Parnaso
Massiccio montuoso della Grecia centrale, ricco di boschi e anfratti, che attraversa la Doride e la Focide costeggiando il golfo di Corinto; il monte principale - anch'esso nominato, in senso stretto, P. - s'innalza fino a m. 2459 con due vette coperte per larga parte dell'anno da neve.
Il P. è celebrato dalla mitologia classica (tra l'altro, vi si sarebbe fermata dopo il diluvio la barca di Deucalione: cfr. Ovidio Met. I 316-319) soprattutto come luogo sacro alle Muse e ad Apollo (ai piedi del P. è Delfi, sede del famoso oracolo apollineo); per metafora diffusissima nelle opere letterarie, specialmente latine, il P. è anzi divenuto il simbolo stesso della poesia; e poiché dalle sue grotte sgorga la fonte Castalia, a quelle acque il mito attribuì virtù d'infondere ispirazione poetica a chi ne bevesse (onde le Muse furono dette " Castaliae sorores "). Nella tradizione retorica il P. è spesso confuso, sino a fare quasi tutt'uno, con l'Elicona, altro monte greco indicato anch'esso come sede delle Muse e da cui parimenti sgorgano fonti (Aganippe e Ippocrene) onorate come donatrici di virtù poetica.
Anche nella Commedia ricorre la metafora del P. abitato dalle Muse (il monte / che sempre ha le nutrice nostre seco, Pg XXII 104-105) e delle sue fonti: Virgilio, maestro di poesia, condusse Stazio al P.: Tu prima m'invïasti / verso Parnaso a ber ne le sue grotte (Pg XXII 65), e letterato e poeta è chi, avendo trascorso lunghe ore sui libri, palido si fece sotto l'ombra / sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna (Pg XXXI 141; e vedi Eg I 30. L'immagine del ‛ pallore ' dei letterati è soprattutto in Persio Sat. prol. 4, I 26, I 124, III 85, V 62; ma anche in Giovenale Sat. VII 97, Quintiliano Instit. I II 18, Marziano Capella De Nuptiis Philologiae I 37). Infine nella protasi della terza cantica, accingendosi ad affrontare l'arduo tema, il poeta invoca l'aiuto di entrambi i vertici del P. (per cui v. Ovid. Met. I 316; Lucano Phars. V 72): Infino a qui l'un giogo di Parnaso / assai mi fu; ma or con amendue / m'è uopo intrar ne l'aringo rimaso (Pd I 16; il primo di questi versi è tradotto in Ep XIII 87 Hucusque alterum iugum Parnassi). D. nomina poi il maggiore dei gioghi del P. e sede di Apollo, Cirra (Pd I 36: cfr. Phars. I 63-65); non trova invece riscontro l'altro, Nisa, che propriamente era sacro a Bacco (cfr. Phars. I 65).
Occorre in primo luogo rilevare che con ogni probabilità anche D. ha confuso P. ed Elicona, identificando questo (ricordato in VE II IV 7, Pg XXIX 40, Ep XIII 3, Eg II 28) in quello, o in parte di quello: cfr., con altri chiosatori trecenteschi della Commedia (e per la questione v. E. Proto, in " Atene e Roma " XIII [1910], col. 83 ss.), il commento di Pietro: " Dextrum iugum dicitur Helicon, sinistrum Citheron. In Helicone erat Cirrha civitas, in qua Apollo colebatur, in Citherone erat alia civitas dicta Nysa, ubi Bacchus colebatur " (ediz. Nannucci, p. 547); e avvertire quindi che Bacco e Apollo sono per D. nomi poetici riferibili all'unica vera divinità: come - probabilmente sulla scorta di Macrobio Saturn. I 18, dove si parla appunto del P. - registrava ancora Benvenuto da Imola (nella redazione cosiddetta di Stefano Talice da Ricaldone): " Unde notandum quod in Boeotia apud civitatem Delphos erat Parnassus, habens duo cacumina: in uno quorum, scilicet Nisa, colebatur Baccus; in altero, scilicet Cirra, colebatur Apollo. Sed quid vult dicere quod hucusque suffecit unum cornu, scilicet Baccus, sed nunc requirit ambo? Ecce: Baccus et Apollo idem est; unus deus est, sed diversa nomina habet, propter diversas proprietates et potentias: unde dicitur Baccus, in quantum est Deus naturae. Unde vult dicere quod scientia naturalis, idest acquisita per naturam, sicut phisica et moralis, suffecit sibi hucusque; sed nunc expedit ei scientia supernaturalis, idest metaphisica et divina. Ergo, quando Apollo tractat de rebus naturalibus, dicitur Baccus; quando de supernaturalibus et divinis, dicitur Apollo " (ediz. Promis-Negroni, p. 414; e v. APOLLO).
Tuttavia autorevoli commentatori moderni, considerando che nelle due prime cantiche il poeta ha invocato le Muse (cfr. If II 7, Pg I 7-12), intendono (e non a torto) che a queste - e non a Bacco - voglia riferirsi D. nel dichiarare infino a qui l'un giogo di Parnaso / assai mi fu; in tal caso occorre pensare a un'ulteriore, non impossibile, confusione dantesca, che vorrebbe l'un giogo di Parnaso dedicato ad Apollo e l'altro alle Muse, il significato del passo rimanendo comunque sostanzialmente invariato.
Nella prospettiva del significato mistico attribuito ad Apollo, e quindi anche al P., acquistano particolare pregnanza le parole di Matelda: Quelli ch'anticamente poetaro / l'età de l'oro e suo stato felice, / forse in Parnaso esto loco sognaro (Pg XXVIII 139-141): cioè i poeti antichi che descrissero fantasticamente l'età dell'oro, parlando del P., ebbero forse, per grazia divina, l'intuizione del Paradiso terrestre. L'arditezza dell'affermazione, sottolineata ai vv.136-137 dal tono grave e imperativo di Matelda e scandita dall'uso del verbo tecnico (il latino somniare aveva allora un'accezione ben diversa dall'odierno " sognare "), è appena sfumata, cautelativamente, dal forse.