PARSI
. Denominazione, letteralmente significante "Persiani" della comunità zoroastriana d'India, discendente da zoroastriani di Persia immigrati in India, in seguito all'invasione araba e all'islamizzazione della loro patria, nel sec. VIII d. C. I particolari storici e cronologici della prima migrazione (cui è probabile che altre si siano aggiunte in seguito) sono pochissimo noti. La più antica fonte in proposito, un racconto in versi redatto in persiano nel 1600 d. C., e intitolato Storia di Sangiān (Qiṣṣah-i Sangiān), per quanto affermi di basarsi su antiche tradizioni, non può, per l'età tarda e la stessa forma letteraria, aspirare che a una vaga credibilità storica: essa comunque narra come, ucciso nel 651 l'ultimo re sassanide Yezdegerd e crollato con lui lo stato nazionale persiano, un gruppo di zoroastriani, per preservare la fede avita, si rifugiasse nella regione del Kōhistān, e di lì al porto di Hormuz sul golfo Persico, donde nel 766 i loro discendenti s'imbarcarono, e, abbandonando definitivamente la patria, veleggiarono per l'India. Sbarcati a Div nel Kāthiāwār, vi si fermarono 19 anni, trasferendosi nel 785 a Sangiān (circa 90 km. a N. di Bombay). Ivi un principe indù, Giāi Rānā o Giādi Rānā, concesse loro di stabilirsi, d'istituire un pireo e di praticare il loro culto, purché avessero adottato la lingua e gli usi del luogo. Tre secoli dopo (nel 1090 d. C.), la colonia di Sangiān si diffondeva in pacifica diaspora per tutto il Gujarāt. E sino alla seconda metà del sec. XVIII i loro centri principali sono effettivamente rimasti nel Gujarāt (specie a Surat e Navsari), sino a che l'importanza commerciale di Bombay li attrasse in gran numero anche colà; oggi la più numerosa e florida colonia parsi si trova appunto a Bombay.
Nonostante l'indianizzazione nel linguaggio (la lingua corrente odierna dei Parsi è il gujarātī), nel costume e, parzialmente, nelle sue stesse credenze religiose, la comunità parsi, prolifica e certo rinforzata da altri nuclei migratori dall'Iran, ha nel complesso mantenuto con tenacia il patrimonio spirituale, religioso e sociale della vecchia patria iranica. Accanto all'attività commerciale, che per i primi secoli sembra abbia assorbito ogni loro interesse, anche le esigenze culturali, soprattutto intese alla conservazione e allo studio della loro tradizione storica e religiosa, non tardarono a svilupparsi in alto grado tra i Parsi. Attraverso essi, come è noto, fu rivelato all'Europa l'Avestā, e allorché, grazie al memorabile viaggio di Anquetil Duperron, l'antica civiltà e religione iranica si cominciarono a conoscere e studiare in Occidente, l'attività intellettuale dei Parsi attinse più riflessa e scientifica coscienza del proprio passato, e ha collaborato egregiamente con la scienza europea nello studio dei documemi dell'Avestā e della letteratura pehlevica. Figure di scienziati come l'iranista J. J. Modi (morto nel 1933) e istituzioni scientifiche come il Cama Oriental Intitute di Bombay attestano l'alto livello che hanno saputo raggiungere i Parsi, adottando i metodi della scienza europea. Tale assimilazione nel campo scientifico è del resto parallela a tutto un fecondo adattamento a varî aspetti della civiltà occidentale, che ha condotto i Parsi, senza rinnegare la propria tradizione, a sviluppare le già innate doti dell'attività pratica e commerciale, giungendo a un considerevole grado di prosperità economica, nobilitata da una vivissima inclinazione per la beneficenza e la previdenza sociale.
Il numero attuale dei Parsi dell'India si aggira intorno ai 100 mila. Si distinguono in laici (bīhdīnān) e sacerdoti (athornan), e si suddividono nelle due sette Qadīmī e Shāhānshāhi, la cui principale differenza del resto consiste solo nel diverso computo dell'era di Yezdegerd. L'europeizzazione culturale ha lasciato sostanzialmente intatti i principali riti religiosi, di cui il più noto è quello dell'esposizione dei cadaveri sulle dakhmah o torri del silenzio, ove vengono divorati dagli uccelli di preda. V. anche parsismo.
Bibl.: D. Menant, Les Parsis. Hist. des communautés zoroastriennes de l'Inde, Parigi 1898; id., in Hastings, Encycl. of relig. a. ethics, IX (1917), pp. 640-650.