PARLAMENTO (XXVI, p. 368; App. III, 11, p. 366)
Inchiesta parlamentare. - Nelle ultime legislature il P. ha promosso numerose inchieste deliberandole quasi sempre con atto legislativo. La loro attuazione ha contribuito a far emergere i numerosi problemi attuativi che la scarna dizione costituzionale lascia impregiudicati e rimessi alla prudente valutazione degli operatori. Per una migliore comprensione è peraltro opportuno richiamare alcuni principi, come presupposti di una valutazione di questa più recente esperienza.
La Costituzione italiana prevede esplicitamente il potere d'inchiesta all'art. 82. Le ragioni della sua enunciazione costituzionale vanno ricercate proprio nella volontà di consentire a ciascuna Camera l'esercizio di poteri inquirenti senza che vi sia necessità di ricorrere allo strumento della legge, il quale - nella vigenza dello Statuto Albertino - si rendeva indispensabile proprio per dotare le commissioni inquirenti di poteri che incidessero sulle situazioni giuridiche dei singoli.
Se il potere d'inchiesta ottempera essenzialmente al principio dell'autonomia di giudizio e di decisioni del P., tale autonomia si deduce che spetti individualmente a ciascuna Camera rispetto all'altra, per la perfetta parità di posizione che le qualifica nell'ambito del nostro sistema bicamerale. Dall'introduzione di una simile norma sono derivati comunque due problemi:
1) quello della possibilità, pur nella nuova situazione, di utilizzare lo strumento della legge per istituire inchieste bicamerali (eventualmente al fine d'imputarne le spese al bilancio dello stato anziché a quello interno delle Camere);
2) quello, ancora, della possibilità di attribuire con legge alla commissione d'inchiesta poteri maggiori di quelli previsti dall'articolo 82 Cost. per le inchieste deliberate da ciascuna Camera (e che sono i medesimi dell'autorità giudiziaria e con gli stessi limiti da questa incontrati).
Il primo problema fu risolto, agevolmente, in senso positivo.
Il secondo ha dato luogo, invece, a un ampio dibattito, ravvivato in occasione di certe inchieste, da esperienze specifiche come quella sulla "anonima banchieri", e soprattutto quella sulle degenerazioni dei Servizi informazione della Difesa. In occasione di quest'ultima ci si è trovati di fronte allo specifico problema del segreto d'ufficio e del segreto militare come limiti certamente opponibili all'autorità giudiziaria, e che tuttavia appariva ingiustificato proporre nei confronti del Parlamento. Da alcuni autori e parti politiche in P., infatti, si faceva autorevolmente constatare l'inutilità che il P. approvasse inchieste di controllo sul governo e sull'amministrazione dal momento che si pretendeva di contrapporre al suo potere d'indagine sulle singole materie i limiti del segreto d'ufficio e del segreto militare. Tuttavia la maggioranza della dottrina e con essa la prassi hanno sostenuto costantemente la tesi che i poteri previsti dall'articolo 82 della Costituzione costituiscano un limite invalicabile anche per le inchieste parlamentari deliberate con legge.
Una soluzione è stata data sul piano procedurale nel corso dell'approvazione della legge che deliberò l'inchiesta parlamentare sulle degenerazioni del Servizio Informazioni Difesa e poi durante lo svolgimento dell'indagine stessa, attribuendo una specifica responsabilità politica al presidente del Consiglio ogni qual volta venivano a opporsi al governo il segreto militare o d'ufficio sulla materia oggetto dell'indagine, qualunque fosse la natura dell'organo opponente (politico o amministrativo). In tal modo, dunque, si è reso il presidente del Consiglio praticamente "arbitro del segreto", in quanto responsabile della sicurezza nazionale. Tale procedura ha consentito un uso meno arbitrario del limite del segreto d'ufficio, imponendo indirettamente l'obbligo di una sua motivazione puntuale.
Problemi altrettanto rilevanti sono affiorati di recente sull'opposto versante dei limiti del potere d'inchiesta parlamentare a tutela delle autonomie pubbliche e private che trovano loro riconoscimento e garanzia nella Costituzione.
Già nel corso dell'inchiesta sugli eventi del giugno-luglio 1964 si era proposto il problema della legittimazione della Commissione a indagare su fatti avvenuti all'interno del Quirinale, e su questioni che toccavano comunque la presidenza della Repubblica. Ciò sembrava costituire una grave lesione dell'autonomia di un organo costituzionale e del prestigio del capo dello Stato, potendo integrare perfino una violazione di competenze spettanti alla specifica "Commissione inquirente per i procedimenti di accusa".
Più recentemente, la stessa problematica si è posta con particolare virulenza in occasione della predisposizione e approvazione della l. 11 dic. 1975, n. 625, istitutiva di una commissione d'inchiesta sulle strutture, sulle condizioni e sui livelli dei trattamenti retributivi e normativi (più brevemente citata come "Commissione d'inchiesta sulla giungla retributiva"). Fu infatti opposto dallo stesso presidente della Corte costituzionale, F. Bonifacio, al presidente della Camera l'opportunità e l'illegittimità di una norma legislativa che consentisse alla commissione d'inchiesta di usufruire di poteri coercitivi nei confronti delle amministrazioni degli organi costituzionali, costituendo la natura di questi ultimi un limite invalicabile per gli altri poteri dello stato. Nonostante forti dubbi sulla validità di questa tesi, il P. ha in sostanza recepito l'obiezione, attribuendo alla commissione meri poteri conoscitivi quando si fosse trovata a indagare sulla situazione giuridico-economica del personale dipendente da questi organi.
Questioni di natura analoga sono state poste, inoltre, nel corso dell'inchiesta sul disastro del Vajont, e di quella sul fenomeno della mafia e sul Sifar, per quanto riguardava i rapporti con le indagini disposte in modo parallelo dall'autorità giudiziaria sui medesimi episodi. In questi casi non si è posto, infatti, il problema relativo all'autonomia del potere giudiziario e al "monopolio" della giurisdizione: si è posto, invece, e in modo ancora più incisivo, il problema dei diritti dei cittadini, sul comportamento dei quali s'indaga sia nell'ambito politico che in quello giurisdizionale, e del connesso pericolo, nel primo caso, di lasciare quei cittadini privi delle necessarie garanzie di difesa che la Costituzione loro assicura quando tali comportamenti possono integrare gli estremi del reato.
Per la risoluzione di tali problemi occorre muovere correttamente dalla natura politica delle indagini svolte da una commissione parlamentare come quella prevista dall'art. 82. La stessa composizione proporzionale della commissione voluta dalla norma, la conferma come organo di giudizio politico: organo che decide in base a maggioranze politicamente significative, e dunque appare idoneo esclusivamente a valutazioni di natura politica.
Di qui anche la conseguenza che il suo ambito di azione non può non corrispondere a quello proprio del potere politico centrale, con tutti i limiti che sono imposti a esso dalla Costituzione a tutela sia delle autonomie pubbliche istituzionali e territoriali (dagli organi costituzionali, ai partiti, ai sindacati e alle regioni) sia soprattutto della libertà e dei diritti dei cittadini.
Di recente, poi, anche la Corte costituzionale ha avuto occasione d'intervenire autorevolmente nel delicato problema, in occasione di un conflitto tra poteri sollevato dalla Magistratura ordinaria nei confronti della commissione "antimafia": nella relativa sentenza (n. 231 del 1975) la Corte ha individuato una peculiare forma di segreto "funzionale" (cioè proprio delle commissioni d'inchiesta) opponibile, per i fatti e gli atti finalizzati esclusivamente all'attività della commissione, agli altri organi e poteri dello stato.
In tal modo si è, in certo senso, ampliato il potere inquirente delle commissioni, in quanto la maggiore efficacia del segreto sui suoi atti può favorire la raccolta di prove, anche documentabili, che diversamente, per la loro incompletezza o genericità, non avrebbero potuto essere acquisite o formare oggetto di giudizio.
Di più difficile enunciazione è il problema del significato istituzionale di questo strumento d'indagine: la stessa definizione letterale farebbe, infatti, presumere una sostanziale posizione di supremazia del P. sugli altri poteri e in particolare sull'esecutivo, supremazia fondata su una "alterità" del primo rispetto al secondo. Classica ipotesi di questo schema è, per es., l'ordinamento statunitense in cui la rigida applicazione del principio della separazione dei poteri consente interventi di controllo e d'indagine del P. sull'esecutivo di molto maggiore ampiezza rispetto alla forma europea del governo parlamentare.
Nella dottrina italiana si è sostenuto che, in realtà, l'inchiesta parlamentare per essere valida dovrebbe costituire uno strumento peculiare dell'opposizione alla quale, quindi, l'ordinamento dovrebbe riconoscere uno speciale potere d'impulso in materia (esempio di questo schema è quello offerto dalla Rep. Fed. di Germania), in mancanza del quale (come in Italia) esso è reso evanescente e facilmente tramutabile in uno strumento dell'esecutivo per il tramite della propria maggioranza parlamentare. In altri termini il potere d'inchiesta parlamentare diventa uno dei "sintomi" o aspetti, di una determinata forma di governo, correttamente interpretabile soltanto dopo aver chiarito quest'ultima.
Se sono esatte queste premesse non è consentito in questa sede indicare una soluzione al problema sopra accennato: giova forse ricordare che l'attuale sviluppo del sistema parlamentare italiano sembra indicare - al di là delle prescrizioni formali della Costituzione - una reviviscenza dell'autonomia decisionale del P. con un connesso ampliamento di forme e metodi d'indagine e di acquisizione di notizie. Il lento distaccarsi della forma di governo italiana dallo schema classico di governo parlamentare consente, dunque, d'intravvedere un nuovo e delicato spazio a disposizione delle inchieste parlamentari, il cui corretto uso può contribuire alla migliore attività funzionale degli organi costituzionali.
Bibl.: F. Pergolesi, Inchiesta amministrativa e parlamentare, in Enc. forense, IV (1959), p. 332 segg.; G. Cuomo, Appunti sull'inchiesta politica delle Camere, in Rass. dir. pubbl., 1959, I, p. 13 segg., e in Studi in onore di E. Crosa, I, Milano 1960, p. 659 segg.; Autori vari, Dibattito sulle inchieste parlamentari, in Giur. cost., 1959, p. 596 segg.; G. Pierandrei, Inchiesta parlamentare, in Nuovissimo Digesto Italiano, VIII (1962), p. 516 segg.; M. Pacelli, L'inchiesta parlamentare come strumento di controllo politico, in N. rass. di legislazione, dottrina e giurisprudenza, 1965, p. 2893 segg.; F. Fenucci, I limiti dell'inchiesta parlamentare, Napoli 1968; A. Pace, voce Inchiesta parlamentare, in Enc. Dir., vol. XX; id., Il potere di inchiesta delle assemblee legislative, Milano 1973.