Abstract
La voce analizza le varie forme di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese nella normativa europea e nell’ordinamento italiano. Si indicano i motivi della non attuazione dell’art. 46 Cost., le proposte legislative in materia, le più recenti esperienze di partecipazione di origine contrattuale, e gli interventi di incentivo ai premi di produttività e al welfare aziendale nelle leggi di bilancio per il 2016 e 2017, le esperienze di partecipazione azionaria dei dipendenti e il relativo (limitato) sostegno legislativo.
Da ultimo si analizza l’impatto delle trasformazioni dell’impresa sulle forme partecipative dei lavoratori.
La partecipazione dei lavoratori nelle imprese è un tema storico per il diritto del lavoro e per le relazioni industriali; non solo in Italia, ma in molti paesi ad economia sviluppata.
L’Unione europea ha sviluppato da decenni un’intensa attività normativa, relativamente a diverse forme e gradi di partecipazione, dal diritto di informazione alla consultazione fino ai diritti di partecipazione nella governance delle imprese e alla partecipazione finanziaria realizzata con l’azionariato dei dipendenti (Roccella, M.-Treu, T., Diritto del lavoro nell’Unione Europea, Milano, 2016, cap. XIV; Magnani, M., La riforma dei contratti e del mercato del lavoro, ADAPT, 2015, n. 4, 33 e ss.; Corti, A., La partecipazione dei lavoratori. La cornice europea e l’esperienza comparata, Vita e Pensiero, Milano, 2012; Biasi, M., Il mondo della partecipazione dei lavoratori in Italia. Evoluzione e prospettive nel confronto col modello tedesco ed europeo, Milano 2013).
L’attività della Comunità in questa materia si è sviluppata sin dal 1970 secondo due prospettive: una riguarda il diritto delle relazioni industriali, l’altra attiene anche e soprattutto al diritto societario. Nella prima rientrano la proposta di direttiva del 1980, nota con il nome di Vredeling, concernente l’informazione e la consultazione dei lavoratori nell’ambito di imprese e di gruppi multinazionali, e la dir. 94/95/CE sui Comitati aziendali europei, relativa all’informazione e consultazione dei dipendenti delle imprese e dei gruppi di imprese e di dimensioni comunitarie.
Alla seconda linea di intervento fanno capo le normative relative ad uno statuto dell’impresa europea ed alla struttura delle società per azioni nei Paesi membri, dirette ad introdurre forme di partecipazione collettiva dei dipendenti all’interno dell’impresa societaria.
La tipologia dei diritti in esame è rimasta alquanto eterogenea per quasi tutti gli aspetti rilevanti: oltre alla fonte, la diffusione, il contenuto e l’incidenza sulla vita aziendale, le procedure di esercizio, i soggetti attivi.
Solo i diritti di informazione hanno una diffusione generalizzata in tutti i paesi membri, compresa l’Italia, prevista o per legge o per disposizione dei contratti collettivi.
Forme di consultazione stabile e di partecipazione istituzionale alle decisioni dell’impresa hanno un’estensione limitata in Stati come Italia e Gran Bretagna, caratterizzati da forti tradizioni contrattualistiche e rivendicative, mentre sono generalizzate in altri Paesi ove hanno ricevuto esplicito riconoscimento e regolazione per legge (Germania, Olanda, Danimarca, Svezia).
La partecipazione organica è diffusa anzitutto in Germania, anche se in forme e con intensità diverse, per lo più realizzate con la presenza di rappresentanti dei lavoratori nei consigli di sorveglianza delle (grandi) società.
La configurazione delle forme partecipative nei paesi europei si è rivelata di difficile armonizzazione, tanto è vero che lo statuto della Società europea (SE), approvato dopo varie riformulazioni con il reg. 2157/2001/CE e con la dir. 2001/86/CE propone non un modello unico ma una pluralità di procedere per costituire la SE e di modalità partecipative dei lavoratori in tale società.
Per altro verso la diffusione delle SE pur crescente negli ultimi anni, è limitata (si stimano circa 600 casi) e rimasta concentrata nei paesi del centro-nord Europa dove sono più radicate le forme di partecipazione organica. Gli stessi sindacati europei non sembrano forzare su questo istituto, e hanno dedicato maggiore interesse al potenziamento dei diritti di informazione e consultazione e dei CAE.
Quanto alla partecipazione finanziaria, l’Unione europea si è limitata a una raccomandazione, la 92/443/CEE, che promuove la partecipazione dei lavoratori ai profitti e ai risultati dell’impresa, compresa la partecipazione al capitale tramite l’azionariato. Il Parlamento europeo nella sua risoluzione del 14.1. 2014 ha sostenuto che i piani di partecipazione finanziaria dei lavoratori possono svolgere un ruolo significativo nel coinvolgere ulteriormente i lavoratori nei processi di informazione-consultazione e decisionali, durante le ristrutturazioni.
Secondo le stime più recenti (v. il rapporto Pepper IV, 2012), queste forme di partecipazione finanziaria risultano aver avuto una discreta diffusione in quasi tutti i paesi europei, compresa l’Italia.
Nell’ordinamento italiano lo sviluppo della partecipazione dei lavoratori all’interno delle imprese ha incontrato storicamente forti ostacoli, che sono tuttora presenti, anche se da qualche anno il tema ha attratto un rinnovato interesse non solo nel dibattito fra esperti, ma anche nella pratica delle relazioni industriali e in sede parlamentare (v. in generale Carrieri, M.-Nerozzi, P.-Treu, T., a cura, La partecipazione incisiva. Idee e proposte per rilanciare la democrazia nelle imprese, Bologna, 2015, spec. Introduzione, 7 ss, e Parte prima, 45 ss.).
Le resistenze alla diffusione delle forme partecipative sono state così forti da oscurare la norma costituzionale dell’art. 46 che pure riconosce il diritto dei lavoratori a partecipare nell’impresa come un elemento caratterizzante del modello economico e sociale.
L’art. 46 è rimasta una norma incompiuta.
Gli ostacoli allo sviluppo del modello partecipativo in Italia sono radicati nella nostra storia economica e politico-sociale. Le relazioni di lavoro sono state caratterizzate finora da una marcata impostazione conflittuale e da divisioni ideologico-politiche fra le maggiori centrali sindacali, cioè da elementi distanti, quasi opposti, rispetto a quelli favorevoli all’emergere di modelli partecipativi in altri paesi. In questi sistemi la partecipazione è stata alimentata da fattori quali l’unità sindacale, la stabilità politica e una maggiore condivisione del quadro economico-sociale che hanno favorito quel clima di long term mutual trust adatto a sostenere relazioni di lavoro partecipative.
Le forze politiche del nostro paese non sono intervenute sul tema per le divergenze esistenti anche fra di loro, non venute meno nel lungo periodo del dopo costituzione, e per la tendenza a delegare alle parti sociali l’iniziativa sui temi del lavoro, e a non forzare iniziative legislative che non avessero largo consenso sociale.
D’altra parte la struttura produttiva dell’economia industriale fordista non era favorevole, anzi contrastava, con l’idea di partecipazione dei lavoratori nell’impresa che era ritenuta un corpo estraneo rispetto alla concezione gerarchica dell’impresa e alla divisione tayloristica del lavoro.
Una evoluzione diversa hanno avuto le forme partecipative dei lavoratori e dei sindacati al di fuori dell’azienda. Esse sono state tradizionalmente diffuse in Italia, con la presenza di rappresentanti delle parti sociali in molte istituzioni pubbliche centrali e decentrate, in primis quelle della previdenza sociale e del mercato del lavoro (Treu, T.-Roccella, M.-Ferrari, G., Sindacalisti nelle Istituzioni, Roma, 1979). Per altro verso la partecipazione delle parti alle questioni macroeconomiche e sociali ha trovato espressione nei grandi patti concertativi (Concertazione [dir. lav.]) che si sono succeduti, pur con alterne vicende, dal 1977 fino a qualche anno fa. Questa sfasatura fra i diversi livelli, aziendali ed extra aziendali, di partecipazione costituisce una anomalia del sistema italiano rispetto ad altri paesi europei, dove la partecipazione dei lavoratori nell’impresa è proceduta parallelamente, anzi talora si è maggiormente sviluppata, di quanto non sia avvenuto nelle politiche economiche e nelle istituzioni pubbliche.
Alcune condizioni di contesto sono andate modificandosi negli anni più recenti in senso più favorevole al superamento di questa anomalia italiana.
Sul piano istituzionale ha contribuito, anche se non può essere sopravvalutata, l’influenza dell’ordinamento europeo anche nel paese, manifestato dalla trasposizione in Italia delle direttive europee in argomento con sei decreti legislativi dal 2002 al 2012 e dal riconoscimento nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE del diritto dei lavoratori all’informazione e alla consultazione nell’impresa, che conferma e rafforza il principio dell’art. 46 Cost., raccordandolo al modello sociale europeo.
Quanto al contesto economico il coinvolgimento dei lavoratori si è rivelato utile ed è stato ricercato dalle imprese come strumento per superare le fasi di crisi, legittimando sacrifici per salvare le aziende e l’occupazione. Questo non significa che la ripresa di interesse per il tema anche da imprenditoriale sia solo legato alle condizioni di crisi.
In realtà il coinvolgimento dei lavoratori è favorito dai caratteri dei nuovi sistemi produttivi con le accresciute esigenze di qualità e di contenimento dei costi, e dalla urgenza di responsabilizzare i dipendenti nella ricerca di competitività e di sviluppo, a fronte della competizione internazionale. D’altra parte, come confermano le ricerche, il crescente grado di istruzione, di consapevolezza e di professionalità dei lavoratori contribuisce ad accrescere il loro bisogno di partecipazione e le potenzialità del loro contributo all’efficienza produttiva.
L’apertura di spazi partecipativi risponde inoltre a bisogni profondi di valorizzazione del lavoro e di autorealizzazione dei lavoratori, e introduce elementi di responsabilizzazione sociale dell’impresa e di trasparenza dei suoi comportamenti: elementi tanto più importanti nell’attuale contesto globale di forti turbolenze economiche e finanziarie.
Anche nel sindacato italiano si registra una crescente consapevolezza della necessità di affrontare la sfida posta dal management partecipativo, con proposte proprie.
Sono significativi i tre avvisi comuni delle parti sociali che hanno preceduto la trasposizione delle direttive europee sul coinvolgimento dei lavoratori e l’avviso comune in materia di partecipazione del dicembre 2009 che viceversa ha registrato il dissenso della CGIL (Alaimo, A., L’eterno ritorno della partecipazione: il coinvolgimento dei lavoratori al tempo delle nuove regole sindacali, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 219/2014, 13).
Nello stesso senso opera lo spostamento del baricentro del sistema contrattuale dal contratto nazionale di categoria a quelli decentrati.
La aziendalizzazione delle relazioni industriali ha implicazioni diverse a seconda sia delle situazioni delle imprese, sia delle modalità con cui si configurano i rapporti fra le parti, quelli contrattuali e quelli in senso lato partecipativi. Ma tale cambio di asse opera significativamente su tutte le principali forme di partecipazione presenti nell’esperienza italiana: non solo sui diritti di informazione e consultazione, ma sulla partecipazione diretta dei lavoratori alle varie decisioni e aspetti della vita aziendale, sulla partecipazione economica e finanziaria, sulle varie forme di welfare aziendale, e su alcune parziali esperimenti di partecipazione strategica presenti in qualche accordo aziendale.
In effetti le esperienze italiane di partecipazione hanno avuto per lo più origine contrattuale, segnatamente in accordi aziendali conclusi per lo più in grandi imprese; e inoltre, ma con fondamenti diversi, nelle imprese Cooperative.
Un tratto comune è che esse si sviluppano in contesti di relazioni industriali tradizionalmente collaborative, capaci di influenzare per diversi aspetti dei rapporti fra le parti. Sono state favorite da prassi di contatti continui e di scambi “positivi” fra le parti che contribuiscono a costruire quel long term mutual trust essenziale per sostenere tutte le forme partecipative.
Sul versante sindacale queste prassi si sono consolidate per la presenza di rappresentanze sindacali stabili e avvezze a praticare unitariamente esperienze di partecipazione. Non a caso tali condizioni favorevoli alla sperimentazione di pratiche partecipative sono state presenti tradizionalmente all’interno delle aziende a partecipazione pubblica, soprattutto statale, ma anche locali. In particolare sono le aziende IRI che hanno avviato i più significativi esperi- menti partecipativi, specie col Protocollo IRI siglato nei primi anni ottanta, che è considerato come il tentativo più avanzato in Italia di partecipazione istituzionalizzata per via contrattuale (Treu, T., Le relazioni industriali nell’impresa: il protocollo IRI, in Riv. it. dir. lav., 1986, n. 3, 395 ss.).
Lo scarso seguito delle indicazioni del Protocollo IRI con il loro progressivo abbandono, sconta i limiti generali dell’esperienza delle partecipazioni statali, rivelatesi nel tempo sempre meno in grado di innovare, secondo la missione iniziale, sia i sistemi produttivi sia la cultura di impresa e in particolare le relazioni industriali.
Ciò nonostante all’interno di alcune aziende a partecipazione si è mantenuta un’attenzione particolare alle opzioni partecipative. Al riguardo vanno menzionate le pratiche di contrattazione aziendale innovative (Contratto collettivo aziendale), sviluppatesi fino agli anni recenti, in particolare all’interno del gruppo Finmeccanica e del gruppo Eni. Gli accordi di Eni (maggio 2011) e di Finmeccanica (aprile 2014) stabiliscono un insieme di strumenti partecipativi alquanto elaborati a vari livelli e su vari temi, che arrivano a toccare aspetti essenziali delle scelte del gruppo, e che includono la presenza di rappresentanti dei lavoratori in commissioni miste di vario livello fino all’interno dei comitati competenti per individuare gli indirizzi fondamentali della vita aziendale.
Tali strumenti echeggiano gli obiettivi della partecipazione strategica propria delle esperienze mitteleuropee, ma secondo la nostra tradizione, mantengono le radici nella contrattazione e quindi risentono dei limiti istituzionali di questa, delle sue alterne vicende nonché dei condizionamenti del contesto generale non favorevole.
Più di recente si sono segnalate alcune esperienze nella stessa direzione, influenzate dalla presenza industriale tedesca, in particolare in Emilia Romagna. In esse appaiono rilevanti non solo i riferimenti alle direttive comunitarie e alla cogestione tedesca (in senso non proprio perché gli accordi non prevedono la partecipazione istituzionale dei lavoratori negli organi aziendali), ma anche l’intervento attivo delle istituzioni locali, a partire dalla regione (Carrieri, M.-Nerozzi, P., Introduzione. Partecipazione e democrazia nelle imprese: un’altra via è possibile, in La partecipazione incisiva, cit. 39 ss.; Telljohann, V., Le nuove piste di Lamborghini e Ducati, in La partecipazione incisiva, cit., 2015, 71 ss.).
Vanno altresì menzionate, per la loro crescente importanza, forme di partecipazione diretta dei lavoratori, non veicolate attraverso modalità concordate con il sindacato, che si stanno diffondendo specie nelle fabbriche in cui sono presenti nuovi modelli di produzione e di organizzazione, quelli improntati alla lean organization o al WCM. In tali contesti si registra un livello molto alto di partecipazione, perché sono queste stesse tecniche innovative che presuppongono la partecipazione. Tale partecipazione definita “diretta” o organizzativa consiste nel coinvolgimento, ad opera tipicamente del management, di piccoli gruppi di lavoratori nello svolgimento di varie attività operative, con maggiore o minore autonomia e possibili estensioni in ambito organizzativo. Il funzionamento e il successo di queste «produzioni intelligenti» richiedono non solo versatilità tecnologica ma continui adattamenti dei comportamenti produttivi e personali, che implicano qualcosa di più della flessibilità tradizionale prevalentemente passiva ma, appunto, forme di partecipazione attiva dei lavoratori (Pero, L.-Ponzellini, A.M., Il nuovo lavoro industriale tra innovazione organizzativa e partecipazione diretta, in La partecipazione incisiva, cit., 75 ss.).
Queste forme di partecipazione, il cui potenziale di diffusione è testimoniato da non poche ricerche, presentano peraltro elementi di ambivalenza, perché risentono del contesto in cui operano e della prevalente iniziativa manageriale. Per tali motivi esse tendono ad assumere connotazioni se non antisindacali, spesso tali da escludere la rilevanza dell’azione sindacale.
Il senso di queste forme di partecipazione diretta è legato più che mai alla dinamica delle relazioni industriali in cui si collocano. La loro ambivalenza può essere risolta qualora esse vengano assunte come un terreno innovativo di azione di sindacati e di rappresentanze aziendali.
In ogni caso la forma più frequente di espressione istituzionalizzata di queste pratiche è la previsione, sempre su base contrattuale, di comitati stabili talora bilaterali, specializzati nella trattazione congiunta delle diverse questioni rilevanti per la vita di fabbrica: da quelle micro relative all’organizzazione del lavoro nelle unità produttive, a quelle di carattere strategico per le sorti dell’impresa.
I casi in cui è stata prevista per vie contrattuali, e informali, la presenza di rappresentanti dei lavoratori negli organi dell’impresa sono pochi: emblematica, e non felice, è l’esperienza passata dell’Alitalia.
Diverse sono le ipotesi di alcune (grandi) imprese cooperative, ove la presenza di rappresentanti dei lavoratori negli organi di gestione è realizzata sfruttando il principio cooperativo del voto capitario, quando esso opera in presenza di un numero rilevante di lavoratori soci.
La diversità fra la presenza organica di rappresentanti dei lavoratori negli organi dell’impresa e le varie forme di comitati con presenza dei lavoratori, ma esterni alla governance dell’impresa, non è irrilevante, al di là delle indicazioni dei documenti europei secondo cui si tratterebbe di forme partecipative equivalenti.
La presenza di rappresentanti negli organi di gestione (e per altri versi nei comitati di vigilanza) mette a disposizione delle imprese un flusso di informazioni continue e favorisce gli scambi di opinioni e i confronti con gli organi di governo dell’impresa più intensa e più stabile di quanto non possa realizzarsi se i rappresentanti restano collocati all’esterno della governance aziendale.
Queste distanze istituzionali non vanno peraltro assolutizzate. Anzitutto perché anche nelle forme più avanzate della mitbestimmug tedesca la presenza dei rappresentanti dei lavoratori negli organi societari è minoritaria e non può determinare le principali decisioni aziendali. Semmai può favorire una distinzione e specializzazione di ruoli per cui i rappresentanti dei lavoratori acquisiscono voce e peso particolarmente rilevanti nelle questioni relative alla gestione del personale.
Secondo questa tacita divisione del lavoro si può ritenere che la posizione e l’influenza di queste rappresentanze organiche possono avvicinarsi a quelle dei rappresentanti sindacali e dei membri del CAE dotati di diritti di informazione, consultazione e anche di contrattazione informale in un sistema di relazioni industriali ben funzionante e a forte impronta partecipativa.
D’altra parte la effettiva influenza della partecipazione dei lavoratori sulle decisioni aziendali può dipendere da fattori diversi dalla composizione e delle competenze formali degli organismi societari, come sottolineano gli stessi autori tedeschi (Weiss, M., Workers’participation in the enterprise in Germany, 2016; Perulli, A.-Treu, T., Enterprise and Social Rights, Kluwer, 2017). Dipende in particolare dalla capacità dei rappresentanti dei lavoratori di far valere le loro posizioni, nelle varie sedi di informazione e consultazione per il sostegno e la forza di pressione dei lavoratori che rappresentano.
Le esperienze italiane di partecipazione contrattuale avvalorano l’importanza di questi fattori nel determinare le vicende e il grado di effettività degli istituti partecipativi. Nel caso italiano queste vicende sono influenzate dalla storica prevalenza nel nostro sistema di un unico canale di rappresentanza in azienda, quello sindacale, che assomma in sé la totalità delle competenze di azione collettiva, a cominciare da quella strettamente contrattuale.
I tentativi realizzati anche negli accordi più avanzati, di specializzare le forme rappresentative e le competenze dei vari comitati partecipativi per distinguerle dall’attività rivendicativa delle rappresentanze sindacali aziendali, hanno sempre trovato un limite in questa concezione unitaria della rappresentanza sindacale.
La ricerca di una via contrattuale alla sperimentazione di forme partecipative corrisponde alla tradizione italiana secondo cui spetta anzitutto all’autonomia delle parti sociali di orientare le scelte in queste materie, mentre l’intervento del legislatore è chiamato a svolgere funzioni di sostegno e a definire il quadro di riferimento necessario, in particolare su come raccordare la partecipazione all’organizzazione dell’impresa.
In tale senso si sono orientate varie proposte di legge parlamentari avanzate nella XVI legislatura (sono sei d.d.l. confluiti in un testo unificato presentato dal sen. Ichino il 18.5.2009) e in parte riprese nella XVII legislatura, in particolare nell’AS 1051 (Sacconi ed altri; v. Treu, T., Le proposte parlamentari sulla partecipazione, in Dir. rel. ind., 2010, 93 ss.; Napoli, M., La discussione parlamentare sulla partecipazione alla gestione delle imprese: la via del sostegno tributario, in Dir. rel. ind., 2010, 72 e ss; Castro, M., Le proposte parlamentari sulla partecipazione, in Dir. rel. ind., 2010, 81 ss.).
Al di là di alcune differenze specifiche queste proposte presentano molti punti di convergenza sia fra di loro, sia con i modelli di paesi vicini e con gli indirizzi della Unione europea.
La convergenza è particolarmente significativa nella indicazione riguardante le forme partecipative nell’impresa, che è comune per tutti i disegni di legge; mentre il tema dell’azionariato dei lavoratori è trattato solo in alcuni dei progetti, e presenta profili particolari.
Sul primo tema tutte le proposte legislative seguono la impostazione comunitaria di ammettere una pluralità di forme partecipative: informazione, consultazione, partecipazione in forma negoziale (comitati bilaterali e simili), presenza negli organi di governo dell’impresa; e riconoscono alle parti la responsabilità di operare le scelte più rispondenti alle loro convenienze in sede di contrattazione aziendale. Si è evitato ogni riferimento alla possibile obbligatorietà dell’opzione partecipativa che era prevista in alcune proposte iniziali, per le aziende medio-grandi organizzate secondo una governance duale (Consiglio di amministrazione e Consiglio di vigilanza).
Su questo ultimo punto l’opzione preferita è di solito per la partecipazione di rappresentanti eletti dai lavoratori all’interno non dei consigli di amministrazione ma dei consigli di vigilanza. Tale scelta sta a segnalare la volontà del sindacato di non coinvolgersi nella gestione aziendale ma di limitarsi a un ruolo di controllo ritenuto, come si diceva, più coerente con la funzione sindacale. Ed è anche intesa a superare le obiezioni da sempre espresse da parte aziendale a un’ingerenza indebita del sindacato nelle prerogative gestionali dell’imprenditore e del management.
Mentre le prime si prestano a una presenza diffusa, come sta già avvenendo, anche in imprese non societarie e di dimensioni medio-piccole, la partecipazione organica per il tramite dei CIV è propria di quelle imprese che hanno volontariamente adottato lo schema della società a governo duale.
Una simile formula partecipativa è operativa da tempo nei grandi enti previdenziali. È vero che l’esperienza di governo duale in tali enti non è stata del tutto positiva; ma ciò dipende soprattutto dal fatto che si sono verificate sovrapposizioni e invadenze reciproche fra Consigli di Amministrazioni e CIV, nonché con la dirigenza degli enti. Per rendere più funzionale la partecipazione entro questi enti sarà necessario superare queste controindicazioni, semplificandone la struttura di governo e chiarendo le responsabilità dei vari organismi.
Al dibattito parlamentare della XVI legislatura ha fatto seguito la delega della l. 28.6.2012, n. 92, che contiene una serie di principi per il sostegno di relazioni Industriali partecipative, ispirate agli indirizzi europei e in linea con i d.d.l. richiamati (Alaimo, A., L’eterno ritorno della partecipazione: il coinvolgimento dei lavoratori al tempo delle nuove regole sindacali, cit., 18 ss.).
Due sono le indicazioni fondamentali. Anzitutto la delega conferma (art. 4, co. 62) il principio che le forme di coinvolgimento dei lavoratori nell’impresa devono essere attivate in via contrattuale, più precisamente con la stipulazione di un contratto collettivo aziendale. In secondo luogo la legge (v. le varie lettere del co. 62) non indica un modello unico di coinvolgimento, ma offre alle parti collettive la possibilità di scegliere varie forme, in realtà tutte quelle storicamente sperimentate. In primis il testo richiama gli obblighi di informazione, consultazione e negoziazione a carico delle imprese
Un’altra possibilità è la istituzione di organismi congiunti (paritetici o misti) dotati di poteri adeguati di controllo e partecipazione nella gestione di materie quali: sicurezza sul lavoro, organizzazione del lavoro, formazione professionale, pari opportunità, forme di remunerazione collegate ai risultati, servizi sociali per i lavoratori e le loro famiglie, forme di welfare aziendale. Le parti contraenti possono anche prevedere il controllo su determinate scelte di gestione aziendale tramite la partecipazione di rappresentanti eletti dai lavoratori o designati dalle organizzazioni sindacali negli organi di sorveglianza.
La delega ribadisce (co. 62, lett. f) che specie nelle aziende più grandi (oltre 300 dipendenti) esercitate in forma di società per azioni o di SE, ove sia prevista la presenza di un Consiglio di gestione e un consiglio di sorveglianza possa essere prevista la rappresentanza di lavoratori nel consiglio di sorveglianza con gli stessi poteri dei rappresentanti degli azionisti.
Infine, la delega prevede (co. 62, lett. g) l’accesso privilegiato dei lavoratori dipendenti al possesso di azioni o quote del capitale dell’impresa, direttamente o tramite la costituzione di organismi (fondazioni, enti e associazioni) aventi come scopo l’utilizzo non speculativo delle partecipazioni e l’esercizio della rappresentanza collettiva nel governo dell’impresa.
Come si vede, le indicazioni della delega sono tutte opzionali sia nella decisione se adottare o meno forme partecipative sia nella individuazione delle relative modalità e contenuti. Nonostante queste cautele che configurano la delega come una forma di soft law e la convergenza delle proposte parlamentari e delle indicazioni legislative, nonché la loro rispondenza con le direttive europee, la delega della l. n. 92/2012 è rimasta inattuata per l’opposizione delle associazioni datoriali, in primis della Confindustria, che pure nel 2005 aveva condiviso con le organizzazioni sindacali l’avviso comune, favorevole al recepimento delle direttive sulle SE.
I governi successivi, quello di Letta e da ultimo quello Renzi, hanno manifestato l’intenzione di riprendere il tema partecipazione. Le prime prese di posizione di Renzi indicavano anzi la opportunità di promuovere anche le forme più impegnative di partecipazione dei lavoratori, quella negli organi delle società, e facevano riferimento in particolare alle imprese pubbliche, ritenute anche in passato le più adatte a ricevere forme partecipative “forti”. Del resto anche altri paesi, come la Francia, che pure avevano sempre resistito all’idea che il modello cogestionale tedesco fosse privilegiato nella SE, hanno previsto per legge le forme di partecipazione dei lavoratori negli organi societari nell’ambito delle imprese pubbliche.
Ma anche queste recenti indicazioni di governo sono rimaste finora senza seguito da parte del legislatore. La intensa attività normativa del governo Renzi si è infatti espressa con il Jobs Act in una serie di riforme, anche incisive, riguardanti la disciplina dei rapporti individuali di lavoro. Ha invece rinviato nel tempo l’intervento legislativo sui vari aspetti delle relazioni industriali (rappresentatività delle parti, regole ed effetti della contrattazione collettiva, partecipazione dei lavoratori), riservandosi di legiferare solo in caso di mancato accordo delle parti su questi temi.
Un intervento del governo Renzi si è manifestato nella legge di stabilità per il 2016 (l. 28.12.2015, n. 208) e ripreso per il 2017 nella l. 11.12.2016, n. 232 nella forma indiretta dell’incentivazione fiscale di vari istituti quali i premi di produttività, il profit sharing e il welfare integrativo, concordati in sede decentrata. Anche questa legge riprende la linea di policy tradizionale del nostro paese in quanto realizza in una normativa di sostegno, in specie fiscale, di questi istituti evitando di regolare direttamente la loro configurazione. Inoltre, in coerenza con questa impostazione, privilegia l’ipotesi in cui gli stessi istituti siano avviati per via contrattuale e segnatamente attraverso contratti aziendali, piuttosto che per decisione unilaterale delle imprese.
Nessuno di questi tre istituti è sconosciuto al nostro ordinamento. Due di essi – premi di produttività e welfare integrativo, specie aziendale – sono anzi destinatari di agevolazioni fiscali risalenti nel tempo; quelle previste dal t.u.i.r. per le vare forme di welfare datano addirittura agli anni ’70, e da allora sono stati variamente adattate.
Aver ripreso i tre istituti insieme nella legge di stabilità, che di per sé è particolarmente impegnativa, con la dichiarata intenzione di considerarla una regolazione a regime, è una scelta di policy significativa. Essa valorizza il fatto che tali istituti hanno in comune la finalità di coinvolgere i lavoratori nelle vicende e nei risultati delle imprese tramite una contrattazione aziendale innovativa e in direzione partecipativa, e segnala che un simile coinvolgimento negoziato in azienda è importante per migliorare la competitività delle imprese.
A sottolineare tale obiettivo la legge di stabilità prevede una agevolazione fiscale rafforzata, dalla soglia di 2.000 euro a quella di 2.500 euro per i lavoratori beneficiari, nelle ipotesi in cui la contrattazione dei premi di produttività e del profit sharing sia accompagnata da forme di partecipazione dei lavoratori.
Il decreto attuativo della legge di stabilità emesso il 25.3.2016 e pubblicato il 14.5.2016 specifica le modalità con cui devono essere configurati sia i premi di produttività sia le forme partecipative per poter beneficiare delle agevolazioni previste. In entrambi i casi la normativa introduce requisiti diretti a rafforzare la finalità partecipativa degli istituti. L’esperienza dei premi non è stata finora funzionale all’obiettivo di legare quote della retribuzione (Retribuzione 1. Rapporto privato) a indicatori effettivi di produttività dei lavoratori e di competitività delle imprese (Treu, T., Le proposte parlamentari sulla partecipazione, in Dir. rel. ind., 2010, 637 ss.). Essi sono stati spesso distribuiti a pioggia e quindi slegati da ogni risultato apprezzabile del lavoro e dell’impresa.
Il d.m. 15.3.2016 precisa anzitutto che i premi di risultato devono essere di ammontare variabile, appunto a significare la distinzione degli elementi fissi della retribuzione. Inoltre stabilisce che tali premi devono essere collegati a incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza e innovazione, verificabili con i criteri indicati nel decreto.
In effetti il decreto specifica tali criteri in modo alquanto dettagliato e per certi versi di carattere eterogeneo. Infatti, ne menziona diversi: alcuni quantitativi come l’aumento della produzione o il risparmio di fattori produttivi, altri qualitativi e organizzativi, come il miglioramento della qualità dei prodotti e dei processi, la riorganizzazione del lavoro non straordinario o il lavoro agile quale modalità flessibile di organizzazione del lavoro. Inoltre specifica che il raggiungimento di tali risultati deve essere verificabile in modo obiettivo attraverso il riscontro di indicatori numerici o di altro genere appositamente indicati.
Il rispetto di tali requisiti dei premi, sia della loro variabilità sia della verificabilità in modo obiettivo, richiederà una strumentazione adeguata di tipo procedurale da parte dell’azienda.
Il modulo annesso al decreto, nel quale i requisiti sono ulteriormente specificati e arricchiti, deve essere sottoposto dalle parti agli uffici del Ministero del lavoro che dovrà verificare la loro corrispondenza fra i requisiti previsti dalla normativa e quelli concordati fra le parti, al fine del riconoscimento del beneficio fiscale. Inoltre tale verifica dovrebbe riguardare non solo le regole di attribuzione del premio stabilite nell’accordo, ma anche la configurazione del premio come effettivamente erogato ai beneficiari. Con tale normativa il legislatore rafforza l’intenzione di garantire la qualità e l’efficacia dei premi per superare le prassi elusive del passato. Ma con tutta evidenza il perseguimento dell’obiettivo richiederà sia una adeguata strumentazione e trasparenza delle prassi aziendali si una capacità di verifica e di controllo degli organismi ispettivi pubblici ora unificati fra Inps e Ministero del lavoro.
Quanto all’oggetto della partecipazione incentivata dal d.m., il testo la riferisce alla partecipazione nella organizzazione del lavoro. Il termine è sufficientemente ampio per comprendere gran parte delle questioni di interesse per la produttività e la qualità del lavoro in azienda nonché per la vita quotidiana dei lavoratori. Secondo lo stesso decreto il coinvolgimento dei lavoratori deve realizzarsi in particolare con comitati paritetici. La norma si riferisce alla forma partecipativa tuttora prevalente in Italia, ma non ne esclude altre. In particolare non sembra ostacolare l’adozione di forme di partecipazione diretta dei lavoratori comprese quelle realizzate nei team che sono diffusi in molte imprese tecnologicamente avanzate.
Il significato del welfare aziendale nell’ottica della partecipazione si spiega per motivi diversi da quelli riferibili ai premi di risultato.
Il welfare integrativo aziendale a differenza dei premi, non è uno strumento di incentivazione diretta; ma è agevolato dal legislatore in quanto può contribuire al benessere e alla qualità del lavoro dei dipendenti e nel contempo può influire su una serie di fattori che, come confermato dall’esperienza, possono contribuire all’efficienza e alla competitività dell’impresa, a cominciare dal coinvolgimento dei lavoratori nelle vicende e nel successo dell’impresa utile a rafforzare la motivazione e il clima delle relazioni personali e collettive nell’azienda (Treu, T., Il Welfare aziendale 2.0, Milano, 2016; Perulli, A.-Treu, T., Enterprise and Social Rights, Kluwer, 2017).
La volontà del legislatore di sottolineare l’orientamento partecipativo anche di questo strumento è confermato dal fatto che la legge di stabilità del 2016, correggendo precedenti regole di prassi fiscale accentua la convenienza sul piano fiscale per il datore di lavoro, delle forme di welfare negoziate con le rappresentanze sindacali, rispetto a quelle, pur ammesse, definite unilateralmente.
Nelle esperienze di maggiore successo, la preparazione dei premi di welfare ha rappresentato una occasione preziosa di allargare la partecipazione diretta dei lavoratori oltre che dei sindacati. Questo coinvolgimento ha influito positivamente anche nelle pratiche di relazioni industriali in azienda, ad es. nella gestione delle flessibilità funzionali, facilitandone la evoluzione in senso collaborativo.
Ancora diversi sono gli istituti della partecipazione finanziaria dei lavoratori. In Italia questi istituti hanno ricevuto, nel dibattito parlamentare e dottrinale, una attenzione anche minore di quella dedicata alle altre forme partecipative (Santagata, R., Il lavoratore azionista, Milano, 2008).
Anche organizzazioni sindacali come CISL e UIL non contrarie in principio all’azionariato hanno sottolineato l’importanza che esso non si limiti alla previsione di possibili vantaggi economici (peraltro non privi di rischi) ai lavoratori – singoli decisi unilateralmente dalle imprese, per evitare che tali vantaggi incentivino nei lavoratori azionisti il rischio di una estraneazione dalle comuni vicende collettive, se non l’allontanamento dal sindacato e la “cattura” nelle logiche dell’impresa (Prassl, J., Employee shareholder status: dismantling the contract of employment, Ind. Law Journal, 2013, 323).
Di qui la richiesta che la distribuzione di azioni sia negoziata con il sindacato e accompagnata da qualche forma di utilizzo collettivo della partecipazione azionaria, capace di esprimere la voce dei lavoratori e la loro influenza sulle decisioni dell’impresa con l’esercizio collettivo del diritto di voto ed eventualmente con la presenza nei consigli di vigilanza o di gestione. Le esperienze finora attuate hanno confermato la difficoltà di promuovere l’esercizio collettivo dei diritti degli azionisti lavoratori con gli strumenti civilistici disponibili (associazione di azionisti, istituzione fiduciaria, ricorso a decreti ad hoc. I progetti parlamentari citati, specie quello a firma Treu – AS 9649, 2008 prevedevano la istituzione di una apposita SICAV e vedi anche AS 1051 – Sacconi, 2013 – v. le osservazioni di Zoppoli, L.-Santagata, R., Il coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle imprese e l’azionariato su base collettiva, in La partecipazione incisiva, cit., 315 ss.).
D’altra parte neppure l’impulso del legislatore finora è stato particolarmente consistente né sul piano fiscale né su quello normativo. Una lodevole eccezione è la l. 18.10.2012, n. 179 (artt. 25-27) sulle start up innovative che incentiva la distribuzione di azioni ai partecipanti. Per questo motivo la diffusione dell’azionariato dei dipendenti è rimasta limitata ad alcune iniziative recenti di grandi aziende (Telecom, Luxottica, Banca Intesa, Auchan). In altri paesi europei è molto diffusa (secondo al federazione europea dell’azionariato dei dipendenti nel 2015 ha raggiunto il massimo storico – 370 miliardi di euro – oltre il 3 per cento del capitale delle grandi aziende quotate, oltre 45.000 in Europa).
Mentre la legge finanziaria non innova su questi istituti, né sull’azionariato nel sul profit sharing, un recente d.i. (maggio 2016) attuativo della l. finanziaria per il 2014 (l. 27.12.2013, n. 147) prevede un incentivo specifico ulteriore, per favorire la partecipazione dei lavoratori al capitale delle imprese e la diffusione dei piani di azionariato per i dipendenti. Tale incentivo consiste nel riconoscimento di una somma pari al 30 per cento del valore dell’azione assegnata a titolo gratuito ai dipendenti ovvero al 30 per cento della differenza tra il valore dell’azione e l’importo di sottoscrizione offerto al lavoratore.
Questo decreto non pone la condizione che i piani azionari per i dipendenti devono essere negoziati con le rappresentanze sindacali, ma è coerente con la loro finalità che le decisioni aziendali in proposito siano concordate con i sindacati, come del resto si è verificato per lo più nelle iniziative finora attuate. Una positiva accoglienza di questi piani da parte dei contraenti aziendali sarebbe un ulteriore segnale di innovazione nelle relazioni industriali. E potrebbe incoraggiare il governo non solo a incrementare le risorse disponibili ma anche a perfezionare per altri versi la normativa promozionale dell’azionariato che è alquanto datata.
Anche in paesi dove le prassi partecipative sono più radicate, esse si sono confrontate con nuove sfide derivanti dal contesto attuale, così diverso da quello in cui si sono originate.
Mi limito ad accennare le questioni più rilevanti, che richiedono una riflessione approfondita per il futuro. Gli istituti della partecipazione, come altri istituti delle relazioni industriali, devono fare i conti con le trasformazioni intervenute sia nel mondo del lavoro sia nella struttura dell’impresa. La diversificazione e la individualizzazione dei rapporti di lavoro stanno, com’è noto, modificando e indebolendo le basi storiche su cui si sono costruite le relazioni industriali e la contrattazione collettiva.
Si tratta di vedere se e come la diffusione di forme partecipative a livello aziendale e infra aziendale, può contribuire a rivitalizzare le attività collettive. Tale contributo potrebbe essere più proficuo di quello delle tradizionali prassi rivendicative contrattuali che appaiono spesso poco attrattive per la nuova popolazione dei lavoratori e potenzialmente meno utili, se non ostative, al perseguimento di obiettivi comuni quali, in primis, il superamento delle difficoltà economiche.
Le trasformazioni in corso nelle forme e nelle strutture delle imprese, nazionali e multinazionali, stanno per altro verso alterando i caratteri e l’identità stessa di questo interlocutore centrale delle relazioni industriali.
La normativa più recente, anzitutto di diritto comunitario, ha risposto a queste trasformazioni con riferimento ai gruppi societari, stabilendo che i diritti di informazione, consultazione e partecipazione si esercitano nei confronti del livello appropriato di decisione e direzione del gruppo, forzando in tal modo il velo delle diverse entità societarie (Barbera, M., Trasformazioni della figura del datore di lavoro e flessibilizzazione delle regole del diritto, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2010, 203 ss.).
Una simile riconsiderazione del destinatario dei diritti di partecipazione è analogamente necessaria, ma è appena avviata a fronte della diffusione delle forme di impresa fluida e di impresa rete (Treu, T., Il Welfare aziendale 2.0, cit.).
La diffusione delle forme di partecipazione “diretta” dei lavoratori sollecitano una revisione delle forme delle rappresentanze collettive titolari dei diritti di partecipazione. Per altro verso queste rappresentanze che ora sono espressione prevalente della base tradizionale dei lavoratori standard, sono chiamate ad allargare il coinvolgimento delle varie categorie di lavoratori atipici.
In una prospettiva più ampia gli istituti partecipativi, se vorranno rafforzare la loro efficacia nei confronti dell’impresa, avranno la necessità di stabilire alleanze con altri stakeholder interni ed esterni all’azienda, e quindi di allargare l’ambito della partecipazione. La importanza di tali alleanze è esaltata dalla crescente attenzione dell’impresa agli aspetti della sostenibilità e della responsabilità sociale per cui il coinvolgimento dei vari stakeholders è decisivo (questa tendenza è inserita in una teorizzazione del corporation come “commons” da Deakin, S., The corporation as commons: rethinking property rights, governance and sustainability, in the business enterprise, Queen’s Law Journal, 2012, 37, 2, 367 ss.).
Dare seguito a una simile strategia di alleanze implica ridefinire anche per questo aspetto i contenuti e gli strumenti della partecipazione ai fini di tener conto di interessi più ampi di quelli considerati dalla tradizionale rappresentanza sindacale (Vitols, S.-Kluge, N., The substainable company: a new approach to corporate governance, ETUI, 2011).
Nel caso italiano le sfide accennate alla partecipazione presentano aspetti di criticità specifici, legati alle vicende e alle debolezze della nostra esperienza storica. Come si è visto, tale esperienza presenta una grande varietà di forme.
Tale varietà rappresenta un segno di vitalità della partecipazione, ma rende incerte le sue possibilità di diffusione, in quanto la lega a elementi contingenti e non prevedibili.
Non a caso per consolidare le esperienze positive sviluppatesi in questi anni anche autori fiduciosi nel metodo contrattuale di regolazione, ritengono ora opportuno un intervento legislativo di sostegno (Carrieri, M.-Nerozzi, P., Introduzione. Partecipazione e democrazia nelle imprese: un’altra via è possibile, in La partecipazione incisiva, cit., 751; Alaimo, A L’eterno ritorno della partecipazione: il coinvolgimento dei lavoratori al tempo delle nuove regole sindacali, cit., 12 ss.; Zoppoli, L.-Zoppoli, A.-Delfino, M., a cura, Una nuova costituzione per il sistema di relazioni industriali?, Napoli, 2014), invero da estendere anche ad altre aree cruciali delle relazioni industriali. Le proposte avanzate nel recente passato, anche sulla base delle esperienze pur limitate di partecipazione, forniscono materiali ampiamente istruiti per arrivare a soluzioni condivise.
Una questione controversa e ancora poco esplorata riguarda le forme di rappresentanza dei lavoratori da utilizzare per l’esercizio dei diritti di partecipazione. Da tempo si è prospettata la necessità di esplorare anche in Italia qualche modalità di differenziazione dei canali di rappresentanza. Tale soluzione è stata decisiva per l’affermazione della partecipazione in Germania, per favorire il superamento dell’ostilità degli imprenditori di quel paese alla generalizzazione per legge di una rappresentanza aziendale dei lavoratori, collettiva ma non esplicitamente sindacale.
Sono significative alcune possibili soluzioni avanzate per adattare il modello tedesco al contesto italiano di relazioni industriali, distinguendo fra agenti negoziali le RSU (Rappresentanze sindacali unitarie) e rappresentanze con compiti partecipativi. Queste seconde potrebbero avere poteri di intervento in materie specifiche, in particolare relative all’organizzazione del lavoro menzionata nella legge di stabilità per il 2016 (Carrieri, M.-Nerozzi, P., Introduzione. Partecipazione e democrazia nelle imprese: un’altra via è possibile, in La partecipazione incisiva, cit., 36 ss.).
Coerentemente con la funzione partecipativa di tali forme di rappresentanza dei lavoratori, il loro intervento non dovrebbe prevedere il ricorso a strumenti di conflitto aperto. La scelta di tali forme sarebbe volontaria e potrebbe essere oggetto di accordi aziendali, come previsto da alcuni disegni di legge sopra ricordati.
L’adozione di una simile soluzione non comporterebbe un pericoloso ridimensionamento della contrattazione collettiva, perché questa manterrebbe un ruolo decisivo per regolare contenuti importanti del rapporto di lavoro, dal salario agli aspetti normativi, ai benefit aziendali. Queste rappresentanze renderebbero più partecipate e affidabili anche le forme di welfare e di partecipazione finanziaria incentivate dalla legge di stabilità per il 2016.
Dir. 2001/86/CE; reg. 2157/2001/CE; d.lgs. 6.2.2007, n. 25; l. 18.10.2012, n. 179; l. 27.12.2013 n. 147; l. 28.12.2015, n. 208; d.m. 25.2.2016; l. 11.12.2016, n. 232.
Alaimo, A., L’eterno ritorno della partecipazione: il coinvolgimento dei lavoratori al tempo delle nuove regole sindacali, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 219/2014, 13; Barbera, M., Trasformazioni della figura del datore di lavoro e flessibilizzazione delle regole del diritto, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2010, 203 ss.; Biasi, M., Il mondo della partecipazione dei lavoratori in Italia. Evoluzione e prospettive nel confronto col modello tedesco ed europeo, Milano 2013; Carrieri, M.-Nerozzi, P.-Treu, T., a cura, La partecipazione incisiva. Idee e proposte per rilanciare la democrazia nelle imprese., Bologna, 2015; Corti, A., La partecipazione dei lavoratori. La cornice europea e l’esperienza comparata, Vita e Pensiero, Milano, 2012; Castro, M., Le proposte parlamentari sulla partecipazione, in Dir. rel. ind., 2010, 81 ss.; Deakin, S., The corporation as commons : rethinking property rights, governance and substainability in the business enterprise, Queen’s Law Journal, 2012, 37, 2, 367 ss.; Magnani, M., La riforma dei contratti e del mercato del lavoro, ADAPT, 2015, n. 4, 33; Napoli, M., La discussione parlamentare sulla partecipazione alla gestione delle imprese: la via del sostegno tributario, in Dir. rel. ind., 2010, 72 e ss.; Pero, L.-Ponzellini, A.M., Il nuovo lavoro industriale tra innovazione organizzativa e partecipazione diretta, in La partecipazione incisiva, cit., 75 ss.; Perulli, A.-Treu, T., Enterprise and Social Rights, Kluwer, 2017; Prassl, J., Employee shareholder status: dismantling the contract of employment, Ind. Law Journal, 2013, 323; Roccella, M.-Treu, T., Diritto del lavoro nell’Unione Europea, Milano, 2016, cap. XIV; Santagata, R., Il lavoratore azionista, Milano, 2008; Telljohann, V., Le nuove piste di Lamborghini e Ducati, in La partecipazione incisiva, cit., 71 ss.; Treu, T.-Roccella, M.-Ferrari, G., Sindacalisti nelle Istituzioni, Roma, 1979; Treu, T., Le relazioni industriali nell’impresa: il protocollo IRI, in Riv. it. dir. lav., 1986, n. 3, 39 ss. e 395-425; Treu, T., Le proposte parlamentari sulla partecipazione, in Dir. rel. ind., 2010, 93 ss.; Treu, T., Le forme retributive incentivanti, in Riv. it. dir. lav., 2010, I, 637 ss.; Treu, T., Il Welfare aziendale 2.0, Milano, 2016; Treu, T., Workers participation in the firm: trend and insights, 2016, in Enterprise and Social Rights, cit., Kluwer, 2017); Weiss, M., Workers’participation in the enterprise in Germany, 2016, in Enterprise and Social Rights, cit.; Vitols, S.-Kluge, N., The substainable company: a new approach to corporate governance, ETUI, 2011; Zoppoli, L.-Zoppoli, A.-Delfino, M., a cura, Una nuova costituzione per il sistema di relazioni industriali?, Napoli, 2014; Zoppoli, L.-Santagata, R., Il coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle imprese e l’azionariato su base collettiva, in La partecipazione incisiva, cit., 299.