ff. 151r-155r e XVI, ff. 386r-428v).
Quanto al De syndicatu, l'incunabolo napoletano del 1485 è così diverso dal precedente del '73 da porsi come la vera editio princeps del testo tradizionale. Ebbe una singolare accoglienza in Lombardia dove Giovanni Agostino Porzio ne curò una stampa a Pavia, per l'arte di Cristoforo Cane, nel 1493 e di nuovo nel 1495; a Milano riapparve presso Ulrico Scinzenzeler, a spese di Giovanni da Legnano, intorno al 1500 (I.G.I., 8241). Nel '93 il Porzio adattò l'opera alla prassi lombarda interpolando una decina di passi che tornano in tutte le numerosissime stampe cinque e seicentesche, e hanno accreditato l'ipotesi di un soggiorno del D. a Pavia e a Milano. A partire dall'edizione veneziana di Filippo Pincio del gennaio 1505 il testo si avvale spesso delle apostillae di Benedetto Vadi e della sua tabula, che da quell'anno tende a sostituire la precedente del Porzio. Va osservato che la stampa curata da quest'ultimo nel '93 offusca il carattere di alphabetum messo invece in risalto nell'originale napoletano del 1485, perché omette di porre tipograficamente in evidenza i lemmi dei singoli articoli. Ne derivò che, mentre a Napoli si continuò in genere a sottolineare la forma dizionaristica dell'opera ricorrendo a citazioni delle carte solo per la prima parte introduttiva, ma altrimenti richiamando le voci sotto le quali è ordinato il grosso della trattazione, taluni studiosi lombardi e francesi non si accorsero dell'assetto alfabetico e accusarono lo scritto di disordine ("confusaneus tractatus": C. Molinacus, Comm. in Cons. Parisienses, I de flefs, gl. VI, in v. Serment de feauté, n. 17, negli Opera, Parisiis 1681, I, p. 135a e gl. VI in v. Rendre, n. 17 in fi., p. 195b; "ordine caret": Ae. Bossius. in tit. De officialibus corruptis pecunia, ed. Venetiis 1588, f. 228rb; la stessa espressione usa il Panziroli). L'opera venne inserita tra i Tractatus veneziani del 1548-50 (XIV., ff. 72r-173r) e del 1584 (VII, ff. 227r-332r), nonché nella raccolta veneziana di opere sul sindacato dovuta a Gabriele Sarayna, apparsa nel 1559 e ripetutamente in seguito.
Nel 1478 il D. curò la revisione per la stampa, voluta e finanziata da G. A. Camos per i tipi di Mattia Moravo, del Tractatus clausularum di Vitale de Cabanis (o Cambanis), assicurandogli il duraturo successo ch'ebbe nella prassi. Probabilmente risalgono alla fine della vita altri scritti del D. editi postumi. Il Chioccarelli dubitò, ma senza motivazioni, della paternità del De reassumptione instrumentorum. Di gran lunga più importante, la serie di lavori che fece annoverare il D. tra i buoni feudisti del Rinascimento dovette esser compiuta dopo il 1480, dato che l'ignora il D'Afflitto che finì quell'anno il proprio commento Super feudis. Vide la luce a Napoli nel 1544: al nucleo principale costituito dal De reintegratione feudorum si collega il trattatello De finibus et modo decidendi quaestiones confinium territoriorum; si aggiungono poi un formulario o Praxis reintegrationis e un De verborum significatione in materia reintegrationis feudorum funzionante, al contempo, come prospetto di definizioni e come una sorta di tabula dell'opera maggiore. L'ultimo pezzo della raccolta è di natura diversa: il Breve compendium degli scritti di Andrea d'Isernia è la prima risposta alla domanda avanzata da tribunali e scuola d'un più agevole accesso al monumento dottrinale degli albori del Trecento, che vedeva oltretutto rinverdita la propria utilità dalla feudalizzazione aragonese del Regno. Si ha infine notizia di talune opere del D. ora perdute: oltre alle recollectae su qualche titolo del Digestum vetus, sono ricordate allegationes in materia finanziaria.
Del De reassumptione instrumentorum, l'edizione veneziana del 1572, riprodotta nei Tractatus del 1584 (IV, ff. 36r-47r), non è affatto diversa, come credette il Giustiniani, da quella aggiunta al De praesentatiorte instrumentorum di Marino Freccia nella silloge apparsa a Venezia nel 1589 e nel 1590. Le allegationes oggi smarrite in tema di collectae furon viste nella prima metà del '500 da Antonio Capece probabilmente nei fogli di guardia d'un manoscritto dei Tres Libri di Luca da Penne (A. Capycius, Investitura feudalis, tit. Feudorum clausulae, in v. collectis-immunitas, ed. Neapoli 1569, p. 119b). Se il D. deve parte della fortuna che gli arrise alla stampa precoce di taluni libri, l'opera feudistica ebbe una lusinghiera circolazione manoscritta attestata dall'uso che ne fecero, anteriormente all'ed. princeps, Giacomo Ajello (Tract. de jure adohae, fi., n. 90), Sigismondo Loffredo (Cotis. 1, n. 50; 17, n. 54; 25, n. 11), Antonio Capece (Invest. feud., Feudorum clausulae, in v. Vassallorumque, ed. 1569, p. 104a e tit. Feudorum genera, in v. Tenasiae, p. 208b). Persino dopo la stampa dell'opera Marino Freccia continuerà a servirsi d'un esemplare "a penna" (De subfeudis baronum, ed. Venetiis 1579, pp. 167, nn. 77 e 78; 207, n. 5; 215 n. 3; 219, n. 8; 363, n. 2). Sembra però conservato a tutt'oggi un unico ms. (Napoli, Biblioteca nazionale, XI. C. 94).
La data della morte del D. è concordemente fissata dai biografi, seppur senza alcuna indicazione di fonti, nel 1493; Se ne desume una data di nascita oscillante a seconda che si voglia prendere alla lettera il Capaccio, che lo dice morto a ottant'anni, o piuttosto seguire il Chioccarelli che lo vuol scomparso "octagenario maior"; v'è poco da fidarsi del De Fortis che stabilisce in 82 anni l'età raggiunta al momento dei trapasso.
Solo il De syndicatu ebbe larga diffusione anche fuori dal Regno; il De re militari o De duello meritò allegazioni tutto compreso sporadiche da parte dei giuristi, e ancor più rade il De ludo; degli scritti feudistici l'utilizzazione fu abbastanza intensa, ma locale. Per tutto il Cinquecento il D. conserverà, comunque, a Napoli una fama eccellente, e Loffredo lo inserirà nella triade dei massimi esponenti del mondo giuridico meridionale quattrocentesco. La sua cultura si presenta in effetti piuttosto vasta: egli palesa non soltanto il dominio della dottrina centrosettentrionale usualmente sfruttata a Napoli, ma altresì la consultazione diretta di opere ai suoi tempi inconsuete. Le citazioni, poi, di teologi, filosofi, poeti e scrittori antichi può anche giustificar la tradizione che, dal Chioccarelli in poi, ha gratificato il D. di interessi estesi alle storie, alle humanitates, a rami diversi del pensiero sacro e del profano.
Oltre che dall'uso scolastico documentato in additiones quattrocentesche a libri di testo (Napoli, Biblioteca nazionale, mss. III.A.11, E 316rv; I.H.11, ff. 63v, 79v, 112v; III.A.14, f. 224v), il successo del De syndicatu può esser testimoniato dagli excerpta che se ne facevano (Ibid., ms. VII.E.25, ff. 219r-220v), dai richiami scivolati nel testo delle edizioni dei Riti della Vicaria curate da Francesco del Tuppo intorno al 1473-74 poi nel '79, e dalle aggiunte che appose, per es., Luca Tripani nel Seicento (Giustiniani).
Quanto alla cultura dell'autore, colpisce che egli dichiarasse di aver visto "originaliter" scritti di jacques de Revigny o di Riccardo Malombra, (De synd., in v. Appellatio I, Si iudex qui tulit sententiam, n. 16; in v. Instantia III, Dicit constitutio principis, in pr.); i suoi ricorsi, poi, ad Aristotele o Platone, ai Quintiliano, Alberto Magno o Enrico di Jandun; le citazioni dei Terenzio, Properzio, Ovidio o Lucano; o ancora quelle dei Plutarco, Sallustio, Livio, Plinio, Frontino, Vegezio, Egesippo, oltre alle più consuete dei Cicerone o Seneca o Valerio Massimo o Boezio, spesseggiano naturalmente nel De re militari - aperto com'è al mondo del diritto, della morale e dei "costumi belli" (Persico) - ma fanno altresì qualche comparsa nei lavori giuridici più tecnici. Tra i buoni giudizi sul D. generalmente espressi dalla scienza successiva, non sorprendono quelli di Matteo D'Afffitto quasi contemporaneo e dichiaratamente amico (Super I. Lib. feud., de feudo dato in vicem, Si quis obligauit, n. 108, ed. Venetiis 1545, f 130vb; Super III. Lib. feud., de pace tenenda, Siquis hominem, n. 47, f. 53vb), colpisce di più che il Gizzarelli (Decis. 36, n. 8) lo dica "famosus" nel tardo Cinquecento e che un po' prima il Loffredo, pur reputandolo essenzialmente un "magnus practicus" (Cons. 25 in fi.), lo collochi accanto a Giovanni Antonio Carafa e ad Antonio D'Alessandro (Paraphrases feudales, in cap. i. de capit. qui cur. vend., quaesitum est, in fi., Venetiis 1572, f. 52va) a rappresentare i vertici della scienza napoletana del secolo XV.
Bibl.: I due ceppi principali da cui si dipartono le tradizioni biogr. son posti nel 1607 da G. C. Capaccio, Historiae Neapolitanae libri duo, II, c. 10, nella raccolta del Gravier, Neapoli 1771, pp. 115 s., e una quarantina d'anni dopo da B. Chioccarelli, De illustribus scriptoribus (Napoli, Biblioteca nazionale, ms. XIV.A.28, cc. 115v-117v); quest'ultimo venne letteralmente copiato da N. Toppi, De origine omnium tribunalium... civitati sNeapolis, II, Ncapoli 1659, pp. 210-216, che costituì il tramite per la diffusione successiva. Qualche notizia tratta da fonti nuove venne aggiunta solo assai più tardi da G. Martucci, Esame generale de' debiti istrumentari della città di Castellammare di Stabia, Napoli 1786, pp. LXXII LXXX. Combinano, riassumono o elaborano va riamente i dati B. Aldimari, Memorie historichedi diverse famiglie nobili.... Napoli 1691, pp. 204 ss.; P. Giannone, Istoria civile, Milano 1832, VIII, pp. 395-400; G. B. Tafuri, Istoria degliscrittori nati nel Regno di Napoli, II, 2, Napoli 1744, pp. 336-340; G. Origlia, Istoria dello Studiodi Napoli, I, Napoli 1753, pp. 244 s.; F. De Fortis, Governo politico, Napoli 1755 (e lo stesso anno a Milano nella Raccolta delle vite e famigliedegli uomini illustri del Regno di Napoli per ilGoverno politico compilato da L. A. Muratore, rist. Bologna 1972), pp. 51 s.; P. Napoli Signorelli, Vicende della coltura nelle Due Sicilie…, III, Napoli 1784, pp. 212-215; L. Giustiniani, Mem. istor. degli scrittori legali del Regno di Napoli, III, Napoli 1788, pp. 76-83; G. Manna, Della giurisprudenza e del Foro napoletano..., Napoli 1839, p. 99; C. Minieri Riccio, Mem. storiche degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Napoli 1844, p. 284. Con particolare riguardo al De re militari o De duello, T. Persico, Gli scrittori politici napol. dal '400 al '700, Napoli 1910, pp. 29-43; F. Elias de Tejada, Napoles hispanico, I, Madrid 1958, pp. 356-370. Ulteriori no tizie sulla famiglia sono in M. Camera, Memorie storico-diplomatiche dell'antica città e ducato di Amalfi, II, Salerno 1881, pp. 649 s.; sui supposti collegamenti con le casate set tentrionali, e con qualche fantasia, C. G. Libone, Geneal. et origine della nobiliss. famigliadal Pozzo di Verona, Verona s. d. [ma ca. 1661], pp. 15 s.; G. Masserano, Biella ed i Dal Pozzo, Biella 1867, p. 13 e soprattutto B. Candida Gon zaga, Mem. delle famiglie nobili delle Provinciemeridionali d'Italia, VI,Napoli 1875, pp. 145 s. Occorre infine ricordare che già nel Cinquecento il D. si era affacciato nelle raccolte di biografie di T. Diplovatazio, Liber de claris iuris consultis, a cura di F. Schulz - H. Kantorowicz - G. Rabotti, in Studia Gratiana, X (1968), p. 404, e di G. Panziroli, De claris legum interpretibus, Lipsiac 1721, p. 205.