LODRONE (Lodron), Paride (Paride il Grande, Parisio)
Quarto di questo nome, figlio di Pietro, nacque a Castel Lodrone di Storo, nel Trentino, il 13 febbr. 1380.
Il nome della famiglia deriva dalla omonima località situata al di là del Caffaro, fulcro di un dominio più vasto che si estendeva tra le montagne trentine e bresciane. Nella seconda metà del XIV secolo la casata si era divisa in due rami: quello di Castel Lodrone guidato da Pietro e quello di Castel Romano con a capo i fratelli Pietrozoto, Albrigino, Giacomo Tomeo e Paride. Pietro sostenne lealmente il vescovo di Trento, e il suo vicariato fu ben ripagato: l'8 giugno 1391 il vescovo Giorgio di Liechtenstein lo investì del castello di Lodrone e il 24 nov. 1399 di tutti i feudi di Lodrone compresi Castel Romano e le sue pertinenze (fino ad allora appartenuti ai signori di Castel Romano). Con il prevalere di Pietro all'interno della casata si pose così fine, almeno provvisoriamente, a una lunga e sanguinosa serie di lotte intestine.
Il L. iniziò la carriera militare al servizio del principe-vescovo di Trento al fianco del padre e subentrò a questo nel 1407, quando si unì al duca Federico IV d'Austria, da poco entrato in possesso dei propri titoli comitali sul Tirolo.
Seguendo le orme paterne, il L. fu sempre in lotta con i conti da Campo e i conti d'Arco per il controllo e la supremazia delle Giudicarie. A tal fine non esitò a intraprendere una politica spregiudicata e a macchiarsi di numerosi delitti, come ricordato in un reclamo esposto ufficialmente nel 1420 da Iacopo di Madice al duca Federico. Stando l'esposto nel 1408, il L. aveva ottenuto con l'inganno da un suo parente le chiavi del castello di Stenico, con il sostegno dello stesso duca che il 1° sett. 1408 gli affidò il capitanato delle Giudicarie e la custodia dei castelli di Stenico e di Mani e la rocca di Breguzzo per dieci anni. In cambio il L. si impegnava a servire il duca con mille cavalli in assetto, per lo stipendio di 1000 ducati annui.
Il L. servì lealmente il duca nella custodia dei castelli fino al momento in cui Federico venne scomunicato dalla Chiesa e dichiarato, nel 1417, decaduto dai suoi feudi dall'imperatore Sigismondo; il L. decise allora di schierarsi con il fratello, il duca Ernesto. L'8 maggio 1418 Federico fu prosciolto dalla scomunica e dal bando regio, con la condizione che restituisse, fra l'altro, i castelli delle Giudicarie alla Chiesa di Trento e revocasse la nomina di capitano delle stesse al Lodrone. Il duca però - fermamente intenzionato a indebolire sia la potenza del L. sia l'alleanza che Giorgio di Liechtenstein aveva stretto con i conti d'Arco -, invece di destituire il L. dall'incarico e imporgli la consegna dei castelli alla Chiesa trentina, come gli era stato ordinato, preferì dare lo stesso incarico ai conti d'Arco, i fratelli Vinciguerra e Antonio, tradizionali nemici del Lodrone.
Deciso a ribellarsi solo al duca, il L. mantenne saldamente Castel Mani e la rocca di Preduzzo, ma restituì comunque ad Alessandro di Masovia, vescovo di Trento dal 1423, il castello di Stenico e il capitanato delle Giudicarie. Il presule trentino però, dopo aver in un primo momento investito di nuovo il L. di tutti i suoi feudi, si avvicinò ai Visconti, impegnati in quel torno di anni in una fase di espansione in Italia settentrionale, e non esitò né a tenersi tutti castelli per sé, né tanto meno a combattere aspramente il Lodrone. Questi non ebbe altra scelta che ridarsi al duca e a Venezia.
Fu soprattutto con il servizio reso alla Serenissima, impegnata nella guerra contro Milano, che il L. riuscì a riconquistare Castel Romano e a procurarsi nuovi territori nel Bresciano. Nel luglio 1438 il L. si trovava impegnato, con altri uomini d'arme, a coadiuvare Bartolomeo Colleoni e Antonio Martinengo da Barco, inviati dai rettori di Brescia nella Valcamonica per sedare una sollevazione e recuperare la regione liberandola dalle masnade di Antonio Beccaria e dei Federici, piccoli feudatari locali. Nel mese di settembre, mentre Brescia era cinta d'assedio dall'esercito milanese capitanato da Niccolò Piccinino, il Gattamelata (Erasmo da Narni), condottiero al soldo di Venezia, si vide costretto a ripiegare nel Veronese per permettere un rafforzamento delle truppe; ma un primo tentativo di attraversare il Mincio fallì per la vigilanza del marchese Gianfrancesco Gonzaga. Costretto a ritirarsi scelse la via dei monti e, attraversata la Val Sabbia, raggiunse le terre del L. grazie a un accordo raggiunto dietro lauto compenso; si spinse infine con difficoltà verso i territori controllati dai conti d'Arco e dal vescovo di Trento, che invece opposero resistenza. Giunto indenne sul fiume Sarca anche per il contributo dato dal L., il Gattamelata evitò una rovinosa sconfitta per opera dei Viscontei grazie al sostegno di Piloso dell'Aquila, e riuscì infine a raggiungere Verona.
Il 12 genn. 1439 il Gattamelata si organizzò per attraversare nuovamente la Val Sabbia, contando sull'appoggio del L. e dei suoi uomini e, per la via di Arco, portare soccorsi e vettovaglie a Brescia. Il 15 successivo, però, il Piccinino e il Gonzaga fecero irruzione in Val Sabbia inviando a Riva del Garda il condottiero Taliano Furlano, il quale sbaragliò il Gattamelata in Val di Ledro. Il L., che era intenzionato a curare gli interessi di Venezia non meno che a fermare il Furlano, chiese aiuto al capitano di Brescia Francesco Barbaro. Questi gli inviò in soccorso il provveditore veneto Gherardo Dandolo con un cospicuo rinforzo di uomini. Il 20 gennaio il L. riuscì così a fermare le truppe del Piccinino e del Gonzaga e subito dopo riportò una vittoria decisiva a Castel Romano in Val di Sarca contro l'esercito di Taliano Furlano (22 gennaio). Quest'ultimo, costretto dal L. e dai Bresciani a darsi a una fuga precipitosa, lasciò dietro sé più di 2000 prigionieri, tra cui il conte Galeazzo d'Arco, e numerosi morti, tra i quali anche il capitano del vescovo di Trento e uno dei suoi figli. La vendetta del Piccinino fu però immediata: le terre del L. vennero saccheggiate e insanguinate dalle truppe viscontee che a febbraio inoltrato sconfissero e occuparono Lodrone giungendo fin sotto Castel Romano.
Dichiarato dalla Repubblica suo alleato, il L. morì due mesi dopo, come riferisce il cronista Sanuto, sfinito "da strachezza et da febre" il 10 apr. 1439. La notizia arrivò il giorno dopo a Venezia e Francesco Barbaro, già designato dal L. quale tutore dei suoi figli, fu incaricato di portare le condoglianze alla famiglia da parte della Repubblica.
Il L. aveva sposato Luisa, figlia del nobile veronese Antonio Nogarola, da cui ebbe due figli: Giorgio e Pietro. Guerriero indomito e abile uomo politico, contribuì in modo sostanziale ai successi conseguiti dalla Repubblica di Venezia contro Milano. Grazie alla sua fedeltà alla Serenissima poté assicurare potenza, prestigio e ricchezza alla propria famiglia. L'11 apr. 1441, infatti, per premiare i servigi resi a suo tempo dal L. e dai suoi figli, il doge Francesco Foscari concesse in feudo a questi il castello di Cimbergo nella Valcamonica, Bagolino nella Val Sabbia e altri beni confiscati ad alcuni ribelli. Nel 1451 il principe-vescovo di Trento, Georg Hack, confermò a Giorgio e Pietro tutti gli antichi feudi e il capitanato delle Giudicarie oltre il Durone. Il 6 apr. 1452, infine, l'imperatore Federico III concesse loro il titolo e la dignità di conti dell'Impero. Pietro e Giorgio furono i capostipiti rispettivamente delle due nuove linee in cui si divise per la seconda volta la casata: il ramo di Castel Romano e quello di Castelnuovo di Val Lagarina.
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