Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
In Europa le istituzioni rappresentative, dotate per la maggior parte di carattere recettivo e consultivo, garantiscono soprattutto all’aristocrazia la partecipazione all’attività governativa dei sovrani. Le prerogative delle assemblee sono messe in discussione dai monarchi, che sollecitano uno svecchiamento della struttura amministrativa dello Stato, e dalla borghesia, che rivendica una maggiore rappresentanza in nome del suo ruolo sociale ed economico.
L’esperienza parlamentare inglese deve la sua fisionomia settecentesca alle due rivoluzioni del Seicento e alla loro definizione costituzionale contenuta nel Bill of Rights del 1689, che Guglielmo III d’Orange dovette sottoscrivere prima di ricevere dal parlamento la corona.
Nei primi quindici anni del secolo alcuni atti parlamentari danno rigore alla normativa nata dall’urgenza rivoluzionaria. Nel 1701 l’Act of Settlement , imposto alla nuova regina Anna Stuart, obbliga il sovrano ad avere il consenso del parlamento per varare nuove tasse e nuove leggi, introdurre mutamenti nelle forme della religione anglicana, entrare in guerra in difesa di territori stranieri. Più in generale, sarà costante lo sforzo del parlamento per ottenere dal sovrano, in materia di relazioni estere, consultazioni con i ministri responsabili delle due Camere. Nel 1707 l’Union Act opera la fusione dei parlamenti inglese e scozzese, dando unità rappresentativa al Paese. Infine, in due riprese, nel 1694 e nel 1716, si risolve il problema del rinnovo sistematico della Camera dei Comuni, obbligando il re a indire le elezioni ogni tre anni (Triennal Act) e poi ogni sette (Septennial Act). Quest’ultimo provvedimento, voluto dai Whigs dopo la vittoria alle elezioni del 1715, sfrutta la perdita di attendibilità politica del partito avversario, causata dalla sollevazione giacobita.
Ma l’influenza del parlamento sulla vita politica del Paese si accresce soprattutto attraverso il radicarsi di consuetudini e prassi introdotte nel secolo precedente e alimentate continuamente nel Settecento. I due partiti, che si erano divisi i rappresentanti dei parlamenti rivoluzionari – fedeli alla monarchia costituzionale da loro voluta – mantengono e rafforzano ruolo, organizzazione e identità, imponendo al sovrano di governare con l’appoggio del partito che detiene la maggioranza dei parlamenti e introducendo nel Consiglio di gabinetto i suoi membri più influenti. La ventennale presenza nel Consiglio di Robert Walpole, capo del partito Whig, prefigura il definirsi della carica di primo ministro.
I tentativi compiuti dai sovrani per riaffermare la propria autorità, tra cui i più energici avvengono durante il regno di Giorgio III, dimostrano la solidità dell’istituzione e dei suoi poteri; altrettanto inefficaci risultano le richieste di riforma parlamentare avanzate negli anni Ottanta dal gruppo di parlamenti e uomini politici noto come Comitato di Westminster.
La composizione sociale delle due Camere rivela come, seppur in modo diverso, vi siano rappresentati gli interessi della proprietà, delle grandi tenute nobiliari nella Camera dei Lord, della piccola proprietà terriera (gentry) e di quella urbana nella Camera dei Comuni. L’appartenenza ai due partiti, Whig e Tory, ripropone la distinzione tra uomini nuovi per interessi e idee, che hanno visto formare fortuna e casato nel secolo precedente, e gruppi legati alla chiesa anglicana e fedeli alla dinastia Stuart.
Dopo il 1715 la distinzione si attenua; alcuni membri del partito Tory, fedeli agli Hannover, entrano nelle file dei Whigs e i Tories, privi di personalità di rilievo, concentrano le loro forze soprattutto nell’ambito dell’amministrazione locale.
La struttura del potere e la rudimentale organizzazione dei partiti porta a forme di clientelismo e di corruzione, certamente funzionali alla stabilità politica dell’epoca, ma biasimate dai contemporanei; tuttavia, sempre più nel corso del secolo, il sistema inglese, pubblicizzato dalla penna di scrittori quali Montesquieu e Voltaire, diviene un modello da imitare per l’efficacia con cui concilia una forte istituzione rappresentativa e un visibile sviluppo del Paese, risultato impossibile a trovarsi in esperienze politiche concomitanti ed estraneo all’immaginario politico dominante.
Insieme all’Inghilterra, nel XVIII secolo Svezia e Polonia costituiscono un esempio di Stati in cui il massimo organo di rappresentanza ha un potere concorrente o maggiore di quello del sovrano; tuttavia, a differenza della prima, le vicende di queste ultime alimentano la convinzione dei contemporanei sulla bontà della monarchia assoluta ed ereditaria per la stabilità politica.
Tra il 1720 e il 1772 la Dieta svedese domina la vita politica nazionale. Nel 1718, alla morte di Carlo XII, i quattro Stati scelgono quale successore la regina Ulrica Eleonora, che in cambio deve accondiscendere alle richieste della Dieta. I poteri della corona risultano fortemente limitati dalle prerogative che gli Stati si attribuiscono, imponendo la monarchia elettiva, la scelta del candidato e riuscendo infine a ottenere, dopo crescenti contrasti, l’abdicazione della regina in favore del marito Federico I d’Assia. La costituzione che la regina si è impegnata ad accettare al momento dell’incoronazione viene promulgata nel 1720 e rende vincolante il consenso degli Stati nell’emanazione delle leggi, nell’attività bellica, nella definizione del corso della moneta e obbliga il sovrano a convocare l’assemblea ogni tre anni.
La Dieta, inoltre, domina il Consiglio di Stato, preparando per il sovrano la lista dei candidati e stabilendo il principio del voto a maggioranza. Lo stretto legame tra il Consiglio e la Dieta produce un conflitto che, soprattutto negli anni Trenta, vede prevalere il primo; ma divenendo abituale riprodurre nel Consiglio il rapporto di forza esistente tra le componenti della Dieta si realizza un capovolgimento di influenza a favore di quest’ultima. La composizione della Dieta prevede quattro stati: il primo raggruppa i capi dell’aristocrazia e nel corso del secolo si avvia, grazie alle pressioni della piccola nobiltà e all’impoverimento della grande, verso una progressiva democratizzazione interna, a cui contribuisce anche l’introduzione del voto per testa (1720); gli altri stati, costantemente contrapposti al Consiglio, rappresentano la borghesia cittadina, il clero e i contadini. I partiti della Dieta, accomunati dal rispetto della costituzione e dall’adesione al suo spirito, divergono sulle principali questioni politiche. L’esperienza svedese, anche se importante sul piano istituzionale, non trova conforto nell’attività della Dieta che, sempre più screditata, soccombe al pacifico colpo di Stato di Gustavo III nel 1772.
I possedimenti britannici nell’America del Nord sono governati da assemblee rappresentative, elette a suffragio più o meno esteso nelle diverse colonie, con poteri legislativi e diritto di controllo della spesa pubblica, e da consigli presieduti da un governatore, nominati dal sovrano o, come in Massachusetts, dall’assemblea stessa. Particolarmente problematico e difficile, anche perché privo di regolamentazione legislativa, è il rapporto tra questi organi e il parlamento inglese, al quale i coloni sono subordinati.
Richiamandosi alla tradizione dei Bill of Rights, la sovranità della massima istituzione della madrepatria viene contestata dalle colonie che mal sopportano il regolamento a cui sono sottoposte – soprattutto in materia commerciale – dal parlamento inglese in nome degli interessi dell’impero e a discapito dei propri. Pertanto si fa strada l’idea che le colonie debbano essere rappresentate nel parlamento: in caso contrario, i più moderati sono pronti a non riconoscere gli ampi poteri di cui gode, mentre i radicali intendono disconoscere al parlamento ogni diritto di legiferare per le colonie. La sovranità popolare è la fonte di potere che viene contrapposta all’autorità parlamentare. Il precipitare della situazione politica e militare induce le colonie a riunirsi in un congresso continentale che tra il 1774 e il 1787 guida la rivoluzione americana. La costituzione degli Stati Uniti d’America, ratificata tra il 1787 e il 1790, prevede che il Congresso sia organizzato in due assemblee, la Camera dei rappresentanti, eletta con il sistema proporzionale, e la Camera dei senatori, formata da due rappresentanti per Stato.
In questo sistema, che è rappresentativo a livello locale, federale e confederale, il deputato è per la prima volta il delegato degli elettori che lo hanno eletto e non il rappresentante degli interessi del popolo nel suo complesso.
La Francia prerivoluzionaria sperimenta gli esiti di un assolutismo che ha smantellato tutte le istituzioni che avrebbero potuto affiancare il sovrano nella sua azione di governo, senza che una forte personalità della tempra di Luigi XIV possa reggerne le redini.
L’emergere di istanze democratiche è il risultato di molteplici fattori di ordine sociale ed economico; questi determinano una crescente articolazione delle componenti sociali, una grave sperequazione della ricchezza e un diffuso malcontento che, nelle sue forme più consapevoli, trova ispirazione e modelli di cambiamento nell’Inghilterra contemporanea e nella tradizione repubblicana classica. Si dimostra impossibile tradurre in termini istituzionali, attraverso riforme, la fortissima richiesta di un ruolo politico avanzata dalle nuove forze borghesi, provenienti soprattutto dal mondo della finanza e dell’alta burocrazia, che con l’allargamento della rappresentanza vogliono veder modificato il loro stato giuridico e, di conseguenza, il rapporto con le assemblee degli stati, con quelle provinciali, estremamente influenti, e al momento della convocazione nel 1789, con l’Assemblea nazionale.
In questo ambito la riflessione e la progettualità politica del pensiero illuminista sono estremamente moderate; sono invece i rappresentanti dei parlamenti che rivendicano ai corpi intermedi dello Stato, cioè a se stessi, il diritto di approvare le leggi contro la sovranità assoluta del monarca, tentando – in assenza degli Stati generali, mai più convocati dal 1614 – di rappresentare la nazione. All’alba della rivoluzione, nel parlamento di Parigi la maggioranza dei membri ha posizioni conservatrici, mentre la minoranza auspica una riforma costituzionale: pur divisi, entrambi i gruppi attendono che la convocazione degli stati generali, imposta al sovrano dalla crisi sul programma finanziario del ministro Brienne, fornisca la soluzione. Il problema della rappresentanza negli stati generali racchiude i contrasti tra la borghesia e gli altri due ordini; così gli intenti conservatori contenuti nelle dichiarazioni del parlamento di Parigi su tale questione insieme alle proteste di principi e nobiltà suscitano una vasta eco e danno al dibattito una dimensione pubblica sconosciuta, alimentata anche dal forte sentimento di identificazione con le ragioni del terzo ordine. La maggior parte dei sostenitori del terzo stato chiede il raddoppiamento del numero dei suoi rappresentanti e il voto per testa senza distinzione di ordine. Il primo obiettivo è conseguito nel 1788, grazie alle pressioni del ministro Necker, ma riguardo alla modalità di voto Luigi XVI rifiuta di pronunciarsi.
Le elezioni dei deputati, poi, avvenute durante l’inverno del 1789, sono soggette a una procedura estremamente complicata. E per quanto riguarda il terzo stato, nonostante siano chiamati a pronunciarsi tutti i maschi adulti di età superiore ai venticinque anni ed economicamente autonomi, il carattere fortemente indiretto della consultazione condiziona la composizione della rappresentanza, monopolizzata dai membri della borghesia urbana e professionale, in grado di dedicare tempo, energie e capacità all’attività politica.
Convocati infine gli stati generali, il terzo ordine, appoggiato dalla maggior parte del clero e da un gruppo di nobili, chiede che le votazioni avvengano per testa e senza distinzione di stato; i borghesi propongono poi di valutare le credenziali di ogni rappresentante in seduta congiunta, così da annullare ogni divisione tra le assemblee. Di fronte all’ostruzionismo dei due stati e del re, il terzo stato si proclama Assemblea nazionale e inizia a riunirsi separatamente.
Nell’ottobre del 1789, costretti i reali a porsi sotto la sua protezione, l’Assemblea priva il monarca di ogni potere legislativo, riservandogli esclusivamente il diritto di veto su questioni di natura ordinaria, e si attribuisce prerogative e competenze pari a quelle del parlamento inglese.
Inoltre l’Assemblea distingue la responsabilità ministeriale dalla carica rappresentativa, rinunciando a considerare – diversamente dal modello inglese – i membri dell’esecutivo una propria emanazione. Rispetto all’elettorato l’Assemblea sceglie di conservare il suffragio ristretto, distinguendo tra cittadinanza attiva e cittadinanza passiva e stabilendo in entrambi i casi limiti di censo, modificati dalle successive costituzioni repubblicane.
In altri Stati europei, tra cui Prussia, Russia e impero austriaco, la presenza di sovrani dalla forte personalità e la loro volontà di condurre un’energica politica di ristrutturazione del regno conduce allo scontro con le istituzioni di rappresentanza; queste incarnano interessi vecchi e statici, ostacolando il forte impulso di rinnovamento e l’introduzione di riforme amministrative tese a migliorare l’efficacia dell’organizzazione dello Stato.
Laddove non è possibile abolire questi organi o ottenere la loro completa subordinazione, i sovrani cercano di neutralizzarli attraverso la creazione di istituzioni parallele che sfruttano il particolare inquadramento nell’amministrazione pubblica, a cui sono chiamati la nobiltà e i ceti medi.