Parmenide
(Παρμενιδες) Dialogo di Platone. Vi si descrive il dialogo fra Parmenide, Zenone e Socrate avente come oggetto il problematico rapporto fra uno e molteplice, donde origina l’aporeticità conseguente sia alla negazione sia all’assunzione positiva del molteplice. Commentando le tesi esposte da Zenone, Socrate osserva che al problema del molteplice si connette anche quello del simile e del dissimile, ossia il fatto che cose molteplici dello stesso genere (per es., uomini) pur essendo in sé unitarie, sarebbero al tempo stesso simili e dissimili (127 d-128 e). Ne deriva che non sia assurdo dimostrare che «tutto è uno perché partecipa del genere dell’uno e che lo stesso tutto è molteplice perché partecipa del genere della molteplicità» (129 b-c). Con il superamento di tale contraddizione che comporta la stasi in cui si risolvono le critiche eleatiche, Socrate enuncia una soluzione fondata sulla dottrina dell’‘idea’, la quale pur essendo unitaria sussume in sé la molteplicità del reale, rendendo possibile concepire la partecipazione (μέϑεξις) del molteplice all’uno (129 a-130 a). Contro la dottrina delle idee, Parmenide propone una serie di difficoltà: non possono esservi idee che corrispondano a ciascuna cosa sensibile (130 a-e), bisogna stabilire se la cosa partecipi di tutta l’idea o di una parte di essa; bisogna risolvere il cosiddetto argomento del terzo uomo (132 a), ossia il necessario darsi di un grado intermedio fra la cosa reale e l’idea di cui quella partecipa solo in modo incompleto; le idee non possono essere pensieri; le idee e le cose sono su due piani paralleli non comunicanti (132 d-135 a). Parmenide enuncia la propria concezione dell’uno come estraneo alla molteplicità (135 a-166 c). Mediante il metodo dialettico Socrate dimostra, a superamento delle aporie che Parmenide ritiene insolubili, che il molteplice può essere compreso, in quanto alterità, ossia nel suo essere altro, come ‘ente’ dell’uno stesso. L’essere può cioè essere pensato non come l’uno in sé, ma come l’‘uno che è’, ossia che esistendo è ‘altro’ dall’uno. In caso contrario la pura molteplicità sarebbe altrettanto contradditoria, poiché non potrebbe render conto dell’unità dei singoli esistenti. La conclusione ‘aporetica’ del dialogo, che verrà sviluppata negli scritti successivi e in particolare nel Teeteto (➔) e nel Sofista (➔) è che: «sia che l’uno sia, sia che non sia, esso stesso e gli altri, rispetto a sé stessi e reciprocamente fra loro, sono tutto, secondo ogni modo di essere e non lo sono, appaiono esser tutto, secondo ogni modo di essere e non appaiono così» (166 c).