PARIGI
– Famiglia di architetti e scenografi originaria di Prato e attiva a Firenze tra il XVI secolo e la metà del successivo. Giunti in data imprecisata nella capitale del Ducato (poi Granducato) come modesti muratori, i Parigi nel corso degli anni acquisirono un più alto grado sociale divenendo architetti e scenografi al servizio della corte medicea.
Capostipite fu Santi di Baccio che ebbe la ventura di sposare Laura Ammannati, sorella del famoso Bartolomeo (Lamberini, 1980, p. 138). Dalla loro unione nacque intorno al 1535 a Firenze, nel quartiere di Santo Spirito, Alfonso, detto il Vecchio per distinguerlo dall’omonimo nipote.
Forte di questa prestigiosa parentela da parte materna, e non privo di personali capacità, Alfonso poté raggiungere una posizione di una certa importanza tra gli architetti fiorentini della seconda metà del Cinquecento.
«Notizie biografiche, frammentarie ed incomplete, ma molto significative per la storia del progresso sociale della famiglia Parigi – da oscuri capimastri ad architetti di corte – sono contenute nell’ormai famoso Taccuino. È questo una sorta di zibaldone di notizie varie, private e pubbliche, inframmezzate a schizzi […]. Vi si riconoscono le autografie di Alfonso, del figlio Giulio e del nipote Alfonso, per un arco di tempo di circa un secolo, […] ma la parte più ampia e singolare spetta ad Alfonso il Vecchio» (Lamberini, 1980, p. 139). Nel Taccuino Alfonso il Vecchio appare come «un oculato imprenditore, forse autodidatta, che risolve ogni conoscenza in un supporto pragmatico al suo mestiere» (Taccuino di Alfonso..., a cura di M. Fossi, 1975, p. XII).
Intorno al 1560-65 possiamo ragionevolmente collocare la data del matrimonio di Alfonso con Alessandra di Betto Fiammeri. Dall’unione nacquero nove figli, di cui il più famoso fu Giulio, che sarebbe divenuto architetto e scenografo ufficiale della corte medicea (v. la voce in questo Dizionario). In questi anni Alfonso, già collaboratore dello zio Bartolomeo Ammannati alla ricostruzione del ponte di S. Trinita (1567-69), si era ormai affermato come architetto e ingegnere non privo di una certa personalità tuttavia non sufficiente a mitigare il futuro severo giudizio di Francesco Milizia che lo avrebbe definito «Architetto di mera pratica» (Milizia, 1781, p. 92).
Alfonso lavorò accanto a Giorgio Vasari alla fabbrica degli Uffizi e, alla morte di questi, ne seguì il completamento collaborando con Bernardo Buontalenti; fece interventi anche ad Arezzo e alla villa medicea di Cerreto Guidi, per la quale realizzò – su disegno di Buontalenti – due grandiose rampe d’accesso, i ‘ponti Medicei’.
Non gli mancarono incarichi personali, a volte anche impegnativi, a Firenze e in altri luoghi della Toscana, in particolare a Prato, città d’origine della famiglia dove sia Alfonso, sia il figlio Giulio, sia l’omonimo nipote tornarono più volte.
I lavori di Prato costituiscono «una specie di modello esemplificativo, quasi una chiave di lettura della loro produzione […]. Dalle architetture tardocinquecentesche di Alfonso il Vecchio, austere e impregnate di controriformismo, alle calligrafiche esercitazioni postmanieristiche di Giulio, in bilico fra la tridimensionalità architettonica e il gusto puramente effimero e decorativo, al barocco di Alfonso il Giovane» (Lamberini, 1980, p. 142).
Nel 1575 Alfonso costruì le cappelle laterali nella chiesa di S. Maria delle Carceri a Prato. Gli altari gemelli, in pietra serena, sono espressione, nella loro semplicità, di una severità che si può definire controriformista (ibid., p. 144).
Dal 1575 al 1581 Alfonso eseguì lavori per la villa medicea di Poggio a Caiano, a lui affidati da Francesco I all’indomani della morte di Cosimo I (1574).
Nell’autunno del 1584 disegnò il portico della chiesa suburbana di S. Maria del Soccorso.
«Col disegno del portico della Madonna del Soccorso […] Alfonso Parigi dettò il prototipo per le chiese suburbane e rurali, consacrate soprattutto al culto mariano, modello che ebbe larghissima diffusione in Toscana nel XVII secolo» (ibid., p. 149).
Alfonso il Vecchio morì a Firenze nel 1590.
Nipote di Alfonso il Vecchio fu Alfonso il Giovane, nato a Firenze il 13 luglio 1606 da Giulio figlio di Alfonso il Vecchio e da Caterina Bartolotti. Primogenito, fu l’unico a continuare la via paterna nel campo dell’architettura e della scenografia.
Dei suoi fratelli, infatti, a Paolo è da ricondurre solo l’esecuzione – su disegno del padre – della cappella di famiglia in S. Felice in Piazza e l’invenzione degli apparati funebri relativi alle esequie (1642) di Maria Regina di Francia; Andrea, buon paesaggista, nato il 30 dicembre 1618, fu soldato e architetto militare. Morì a Firenze il 22 gennaio 1679.
Gli interessi di Alfonso il Giovane erano rivolti anche all’ingegneria idraulica e all’architettura militare.
La data più antica riguardante Alfonso il Giovane si può dedurre dal resoconto della posa della prima pietra per l’ampliamento di palazzo Pitti nel 1620, mentre al 1624 risale la prima collaborazione documentata con il padre: le incisioni delle stampe relative alla Regina Sant’Orsola, una composizione di carattere sacro di cui Giulio Parigi curò l’ideazione delle prospettive e delle macchine, e che andò in scena nel teatro mediceo la sera del 6 ottobre 1624 per volere della granduchessa Maria Maddalena in occasione della visita a Firenze del fratello, l’arciduca Carlo d’Austria.
In tale spettacolo si mescolavano – senza alcun tentativo di fusione – battaglie e storie d’amore, intrighi e divinità pagane, nella nuova linea culturale perseguita dalle reggenti (Cristina di Lorena e Maria Maddalena d’Austria) di un repertorio teatrale di tono più fervidamente religioso. Le frequenti scene di battaglie, pur avendo precedenti in quelle del Solimano (1619), precorrevano il topos canonico di molti spettacoli della fine del secolo.
Delle incisioni di Alfonso, improntate a un certo callottismo, ma ancora immature nella resa tecnica, vanno segnalate le quattro centrali – Battaglia fra Romani e Unni; Lucifero coi demoni fugato da San Michele; Ireo à piedi del Re degli Unni e Il Re degli Unni fulminato – perché indicano una situazione nuova nell’articolazione della scena attraverso il superamento del tradizionale fuoco centrale di matrice cinquecentesca.
L’impostazione asimmetrica degli edifici consente di fissare a questa data precoce una soluzione adottata poi nel 1661 da Ferdinando Tacca nella sua scena della ‘Palude Stigia’ nell’Ercole in Tebe (composizione di Jacopo Melani) quale si nota nell’incisione di Valerio Spada.
Nel 1625, in occasione della visita del principe Ladislao Sigismondo di Polonia, in una sala della villa di Poggio Imperiale, fu rappresentata La Liberazione di Ruggiero dall’isola d’Alcina, un argomento tratto dal sesto canto dell’Orlando Furioso. Il libretto di Ferdinando Saracinelli fu illustrato da cinque incisioni di Alfonso Parigi, le prime quattro relative ai vari mutamenti di scena, l’ultima al momento conclusivo, quando, «finito il balletto e la festa, le loro altezze se ne andonno su di sopra al finestrone del ballatoio […] et stettono a vedere fare il balletto a cavallo in questa maniera» (Il luogo teatrale a Firenze, 1975, p. 126).
È il momento fissato nell’incisione finale con il balletto di ventiquattro cavalieri, divisi in quattro squadre: in questa stampa Alfonso, nella linea di Jacques Callot, focalizza l’attenzione sul balletto, senza però tralasciare il contesto in cui esso è ambientato, attribuendo a quest’ultimo un valore altrettanto incisivo. In questo caso, infatti, il ballo a cavallo diventa solo un pretesto, e il titolo dell’incisione, Imperiale, Villa della Serenissima Arciduchessa di Toscana, ne riflette significativamente il ruolo di pretesto per la rappresentazione della villa che, ampliata da Giulio Parigi negli anni 1622-24 – adesso completamente trasformata da successivi interventi – presenta una serena impaginatura della facciata.
Dall’ampia ricerca archivistica di Sabine Weiss (2004) emerge la presenza di Alfonso Parigi a Innsbruck nel 1626 al seguito della delegazione fiorentina di Lorenzo de’ Medici per la celebrazione ufficiale del matrimonio di Claudia de’ Medici con l’arciduca Leopoldo V d’Austria, già avvenuto per procura a Firenze. Per l’occasione, tre archi trionfali, di cui non rimane documentazione iconografica ma solo una descrizione letteraria, trasformarono il volto della la città. La progettazione degli archi va attribuita ad Alfonso Parigi, mentre la loro messa a punto va ricondotta ad Adam Lucchese.
Gli inizi del lungo governo di Ferdinando II (1628-70), dopo sette anni di reggenza, furono resi problematici da una serie di eventi calamitosi che determinarono una profonda crisi economica; a ciò si aggiunsero i riflessi negativi delle guerre europee e, soprattutto, la peste, durata alcuni anni, con un bilancio di circa novemila morti. In questi anni gli episodi di vitalità culturale si concentrarono, in casa Medici, nella figura del cardinale Leopoldo, uno dei fratelli del granduca, che, sulla scorta dell’educazione ricevuta da Galilei, fondò la famosa Accademia del Cimento.
Per quanto concerne gli eventi teatrali ricordiamo la rappresentazione della Flora, una favola in musica andata in scena nel 1628 in occasione delle nozze fra Odoardo Farnese e Margherita de’ Medici, imperniata sugli amori di Zefiro, vento di primavera, e Clori, ninfa dei campi toscani, dedicata ai due giovanissimi sposi. L’orientamento più diffuso porta a ricondurre ad Alfonso le invenzioni per La Flora, ma non è facile determinare l’effettiva portata del suo intervento; pertanto, gli elementi sicuri sono identificabili in questi: la scritta sulle stampe «Alfonsus Parigius deli. Et fecit 1628», che sembra precisare il compito di Alfonso nei termini dell’ideazione del disegno e dell’esecuzione dell’incisione, e un dato cronologico, il 1635, anno della morte di Giulio Parigi. Elementi, quindi, che non escludono la possibilità di un discorso congiunto dei due Parigi come scenografi.
Le stampe, comunque, denunciano un accresciuto grado di maturità di Alfonso, soprattutto nella resa della vegetazione, con i due grandi alberi ai lati della composizione che, più morbida e differenziata delle soluzioni precedenti, secondo un modulo che sarà abbondantemente ripreso poi da Ercole Bazzicaluva, ci ragguaglia sulla concezione del paesaggio dell’artista.
Sono, questi, gli anni di quella collaborazione fra Alfonso Parigi e Stefano della Bella che avrebbe trovato il suo esito più alto nelle incisioni delle Nozze degli Dei, lo spettacolo allestito nel 1637 da Alfonso nell’anfiteatro di Boboli in occasione del matrimonio fra Ferdinando II e Vittoria della Rovere. La documentazione iconografica dell’evento teatrale, il più importante del periodo, fu affidata alle otto incisioni di Stefano della Bella: Frontespizio, Prima Scena Rappresentante Fiorenza, Seconda Scena Selva di Diana, Terza Scena Giardino di Venere, Quarta Scena di Mare, Scena Grotta di Vulcano, Scena Quinta d’Inferno, Sesta Scena di Tutto Cielo.
Anche Stefano aveva frequentato l’Accademia di Giulio Parigi, ma se la sua formazione si era indubbiamente avvalsa dei contatti con Giulio e Remigio Cantagallina, le sue doti di fantasia e sensibilità artistica avevano reso improponibile un suo lungo soggiorno nella bottega dei Parigi, per i limiti inevitabilmente collegati al lavoro di riproduzione di allestimenti creati dal maestro.
L’intento esclusivo di Stefano e cioè la ricerca di una resa morbida nell’incisione, sembra già realizzato nell’effetto quasi acquarellato delle splendide stampe delle Nozze degli Dei, che superano d’un balzo tutte le incisioni precedenti di spettacoli teatrali e apparati e sono la conferma del processo d’avvicinamento a modi ed effetti pittorici iniziato da Stefano fin da giovanissimo.
Lo svolgimento della scenografia fu caratterizzato dal susseguirsi di varie azioni. L’unità di concezione dello spettacolo trovava la sua espressione più significativa nell’enorme balletto finale, dove in «una scena tutto cielo […], di concezione assai originale, essendone la larghezza divisa in tre zone da cinque grandi colonne di nuvole, tutto il grande spazio scenico fu impegnato dalle varie evoluzioni e dalle diverse figurazioni dei ballerini, che operavano su diversi piani » (Molinari, 1968, p. 178).
Nella stampa, l’azione è visibile attraverso i riquadri formati dai lembi annodati del sipario, mentre le nuvole avvolgono i pilastri di cui si scorgono le basi sul palcoscenico. Fra le raffinate invenzioni, la disposizione, in alto, del gruppo dei cavalieri, e quella dei danzatori – nei riquadri laterali in basso – che compongono l’abbreviazione del nome degli sposi, ‘F O’ per Ferdinando e ‘V A’ per Vittoria.
Elementi di novità non mancano anche nelle scene precedenti, di cui vanno ricordate almeno la Scena Grotta di Vulcano e la Scena Quinta d’Inferno.
Nella prima, un’elaborata struttura assorbe il tema naturalistico della caverna, sostituendosi agli effetti di notturnismo che ancora caratterizzavano, nella scenografia di analogo tema creata da Giulio Parigi nel 1608, gli interni della grotta, che in Alfonso è appena suggerita, in fondo, dai tre personaggi che lavorano allo scudo con gli stemmi della casa d’Urbino e della famiglia Medici. Nell’incisione, la battaglia che si svolge al centro ha chiare cadenze di danza, mentre i personaggi disposti con una certa simmetria ai lati della stampa denunciano un procedimento di sicura matrice callottiana. Nella Scena Quinta d’Inferno, la stilizzazione di questo motivo tipico della scenografia fiorentina che, a distanza di circa cinquant’anni, mostra il profondo divario ormai esistente con le cupe, naturalistiche escogitazioni buontalentiane, non esclude risultati particolarmente inquietanti, per il contrasto fra le raffinate edicole e la splendida esedra dello sfondo – la reggia di Plutone – e la macabra danza dei centauri e dei numi infernali.
Ancora nel 1637 Stefano della Bella riprodusse in incisione gli apparati funebri realizzati da Alfonso per l’imperatore Ferdinando II. Il 15 luglio dello stesso anno nell’anfiteatro di Boboli, fu allestita la Festa a cavallo di cui resta l’incisione di Stefano della Bella; però, mentre per il balletto ci si rivolse ad Agnolo Ricci, l’ideatore di tante coreografie per la corte granducale, l’ingegnere prescelto fu Felice Gamberai, forse un segno dell’inizio del declino della fortuna della famiglia Parigi, anche se Alfonso, nel 1638, risulta ancora l’ingegnere capo della famiglia Medici, almeno a quanto scrive nel Taccuino, dove ci informa di un incendio scoppiato a palazzo Pitti il 15 novembre. Alfonso racconta che il fuoco, durato otto ore, «abbruciò la soffitta e tetto nel salone sopra a forestieri […] io Alfonso Parigi ingegniere arrivai e fui quello che comandava a tutte le guardie di quello che si doveva fare» (Taccuino, cc. 69-70).
Due anni dopo Alfonso riuscì a rimettere in perpendicolo il secondo piano della facciata di palazzo Pitti con l’uso di catene e tiranti, confermando la sua abilità tecnica. Ciò nonostante, nel 1647, nel rifacimento della chiesa di S. Domenico a Prato – quasi completamente distrutta nel suo interno da un incendio – per il quale aveva proposto la ricostruzione della chiesa con copertura a volta su massicci pilastroni, legando le murature vecchie alle nuove con catene – gli fu preferito, su istanza di don Pietro de’ Medici, Baccio del Bianco, in quel tempo in auge presso la corte granducale (Lamberini, 1980, p. 153). Baccio, quasi coetaneo di Alfonso, con il quale aveva frequentato l’Accademia di Giulio Parigi e con il quale aveva collaborato in occasione delle Nozze degli Dei, ne «ebbe molta onorata provvisione, colla carica d’ingegnere del magistrato delle Parti» (Baldinucci, 1681-1728, 1846, pp. 34 s.). La chiesa risultò, alla fine, conforme al modello proposto da Alfonso che, con ogni probabilità, fornì all’amico Baccio molti suggerimenti tecnici. In seguito, nel 1653, Alfonso e Baccio si sarebbero anche trovati a lavorare insieme in occasione dei restauri del corridoio vasariano e del Ponte Vecchio (Lamberini, 1980, p. 154, n. 4).
Anche nella scelta di Baccio del Bianco si può leggere un sintomo del declino dei Parigi, iniziato forse con la morte di Giulio e continuato fra il 1639 e il 1641, quando, oberati dai debiti, furono costretti a rivendere i possessi dei Petrognani ai Medici, ai quali in seguito tornarono pure – secondo le clausole in esso contenute – i beni confermati a Giulio nel Privilegio del 1623.
Nel 1641, come apprendiamo da una relazione di Alfonso datata al 12 settembre, l’architetto aveva cercato di ottenere invano una commissione importante a proposito dell’anfiteatro di Boboli: «Ho […] pensato di cavar una piazza ricinta o teatro per far feste sotto li appartamenti di V[ostra] A[ltezza] S[erenissima] stante essere riuscito il teatro già fatto poco buono e men bello, che, se bene fu fatto da mio padre, non fu fatto con suo disegno né con suo gusto; e questo lo farei con architettura simile al cortile, e non di tritumi» (in Zorzi, 1977, p. 231, n. 202).
Al decennio 1641-51 risalgono alcuni progetti di Alfonso per i condotti della Fonte del Palco che dovevano portare l’acqua a Prato. Nonostante fossero stati approvati, i lavori proseguirono fra ritardi e difficoltà, per la poca cura con cui gli ordini di Alfonso venivano seguiti a Prato, a conferma del deterioramento dei suoi rapporti con gli abitanti della città d’origine.
Un episodio, quest’ultimo, che confermerebbe la sfortuna di Alfonso soprattutto nei lavori d’ingegneria idraulica (Lamberini, 1980); infatti dopo pochi anni avendo portato a termine un lavoro di arginatura nell’Arno, poco sopra Firenze, come ricorda Filippo Baldinucci, tanti dispiaceri ne incontrò «che caduto in profondissima malinconia, alla quale sopravvenne una febbre occulta che per più mesi attese a consumarlo, gli fu forza il dar fine al suo operare, ed ancora al suo vivere […]» (Baldinucci, 1681-1728, 1846, p. 56).
Degli estremi anni di attività sono il compimento della facciata e dell’interno della chiesa di S. Giovannino degli Scolopi (1655-56), lasciata incompiuta da Bartolomeo Ammannati, il quale aveva eseguito il disegno di una facciata «mossa e vibrata», con «una più caratterizzata differenziazione tra le proporzioni del primo ordine e del secondo», ai quali Alfonso Parigi sostituì «il raddoppiamento dell’ordine, in generale l’esaltazione in altezza della facciata» (Fossi, 1967, p. 131).
Gli ultimi allestimenti creati da Alfonso come scenografo, questa volta con la collaborazione di Ferdinando Tacca, furono quelli per il Combattimento e Balletto a cavallo rappresentato nel 1652 nell’anfiteatro di Boboli per la visita dell’arciduchessa Anna d’Austria, sorella di Ferdinando II, a Firenze con il marito Ferdinando Carlo e il principe Sigismondo.
Lo spettacolo, documentato da tre incisioni di Stefano della Bella, Il Carosello, Parte delle figure dei balletti, Carro di Nettuno che divide la battaglia, nasceva dall’insieme di un ‘combattimento’ e di un balletto, e aveva come protagonisti Proteo e la Fama, e per scopo quello di decantare le glorie e le imprese di casa d’Austria, con continui riferimenti alla lotta secolare che gli Asburgo stavano conducendo contro i Turchi. A Ferdinando Tacca si deve l’invenzione del meccanismo che rese possibile la trasformazione dell’enorme orca uscita dalla grotta in una grandissima nave, sulla cui poppa troneggiavano Proteo e la Fama.
Alfonso il Giovane morì a Firenze il 17 ottobre 1656.
Fonti e Bibl.: Firenze, Biblioteca nazionale centrale [BNCF], Codice Palatino 853; Fondo nazionale, ms. II, I, 447 (16): Misc. Palagi, Privilegi, genealogie, note storiche estratti da mss. ecc. relativi ad Alfonso di Santi, Giulio d’Alfonso, ed Alfonso di Giulio, architetti fiorentini del sec. XVI e seg.; Taccuino di Alfonso, Giulio, Alfonso il Giovane Parigi (seconda metà sec. XVI-metà sec. XVII), a cura di M. Fossi, Firenze 1975; F. Baldinucci, Notizie de’ Professori del disegno da Cimabue in qua (1681-1728), a cura di F. Ranalli, IV, Firenze 1846, pp. 34 s., 56, 123, 144 s.; F. Milizia, Memorie degli architetti antichi e moderni, II, Parma 1781, p. 92.
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