Parole da dirle sopra la provvisione del danaio
Discorso destinato a essere pronunciato da un esponente fiorentino in un Consiglio della Repubblica nel marzo 1503. Consiste in un’ampia argomentazione politica a sostegno di un aumento delle risorse fiscali, per il risanamento dell’erario e per il finanziamento di misure difensive dello Stato. L’epigrafe completa è: Parole da dirle sopra la provvisione del danaio, fatto un po’ di proemio e di scusa.
L’autografo delle Parole è conservato alla Biblioteca nazionale centrale di Firenze con la segnatura: Carte Machiavelli I 77. Comprende due bifoli di 29,5 × 44 cm. A c. 4v, nel secondo quarto superiore, vicino alla piegatura mediana, e a rovescio rispetto al testo delle cc. 1r-3v, si legge: 1503 marzo. Contione, dello stesso inchiostro colore ruggine dei titoli di altri testi riordinati in tempi ulteriori. L’autografo ha pochissime correzioni e si presenta come una stesura in bella copia.
La Repubblica di Firenze, dopo la cacciata dei Medici e ancor più dopo l’esecuzione di Girolamo Savonarola nel 1498, si era rivelata molto fragile per la debolezza delle sue istituzioni e per le rivalità fra gli ottimati e la media borghesia, che aveva trovato nel Consiglio maggiore il suo luogo di manifestazione politica. Uno dei problemi maggiori era l’ingente debito della città, venuto a mano a mano aggravandosi in seguito alle spese provocate dalla guerra contro Pisa, per il pagamento dei condottieri e dei mercenari e per i tributi richiesti dagli alleati francesi con motivi e pretesti vari. La crisi finanziaria che rischiava di bloccare le istituzioni, accanto alle gravi minacce di invasione nel 1501 e nel 1502 da parte di Cesare Borgia, aveva avuto un’influenza decisiva sulla riforma istituzionale che aveva portato alla creazione del gonfalonierato perpetuo sul modello veneziano: carica a cui era stato eletto Piero Soderini nel settembre 1502. Il primo compito del nuovo gonfaloniere era stato quello di risanare le finanze della Repubblica, come aveva annunciato a M. in una lettera del 14 novembre 1502: «Noi habbiamo trovato la città molto disordinata di danari, di assegnamenti, e di molte altre cose, come vi può benissimo essere noto: attendesi a pensare di riordinare tutto» (Lettere, a cura di F. Gaeta, 1984, p. 149). Già le prime misure avevano cominciato a colpire l’amministrazione, come aveva scritto Biagio Buonaccorsi a M. il 5 novembre: «Il nuovo gonfaloniere comincia a rassettare la città dal volere scemare li salarii a’ cancellieri» (Lettere, a cura di C. Vivanti, 1999, p. 66). Tuttavia un risanamento duraturo delle finanze implicava anche l’imposizione di nuove tasse: il relativo provvedimento era stato però fortemente osteggiato dai cittadini nel gennaio 1503 prima in Consulta, poi in Consiglio maggiore. Nel frattempo, Cesare Borgia – liberatosi dai suoi luogotenenti, signorotti riottosi e crudeli, nella strage di Senigallia alla fine del 1502 – era ripartito alla conquista delle piccole signorie dell’Italia centrale, di fatto accerchiando la Toscana. Lo Stato di Firenze, sebbene protetto dal re di Francia, poteva essere la sua prossima preda, se i Borgia avessero attuato un rovesciamento di alleanze, trovando un accordo con il Regno di Napoli. Facendo leva sul rischio di dover affrontare un potente e implacabile nemico senza la possibilità di assoldare capitani e mercenari, il gonfaloniere convocò varie Consulte per cercare consenso su una legge fiscale. Dopo le due riunioni infruttuose del 13 marzo, affidò a una commissione indipendente il compito di elaborare un progetto. La Consulta del 28 marzo, in cui Soderini intervenne «con grande efficacia», secondo i termini stessi del verbale, fu decisiva, poiché la legge tributaria venne adottata il 29 marzo dal Consiglio degli Ottanta e il 1° aprile dal Consiglio maggiore.
La datazione dello scritto è desumibile dall’appunto di mano del M. «1503 marzo». Sappiamo inoltre dalla stessa annotazione che si tratta di una concione («contione»), o discorso, scritto probabilmente per una personalità politica, dato che M., per ragioni di censo e in quanto funzionario, era ineleggibile ai Consigli. I destinatari devono essere personalità di alto livello, giacché l’oratore si rivolge a loro usando il titolo rispettoso di «Prestanze». Le Parole potrebbero pertanto essere messe direttamente in relazione con la Consulta del 28 marzo 1503, a cui parteciparono più di trecento cittadini. Certe corrispondenze fra il verbale dell’allocuzione del gonfaloniere ad apertura di seduta e questo testo fanno pensare che M. scrisse le Parole perché le pronunciasse proprio Soderini, o che almeno questi se ne sia ispirato per il suo discorso. Gli indizi esterni sono quelli che possiamo desumere dal verbale di Consulta: le minacce di ribellione di varie città suddite («Come voi gli [i sudditi] avete possuti o possete correggere, lo sa Pistoia, Romagna, Barga, e’ quali luoghi sono diventati nidi e ricettaculi d’ogni qualità di latrocinii»); la «grande efficacia» riconosciuta al discorso, notazione che ben si addice al tono alto delle Parole e in particolare dell’incipit: «Tutte le città, le quali per alcun tempo si son governate per principe soluto...»; i provvedimenti presi negli ultimi due mesi («Et veramente io, da dua mesi indietro sono stato in buona speranza che voi tendiate a questo fine»); l’invito alla difesa della libertà della patria. Elementi interni al testo vanno pure nel senso dell’attribuzione del discorso al gonfaloniere, in particolare per quel tono solenne con cui si rivolge ai massimi cittadini.
Il testo si apre con l’affermazione che tutti gli Stati, qualunque sia il loro regime, richiedono forzae saggezza. È dunque giusto che anche Firenze metta in atto l’una e l’altra (§§ 1-3). Dopo la ribellione di Arezzo dell’anno precedente era prevalsa la saggezza con la creazione del gonfalonierato a vita; si poteva sperare che, nello stesso modo, in seguito alle più recenti minacce di Cesare Borgia, dovesse prevalere la volontà di rinforzare la difesa del territorio, trovando i mezzi per finanziarla; lo avevano pensato anche i Signori e quanti erano stati chiamati negli ultimi due mesi a formulare proposte di riforme fiscali; ma il costante rifiuto dei cittadini ha lasciato le autorità sbigottite (§§ 4-7). Chi parla non è un esperto in finanze, ma ha fiducia in coloro che se ne intendono e chiede ai suoi concittadini di seguire il loro consiglio (§§ 8-9). Gli Stati inermi subiscono la devastazione e la perdita della libertà: ciò che Firenze ha rischiato e rischierà ancora a breve termine se non cambia politica (§§ 10-12). Non è vero infatti che i nemici di Firenze siano stati eliminati e che Cesare Borgia non abbia intenzione di invadere la Toscana (§§ 13-14). La prospettiva è invece preoccupante: i sudditi sono poco fedeli perché sanno che Firenze non è in grado né di far rispettare l’ordine interno né di difendere il territorio da aggressioni esterne; le città vicine, come Lucca, Pisa e Siena, sono ostili (§§ 15-19). Nel resto dell’Italia, Francia, Venezia e i Borgia sono infidi: dal re di Francia, Firenze rischia di non essere rispettata, Venezia è costantemente in agguato, il papa e Cesare Borgia hanno un’ambizione sfrenata (§§ 20-31). I fiorentini dovrebbero ricordare che, mezzo secolo prima, gli abitanti di Costantinopoli rifiutarono a lungo di aiutare l’imperatore a rafforzare le difese della capitale; quando i turchi assediarono la città e loro si precipitarono a offrire il loro patrimonio per salvarsi, l’imperatore li cacciò via con disprezzo dicendo che ogni difesa era ormai impossibile (§§ 32-34). E deve essere ancora vivo nei fiorentini il ricordo degli eventi della primavera del 1501: il loro spavento quando Faenza fu conquistata dal Borgia e la precipitosa delibera di nuove tasse, un’operazione tardiva e inutile che non impedì un mese dopo il saccheggio di Firenzuola (§ 35). E adesso la situazione è tanto peggiorata che il Valentino può essere in Toscana in otto giorni e i veneziani in due, mentre il re di Francia è impegnato con gli svizzeri, l’imperatore e la Spagna (§§ 36-41). I cittadini devono superare la loro cecità politica e il loro egoismo, perché «la fortuna non muta sentenzia dove non si muta ordine», e fare tutto il possibile per difendere la loro libertà (§§ 42-45).
In questo scritto la questione tecnica della riforma tributaria viene del tutto elusa e il problema viene presentato solo nella sua dimensione politica. Inoltre, il caso particolare della votazione di una legge di finanza a Firenze nel marzo 1503 viene presentato fin dall’inizio del discorso come una di quelle situazioni paradigmatiche che ubbidiscono a leggi politiche costanti, applicabili a tutti i tempi e a tutti i regimi politici:
Tutte le città, le quali mai per alcun tempo si son governate per principe soluto, per ottimati, o per populo, come si governa questa, hanno aùto per defensione loro le forze mescolate con la prudenzia.
Nelle Parole si delinea per la prima volta la tendenza del pensiero machiavelliano a ricercare le regole politiche generali che determinano le singole azioni della politica e gli eventi della storia. Gli esempi paralleli di Costantinopoli negli anni Cinquanta del Quattrocento e di Firenze nella primavera del 1501 implicano già l’idea che sentimenti e comportamenti umani persistano e si replichino indipendentemente dal tempo e dal luogo. M. presuppone fondamentalmente che le stesse cause determinino le stesse conseguenze qualunque sia il contesto politico, sociale, locale o temporale. Solo questa persistenza dei comportamenti in tempi e in luoghi diversi – in questo caso l’influenza della paura sulla generosità dei cittadini verso il governo – permette di passare dalla storia alla politica e di elaborare regole di comportamento, ispirate al passato ma applicabili al presente e al futuro. L’ignoranza di queste regole, verificate in tempi e luoghi diversi, non può che portare gli Stati alla rovina: questa è la radice della critica mossa ai cittadini fiorentini – non nei confronti delle autorità che tentano di proporre soluzioni ai problemi finanziari e dunque esistenziali della Repubblica, ma a coloro, grande e piccola borghesia, che nei Consigli rifiutano ostinatamente ogni politica fiscale destinata a dare più potere di difesa allo Stato: «voi non vedete quello di che, non ch’altro, si meravigliano i nimici vostri». È ovviamente in causa un problema fondamentale, non concluso nella ricerca dei mezzi per finanziare una politica militare credibile: è in causa il modo stesso di interpretare i segni della storia, presente e passata, per elaborare la politica di uno Stato, nel senso della salvaguardia dell’indipendenza della Repubblica, della dignità nazionale, della libertà individuale, che verrebbero compromesse qualora i Medici, Venezia, i Borgia o la Francia assumessero il controllo della città.
Sussidiariamente, le Parole affrontano varie altre questioni che avranno ampi sviluppi nelle opere politiche maggiori, e che pure derivano dall’osservazione della storia. Una è quella della ‘doppia morale’: la salvaguardia dello Stato, concepito appunto come garante dell’indipendenza e della libertà, implica una norma utilitaristica che può non combaciare con la morale dell’individuo. Ciò è verificabile in particolare riguardo agli impegni presi fra Stati e alla sostituzione del diritto con le armi: «Fra gli uomini privati, le leggi, le scritte, e’ patti fanno osservare la fede, e fra e’ signori la fanno solo osservare l’armi». È un’anticipazione di quanto verrà dibattuto e argomentato nel cap. xviii del Principe: Quomodo fides a principibus sit servanda; etica individuale e norma politica appartengono a due sfere diverse: la prima con riferimento possibile alla morale, la seconda in relazione diretta con la forza. Anche il tema del rapporto fra signore e sudditi tornerà, nel giro di pochi mesi, al centro dello scritto sul Modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati (→); ma, mentre in quel testo M. affronterà il problema dell’autorità e delle sanzioni nei confronti dei sudditi infedeli, nelle Parole vengono piuttosto presi in considerazione i doveri del signore verso i sudditi, per ottenere da loro rispetto e fedeltà. In tutto lo scritto viene ribadito il patto implicito che lega le due parti: l’ubbidienza e la dedizione in compenso della capacità di fare rispettare l’ordine all’interno del territorio e proteggere lo Stato dalle incursioni esterne. Il comportamento delle città ribelli viene misurato sul criterio dell’osservanza, o meno, del patto di reciproca assistenza. Se tale patto non funziona, le ribellioni dei sudditi sono «ragionevoli»: «Ed è ragionevole che sia così, perché gli uomini non possono e non debbono essere fedeli servi di quello signore, da el quale non possono essere né difesi né corretti». Seppur di sfuggita, il testo affronta anche un problema che assillerà costantemente M.: l’impatto della Fortuna sulle nostre azioni e dunque sul nostro libero arbitrio. La questione si manifesterà in modo prorompente nell’estate del 1506, come possiamo vedere prima nell’abbozzo dei Ghiribizzi al Soderino (→), poi in una formulazione più pacata e più mediata letterariamente, nel capitolo “Di Fortuna”. Le Parole prefigurano non solo l’impatto di questa tematica, ma addirittura l’argomentazione che M. opporrà nel Principe (cap. xxv) alla tentazione di abdicare di fronte all’onnipotenza e onnipresenza della Fortuna: «io vi dico che la fortuna non muta sentenzia dove non si muta ordine, né i cieli vogliono o possono sostenere una cosa che voglia ruinare ad ogni modo».
Mentre nella maggior parte degli scritti politici minori anteriori al 1512 predomina lo stile cancelleresco di un rapporto a uso interno, le Parole, destinate a essere pronunciate in pubblico, sono costruite secondo uno schema oratorio. Una delle sue caratteristiche è l’uso iterativo, che permette di sottolineare alcune caratteristiche del discorso, costruire un climax (passando a una maggiore enfasi nella ripresa) e creare un nesso fra l’enunciazione di una regola e la sua illustrazione («e di nuovo vi replico che, sanza forze, le città non si mantengono [...]; io vi ho detto che quelli signori vi fieno amici che non vi potranno offendere e di nuovo ve ’l dico...»). Un’altra caratteristica di questo stile è l’uso frequente dell’apostrofe e degli imperativi, che permette di ottenere un impatto verbale ed emotivo più forte sul pubblico; nel suo ripetersi crea anche un rapporto di autorità con gli ascoltatori, che vengono, per es., guidati in un ragionamento e in un’esplorazione di spazi sempre più ampi:
Uscitevi ora di casa e considerate chi voi avete intorno [...]. Andate più là, uscite di Toscana e considerate tutta Italia [...]. Cominciate a considerare el re [...]. Considerate ora e’ Viniziani [...]. Passiamo al papa e al duca suo [...].
Il primo periodo, che deve dare un avvio solenne al discorso, inserendolo nel contesto generale della guida di uno Stato, viene strutturato secondo un ritmo ternario, tipico della più alta oratoria classica. Nella parte centrale invece il tono del discorso si abbassa, per adeguarsi, con una specie di captatio benevolentiae, al livello degli ascoltatori delle Consulte o del Consiglio maggiore (media e piccola borghesia: notai, artigiani, mercanti...), adottando il loro linguaggio e il loro modo di ragionare. Si intensificano gli scambi di pareri, riportati in stile diretto e indiretto che mimano il dialogo fittizio dell’oratore con i cittadini: «Io ve lo protesto; non dite poi [...]; se voi rispondessi [...], vi si risponde [...]; e se voi dicessi [...] e’ mi pare anche avervi detto questo [...]». Lo stesso adeguamento del discorso al livello degli ascoltatori può essere rilevato a proposito delle esemplificazioni storiche: sia in quelle che riportano eventi lontani nel tempo, con una narrazione che si discosta dallo stile storiografico del contemporaneo Decennale o dalle più lontane Istorie fiorentine:
Quelli cittadini che aveno prima poco stimato e’ ricordi del loro signore, come sentirno sonare le artiglierie nelle lor mura e fremere lo esercito de’ nimici, corsono piangendo allo ’mperadore co’ grembi pieni di danari; e’ quali lui cacciò via dicendo: “Andate a morire con cotesti danari, poiché voi non avete voluto vivere sanza essi”,
sia in quelle ancora vicine e scottanti, come la descrizione dello sgomento provocato dalle minacce del Valentino sulle frontiere settentrionali della Toscana:
qui, in questo luogo ragunati a’ 26 dì di aprile lo anno ’501, sentisti la perdita di Faenza e vedesti le lacrime del vostro gonfaloniere che pianse sopra la incredulità e durezza vostra e vi constrinse ad avere compassione di voi medesimi.
Spicca infine, soprattutto nella parte centrale del discorso, la concretezza del lessico, che si manifesta sia in riferimenti anatomici come «el nervo di tutte le signorie», sia in una rappresentazione tecnica: «vedrete [l’Italia] girare sotto el re di Francia, Viniziani, papa e Valentino», sia nella personificazione di una mossa militare: «ci mostrò le spalle per alla volta di Pesero». E perfino l’ampia similitudine della «spada», per la forza armata, rientra in questa tendenza a riportare concetti politici astratti a una rappresentazione visiva di gesti concreti: «né sempre si può metter mano in su la spada d’altri; e però è bene averla a lato e cignersela quando el nimico è discosto, ché altri non è poi a tempo e non truova rimedio».
Bibliografia: Arte della guerra e scritti politici minori, a cura di S. Bertelli, Milano 1961, pp. 49-62; L’Arte della guerra. Scritti politici minori, a cura di J.-J. Marchand, D. Fachard, G. Masi, Roma 2001, pp. 443-52.
Per gli studi critici si veda: J.-J. Marchand, Niccolò Machiavelli. I primi scritti politici (1499-1512). Nascita di un pensiero e di uno stile, Padova 1975, pp. 52-58, 412-16.
Sulla crisi finanziaria di Firenze si vedano: L.F. Marks, La crisi finanziaria a Firenze dal 1494 al 1502, «Archivio storico italiano», 1954, 112, pp. 40-72; J. Barthas, L’opposition aristocratique,in Id., L’argent n’est pas le nerf de la guerre. Essai sur une prétendue erreur de Machiavel, Roma 2011, pp. 194-215.