parole oscene
Una lingua possiede generalmente un corredo di parole ritenute a vario titolo proibite o sconvenienti (dette usualmente parolacce), utilizzate a volte, in chiave metaforica, come ➔ insulti o imprecazioni, oppure con funzione ludica o sarcastica (le parolacce sono da sempre un ingrediente fondamentale della letteratura comica), e altre volte quasi del tutto svuotate del significato originario, come mere interiezioni (➔ interiezione) o ➔ intercalari. Le sfere semantiche preferibilmente scelte per gli insulti sono quelle sessuale e scatologica (cioè attinente all’escrezione), cioè gli ambiti che più d’ogni altro la società tende a rimuovere in quanto connessi con la fisicità più concreta, ma anche con l’origine stessa dell’essere umano e con la sua morte (➔ tabu linguistico).
Le parole ritenute oscene, benché siano proprie dei registri più informali, popolari e talora volgari dell’italiano, non di rado sono usate in opere di alta dignità letteraria, come dimostrano le numerose citazioni d’autore, antiche e moderne, che seguono. Naturalmente la circolazione delle parole oscene in una lingua aumenta con il crollo delle barriere censorie. In Italia, il cinema, la televisione, la canzone e più timidamente i giornali dalla fine degli anni Settanta del Novecento mostrano un innalzamento della frequenza di parole tabu (Nobili 2007). Riserve ben maggiori sono tuttora suscitate dalle bestemmie, che però sempre più spesso si incontrano, per es. al cinema.
Diverso il caso della letteratura, le cui maglie censorie sono quasi sempre meno fitte di quelle dei mass media. Per questo, soprattutto nel Novecento, la letteratura italiana e straniera, da James Joyce a Henry Miller, da ➔ Pier Paolo Pasolini a Pier Vittorio Tondelli, annovera numerose opere contenenti un’ampia gamma di parole oscene.
Alla sfera sessuale fanno capo molte espressioni: andare (o mandare) a farsi fottere (o a fare in culo: «i collegamenti, al solito, dopo dieci minuti se ne vanno a farsi fottere», Carlo Emilio Gadda), fottersene, fottuto («la loro causa è fottuta», Vincenzo Monti); vaffanculo!; bocchinara, bocchino, ciucciacazzi o succhiacazzi, pompinara, pompino; buggerare («si può sapere qualche cosa di quel che si fa e di quel che si buggera in questa casa?», Emilio De Marchi); buscherare; fregare, fregarsene, frego; impiparsene («la gente [...] si contentava di guardargli in viso, con un’aria, come si dice, di me n’impipo», Alessandro Manzoni); sbattersene.
Molti termini rimandano alla prostituzione: bagascia, baldracca («se la fortuna baldracca non ce l’avesse avuta a morte con lui», Giovanni Verga), battona, figlio di puttana (o di mignotta, ecc.: «figliol de una puttana, rinegato!», Matteo Maria Boiardo), mignotta, puttana, puttanata, sputtanare («di dischi letterari dirige una collana, / e in vari altri modi si sputtana», Tommaso Landolfi), troia, troiaio, zoccola; bordello («il mondo letterario di Milano, con incredibile scandalo pubblico, è ridotto a un vero bordello», Monti), casinaro, casinista, casino, casotto, incasinare; magnaccia, pappone.
Il nome degli organi sessuali produce una ricchissima serie lessicale (interdizione e irradiazione sinonimica sono direttamente proporzionali): sono connesse a cazzo («sono guarito e sano come un pesce, in grazia dell’aver fatto a modo mio, cioè non aver usato un cazzo di medicamenti», Giacomo Leopardi) cacacazzi o cacacazzo; cappella; cazzata, cazziatone, cazzone, faccia da cazzo, incazzarsi («tu con quella storia di Marcello mi fai sempre incazzare», Dino Buzzati), incazzatura, incazzoso, testa di cazzo (o di minchia); da minchia derivano minchiata, minchionaggine, minchionare, minchione («oh che vecchio minchione!», Carlo Goldoni); da pirla, pirlata, pirlone; da coglione («la natura mi ha dato un cuore tanto coglione che alla prima parola dolce si arrende», Monti), coglioneria, coglionare («non mi resta che il desiderio di non farmi coglionare», Giuseppe Giusti), coglionata, prendere in coglionella, rincoglionito, rompere i coglioni (o le scatole o le palle – e, per influenza settentrionale, le balle – o gli zebedei); da culo («ma son un che v’ho in culo a tutta botta», Alessandro Tassoni) derivano faccia da (o di) culo (o come il culo), inculare, inculata, leccaculo, paraculo, sculato; sono connessi a fica (o, sempre più spesso oggi, per influenza settentrionale, figa, da cui sfiga e sfigato), fregna, fregnaccia, fregnone («è intelligente ma gran fregnone», Massimo Bontempelli), frescaccia, frescone, sorca; rompicazzo, rompicoglioni («mi sa che lei è uno strano tipo di seccatore e rompicoglioni», Riccardo Bacchelli), rompipalle, rompiscatole, scassacazzi, scassaminchia, spaccapalle.
Le metafore riguardanti gli organi sessuali hanno una gamma di funzioni che spazia dall’offesa all’elogio: «il pene è un jolly linguistico» che può esprimere sorpresa (cazzo!), offesa (cazzone), elogio (cazzuto), noia (scazzo, scazzato), rabbia (incazzato), approssimazione (a cazzo: Tartamella 2006: 10), una cosa da poco o una bugia (cazzata), ecc. Addirittura superiore lo spettro semantico di culo, da «fortuna» a «disappunto», ecc. Una certa (sebbene inferiore) varietà si riscontra anche con altri termini del genere (palloso, palla «bugia», avere le palle).
Le discriminazioni e i pregiudizi contro l’omosessualità (soprattutto maschile) o la sessualità indebolita o dubbia accomunano quasi tutte le lingue e le culture e producono anche in italiano parole volgari come: checca, culattone, finocchio, frocio, metterlo in culo, prenderlo in culo, recchione, rotto in culo; castronaggine, castrone, castroneria («conobbe di esser per dire o di aver già detto qualche castroneria», Ippolito Nievo).
Naturalmente, la carica di un insulto non è intrinsecamente legata alla forma o al registro delle parole, bensì alle intenzioni dei parlanti e alla relazione intercorrente tra l’insieme degli stereotipi e dei pregiudizi connessi a un determinato concetto e il loro sfruttamento a fini denigratori: dire di qualcuno che è gay (magari con un paragone svalutativo: sei viscido come un gay) può essere ben più offensivo rispetto a termini ritenuti più volgari. Variamente insultanti sono anche gli altri eufemismi del genere: anormale, contro natura, dell’altra sponda, diverso, effeminato, il disusato invertito, ragazzo di vita, sodomita, vizietto. Proprio contro l’ipocrisia dell’eufemismo che maschera (con presupposizione di senso di superiorità) l’insulto e la discriminazione, molto spesso gruppi sociali ritenuti marginali rivendicano per sé il termine connotato come più triviale, respingendo quello più eufemistico. È il caso di queer (corrispondente al nostro checca), preferito a homosexual e a gay, negli ambienti omosessuali internazionali odierni, un po’ come il temutissimo (dai bianchi) nigger è usato oggi orgogliosamente, e quasi gergalmente (nigga), dalle comunità afroamericane: deve essere il membro del gruppo a stabilire come vuol essere appellato e nessun altro può arrogarsi il diritto di imbellettargli (o comunque mediargli) la realtà.
Strettamente legata al contesto d’uso e sociale e all’intenzionalità è la punibilità delle parole ‘proibite’. Difficilmente la legge può sceverare le parole di per sé offensive da quelle innocue: proprio per questo la discrezionalità dei giudici è notevole in simili casi, nonostante «30 fra leggi e articoli» sanzionanti il turpiloquio e l’insulto, specie se rivolto alle più alte cariche dello Stato, nota Tartamella (2006: 102); e aggiunge:
In Italia dal 1999 la bestemmia non è più un reato penale (è sanzionato con un’ammenda): segno della laicità dello Stato. Ma l’impatto sociale della bestemmia resta forte: nel 2004 Roberto “Baffo” da Crema e Guido Genovesi sono stati cacciati dalla tv per aver bestemmiato nei reality show “La fattoria” e “Il grande fratello” (ivi, pp. 18-19)
Un’ultima serie di parole oscene rimanda alla masturbazione, usata per stigmatizzare metaforicamente persone e comportamenti legati all’inettitudine e alla vanagloria: menarsela o menarselo, tirarsela; pippa, pipparolo, sega, mezzasega, segaiolo; sborrone (o sborone), venire, venirsene.
Seguono i termini e le locuzioni principali riconducibili alla sfera scatologica: cacare (e, per influenza settentrionale, cagare), cacarella, cacarsi sotto (o addosso: «e Castiglion fra le percosse mura / sotto si cacherà de la paura», Tassoni), cacasotto, cacca, cacone (e cagone); cesso; chiavica; farsela sotto (o addosso); (pezzo di) merda («questo aver dato fede a tuoi incantesimi e tue merde m’ha rovinato», Giovanni Maria Cecchi), merdaio, merdata; stronzata («l’ira, a sentire quelle stronzate, avrebbe potuto travolgere addirittura un piccolo uccello da solo», Paolo Volponi), stronzo; piscia, piscialetto (o piscialletto), pisciare, pisciarsi sotto (o addosso: «il prete, mentre che costui diceva queste parole, pisciandosi sotto per la paura si era ricoverato sotto il letto», Agnolo Firenzuola), pisciasotto, piscione.
Le imprecazioni vengono formulate soprattutto mediante il ricorso a locuzioni ed espressioni auguranti il male e si servono spesso di parole tabu (e talora anche oscene), spesso nella versione eufemistica (➔ tabu linguistico): alla malora; che ti venga un colpo (o uno sbocco di sangue), ti pigliasse (e sim.) un canchero («ti venga il cacasangue, la febre, il cancaro», Matteo Bandello), crepa; mannaggia (alla miseria: «mannaggia a voi!», Luigi Pirandello); muori. Oppure invocando una divinità (del bene o del male), il cui nome è spesso deformato per tabu: cribbio, Cristo (di Dio: «Cristo di Dio, non siete pronti?», Italo Calvino); diamine, diavolo; perbacco, perdiana, per Dio (o perdio: «perdio, s’è freddo! si gela!», Giovanni Verga), per Giove, per la Madonna (o per la madosca: «cos’è, per la madosca, questo mortorio?», Carlo Bernari); porco due, porco qua porco là, porco zio.
Altre espressioni: ostrega, per la miseria, porca (o puttana) Eva, porca puttana (o mignotta), porca l’oca, porca miseria, porco cane, porco mondo, sacramento, sangue di Giuda, sangue di Bacco, sangue di Dio, sangue d’un cane, sangue d’un turco.
Assai labile può risultare il confine tra imprecazione e bestemmia, soggetto a oscillazioni in base all’epoca, alla cultura e al luogo. È noto, per es., come in alcune regioni italiane, quali la Toscana o il Veneto, la bestemmia, spesso svuotata di senso, sia utilizzata quasi come esclamazione o intercalare, nel parlato informale anche di persone colte. Alcune espressioni, come per dio, comunemente utilizzate, fino ai primi del Novecento, anche in testi letterari e non avvertite come marcate, sono oggi considerate sconvenienti.
Dato che le forme sopra citate sono colpite da interdizione linguistica (➔ tabu linguistico), sono di frequente sostituite da eufemismi (Galli de’ Paratesi 1969), che vengono ad assumere essi stessi connotazione oscena. Spesso, per es., per designare gli organi sessuali si ricorre a metafore, soprattutto del mondo animale o vegetale: banana, cavolo, fava, farfallina, marroni, passera, patata, pisello, topa, uccello. Anche la metonimia può servire per costruire un eufemismo: amplesso, andare a letto, dormire insieme; basso ventre; matrice, natura. Numerosi gli eufemismi riferiti all’ambito della prostituzione: bella di giorno, casa (d’appuntamenti, di malaffare, equivoca), donna di facili costumi, donna di vita, donnina allegra, escort, fare il mestiere (più antico del mondo), fare la vita, fare marchette, lucciola, mercenaria, meretrice, passeggiatrice, peripatetica, prostituta, protetta, ragazza squillo o squillo, segnorina o signorina, sex worker o operatrice del sesso.
A volte un termine generico sostituisce la parola oscena: coso o cosa. Si ricorre talvolta anche all’uso di perifrasi generiche, costruite di solito con un aggettivo o pronome dimostrativo o indefinito (➔ dimostrativi, aggettivi e pronomi; ➔ indefiniti, aggettivi e pronomi), per designare eufemisticamente certe realtà tabu: certe cose o quelle cose «atti sessuali»; una di quelle «prostituta»; frequentare certi posti; andare (o mandare) a quel paese o in quel posto, mandarci (assol.: «se non la smetti ti ci mando!»), prender(se)la in quel posto (o in saccoccia). Similmente, talora soltanto un pronome allude all’oggetto o all’azione innominabili: darla, metterlo, prenderlo, farlo. Anche la semplice omissione può fungere da strategia eufemistica e censoria, segnalata da una pausa allusiva nel parlato e dai ➔ puntini sospensivi nello scritto. Fino a non molti anni fa, anche opere letterarie che contenevano termini o situazioni ritenuti scabrosi venivano tagliate o parafrasate in edizioni dette purgate (o espurgate). Celeberrima la «rassettatura» del Decameron effettuata nel 1582 da ➔ Lionardo Salviati.
La deformazione delle parole, mediante sostituzione di uno o più fonemi, è tra le tecniche eufemistiche più adottate: cacchio «cazzo»; cribbio «Cristo», diamine «diavolo», dinci o dindirindina «Dio», madosca «Madonna» (nelle bestemmie parzialmente autocensurate). La deformazione può dare luogo anche a una parola di senso compiuto, che però è assunta soltanto per somiglianza fonetica, e non semantica, con quella interdetta: kaiser «cazzo»; maremma «Madonna». In certe espressioni cristallizzate, si può esprimere un concetto tabu mediante il suo contrario (antifrasi): figlio di una buona donna; andare (o mandare) a farsi benedire.
Spesso ai registri espressivi è assegnata una particolare valenza eufemistica. Talvolta si crede che, nominando un concetto tabu con un termine tecnico-scientifico (o ritenuto tale) o burocratico o aulico, l’effetto spiacevole di quel concetto si riduca: amplesso, coito, pederasta. Stesso risultato si ottiene col ricorso al linguaggio infantile in luogo dei termini ritenuti troppo audaci in certi contesti: parlando a tavola, o anche nella lingua della pubblicità, è più frequente sentir dire fare pipì e fare popò piuttosto che orinare e defecare, e questi ultimi, a loro volta, al di fuori del linguaggio scientifico, vengono spesso usati eufemisticamente in luogo di altri termini. Analogamente per i diminutivi eufemistici degli organi genitali: palline, passerina, patatina, pisellino, pistolino, uccellino.
A volte l’uso di un termine di una varietà regionale ritenuta più prestigiosa contribuisce ad abbassarne la valenza di oscenità: accade con i già citati settentrionalismi balle, cagare, sborone e, in misura minore, figa. Lo stesso accade con le lingue straniere, vive o morte: da fellatio a petting.
Come risulta dagli esempi finora addotti, il concetto di eufemismo non è mai assoluto, bensì sempre relativo al contesto, al registro e all’epoca. In effetti, la storia della lingua mostra che parole nate come eufemistiche (per es., perché metaforiche) hanno poi mutato registro (spesso perché il valore della metafora non viene più colto dai parlanti) e sono state a loro volta interdette, provocando così la nascita di nuovi eufemismi. È il caso, tra gli altri, dei termini usati per mascherare la parola cesso, che in origine designava, eufemisticamente, il luogo in cui ci si ritira (dal lat. cedere). Viceversa, parole in origine considerate volgari vengono oggi usate come eufemistiche, in virtù della loro veste latineggiante o comunque arcaizzante: meretrice era in origine assai volgare, perché designava direttamente colei che guadagna vendendo il proprio corpo (dal lat. merēre «guadagnare»), mentre mignotta (dal fr. mignotte «favorita») era all’origine un termine metaforico. Tale ciclo eufemistico continuo è dunque una delle cause dell’arricchimento del lessico. Alcune parole oscene nascono in realtà come aggettivi etnici dapprima non marcati, usati poi come insulto, con passaggio dallo stereotipo al pregiudizio (il meccanismo è tuttora tristemente produttivo, da zulu, a zingaro, a extracomunitario; Pistolesi 2008): baldracca («di Baghdad»); frocio (probabilmente «francese»); buggerare (da bulgaro, popolo a cui si attribuivano esecrabili usanze sessuali).
Non a tutte le forme sopra citate è assegnata la stessa carica di oscenità e di interdizione.
Solitamente, le parole usate in accezione metaforica vengono avvertite come meno volgari: sicuramente fregare nel senso di «rubare» è considerato meno triviale rispetto al senso originario (peraltro ignoto a molti italiani) di «avere un rapporto sessuale». Analogamente si dica per buggerare (la sessualità anale funge spesso da metafora per il lessico dell’imbroglio), casino, balla e altri.
Inoltre alcuni termini tendono talora a svuotarsi di senso e ad essere usati come interiezioni, segnali discorsivi, intercalari o ➔ intensificatori di negazione o di interrogazione o espletivi di esclamazione. Tipico è il caso di cazzo (e degli eufemistici cacchio, cavolo e, nelle negazioni, tubo, corno e altri): non me ne importa un tubo, che vita del cavolo!
Galli de’ Paratesi, Nora (1969), Le brutte parole. Semantica dell’eufemismo, Milano, Mondadori.
Nobili, Paola (a cura di) (2007), Insulti e pregiudizi. Discriminazione etnica e turpiloquio in film, canzoni e giornali, Roma, Aracne.
Pistolesi, Elena (2008), La banalità dell’altro: dallo stereotipo all’insulto etnico, in Migrazione e identità culturali, a cura di S. Taviano, Messina, Mesogea, pp. 227-238.
Tartamella, Vito (2006), Parolacce. Perché le diciamo, che cosa significano, quali effetti hanno, Milano, Rizzoli.