paroffia
Il termine, nell'opera dantesca, compare soltanto in Pd XXVIII 84 'l ciel ne ride / con le bellezze d'ogne sua paroffia, ma è pure attestato nel Boccaccio (Teseida VII 114) e, in modo sporadico, in altri testi coevi, anche umbri (cfr. Parodi, Lingua 282); variante formale ammissibile è parroffia, anche in codici toscani.
La questione dell'interpretazione del passo è rimasta aperta presso i commentatori antichi e moderni fino a tutto il sec. XIX (se ne può vedere una sintesi in Scartazzini, Enciclopedia, sub v.), finché lo Schiaffini (Del tipo " parofia " ‛ parochia ', in " Studi d. " v [1922] 99-131) ne ha fissato con precisione il valore: il termine p. vale genericamente, nell'italiano antico, " parrocchia ", dalla stessa base greca *παροχία (da πάροχος), ma per il tramite delle parlate greche-bizantine (cui va ricondotto, fra l'altro, il passaggio di χ in f), aventi come centro d'irradiazione Costantinopoli e il suo patriarcato, di contro al tipo con -cch- in uso presso la Chiesa di Roma, poi prevalso quasi dovunque in Occidente.
Nel verso dantesco può avere, in metafora, anche il valore di " parte ", con un modulo che richiama Pd XXVII 27 e II 130 (Mattalia).