Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Una forte vocazione alla spiritualità rappresenta, da qualche decennio a questa parte, il filo conduttore dell’esperienza creativa di molti musicisti nati nelle aree geografiche dell’ex Unione Sovietica. L’esigenza di esprimere messaggi spirituali, spesso alimentata da una profonda fede religiosa, si risolve in una musica non convenzionale, orientata verso un’ardita sperimentazione linguistica ed espressiva, pervasa da un’aura di misticismo e capace di trasportare l’ascoltatore verso nuove dimensioni del tempo e dello spazio sonoro cariche di silenzio e mistero.
L’idea che l’arte debba trovare la sua principale ragion d’essere in una profonda tensione morale nei confronti della sfera della spiritualità ricorre con particolare insistenza tra i compositori dell’Est europeo: un’aspirazione che ha saputo varcare i confini della musica religiosa destinata al culto e alla funzione liturgica, manifestandosi con assoluta evidenza in ogni altro genere e repertorio musicale. Raramente il tema religioso viene chiamato in causa come mero pretesto ispirativo: la sua presenza, in quanto libera scelta dell’artista, è sempre lievitata da un’intenzione consapevole e da motivazioni creative profonde. Più che rimanere relegato nella sfera del privato, il riferimento alle tematiche spirituali viene spesso esibito con forza, tenacia e convinzione: “per quanto non religiose in senso liturgico”, spiega Galina Ustvolskaja, l’allieva prediletta di Dmitrij Sostakovic (1906-1975) nata a Pietrogrado nel 1919, “le mie opere sono piene di spirito religioso, e secondo me possono produrre il loro effetto migliore in una chiesa, senza introduzioni e senza analisi scientifiche”.
Interpretare un fenomeno così vistoso come un’inevitabile reazione al tramonto dell’utopia rivoluzionaria del materialismo sovietico – una nuova età dello “spirito” contrapposta al precedente dominio della “materia” – è una chiave di lettura plausibile, ma non risolutiva. È fuor di dubbio che dopo la morte di Stalin, e ancor più nell’epoca del lento e successivo “disgelo”, gli artisti si siano progressivamente affrancati dall’onere di trasmettere la visione del mondo propagandata dal realismo socialista. Il rifiuto del passato recente non basta tuttavia a giustificare la portata del fenomeno: la vocazione dell’arte a esplorare le regioni dello spirito affonda infatti le sue radici nella tradizione più remota della cultura russa, se è vero, come annota Piero Gobetti nel 1921, che “la Russia è, nella storia moderna, la patria naturale di tutti i misticismi”. Ancora oggi, per i compositori dell’Est, l’opposizione tra razionalità e mistero si configura come contrapposizione tra Occidente e Oriente, e risale in ultima analisi all’eredità musicale di Aleksander Skrjabin, che con le sue utopie esoteriche – influenzate, più che dalla religione, dalle filosofie indiane dell’estasi, dal pensiero teosofico e dal decadentismo letterario – ha saputo anticipare in modo assai eloquente, fin dall’inizio del XX secolo, l’aspirazione alla trascendenza che nei decenni successivi avrebbe alimentato la poetica creativa di tanti musicisti sovietici. Nonostante le censure del regime, gran parte di questi compositori ha avuto modo di entrare in contatto con l’esperienza delle avanguardie europee del secondo dopoguerra: un frutto proibito, e dunque assai prelibato, che molti musicisti nati negli anni Trenta e Quaranta non hanno disdegnato di assaporare durante la loro prima stagione creativa.
Ben presto, tuttavia, l’esigenza di forgiare un’identità autonoma rispetto allo stile internazionale ha messo in atto un movimento di emancipazione paragonabile a quello delle scuole nazionali del XIX secolo, inducendo gran parte dei musicisti dell’Est a riscoprire e valorizzare le proprie radici culturali. Valentin Silvestrov, nato a Kiev nel 1935, è stato tra i primi a sperimentare la possibilità di conciliare l’approccio concettuale delle avanguardie occidentali con un atteggiamento intuitivo venato di misticismo: basta ascoltare un pezzo come Misterium per flauto e 6 gruppi di percussioni (1964), skrjabiniano fin nel titolo, per verificare come il rigore del pensiero seriale possa magicamente conciliarsi con l’universo del mistero, popolato da libere gestualità incantatorie dal sapore mistico e rituale.
Anche il russo Alfred Schnittke (1934-1998) è attratto inizialmente dalle tecniche seriali per poi approdare, con la Prima Sinfonia composta tra il 1968 e il 1972, a una scrittura polistilistica che combina citazioni mutuate da fonti assai eterogenee: jazz, musiche per film, classici – Beethoven, Chopin, Strauss, Ciajkovskij – musiche per banda, canzoni patriottiche. “Mescolo gli stili e li trasformo”, spiega il compositore, “non per trarne una sintesi, ma per creare una scrittura polistilistica nella quale tutte le diversità degli stili sono usate come tasti di un’unica grande tastiera”. Le potenzialità di una scrittura intessuta di memorie musicali sono già state esplorate da vari esponenti delle avanguardie europee come Zimmermann, Henri Pousseur, Mauricio Kagel e Luciano Berio: ciò che contraddistingue l’eclettismo di Schnittke, tuttavia, è la natura fortemente simbolica, quasi metafisica, delle sue associazioni. Nel riflettere la pluralità di strati che abitano la coscienza dell’uomo moderno, il polistilismo enfatizza la dimensione etica del lavoro dell’artista, che spesso organizza i suoi materiali in vista dell’enunciazione di un preciso messaggio extramusicale: realizzare un grande affresco dell’Apocalisse, ad esempio, è l’obiettivo programmatico sotteso alla Prima Sinfonia. Non è raro che le opere di Schnittke si colorino di forti tinte religiose: emblematico il caso della Quarta Sinfonia (1984), in cui l’autore si cimenta in un arduo esercizio di stilizzazione di vari tipi di musica liturgica (ortodossa, cattolica, protestante ed ebraica). Il messaggio che Schnittke intende trasmettere ai suoi ascoltatori è che, al di là delle differenze di pratiche e liturgie, queste religioni condividono un importante nucleo spirituale originario: ecco dunque che le quattro confessioni si incarnano in quattro temi ben connotati che si dibattono in stridenti dissonanze fino a ricongiungersi, alla fine del pezzo, in una calda e riconciliante armonia diatonica.
Anche la compositrice Sofija Gubajdulina, nata in Tataria nel 1931 da madre russa e padre di origine islamica, indica come tema dominante della sua arte “la vita spirituale di ogni tempo”. Un’attitudine che emerge non solo nelle composizioni vocali, spesso basate su testi biblici, ma anche nelle opere strumentali, caratterizzate da titoli emblematici come Offertorium (1980) – il concerto per violino e orchestra dedicato a Gidon Kremer, che dall’inizio degli anni Ottanta contribuisce a far conoscere la sua musica al pubblico occidentale – o Le ultime sette parole (1982) per violoncello, bajan e archi, articolato in sette episodi scanditi dai versetti evangelici che riportano le ultime parole di Gesù sulla croce. L’immagine della Passione assume un ruolo cruciale in gran parte delle sue opere, dove sia gli organici strumentali che i gesti degli esecutori si inscrivono in un universo simbolico dominato dal disegno della croce.
Occorre tuttavia precisare che l’esigenza di una musica venata di ascetismo, visionaria, attenta agli echi provenienti dall’antico cristianesimo ortodosso e alle tradizioni rurali in via di estinzione, è fenomeno assai diverso dallo spiritualismo a buon mercato di tanta musica new age dilagante nei Paesi occidentali, dove un pensiero ampiamente “secolarizzato” tende a nutrirsi di misticismo alla stregua di un’omeopatica cura antistress. Nelle regioni dell’Est, la vocazione alla spiritualità nasce dall’imperativo morale di restituire la cultura russa alla sua ancestrale vocazione messianica: non è un caso se, di fronte alla domanda capitale posta a titolo di un saggio del 1897, – Che cos’è l’arte – Lev Tolstoj non possa far altro che spiegare che il valore di un artista si misura in base alla rispondenza delle sue opere alla coscienza religiosa del suo popolo e del suo tempo.
L’aspirazione a una musica autenticamente religiosa, capace di accostarsi all’idea stessa di trascendenza attraverso un linguaggio semplice e scarnificato, è il filo conduttore dell’esperienza di Arvo Pärt, nato in Estonia nel 1935. Tabula rasa è il titolo di un pezzo del 1977 con cui – dopo un periodo di silenzio creativo durante il quale il compositore si immerge nello studio della musica sacra medievale e rinascimentale e matura una netta presa di distanza dal linguaggio delle avanguardie europee utilizzato nelle opere precedenti – Pärt inaugura lo stile della “tintinnabulazione” (dal latino tintinnabuli, campane): “La tintinnabulazione è un’area in cui a volte comincio a girovagare quando cerco delle risposte – nella mia vita, nella mia musica, nel mio lavoro… la complessità e la pluralità servono solo a confondermi e io devo cercare l’unità… tutto ciò che è secondario si sgretola. La tintinnabulazione è proprio questo. In quel momento io sono solo con il silenzio. Ho scoperto che è sufficiente anche una sola nota, se viene suonata bene. Questa nota, o una pausa, o un momento di silenzio mi confortano”. L’obiettivo del compositore è dunque quello di ottenere il massimo della comunicazione con il minimo dei mezzi espressivi. Gran parte delle sue opere, spesso destinate all’uso liturgico come Summa (Credo, 1977), Magnificat (1989), Berliner Messe (1990), sono caratterizzate dalla persistenza di un’unica triade di tonica che funge da centro di gravitazione di un incedere ciclico e ripetitivo: un ritmo ipnotico che annulla il flusso temporale, trascinando l’ascoltatore verso un’autentica esperienza di contemplazione mistica.
Anche il compositore georgiano Giya Kancheli (1935-) condivide con Pärt l’idea che la musica, per accedere alle regioni dello spirito, debba isolarsi dai “rumori” del mondo e aspirare alla massima povertà di materiali e mezzi espressivi: “ad ogni nuovo pezzo, il suo linguaggio musicale diventa sempre più semplice”. Attraverso l’utilizzo di tecniche di articolazione minimale, Kancheli realizza nei suoi pezzi una condizione di “stasi dinamica” capace di produrre in chi l’ascolta un effetto cullante e incantatorio.
Ben più radicale la posizione del russo Aleksandr Knaifel’ (1943-), che attraverso l’estrema valorizzazione del silenzio si avvicina a una nozione del tempo musicale prossima alla stasi totale: un tempo mistico, quasi immobile, che richiede all’ascoltatore un vero e proprio esercizio ascetico. Secondo un antico testo bizantino di Dionigi l’Areopagita, più si sale nella gerarchia degli angeli e meno parole si hanno a disposizione: l’angelo più alto ha una sola sillaba e, sopra di lui, il verbo divino si compie nel silenzio. Nella sua aspirazione ad accostarsi alla sfera del trascendente, la musica di questi compositori ci pone di fronte a un universo morale granitico e imperturbabile, assai distante da quella spiritualità inquieta e balbettante che ha contraddistinto l’esperienza della modernità occidentale: al di là del divario di storie e tradizioni culturali, rimane il fatto che una vocazione alla spiritualità così intransigente e assoluta ha saputo concretizzarsi in uno stimolo creativo di straordinaria efficacia, orientando la ricerca compositiva verso l’esplorazione di nuovi orizzonti sonori.