Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La stretta connessione fra i progressi nel campo della scrittura e l’evoluzione delle società testimonia quanto la capacità di scrivere sia imprescindibile per lo sviluppo del genere umano: come nella preistoria l’invenzione di strumenti adeguati a gestire la contabilità danno impulso alla rivoluzione agricola, così i pittogrammi, la prima vera forma di scrittura, diventano fondamentali per avviare la rivoluzione urbana e introdurre l’uomo nella storia.
Il poema sumerico Enmerkar e il signore di Aratta, composto nel XXI secolo a.C., racconta della disputa per la supremazia, sorta agli inizi del III millennio a.C., fra la città di Kullab/Uruk, nella bassa Mesopotamia, e la ricca e lontana Aratta, collocabile fra Iran e Armenia. Nel testo non si parla di eserciti o di armi, ma di uno scontro dialettico fra i due re. Strumento di questa disputa è un messaggero che, viaggiando da una città all’altra, riferisce le parole dei rispettivi sovrani. A un certo punto accade che il povero messaggero non riesca a ripetere un lungo, complesso discorso di Enmerkar e
Poiché il messaggero aveva la “lingua pesante” e non era capace di ripeterlo
il signore di Kullab impastò l’argilla e vi incise le parole come in una tavoletta;
– prima nessuno aveva mai inciso parole nell’argilla –
ora, quando il dio sole risplendette, ciò fu manifesto:
il signore di Kullab incise le parole come in una tavoletta, ed esse furono visibili.
Il messaggero attraversa quasi volando le “cinque, sei, sette montagne” che lo separano da Aratta e, una volta giunto, dice al re della città:
Enmerkar, il figlio del dio Utu, mi ha consegnato una tavoletta di argilla;
o Signore di Aratta, esamina la tavoletta, apprendi il cuore della sua parola;
ordinami ciò che debbo riferire riguardo al messaggio ricevuto.
Dopo che gli ebbe così parlato, il signore di Aratta, dall’araldo,
ricevette la tavoletta lavorata artisticamente;
il signore di Aratta scrutò la tavoletta:
– la parola detta ha forma di chiodo, la sua struttura trafigge –
il signore di Aratta scruta la tavoletta lavorata artisticamente.
In questo modo, secondo il mito, è stata creata la scrittura cuneiforme, che in realtà nasce lentamente, attraverso un processo lungo e tappe non sempre chiare.
Per scrivere sono necessari dei segni e questi segni devono indicare qualcosa, che sia un’intera parola, come accade nella scrittura cinese, oppure dei singoli suoni che composti formano poi le parole, come con l’alfabeto latino. Questo vuol dire che i segni devono assumere un significato, sia questo un concetto o un suono.
Nella Galilea Occidentale e in Libano sono stati rinvenuti dei manufatti in osso dalla forma di punteruoli risalenti al paleolitico con sopra incise delle tacche. È opinione comune fra gli studiosi che tali oggetti fossero dei supporti mnemonici per ricordare delle quantità e che ogni segno indicasse un’unità di ciò che veniva contato. È possibile che questi supporti venissero usati per annotare lo scorrere del tempo, con un’incisione effettuata per ogni avvistamento lunare. Non si può parlare di scrittura, ma se questi oggetti furono veramente utilizzati per contare, essi dimostrano come già in quell’epoca assai remota, fra i 30 mila e i 14 mila anni fa, gli uomini sapevano tradurre informazioni concrete in segni, erano cioè in grado di astrarre.
Un sistema più complesso ed evoluto utilizzato come supporto mnemonico e amministrativo è rappresentato dai numerosi contrassegni in argilla cotta, diffusi a partire dall’VIII millennio a.C. in tutta l’area che dalla costa del Mediterraneo si estende fino all’Iran. Questi piccoli oggetti, non più grandi di qualche centimetro, si presentano in varie forme, quasi sempre geometriche (coni, sfere, dischi, cilindri), raramente naturalistiche (animali, vasi). Ogni forma ha un preciso significato e indica una determinata quantità dell’oggetto che rappresenta, ad esempio un capo di bestiame o un vaso d’orzo.
Sapere di quanto bestiame o di quanto frumento si dispone è fondamentale già nelle comunità di villaggio e diventa sempre più importante con l’evolversi delle società. Questa consapevolezza consente, infatti, di fare previsioni e accumulare scorte per i periodi difficili. I contrassegni (o calculi) d’argilla facilitano inoltre gli scambi multipli, dando impulso al commercio e le stesse forme si trovano pressoché identiche in siti molto lontani fra loro, da Susa in Iran, a Uruk in Iraq, fino ad arrivare a Habuba Kabira in Siria.
Perché il sistema funzioni, i calculi devono essere conservati in qualche modo. Nei primi tempi erano probabilmente chiusi in borse di cuoio, legati fra loro o raccolti in piccoli contenitori, con il rischio, però, che si mischiassero accidentalmente o che la loro quantità fosse alterata volontariamente. Per garantire la veridicità delle quantità rappresentate e rendere le transazioni più sicure, a partire dalla metà del IV millennio a.C., iniziano ad essere utilizzate le bullae, “buste” realizzate con grumi d’argilla incavati, all’interno delle quali vengono inseriti i calculi. La bulla è poi chiusa e la sua autenticità garantita dalle sigillature impresse sulla superficie esterna, ottenute facendo scorrere sull’argilla ancora umida un sigillo a cilindro. In questo modo non solo si rende inalterabile il contenuto ma si indica anche la persona che ha eseguito l’operazione, resa identificabile dal sigillo. Rimane un problema: una volta che la “busta” è chiusa, non sono più visibili i calculi inseriti al suo interno ed è necessario romperla per controllarne il contenuto.
Si scopre presto che il problema può essere aggirato imprimendo all’esterno della bulla, oltre al sigillo, anche la sagoma dei calculi che essa contiene, trasformando in questo modo le informazioni espresse dai contrassegni tridimensionali in segni bidimensionali e creando una corrispondenza univoca fra il contenuto e le impressioni sul contenitore. La presenza dei contrassegni nella bulla e la loro impronta sull’esterno sono ridondanti: una volta asciutta l’argilla, l’impressione non può essere modificata e, garantita dal sigillo, ha lo stesso valore dei calculi chiusi all’interno. La bulla viene presto privata del suo contenuto e si trasforma in tavoletta, appiattendosi e diventando più maneggevole e facile da archiviare.
I calculi più complessi però non si adattano particolarmente ad essere impressi sull’argilla e sono in breve sostituiti da un disegno che li riproduce, tracciato direttamente sulla tavoletta con l’aiuto di uno stilo. Nasce in questo modo la prima vera forma di scrittura, quella dei pittogrammi.
Disegnare le figure sulla massa pastosa dell’argilla non è un’operazione facile ed è più agevole sostituire le linee continue e curve con numerosi e veloci tratti rettilinei, ottenuti imprimendo nell’argilla la punta di uno stilo dalla sezione triangolare, dando alle parole scritte l’aspetto di chiodi, come recita il poema di Enmerkar. Questa scrittura, formata da numerosi piccoli cunei e per questo chiamata cuneiforme, è documentata dal 3300 a.C. a Uruk, la prima città conosciuta, la stessa del poema.
Per molti secoli la scrittura è utilizzata esclusivamente per testi in sumerico di tipo amministrativo. Gli scribi che li redigono hanno bisogno di anni di studio per memorizzare e imparare gli oltre 1000 segni utilizzati.
Le possibilità di comunicazione scritta aumentano quando s’iniziano a combinare fra loro i segni per esprimere concetti di per sé non rappresentabili e diventano infinite quando, successivamente, ai segni si abbinano i suoni dei nomi degli oggetti rappresentati, cioè quando si attribuisce loro un valore fonetico. Utilizzando i fonogrammi e unendoli come in un rebus, si possono esprimere concetti astratti o scrivere i nomi propri di persona. Enlilti, uno dei più antichi nomi attestati, è scritto utilizzando i segni EN (“signore”, in sumerico), LIL (“aria”) e TI (“vita”). A sua volta, quest’ultima parola, non rappresentabile graficamente, mutua il segno della quasi omofona parola “freccia”.
Solo dopo la metà del II millennio a.C. iniziano ad apparire in maniera costante testi non amministrativi, dapprima mattoni di fondazione e coni votivi, poi testi più lunghi, gesta reali, scolastici, letterari, religiosi e legali e accanto all’argilla iniziano ad essere utilizzati altri materiali, in particolare la pietra, adatta per incidervi le iscrizioni monumentali.
Col tempo il senso di scrittura, che originariamente procedeva in verticale da destra a sinistra, ruota di 90° e diventa orizzontale, con righe che vanno lette partendo da sinistra, e i simboli utilizzati per scrivere si schematizzano, diventando più veloci da tracciare, ma rendendo la figura originale in pratica irriconoscibile. Intorno al 2000 a.C. il repertorio di segni si è notevolmente ridotto e quelli utilizzati comunemente sono circa 500, ma molti di essi hanno più di una valenza. Possono essere utilizzati come logogrammi e indicare una parola, oppure come sillabogrammi per il loro valore fonetico e infine come determinativi, cioè come segni di “supporto”, che non vanno letti ma che indicano la natura della parola che li segue. Un segno a forma di stella, ad esempio, può essere il logogramma per indicare il cielo, che si dice an, oppure il sillabogramma per scrivere la prima parte della parola an-za-gar “torre”, o il determinativo che precede i nomi delle divinità.
Presto altri popoli, oltre ai Sumeri, iniziano a scrivere utilizzando gli stessi segni, adattandoli alla propria lingua. Ad Ebla, nella Siria centrale, oltre 17 mila tavolette scritte in un dialetto semitico sono state trovate fra le rovine del palazzo reale databile al 2400 a.C. ca. Le tavolette erano conservate accuratamente ordinate in un grande archivio facente parte del Palazzo reale, raccolte in cesti e deposte su scaffali. La maggioranza dei testi rinvenuti sono di tipo amministrativo, ma non mancano quelli di tipo scolastico, liste di segni e di parole, e i primi dizionari bilingui della storia, tavolette che elencano lunghe serie di logogrammi, accompagnati dalla loro lettura sumerica e dal significato in eblaita.
Prima che a Ebla, alcuni nomi semitici erano già apparsi scritti in testi sumerici verso il 2800 a.C. e di poco successivi erano stati i primi tentativi di utilizzare la scrittura per un’altra lingua semitica, l’accadico, che verso la fine del XXIV secolo a.C. diventa la lingua ufficiale del grande impero di Sargon di Akkad e dei suoi successori. Mentre i Sumeri, inventori della scrittura cuneiforme e finora politicamente dominanti, sono linguisticamente un piccolo gruppo, confinato nella bassa Mesopotamia, le popolazioni semitiche occupano una vasta area che comprende la zona centro-settentrionale della Mesopotamia ma anche la Siria e la Palestina. Questa massiccia presenza favorisce la veloce diffusione dell’accadico a discapito del sumerico che, però, per la sua antica tradizione e il suo alto prestigio continua ad essere studiato da tutti gli scribi, diventando la lingua di cultura per eccellenza, mentre l’accadico diventa la lingua franca delle comunicazioni e dei rapporti diplomatici internazionali. Lo testimoniano le molte tavolette scritte in accadico ritrovate ad el-Amarna, l’antica Akhetaton, collocata sulle rive del Nilo, che nel XIV secolo a.C. diventa per qualche anno la capitale di Akhenaton, il faraone eretico. La maggioranza dei testi sono lettere inviate al faraone dai piccoli re siro-palestinesi o dai grandi re di Assiria, Babilonia, Mittani, Khatti e Cipro.
La capillare diffusione dell’accadico favorisce l’acquisizione e l’adattamento della sua scrittura anche a lingue non semitiche. L’ittita, ad esempio, affianca ai propri geroglifici una scrittura cuneiforme composta prevalentemente da logogrammi, mentre l’elamita sfrutta soprattutto i sillabogrammi, riducendo a soli 130 i segni utilizzati.
Intorno al 3200 a.C., quasi contemporaneamente alla scrittura cuneiforme, nasce in Egitto la scrittura geroglifica. Le prime testimonianze, le etichette apposte sui contenitori trovati nelle tombe reali di Abido, mostrano una scrittura pittografica semplice ma già formata, senza tracce di un’evoluzione precedente. Nel corso del IV millennio a.C., la Mesopotamia influenza variamente l’arte, l’artigianato e l’architettura egizia ed è verosimile che anche l’idea della scrittura sia mutuata da quella cuneiforme. Il geroglifico si sviluppa, però, in maniera autonoma e le uniche similarità con il sumerico sono l’uso dei pittogrammi e dei determinativi. La diversa natura dei supporti utilizzati per scrivere, in particolare papiro e legno, permette ai geroglifici di non subire il processo di stilizzazione che caratterizza i segni cuneiformi e di mantenere per gli oltre tre millenni di loro utilizzo la forma originale.
Forse è anche il valore divino attribuito dagli Egizi alla scrittura a favorire l’immutabilità dei segni, chiamati medu netcher, “parole degli dèi” (mentre geroglifico è un termine greco che significa “incisione sacra”). In Egitto la scrittura viene utilizzata fin dal principio soprattutto al di fuori dell’ambito commerciale-amministrativo, per le iscrizioni nei templi e per celebrare la potenza e la natura divina del faraone.
I segni sono dotati sia di un valore logografico sia di uno fonetico e quelli più usati sono circa 800 ma il repertorio cresce costantemente e, in epoca tolemaica e romana, arriva a comprenderne 6000.
Il senso di scrittura è variabile, procede in righe o colonne che vanno da destra a sinistra o viceversa, e per capire il senso di lettura bisogna osservare la direzione dei geroglifici, in particolare i volti dei segni antropomorfi o zoomorfi, che sono girati nel senso di scrittura.
Mentre i geroglifici sono impiegati soprattutto nei testi sacri o nelle iscrizioni monumentali, scolpiti nella pietra e poi dipinti, lo ieratico, una sorta di corsivo, attestato dalla V Dinastia (XXV sec. a.C.) su papiri e ostraka, è utilizzato oltre che per testi religiosi anche per testi di tipo amministrativo. Il set adoperato per scriverlo è formato da una tavolozza con i pigmenti nero e rosso legata ad un vasetto per l’acqua e ad un pennello o una penna e il pittogramma che lo riproduce è quello che rappresenta la parola “scriba”.
Ancora più semplice e veloce dello ieratico, poiché non richiede di tracciare piccole figure, è un terzo tipo di scrittura, il demotico, che appare piuttosto tardi, nel VII secolo a.C., ma che diventa subito il più impiegato nell’amministrazione, nella stesura di contratti e lettere. Dal 700 a.C., tutti e tre i sistemi sono utilizzati contemporaneamente per oltre un millennio, ciascuno nel suo specifico campo.
Dall’Egitto proviene anche la più antica scrittura alfabetica conosciuta, scoperta all’interno del tempio di Hathor, nella penisola del Sinai, e datata alla XII Dinastia (XX-XIX sec. a.C.). I brevi testi sono composti utilizzando circa 30 segni consonantici, derivati dal geroglifico egizio per acrofonia, cioè attribuendo a ciascun segno il suono iniziale della parola che rappresenta. A causa della brevità e dello scarso numero delle iscrizioni rinvenute, la lingua da esse utilizzata, certamente semitica, è ancora in gran parte da decifrare. È la lingua parlata dagli schiavi deportati dall’Asia che lavorano nelle miniere egiziane di rame e turchese ed è possibile che questi schiavi siano le prime persone in grado di scrivere ad occupare un grado così basso nella rigida piramide sociale dell’epoca.
Se può sembrare strano che siano degli schiavi i primi a ideare una scrittura alfabetica, bisogna tener presente che sia gli scribi egizi che quelli vicino orientali non hanno nessun interesse a semplificare i rispettivi complessi sistemi di scrittura. Il prestigio di cui godono e la loro agiatezza economica derivano, infatti, dalla loro capacità di scrivere e leggere. La maggioranza della popolazione è illetterata e ha costantemente bisogno dei loro servizi, per ufficializzare un acquisto, per sancire una sentenza giuridica o per stendere un contratto matrimoniale.
Per questo motivo, anche nel Vicino Oriente i tentativi di semplificazione provengono da ambienti esterni al mondo delle corti mesopotamiche. Un alfabeto cuneiforme, comprendente solo 27 segni consonantici e 3 vocalici, si sviluppa nel XIV secolo a.C. nella ricca città di Ugarit, sulla costa settentrionale della Siria. La versatilità di questo tipo di scrittura, che può essere utilizzata per scrivere lingue diverse senza bisogno di adattamenti, è subito chiara ai suoi abitanti, che la utilizzano per scrivere testi di ogni genere, soprattutto in ugaritico, ma anche in accadico e in hurrita. Nonostante la sua portata innovativa, l’uso di questo alfabeto rimane confinato a Ugarit ed è possibile che la sua mancata diffusione sia dovuta anche alla violenta distruzione della città, avvenuta nel 1180 a.C.
Nell’XI secolo a.C. i Fenici, navigatori e mercanti, cominciano ad utilizzare un alfabeto simile a quello del Sinai. L’origine pittografica dei segni li rende non solo più facilmente memorizzabili rispetto a quelli ugaritici, ma anche più facili da tracciare con l’inchiostro su supporti diversi dall’argilla, come papiri, cortecce o cocci, materiali più leggeri e più adatti ad essere utilizzati durante i lunghi viaggi per mare.
I molti contatti che i Fenici stabiliscono con gli altri popoli del Mediterraneo rivestono un ruolo fondamentale nella diffusione dell’alfabeto. Attraverso di essi lo conoscono i Greci, che verso l’VIII secolo a.C. iniziano ad utilizzare, come le chiamavano loro stessi, le phoinikeia grammata, le lettere fenicie, introducendo l’uso delle vocali, superflue per una lingua semitica come il fenicio, ma fondamentali per la comprensione di una lingua indoeuropea come il greco.
Una delle ultime scritture cuneiformi a svilupparsi, fra VI e IV secolo a.C., è quella dell’antico persiano. È particolarmente importante per noi, in quanto fu il primo tipo di scrittura cuneiforme ad essere decifrato nel 1838, grazie ad un’imponente iscrizione alta 15 metri e larga 25, incisa sul monte Bisotun, nel Kurdistan iraniano, riportante lo stesso testo in antico persiano, elamitico e neobabilonese. Vicino al testo è scolpita a grandezza quasi naturale una scena a bassorilievo raffigurante Dario I vittorioso sui principi nemici, mentre ne calpesta i corpi, reggendo un arco in una mano e sollevando l’altra in gesto di preghiera.
Al tempo delle iscrizioni di Bisotun, l’accadico è ormai una lingua morta, rimpiazzato nelle comunicazioni internazionali dall’aramaico e dal suo alfabeto, ma ciò nonostante, prima di scomparire definitivamente, continua a essere studiata fino al I secolo d.C.