Partecipazione
di Giuliano Urbani
Partecipazione
Sommario: 1. Significati e dimensione politica della parola. a) L'evoluzione storica del fenomeno partecipativo. b) L'analisi politologica della partecipazione. 2. La partecipazione come opportunità e come obbligo. 3. Chi partecipa: gli attori. 4. Perché partecipare a) Le motivazioni. b) Sulla ‛razionalità' dei comportamenti politici. 5. Come si partecipa: forme e modalità. 6. A che cosa si prende parte: processi e livelli decisionali. 7. I principali strumenti collettivi di partecipazione. a) I gruppi di interesse. b) I partiti. 8. La convenienza a partecipare. 9. Gli effetti delle varie forme partecipative sul funzionamento dei sistemi politici. 10. Le prospettive della partecipazione. □ Bibliografia.
1. Significati e dimensione politica della parola
Il termine partecipazione ha più di un titolo per essere annoverato tra le parole-bandiera della seconda metà del nostro secolo. Innanzitutto, per la varietà dei fenomeni politico-sociali ai quali si è fatto di volta in volta riferimento con tale espressione: dall'esercizio del voto ai cosiddetti comportamenti collettivi (cortei, scioperi, comizi, adunate); dalle pratiche assembleari, adottate in molteplici unità sociali, all'istituto del referendum; dai disegni di autogestione delle imprese ai nuovi modelli di amministrazione diretta dei servizi pubblici e sociali; dalle attività associative a qualsiasi manifestazione di aggregazione spontaneistica. E poi, per l'enorme carica psicologica che si è finito con l'attribuire alla parola, sovente considerata come il simbolo della possibilità di realizzare l'ideale ultimo del pensiero democratico: creare una ‛città' dove qualsiasi decisione collettiva sia sempre il frutto ottimale delle preferenze di tutti i cittadini.
Da queste premesse discendono almeno due rischi, tanto cospicui quanto evidenti: la quasi impossibilità di districarsi all'interno di una foresta di significati tra loro così lontani; le crescenti difficoltà di vedere con chiarezza i costi e i benefici rispettivamente associati alle varie forme di partecipazione, e gli obiettivi che ciascuna forma consente di volta in volta di raggiungere o allontanare. Se vogliamo sfuggire a tali pericoli e distinguere al meglio possibile tra le varie facce del prisma ‛partecipazione', non confondendone i diversi aspetti sotto l'effetto deformante di una rappresentazione meramente ideologica della realtà, conviene allora far ricorso a definizioni in grado di separare analiticamente le molteplici componenti del concetto.
In quest'ottica, sembra utile dire che ‛partecipazione' designa in modo precipuo il comportamento autonomo di chi, essendo e sentendosi parte di una qualche collettività, concorre in vario modo al processo di formazione delle decisioni che la riguardano. Consideriamo le varie parti di tale definizione. In primo luogo, essa connota un'‛azione', cioè un atteggiamento o un comportamento manifestato, visibile agli altri; chi non agisce non può nemmeno prendere parte (l'inerzia e la passività rendono ‛assenti'). In secondo luogo, deve trattarsi di un'azione ‛autonoma', assunta cioè senza manifeste costrizioni esterne; quanti agiscono in base a coazioni non scelgono di partecipare a qualcosa, ma subiscono l'altrui volontà: l'apparente partecipazione di un soggetto non è allora che la manifestazione della sua ‛dipendenza' da altri (mobilitazione eterodiretta). In terzo luogo, occorre che il soggetto in questione sia parte di una collettività e detenga una quota qualsiasi del ‛potere politico' complessivo, sia cioè titolare di diritti esercitabili nei confronti degli stessi organi che rappresentano tale collettività (requisito dell'appartenenza oggettiva); perché in assenza di precisi diritti civili non ha senso alcuno parlare di partecipazione, così come in matematica una frazione a denominatore zero è del tutto priva di significato. In quarto luogo, partecipare presuppone il ‛sentirsi parte' (requisito dell'appartenenza soggettiva o grado di integrazione sociopolitica) della collettività che si vuol concorrere a governare; nè importa che questo sentimento si manifesti in forme consensuali o tendenzialmente conflittuali, importa solo che non ci si senta ‛estranei irriducibili' (politicamente alienati) nei confronti dei principi costitutivi della comunità. Da ultimo, occorre poi che si prenda effettivamente parte, che si concorra cioè in varia misura e con vari comportamenti all'effettiva costituzione delle decisioni collettive; in proposito l'esempio tipico è fornito dalla partecipazione elettorale, dove ciascun votante concorre a determinare la contabilità totale delle varie grandezze (voti di lista, attribuzione dei seggi, astenuti, ecc.) senza peraltro incidere - se non eccezionalmente - in modo decisivo sull'esito delle elezioni.
Quest'ultimo punto, in particolare, mette bene in luce la natura ‛politica' della partecipazione. Prendere parte significa infatti interagire con altri soggetti e, più specificamente, operare col deliberato obiettivo di convincerli a mutare i propri atteggiamenti nei confronti di determinate decisioni d'ordine collettivo. Ciò che ne risulta è un fenomeno a due facce: l'una riguardante l'azione del singolo individuo che stabilisce rapporti interpersonali; l'altra consistente nelle decisioni complessive che scaturiscono per l'intera collettività dall'insieme di questi rapporti. Parlare di natura, o dimensione, politica di qualsiasi fenomeno partecipativo significa perciò soltanto questo: che ‛prendendo parte' alle decisioni riguardanti la vita di una qualche collettività (sia essa una comunità territoriale - un comune, una regione, uno Stato - ovvero un'azienda, un sindacato, un partito o un qualsiasi altro gruppo sociale) si finisce con l'agire come ‛la parte di un tutto/per il tutto'. Dove, cioè, ogni parte è l'unità di base di un qualche aggregato sociale da governare (polis) attraverso la formazione di decisioni: a) che sono in vario modo il risultato collettivo dei comportamenti dei singoli; e b) che valgono per l'intera aggregazione sociale.
a) L'evoluzione storica del fenomeno partecipativo
La considerazione della natura politica dei fenomeni partecipativi aiuta a comprendere anche le ragioni dell'evoluzione storica del termine. Detto in estrema sintesi, esso finisce col mutare significato al variare di due parametri fondamentali: il principio di ‛legittimazione' sul quale è fondata una collettività; il ‛formato' politico di quest'ultima. Per il primo aspetto occorre ricordare che cambiando i principi di legittimità (aristocratico, democratico, oligarchico, teocratico, meritocratico, plutocratico, ereditario, ecc.) vengono infatti a mutare gli stessi titoli di appartenenza dei cittadini alla polis, compresi quelli che consentono di prender parte alla determinazione delle decisioni che la riguardano. E ciò spiega l'enorme varietà di gruppi sociali che si sono potuti di volta in volta affacciare sul palcoscenico della storia come ‛cittadini partecipanti' al governo delle proprie città. Per il secondo aspetto, va tenuto presente che le collettività variano anche in funzione dell'‛ambito' delle decisioni che, sottratte alla determinazione dei singoli individui, vengono ‛collettivizzate' e affidate a processi pubblici: perché - l'abbiamo visto - la partecipazione ha un senso solo in quanto riferita a questo particolare tipo di decisioni. Fa quindi una gran differenza vivere in comunità che accollano allo Stato pochissimi compiti o che invece estendono le sue competenze a molteplici settori della vita sociale: per l'evidente ragione che - almeno sulla carta - le seconde finiscono con l'offrire (o il richiedere) più alti tassi di attivazione politica dei cittadini.
Nel corso degli ultimi due secoli la partecipazione ha conosciuto, come fenomeno politico complessivo, una stagione di crescente affermazione e sviluppo. L'aspetto forse più appariscente - anche se geograficamente e politicamente delimitato - è consistito nella progressiva estensione del suffragio elettorale, accompagnata da consistenti progressi nelle garanzie di anonimato e segretezza dell'espressione del voto. Ma, anche prescindendo da ciò, l'ingresso delle grandi masse della popolazione mondiale nella vita politica dei rispettivi paesi ha comunque assunto proporzioni del tutto inconsuete, sia pure in forme molto spesso ritualistiche e puramente simboliche. Questa esplosione partecipativa ha prodotto effetti di portata enorme: oggi la ricerca del consenso - comprese le forme di manipolazione dall'alto e dall'esterno - è fenomeno del tutto diverso da ciò che era stato fino agli albori del secolo scorso. Quali le cause di un processo storico che non accenna a invertire la propria tendenza? Osservando il fenomeno in termini mondiali, i fattori di maggior influenza sembrano essere rappresentati dalla progressiva urbanizzazione e dall'alta mobilitazione sociale (comprensiva dei processi di alfabetizzazione e di crescente esposizione ai mezzi di comunicazione di massa). Limitando l'osservazione alla più ristretta area delle democrazie competitive dell'Occidente, vanno poi messi nel conto altri due elementi: l'espansione dei compiti dello Stato, da una parte; la crescente complessità delle decisioni politiche nelle cosiddette società postindustriali, dall'altra (complessità che sembra comportare la necessità di creare nuovi ambiti decisionali di tipo decentrato).
b) L'analisi politologica della partecipazione
L'esplosione partecipativa e la delicatezza dei problemi sociali da essa coinvolti hanno finito con il relegare in secondo piano - almeno tra gli studiosi - la tradizionale riflessione assiologica (basata sul dover essere o sul problema di quale Stato ideale potesse assicurare la massima partecipazione) per incentivare l'analisi empirica di ciò che la partecipazione effettivamente è. L'obiettivo analitico si è quindi spostato su interrogativi del tipo: come distinguere tra i vari aspetti del fenomeno partecipativo, al fine di individuarne sia le rispettive cause che i rispettivi effetti? Questo mutamento di interesse ha prodotto - soprattutto tra gli specialisti di scienza della politica - una copiosa letteratura tecnica che si è venuta man mano arricchendo. I suoi fondamentali capitoli sono oggi due: uno dedicato all'elaborazione di strumenti concettuali (definizioni, tipologie, teorie) per condurre ricerche sempre più significative; l'altro consistente nella continua offerta di dati empirici di considerevole interesse. Il risultato complessivo è già fin d'ora rappresentato da conoscenze che consentono di osservare i fenomeni partecipativi con maggior dettaglio e sotto una luce largamente inconsueta.
2. La partecipazione come opportunità e come obbligo
Analizzando i sistemi politici contemporanei su scala mondiale, è facile notare che la partecipazione resta un fenomeno largamente ambiguo: ciò che è permesso (o addirittura sollecitato) in un paese, diventa altrove un reato duramente perseguito. E, come si è già accennato, i vari atti partecipativi non sono certo configurabili come egualmente spontanei. Per non essere messi fuori strada da mere apparenze, giova allora distinguere subito tra almeno due grandi categorie: la partecipazione come ‛opportunità' e come ‛obbligo'.
Nella seconda categoria vanno collocati tutti quei comportamenti che sembrano in qualche modo indotti dalla presenza di precise sanzioni per coloro che si astengono dall'adottarli. Come si vede, l'indicatore è largamente presuntivo; perché non è affatto detto che - di fronte a un obbligo - ogni partecipante sia sempre ed esclusivamente motivato dal desiderio di non incorrere nella pena prevista; ma la presunzione a ritenere che si tratti di una partecipazione, per così dire, ‛sporca' o di dubbia spontaneità resta e si fa tanto maggiore quanto più dura è la sanzione prevista. Valga il già citato esempio delle disposizioni esistenti in alcuni paesi in materia di ‛obbligo del voto': dove si va da sanzioni quasi simboliche (per quanto ammonitrici), come quella prevista dall'attuale legislazione italiana di semplice iscrizione per cinque anni sul certificato di ‛buona condotta' di ciascun cittadino, a forme ben più gravi, che possono giungere fino all'esclusione dai diritti civili di colui che si astiene dal votare. Inoltre, sempre in materia di sanzioni, occorre aggiungere che non tutte queste forme di punizione e di disincentivi assumono sempre un aspetto diretto e giuridicamente formalizzato. Nel conto occorre infatti mettere anche sanzioni di carattere informale e/o indiretto. Un esempio di queste ultime è rappresentato da quelle disposizioni elettorali che impediscono di fatto la segretezza del voto (attraverso l'uso, ad esempio, di schede di diverso colore o di urne separate per chi voglia votare a favore o contro qualcuno o qualcosa): l'obiettivo è sempre quello di individuare i dissenzienti al fine di punirli in altri momenti e in altre sedi (non ammettendoli, magari, al godimento di alcuni privilegi: accesso a determinati beni, possibilità di movimento all'interno e all'esterno del paese). Esempi di sanzioni informali sono invece offerti da tutti quei casi di isolamento sociale nel quale vengono collocati coloro che hanno in qualche modo manifestato il proprio dissenso nei confronti delle autorità o della maggioranza.
In termini ben più complessi si presenta, peraltro, il fenomeno della partecipazione considerata come un'‛opportunità' a disposizione dei cittadini. Qui, in luogo di sanzioni per i non-partecipanti, abbiamo la presenza di precisi incentivi offerti ai potenziali partecipanti. In via d'ipotesi, nulla dice che tale sostituzione sia sempre necessaria e che non si possano avere sistemi politici dove i due strumenti si accompagnano: sanzioni per chi non partecipa accanto a incentivi per far partecipare. L'esperienza storica dei regimi contemporanei dimostra però che queste due forme tendono in pratica a escludersi l'un l'altra per ragioni, per così dire, di logica politica: mentre infatti lo strumento ‛sanzione' è in genere usato dai regimi preoccupati soprattutto di massimizzare il controllo sociale sui propri cittadini, allo strumento ‛incentivi' fanno invece ricorso i regimi orientati più che altro a massimizzare le facoltà espressive (le domande politiche) dei propri membri. Prima ancora di contraddirsi sul piano dei principi, i due strumenti si contraddicono (ed ecco, perciò, i motivi per i quali tendono in pratica ad escludersi vicendevolmente) sul terreno delle rispettive funzioni politiche.
Gli incentivi possono essere raggruppati in tre grandi famiglie: i canali effettivamente accessibili; le risorse informative e le condizioni strumentali; le prospettive di un probabile ‛ricavo' proveniente dall'azione partecipativa. Il ruolo dei canali accessibili alla partecipazione dei cittadini è probabilmente quello di più immediata percezione: perchè, quanto più alto è il loro numero, tanto maggiori sono le possibilità di ‛prendere parte'; il che non vuoi naturalmente dire - come si vedrà meglio più avanti - che in tal caso divengano sempre maggiori anche le opportunità di ‛contare', di influire sulle decisioni pubbliche. E comunque sempre vero l'inverso: dove il numero dei canali partecipativi si fa molto basso - avvicinandosi al ‛canale unico' o monopolistico - più difficili e meno promettenti diventano anche le opportunità partecipative offerte alla gente. Ma sull'incidenza dei canali nel fenomeno partecipativo, loro numero a parte, torneremo dettagliatamente più avanti.
In genere si ritiene - e non senza ragioni - che la partecipazione politica sia tanto più ‛facile' e ampia, quanto migliori sono le condizioni socioeconomiche dei potenziali partecipanti e la loro possibilità di informarsi sulla natura e la portata degli argomenti in discussione. In effetti, i livelli di istruzione, occupazione, reddito, età, così come la religione, il sesso, la razza, il tipo di residenza sono altrettanti prerequisiti che condizionano largamente i tassi di partecipazione politica. Ma da questo a sostenere che si tratta di veri e propri fattori causali ce ne corre; tutte le più approfondite ricerche empiriche sulla partecipazione hanno infatti dimostrato che la correlazione tra i summenzionati fattori socioeconomici e le molteplici forme partecipative varia considerevolmente da paese a paese. Il che sta a sottolineare che si tratta semmai di fattori condizionali largamente condizionati, a loro volta, da qualche altra cosa: in particolare, dalle istituzioni, o ‛regole del gioco' (sia formali, sia informali), che più direttamente possono favorire o scoraggiare determinati atteggiamenti pubblici dei cittadini. Tra queste istituzioni un posto di particolare rilievo è occupato da ciò che potremmo chiamare l'‛offerta informativa': l'insieme, cioè, dei mezzi di comunicazione che consentono alla gente di acquisire indispensabili conoscenze per decidere se prendere parte, a che cosa, quando, entro quali limiti. E, anche in questo caso, quanto più ricco, pluralistico, competitivo, libero e accessibile è tale sottosistema, tanto maggiori finiscono col risultare le opportunità partecipative.
Resterebbe da dire qualcosa sul terzo gruppo di fattori: le prospettive di un qualche ricavo proveniente dalla partecipazione. Ma sul punto torneremo diffusamente più avanti. Per ora basti ricordare che ci troviamo dinanzi a una delle motivazioni di maggior importanza: nel senso che partecipano soprattutto coloro che ritengono di poter ricavare qualcosa dal proprio impegno, indipendentemente dal fatto che si tratti di benefici concreti o di ricompense puramente psicologiche.
3. Chi partecipa: gli attori
Tra coloro che possono scegliere di prendere - o non prendere - parte attiva alla formazione delle decisioni politiche, non tutti - spesso, anzi, piccole minoranze - finiscono per partecipare effettivamente. Ricerche empiriche di tipo comparato hanno dimostrato, ad esempio, che nei sistemi politici caratterizzati da un pluripartitismo a carattere competitivo non più del 60% degli elettori va in media a votare e non più del 5-10% dei cittadini esercita la facoltà di prendere parte abbastanza attivamente al grosso delle opportunità partecipative che gli si offrono. Particolarmente eloquenti, a questo proposito, appaiono i risultati di studi ormai classici sulla partecipazione politica negli Stati Uniti, dove - canali elettorali a parte - le opportunità partecipative appaiono mediamente più numerose che in qualsiasi altro sistema politico contemporaneo (soprattutto per quanto riguarda la vita delle comunità locali). Ebbene questi studi (condotti negli anni sessanta) dimostrarono che durante una campagna elettorale non più di tre persone su quattro discutevano dei temi politici proposti; circa il 60% andava a votare; non più di una persona su quattro faceva propaganda; soltanto una persona su sette dimostrava di conoscere i candidati in competizione; non più di una persona su dieci contribuiva finanziariamente alle spese elettorali; assisteva a riunioni politiche soltanto il 7%; prendeva attivamente parte alla campagna elettorale il 4%; non più del 2-3% era membro di qualche organizzazione politica; meno dell'1% decideva di presentarsi candidato a qualche carica pubblica o deteneva qualche posto di responsabilità nelle macchine elettorali dei partiti. E gli studi successivi non hanno sostanzialmente modificato questo quadro generale.
Il punto da tener maggiormente presente è forse rappresentato dagli scarsi livelli medi di interesse, conoscenza e informazione per la politica: le stesse ricerche (ampiamente concordanti, del resto, con analoghi studi compiuti in altri paesi a regime democratico-costituzionale) dicono infatti che circa i 3/4 degli elettori dimostrano di non essere in grado di definire correttamente gran parte dei termini ricorrenti nel dibattito politico, più della metà manca di precise opinioni sui principali temi delle campagne elettorali che si svolgono dinanzi ai loro occhi, almeno un votante su tre dichiara di non nutrire alcun interesse per la competizione in corso, soltanto un 30% dichiara di avere precisi interessi e non più di un elettore su cinque dimostra di possedere precise opinioni. Comunque la si metta, il risultato è quindi sempre il medesimo: le persone che partecipano, quelle politicamente informate e attive, sono sempre una minoranza, che va per di più restringendosi sensibilmente man mano che le forme partecipative diventano più complesse e assorbenti.
Ne consegue che il campo degli ‛attori' interessati al fenomeno della partecipazione si presenta in modo estremamente composito. Nel conto dobbiamo infatti mettere vari tipi di soggetti: a) coloro che possono effettivamente partecipare e coloro che invece non lo possono fare (e sono così emarginati di fatto nei confronti della comunità politica); b) coloro che partecipano volontariamente e coloro che lo fanno solo in virtù di qualche costrizione esterna; c) coloro che, potendolo fare, decidono autonomamente di partecipare e coloro che decidono invece di astenersi; d) e, tra questi ultimi, coloro che si astengono per indifferenza (apatici) e coloro che lo fanno invece per rifiuto del sistema politico (vari casi di ‛alienazione' politica).
Si è già accennato al problema di come individuare coloro che partecipano con più frequenza e intensità, come scoprire a quali categorie e gruppi sociali essi appartengano. In genere si pensa che a partecipare siano soprattutto coloro che dispongono di maggiori informazioni e di un migliore status socioeconomico. Ma questo non è sempre vero, nè queste opportunità sono di per sé determinanti. Di gran lunga più influenti risultano altri fattori. Innanzitutto il tipo di ‛ruoli sociali' che l'individuo occupa consapevolmente nel proprio ambiente: cioè, i rapporti sociali che di volta in volta egli intrattiene con gli altri soggetti (in quanto consumatore, lavoratore, produttore, contribuente) e dei quali ha coscienza. Poi, il grado di ‛identificazione' che lega ciascun soggetto a qualche collettività (nazione, Stato, regione, città, partito, gruppo sociale, classe sociale). Infine, le strade per partecipare che ogni individuo riesce a vedere, a percepire, come effettivamente percorribili e, quindi, alla sua reale portata.
Altro importante aspetto - attinente non tanto al ‛chi partecipa', ma al ‛come' - è poi quello che riguarda la manifestazione degli orientamenti ideologici delle élites, del personale politico vero e proprio, a fronte degli orientamenti politici della generalità dei cittadini. Le maggiori ricerche empiriche concordano infatti nel rilevare che i primi tendono ovunque a presentarsi in forma più radicalizzata dei secondi. Da ciò derivano rilevanti conseguenze per lo stile e gli esiti delle forme partecipative. Infatti, se è vero che una maggiore radicalizzazione delle élites spinge in genere a una più estesa partecipazione delle basi, gli effetti di questa variano considerevolmente a seconda del grado di omogeneità/eterogeneità della cultura politica dei cittadini. Nel senso che, dove la cultura è relativamente omogenea, la spinta centrifuga proveniente dalle élites produce al massimo una competizione più dura e una partecipazione a carattere più mobile e incerto; mentre, dove la cultura è tendenzialmente frammentata in gruppi eterogenei, la ulteriore spinta centrifuga dei vertici va a ‛piovere sul bagnato', fino ad accentuare considerevolmente le divisioni esistenti e a produrre così una partecipazione pericolosamente vicina alla spaccatura della stessa comunità politica.
Dall'intero quadro emerge insomma che la fenomenologia partecipativa comporta almeno due delicate sfide al funzionamento dei sistemi politici di tipo pluralistico-costituzionale: come ‛rappresentare' coloro che non partecipano; come facilitare una più estesa partecipazione dei cittadini alla soluzione dei problemi di interesse collettivo. Tralasciando di considerare specificamente questo secondo aspetto, al quale si è già fatto cenno e sul quale si tornerà anche in seguito, va sottolineato che il primo quesito presenta, a sua volta, varie facce: in qual modo conoscere le preferenze dei non-partecipanti; come evitare che gli apatici divengano alla lunga dei soggetti politicamente alienati (con tutte le gravi conseguenze del caso); come rispondere adeguatamente anche ai non-partecipanti, attraverso meccanismi capaci di contemperare le esigenze (e le conseguenti domande politiche) dei gruppi più attivi (le cosiddette forze sociali ‛intense') con le esigenze dei settori meno attivi (a volte coincidenti addirittura con la maggioranza dei cittadini).
4. Perché partecipare
a) Le motivazioni
Quanto all'esame delle motivazioni che spingono a ‛prendere parte' (o a non prendere parte) ai processi decisionali di tipo politico, sembra conveniente partire da una considerazione preliminare: il partecipare non appare in alcun modo configurabile come un comportamento meramente naturale, o istintivo; al contrario, tutto lascia intendere che si tratti di un comportamento in larghissima parte appreso, discendente cioè da precise modalità di formazione culturale e da ben individuabili modelli di percezione e conoscenza dei fenomeni politici. Detto altrimenti, l'azione del partecipare presuppone una decisione di imboccare questa strada - o, se si preferisce, di far ricorso a questo strumento - ‛al fine di conseguire un determinato obiettivo'. E va da sé che sia la conoscenza degli obiettivi perseguibili sia la percezione delle strade effettivamente percorribili (con le relative modalità e i relativi pericoli da evitare) devono essere considerati come altrettanti risultati di un qualche processo di apprendimento sociale.
In tale processo un ruolo pressoché decisivo è ricoperto dai cosiddetti ‛agenti di socializzazione', o soggetti che in vario modo concorrono alla formazione delle opinioni politiche dei cittadini e alla loro continua informazione. Si pensi, ad esempio, all'educazione civica impartita dalle famiglie o dalla scuola, così come all'influenza esercitata dal personale politico (governanti, dirigenti di partito, attivisti) o dai tanti mezzi di comunicazione di massa (radio, televisione, giornali, cinema) fino ai cosiddetti ‛gruppi dei pari' (amici, colleghi di lavoro, membri di una stessa associazione). L'insieme di tali agenti configura quello che potremmo chiamare il ‛mercato dell'offerta' dal quale l'apprendimento politico è ampiamente condizionato e, a volte, interamente plasmato. All'interno di tale mercato non tutti gli agenti sono ovviamente di pari importanza; il loro peso varia anzi da sistema politico a sistema politico e, inoltre, da situazione a situazione. Negli ultimi venti-trent'anni, nei paesi occidentali si è avuto, ad esempio, un considerevole spostamento di influenza a favore di alcuni fattori e a danno di altri: si è così riscontrata una forte perdita del potere formativo della famiglia e della scuola a vantaggio del rilievo assunto da vari peer groups e dagli stessi mass media. In riferimento alla partecipazione, ciò ha provocato un sensibile mutamento delle motivazioni e dello stile di comportamento tra le generazioni più giovani, come si è potuto vedere sia alla fine degli anni sessanta (con l'esplosione della protesta studentesca) sia nel corso dell'ultimo decennio (con l'affermazione della cosiddetta cultura ‛postmaterialistica').
Quali motivazioni spingono in genere a partecipare? Per quanto l'interrogativo abbia attratto studiosi di molteplici settori disciplinari, non sembra che a tutt'oggi le scienze sociali siano in grado di fornire nsposte molto esaurienti. La principale ragione di questa carenza risiede probabilmente nell'eccessiva ambiziosità contenuta in gran parte delle indagini di tipo sociopsicologico, naufragate nel titanico tentativo di fornire un'elencazione pressoché completa della sconfinata varietà di elementi che possono spingere a prendere parte alle decisioni della res publica. Ciò premesso, va detto che alcuni recenti studi empirici consentono di gettare qualche significativo fascio di luce sul nostro quesito. Innanzitutto, oggi sappiamo abbastanza bene almeno una cosa: che tra la personalità di base di un individuo e i suoi comportamenti politici c'è una correlazione (diretta) assai poco significativa; nel senso che a determinare i secondi intervengono troppe variabili aggiuntive per far risalire gli atti umani ai soli caratteri fondamentali della personalità. Va peraltro ricordato che, contro questa conclusione, è stata recentemente avanzata l'ipotesi, da parte degli studiosi della cosiddetta sociobiologia, che le motivazioni di qualunque comportamento sociale sarebbero sempre determinate da alcuni geni ereditari, contenuti in una particolare cellula dell'organismo e capaci per ciò stesso di provocare la ‛spinta biologica' che orienta ogni individuo circa il modo di superare gli ostacoli posti dalla natura e dall'ambiente. Ma questa resta per ora soltanto un'ipotesi, e per di più contraddetta dall'evidenza empirica di molteplici studi.
La seconda osservazione, che è possibile fare, riguarda l'incostanza e la grande varietà di preferenze che sarebbero alla base delle stesse motivazioni politiche. Anche in questo caso le più recenti osservazioni empiriche hanno contribuito a ridimensionare non poco l'iperbole contenuta nelle credenze suggerite dal senso comune: si è potuto cosi notare che i gusti e le preferenze soggettive degli individui sono, anche in politica, assai più stabili e standardizzati di quanto non si creda comunemente. Infatti, ciò che muta non sono tanto le attese valoriali della gente quanto la disponibilità delle risorse necessarie a soddisfare questi valori-obiettivi: cioè, le ‛informazioni' che consentono determinate decisioni o scelte, il ‛tempo' disponibile per procurarsi queste informazioni, le ‛capacità strumentali' per ottenere i risultati desiderati. Variando queste risorse, finisce per variare (come vedremo meglio più avanti) anche la convenienza dei soggetti a perseguire un determinato obiettivo; non già la loro diversa propensione verso gli obiettivi. Perché, seguendo una teoria largamente accettata, sembrerebbe che l'uomo sia essenzialmente motivato dal desiderio di soddisfare alcune necessità ordinate gerarchicamente, secondo una scala che va dalle necessità fisiologiche (o di pura sopravvivenza) a quelle di sicurezza, di amore-amicizia, di stima-considerazione, fino a quelle di riuscita personale o di vera e propria autorealizzazione. E solo dopo che una necessità d'ordine più basso (o più fondamentale delle altre) è stata soddisfatta, le necessità successive si farebbero sentire in modo e in misura maggiori, tali da motivare comportamenti sensibilmente diversi.
Si è già detto che queste motivazioni divengono tanto più rilevanti quanto più trovano un terreno fertile nel tessuto sociale in cui ogni individuo opera e nel quale si sente più o meno integrato. Sotto questo profilo, tre sembrano essere gli orientamenti in grado di influenzare maggiormente le motivazioni a partecipare. In primo luogo, il livello del coinvolgimento psicologico ‛di base' che ogni cittadino mostra nei confronti della politica e degli affari pubblici; in secondo luogo, la forza dell'identificazione ‛di parte' che lega ciascun soggetto, come forma di attaccamento, a qualche attore politico (partito o gruppo d'interesse); in terzo luogo, il senso del dovere civico, basato sulla propensione dei cittadini a contribuire al benessere della collettività attraverso le proprie forze e capacità personali.
Più in generale, le motivazioni a partecipare - o, meglio, la logica che vi presiede - possono essere fatte risalire a vari modelli di comportamento, a seconda dei fattori ritenuti più influenti sulla decisione di ciascun soggetto. Abbiamo così modelli di tipo sociologico, che considerano l'uomo come un attore alla continua ricerca di ‛funzioni sociali' da svolgere (role-taker) e in quanto tale spinto a partecipare soprattutto dal desiderio di massimizzare la propria integrazione in qualche comunità (e la relativa approvazione sociale che da ciò deriva), cercando al contempo di minimizzare i rischi di emarginazione. C'è poi chi predilige l'uso di modelli di tipo economico, che pongono invece l'accento sull'attitudine dei soggetti a incrementare le proprie utilità (l'uomo come gain-seeker), in una visione che porta quindi a studiare la partecipazione come un tentativo di massimizzare la produzione e l'assegnazione ottimale delle risorse. C'è, infine, chi preferisce ricorrere a modelli analitici di tipo più marcatamente politico, dove l'uomo è considerato soprattutto nella sua veste di cittadino consapevole dei problemi d'ordine generale riguardanti la comunità della quale egli è parte costitutiva: tale visione porta a considerare la partecipazione come il tipico comportamento dal quale dipende la produzione e l'offerta di beni collettivi (beni, cioè, che non possono che essere prodotti mediante decisioni prese, in vario modo, ‛per conto' dell'intera comunità e caratterizzati dai connotati distintivi della non-escludibilità e non-trasferibilità). È forse ovvio sottolineare che un modello analitico di quest'ultimo tipo presuppone (e, quindi, si applica soltanto a) una comunità di cittadini titolari di precisi ed estesi diritti politici: condizione che - come abbiamo visto - non è sempre facile da riscontrare nella generalità dei sistemi politici di ogni epoca.
b) Sulla ‛razionalità' dei comportamenti politici
Ma è ‛razionale' partecipare? E chi partecipa lo fa in modo che è corretto definire ‛razionale'? Su simili interrogativi le scienze sociali contemporanee sono da tempo impegnate in un dibattito e in ricerche empiriche difficilmente sintetizzabili. Il cuore della discussione, almeno per i risvolti che più da vicino interessano l'argomento della partecipazione politica, sembra essere comunque racchiuso nello stesso termine ‛razionalità'. A questo si danno di volta in volta almeno tre distinti significati: un atteggiamento nel quale le componenti dettate dalla ragione prevalgono su quelle dettate dai sentimenti e dalle emozioni; un comportamento che sa scegliere finalità tra loro compatibili (o razionalità induttiva); l'insieme, infine, dei comportamenti assunti da soggetti che, nel perseguimento di determinati fini, sanno scegliere i mezzi più coerenti e congruenti per farlo (o razionalità deduttiva).
Al riguardo le più approfondite ricerche sui comportamenti politici hanno messo in luce i seguenti punti: 1) nella grande maggioranza la gente sembra assumere atteggiamenti ‛ragionevoli', tali cioè che includono sempre una qualche considerazione dei limiti e delle circostanze in cui ciascun soggetto si trova a dover agire; 2) coloro che decidono di partecipare alla vita politica lo fanno generalmente in base a calcoli che possono essere definiti come ‛razionali', nel senso che decidono di impegnarsi alle sole condizioni: a) di trovarsi di fronte a obiettivi ritenuti effettivamente alla propria portata; b) di ritenere che tali obiettivi siano perseguibili soltanto mediante un loro coinvolgimento di tipo pubblico (e non lo siano, invece, attraverso comportamenti di tipo privato o comunque apatici); 3) chi partecipa lo fa per lo più in modo ‛razionale', nel senso cioè che tende a scegliere i mezzi da lui ritenuti più adatti ed efficienti allo scopo, o - altrimenti detto - che tende a massimizzare i guadagni attesi (ciò che più si desidera) e a minimizzare le perdite attese (ciò che più si teme). Nella media degli atteggiamenti sono quindi riscontrabili precise forme di razionalità, che si manifestano peraltro entro i limiti delle opportunità offerte dal sistema politico in questione e dalle conoscenze-informazioni di cui dispone ogni soggetto, oltre che beninteso entro i limiti delle particolari attitudini legate alla personalità (in senso psicologico) di ciascuno di essi.
In tale ottica, le preferenze concretamente espresse dai cittadini appaiono assai meno differenziate e instabili di quanto si creda comunemente: è forse vero che de gustibus non est disputandum, ma - come abbiamo già accennato - da attente analisi risulta che (in politica come in altre manifestazioni del comportamento sociale) tali gusti sono per la maggior parte dei casi relativamente stabili e uniformi; se mutano, spesso e improvvisamente, alcuni atteggiamenti della gente, la ragione è data dal fatto che vengono a mutare altrettanto considerevolmente le condizioni (e i costi relativi) per soddisfare le tradizionali (e stabili) preferenze. Semmai, ciò che differenzia i singoli attori, o - meglio - alcuni di essi dalla grande maggioranza, è l'intensità delle preferenze. Come abbiamo visto, alcuni soggetti sono infatti portatori di domande tanto intensamente desiderate da risultare quasi del tutto anelastiche, o indifferenti al mutare dei costi che è necessario sopportare per soddisfarle. Come può essere spiegata questa rigidità e, inoltre, c'è una ratio che la contraddistingue? Sul punto - che può essere esemplificato meglio di ogni altra cosa dal sistematico ricorso alla violenza politica praticato dai movimenti terroristici operanti nella clandestinità - la letteratura scientifica propone una spiegazione complessa che sembra far rientrare anche questa atipica fattispecie nella classe dei comportamenti in qualche modo razionali. A determinarli non sarebbero infatti delle turbe della personalità, quanto un mix di fattori rintracciabili, in primo luogo, nella già accennata teoria maslowiana della gerarchia delle necessità (dalla quale risulterebbe abbastanza chiaro che la violenza politica contemporanea sarebbe in genere praticata da una generazione liberata dal bisogno economico); in secondo luogo, nella sindrome della cosiddetta ‛personalità autoritaria'; e in terzo luogo, in particolari forme di socializzazione politica basate su un apprendimento ideologico di tipo particolarmente rigido.
5. Come si partecipa: forme e modalità
Lo ‛stile' della partecipazione, le sue forme e le sue modalità di espressione, sono strettamente legate - com'è ovvio - tanto alle motivazioni, quanto al ‛che cosa' e ai canali attraverso i quali si partecipa. Ciò significa che possiamo separare un aspetto dagli altri solo a fini analitici, per pura comodità espositiva: nella realtà ci troviamo di fronte a fenomeni che si condizionano reciprocamente e che appaiono il più delle volte come manifestazioni particolari di un'unica e complessa fenomenologia.
Fatta questa premessa, va ricordato che la partecipazione politica può assumere molteplici forme: tante, almeno, quanti sono i canali accessibili a ogni membro della collettività interessata. Uno specialista della materia ha recentemente elencato quattordici atti di partecipazione, come indicativi della molteplicità delle manifestazioni possibili: esporsi a sollecitazioni politiche; votare; avviare una discussione politica; cercare di convincere un'altra persona a votare in un determinato modo; portare un distintivo, un simbolo politico; avere contatti con un funzionario o con un dirigente di partito; partecipare a un comizio o a un'assemblea politica; contribuire con il proprio tempo a una qualche campagna politica; divenire membro attivo di un partito; partecipare a riunioni in cui si prendono decisioni politiche; sollecitare contributi in denaro per cause politiche; presentarsi candidato a una carica elettiva pubblica; occupare cariche pubbliche o di partito. L'elencazione dispone i vari atti gerarchicamente da un minimo a un massimo di partecipazione; e se è forse possibile dubitare della bontà della generalizzazione (poiché tale continuum varia in modo assai considerevole da paese a paese), la lista resta egualmente significativa di quante, e quanto varie, possano essere le forme nelle quali si concretizzano i comportamenti partecipativi.
Questi comportamenti possono essere assunti secondo modalità o stili piuttosto diversificati; che a loro volta incidono sensibilmente sia sugli esiti della partecipazione, sia - più in generale - sul clima della convivenza politica che caratterizza i sistemi politici. La contrapposizione che viene per prima in mente è tra azioni ‛pacifiche' e azioni ‛violente': per quanto poco numerosi siano infatti i canali o processi decisionali che ammettono (o, meglio, tollerano) comportamenti partecipativi del secondo tipo, c'è da dire che il ricorso a questo genere di atti è in realtà assai frequente, almeno a giudicare da quel che accade nella gran parte dei sistemi politici contemporanei.
Meno appariscente, ma non meno significativa, è la distinzione tra forme partecipative di tipo ‛diretto' e di tipo ‛indiretto': qui è in gioco la radice stessa del rapporto rappresentativo (e, con esso, il punto iniziale di gran parte delle teorizzazioni sulle forme di democrazia diretta), nel senso che solo la disponibilità ad adottare comportamenti partecipativi del secondo tipo può consentire l'instaurarsi di meccanismi di delega, mentre l'assoluta negazione di questa a favore della sola accettazione della prima finisce col rendere impraticabile la creazione di qualsiasi istituzione realmente rappresentativa.
Dobbiamo poi distinguere tra partecipazione ‛pragmatica' e ‛ideologica': una differenza di grande rilievo dalla quale consegue una fondamentale divaricazione di comportamenti e di stili competitivi nell'agone politico, ma soprattutto un'acuta contrapposizione nel modo di comporre (e stemperare) le varie posizioni politiche ovvero di frantumarle (ed esasperarle). L'attitudine prevalentemente rigida (assiologica) della mentalità ideologica rischia infatti di dar vita a una convivenza ‛tra sordi' e di confinare il modus vivendi, che si rende in qualche modo necessario tra i maggiori protagonisti della vita politica, nella pratica del solo sottogoverno (nella sola area, cioè, dove il conflitto delle ideologie non impedisce accordi e convergenze tra posizioni irriducibilmente distanti sul terreno dei ‛principi ultimi'); mentre invece l'attitudine pragmatica presenta, se non altro, l'evidente opportunità di lasciare sempre aperta alla sperimentazione la possibilità di cercare alla luce del sole accordi vantaggiosi un po' per tutte le parti. Un pragmatismo senza ideali, si penserà, rischia però di sconfinare presto in uno squallido mercato; ma l'obiezione non intacca il nostro discorso, perché ideologia e ideali non sono affatto sinonimi, rappresentando la prima solo l'ossificazione acritica (e, per lo più, antistorica) dei secondi, che possono invece ispirare, come l'esperienza ha più volte dimostrato, atteggiamenti politici di tipo ragionevolmente pragmatico.
Un'ulteriore contrapposizione di considerevole importanza è quella tra partecipazione a carattere ‛pluralistico-competitivo' e a carattere ‛unanimistico-consensuale': la prima forma si ha in genere dove agiscono soggetti ispirati da finalità circoscritte e da ambizioni potestative sottoposte a precise limitazioni; mentre la seconda forma prevale dove operano attori politici ispirati da finalità egemoniche e, in vario modo, totalizzanti.
Strettamente collegata a tale distinzione, è poi quella che sottolinea le diverse varietà di stile politico che possono caratterizzare la gran parte degli atti partecipativi all'interno di un sistema. Sotto questo profilo, occorre tener presenti almeno tre fondamentali stili di partecipazione: ‛conflittuale', ‛competitivo', ‛cooperativo'. Il primo contraddistingue comportamenti essenzialmente rivolti contro qualcuno, al fine di affermare un'egemonia di gruppo o di eliminare la presenza di contendenti ritenuti illegittimi; il secondo riguarda invece atteggiamenti di tipo concorrenziale, assunti con l'obiettivo di superare altri soggetti nell'ambito di una gara condotta secondo regole di parità e di sostanziale eguaglianza tra i vari protagonisti; il terzo, infine, si riferisce a comportamenti tesi soprattutto a stabilire forme di collaborazione per il conseguimento ottimale di qualche obiettivo di comune interesse. E va da sé che al prevalere dei vari stili nel mix di un sistema politico, variano conseguentemente anche le modalità di funzionamento dei sistemi stessi.
Infine, va tenuta presente quella che per l'economia del nostro tema resta probabilmente la differenziazione fondamentale: tra forme di partecipazione più o meno ‛responsabile/irresponsabile'. L'elemento discriminante tra i due modi di prendere parte a qualche processo politico è dato dal grado di ‛internalizzazione' dei costi impliciti nell'atto (e prodotti dall'atto) di partecipare. Cioè a dire, l'azione di chi partecipa non può non comportare alcuni inevitabili ‛costi' (di tempo, di impegno personale, di acquisizione di informazioni, ecc.); così come non può non recare qualche disagio ad altri soggetti (ad esempio: nei confronti di chi deve ascoltare un intervento troppo lungo durante un'assemblea o di coloro che si trovino costretti a sospendere la propria attività durante una qualche manifestazione di massa). I costi prodotti nel primo caso vengono comunemente definiti ‛interni', mentre nel secondo caso li si designa come ‛costi esterni'. Ebbene, l'atto di partecipazione è tanto più responsabile (o tanto meno irresponsabile) quanto più i costi esterni che il soggetto partecipante provoca nei confronti dei terzi ricadono (in tutto o in parte) sullo stesso agente (cioè, per l'appunto, vengono internalizzati).
6. A che cosa si prende parte: processi e livelli decisionali
Abbiamo sin qui genericamente parlato di partecipazione ai processi decisionali pubblici, ricordando peraltro che quanto più vasto e composito è il ‛formato' (o area delle decisioni collettivizzate) di una comunità, tanto più numerosi e multiformi sono i procedimenti decisionali potenzialmente ‛partecipabili'. Il tipico esempio di processo decisionale a cui corrispondono molteplici possibili ambiti è, ancora una volta, quello elettorale, inteso come strumento per la scelta dei rappresentanti politici. Si può ricorrere ad esso, infatti, per selezionare vari livelli di rappresentanti, a seconda degli ambiti e livelli di governo esistenti in una comunità: accanto alle elezioni dei parlamentari, possiamo avere l'elezione dei consiglieri regionali, dei consiglieri comunali, dei rappresentanti dei genitori negli organi collegiali scolastici, e così via.
Altri processi decisionali consistono nelle attività di controllo dei governanti (da parte, ad esempio, delle opposizioni parlamentari); in quelle di controllo degli amministratori pubblici (ad esempio, attraverso le informazioni e i ricorsi all'ombudsman, o ‛controllore civico', già da tempo operante in alcuni paesi scandinavi e ora in alcune regioni italiane); nella formazione della cosiddetta opinione pubblica; nella socializzazione delle nuove generazioni; nella raccolta di firme per la richiesta di qualche referendum. Secondo un autore che ha svolto numerose ricerche empiriche sui processi decisionali di vari paesi, sono soprattutto tre i campi nei quali la partecipazione dei cittadini è particolarmente significativa: la cosiddetta ‛articolazione degli interessi' (allorché si formano gruppi di persone accomunate da qualche interesse, il cui perseguimento richieda una qualche forma di impegno nella sfera politica); la funzione di ‛aggregazione degli interessi' (svolta per lo più dai partiti politici, in quanto agenzie specializzate nella funzione di amministrare o concorrere ad amministrare la cosa pubblica); la formazione legislativa delle decisioni politiche (con particolare riguardo alla vita delle assemblee parlamentari o regionali).
Come si vede, i processi e gli ambiti a cui è di volta in volta possibile prendere parte sono molteplici e non tutti egualmente provvisti di normative procedurali che ne regolino nei dettagli l'accesso e l'uso. A questo proposito è allora importante distinguere tra partecipazione di tipo ‛istituzionale' e la cosiddetta partecipazione spontanea o ‛di movimento', perché quanto più l'azione del partecipante si svolge secondo precise regole del gioco tanto più i suoi comportamenti divengono prevedibili e controllabili (da parte degli altri soggetti); e, per altro, quanto più la partecipazione si avvicina al secondo tipo, tanto più estemporanei, imprevedibili e manipolabili divengono i comportamenti della gente.
In materia di processi, ambiti e livelli decisionali, l'aspetto che riveste maggior delicatezza e importanza è comunque rappresentato dalle ‛capacità' di ciascun canale partecipativo. Il punto da tenere a mente è il seguente. I vari canali si differenziano l'uno dall'altro in base ad almeno due diverse capacità: quella ‛rappresentativa' (o quantitativa) e quella ‛contenutistica' (o qualitativa); dove la prima risponde all'esigenza di coinvolgere il maggior numero possibile delle persone ‛che contano' nella formazione di una qualche decisione, mentre la seconda cerca di accrescere al massimo il numero delle cose decise, e di farlo nel modo più coerente e nel tempo più breve. Tra le due capacità - come l'esperienza insegna - esiste una relazione inversa: nel senso che quanto più alto è il numero di coloro che partecipano, tanto più schematico e semplificato deve essere il contenuto della decisione da sottoporre alla loro attenzione (e, quindi, la facoltà espressiva dei partecipanti); e, viceversa, quanto più complessa e articolata si presenta una decisione, tanto più bassa diventa la soglia ottimale di coloro che possono prendere utilmente parte alla sua elaborazione.
Per esemplificare, si pensi a due tipici processi decisionali - le elezioni per scegliere determinati rappresentanti e le consultazioni per decidere un qualche provvedimento complesso (ad esempio: una legge) - e li si consideri come il possibile frutto di tre diversi ambiti o corpi decidenti: un elettorato di quaranta milioni di persone, un'assemblea di diecimila e un comitato composto da sole dieci persone. Consideriamone le diverse ‛capacità quantitative', ipotizzando che l'obiettivo consista nella scelta di alcuni rappresentanti popolari: è chiaro che i delegati eletti saranno direttamente rappresentativi di quaranta milioni di persone nel primo caso, di diecimila nel secondo e di sole dieci nel terzo. Possiamo quindi concludere, per il momento, che la capacità rappresentativa dei tre canali è decrescente. Ma consideriamone subito dopo la ‛capacità qualitativa', ipotizzando questa volta che ai tre ambiti decisionali sia devoluto il compito di approvare un provvedimento complesso: ora le cose si capovolgono, nel senso che le probabilità di prendere una buona decisione aumentano man mano che si restringe il numero dei partecipanti. Infatti, tanto più ampio è questo numero tanto più lunghi tendono a diventare i tempi necessari per decidere e tanto minori appaiono le probabilità di trovare un accordo (sia pure non unanimistico) sulla generalità dei singoli aspetti di cui è costituito il provvedimento in discussione. Vale inoltre la pena sottolineare un altro importante ‛costo' implicito in questa seconda ipotesi: approvare una decisione complessa assieme a quaranta milioni, o anche soltanto assieme a diecimila, si risolve assai spesso in una profonda frustrazione. Perché la partecipazione - che è un po' configurabile come il risultato di una frazione nella quale al denominatore sia collocato il numero dei partecipanti (uno su x) - si riduce in pratica all'esercizio di un potere tanto logorante e dispersivo quanto assai poco influente.
Le conclusioni che si possono trarre da simili considerazioni mostrano che non esistono canali partecipativi ottimali in assoluto, ma solo in rapporto ai diversi obiettivi che di volta in volta si vogliono raggiungere. Ogni canale è in condizione di dare il meglio di sé solo a condizione di rispettarne la logica di funzionamento e le capacità quantitative/qualitative che gli sono proprie. Per massimizzare ciò che i vari canali possono dare, la strada da seguire sembra essere allora quella di una loro combinazione intelligente, secondo una regola di questo tipo: di tanto si espande il corpo decidente, di altrettanto va ristretto e semplificato l'ambito contenutistico della decisione da prendere; e, viceversa, tanto maggiore è la complessità di questa, tanto più conviene affidarla all'esame (se non all'approvazione) di comitati ragionevolmente ristretti.
7. I principali strumenti collettivi di partecipazione
Come si è visto, partecipare implica interagire, collaborare in vario modo con altri; è quindi una tipica azione che richiede, o comporta, l'uso di strumenti in grado di aggregare persone in modo più o meno stabile nel tempo. Ne deriva che nelle società contemporanee i principali ‛vettori' di partecipazione politica sono rappresentati dai partiti e dai cosiddetti gruppi di interesse.
a) I gruppi di interesse
Con quest'ultima espressione ci si riferisce in genere a ogni insieme di individui legati da particolari interessi, o che condividano determinati vantaggi, e che abbiano una certa consapevolezza di questi legami. Secondo una tipologia frequentemente utilizzata dagli studiosi, i cittadini danno vita (e partecipano) ad almeno quattro distinte classi di gruppi d'interesse; e ciascuna classe richiede, e consente, solo determinate forme di partecipazione politica. Si pensi, ad esempio, al primo tipo: i cosiddetti ‛gruppi anomici'. Questi sono caratterizzati da un'organizzazione assai limitata e dall'assenza di una attività compiuta continuativamente a nome del gruppo: ne fanno perciò parte le dimostrazioni spontanee, le sommosse, le agitazioni popolari. La partecipazione a tali manifestazioni assume, inevitabilmente, forme corali, emozionali, assai provvisorie e scarsamente prevedibili negli esiti. Secondo tipo da considerare: i ‛gruppi di interesse non associativi', egualmente caratterizzati dalla mancanza di organizzazione e di continuità di comportamenti, ma con in più il fatto di essere costituiti da individui appartenenti a qualche gruppo primario (stirpe, etnia, status socioeconomico, classe sociale) e manifestanti in modo spontaneo e occasionale precisi interessi immediati. A proposito ditali gruppi va ricordato che la partecipazione finisce con l'assumere aspetti simili al caso precedente, con un'importante particolarità: la tendenza a manifestarsi in modo più continuativo e a dar vita a strutture con forti radici sociali. Terzo tipo di gruppi, che si incontrano assai di frequente nelle società contemporanee: i ‛gruppi d'interesse istituzionali', così definiti per il fatto di operare (e spesso prosperare) all'interno di istituzioni aventi finalità e funzioni sociali assai diverse da quelle dei gruppi in questione. Si pensi, per esempio, ai gruppi che si possono formare nell'ambito di partiti, di una burocrazia, di un esercito, di una chiesa o di qualche ordine religioso: la loro caratteristica precipua è quella di utilizzare e sfruttare proprio l'appartenenza all'organizzazione istituzionale per scopi che riguardano soltanto una parte (sia pure, a volte, molto ampia) di essa e che comunque ben poco hanno a che fare con gli obiettivi ufficiali dell'istituzione. In questo caso, la partecipazione assume i caratteri di una indebita ‛rendita di posizione' a danno della società civile, non priva di effetti marcatamente distorcenti sul funzionamento complessivo dell'ordinamento istituzionale. Quarto, e ultimo, tipo di gruppi: quelli ‛associativi', la cui attività prevede continuità di presenza, impiego di personale a tempo pieno, ricorso a precise procedure decisionali, relativa standardizzazione dei comportamenti esterni, esplicita (e, perciò, legittima) rappresentanza di interessi particolari. La partecipazione a questo genere di gruppi può assumere forme molto diverse, a seconda della natura dell'organizzazione, delle sue procedure interne e degli stessi comportamenti esterni: conoscere tali caratteristiche per ciascun gruppo risulta quindi di particolare importanza se si vuole ricostruirne lo stile e le modalità partecipative; così come la conoscenza dell'insieme dei gruppi operanti in un dato sistema politico può illustrare in modo assai eloquente sia la cultura politica prevalente tra i cittadini, sia il tasso (e il tipo) di opportunità partecipative ad essi offerto da un determinato ambiente sociale.
b) I partiti
Ancora più complessa si presenta la fenomenologia partecipativa in rapporto all'altro tipico ‛canale' moderno: i partiti. A questo riguardo, occorre distinguere sia tra tipi di partiti, presenti in un dato sistema politico, sia tra tipi di sistemi partitici ai quali si può prendere parte. In ordine al nostro tema si tratta, come vedremo, di una bipartizione assai rilevante, in quanto mette a fuoco una fondamentale diversità degli effetti della partecipazione: quelli che interessano soltanto un singolo individuo (o qualche specifico gruppo) rispetto a quelli che interessano l'intera collettività.
In un sistema pluralistico si può ovviamente partecipare a vari tipi di partito: non tutti i partiti sono infatti identici e le loro diversità si fanno inevitabilmente sentire anche sulle forme partecipative. Si considerino pochi casi, a titolo puramente esemplificativo. Una classificazione storico-funzionale ricorda, ad esempio, che in Occidente sono stati (e, a volte, sono tuttora) presenti almeno tre tipi di partiti: il partito ‛elettorale-legislativo' (la cui attività è caratterizzata da un intermittente ricorso all'appello elettorale e si concentra invece sulla funzione parlamentare, svolta da una ristretta élite di rappresentanti non professionali, tenuti assieme da comuni opinioni politiche); il partito ‛elettorale di massa' (la cui attività è invece concentrata su un sistematico rastrellamento delle preferenze degli elettori, attraverso l'impegno di un personale politico di tipo semiprofessionale e l'elaborazione di piattaforme programmatiche capaci di aggregare gruppi di cittadini, altrove e per altri scopi formatisi); il partito ‛organizzativo di massa' (caratterizzato dalla presenza di un apparato di politici professionali che vivono di politica e mediante la politica, il cui duplice obiettivo strumentale è il reclutamento di iscritti e la mobilitazione degli elettori attorno a una qualche prospettiva ideologica). Risulta piuttosto evidente che, nei tre diversi casi, sono in gioco forme partecipative sensibilmente distanti: nel primo abbiamo, infatti, una partecipazione tanto ristretta (ed elitaria) quanto intermittente, e tesa comunque a delegare; nel secondo abbiamo invece una partecipazione notevolmente più larga, ma egualmente delegante e non continuativa, per quanto vincolata a una costante valutazione critica degli impegni programmatici assunti dal partito; e nel terzo abbiamo, infine, una partecipazione tanto ampia quanto indotta dall'esterno, controllata da piccoli gruppi burocratici (con tutti i rischi di manipolazione che ciò comporta) e di tipo inevitabilmente dottrinario. (v. partiti politici).
Venendo poi ai sistemi partitici, e alla loro influenza sulle forme partecipative, sembra opportuno riandare alla nota tipologia sartoriana: 1) sistemi monopartitici totalitari: dove l'alta intensità ideologica del gruppo egemone impone un continuo coinvolgimento dei cittadini, utilizzato come strumento di controllo politico nella totalità delle aree di convivenza intersoggettiva; 2) sistemi monopartitici autoritari: dove la minore intensità ideologica del gruppo dominante non richiede forme di partecipazione attiva, se non intermittenti e rituali, ma esclude drasticamente dai diritti politici ogni forma di partecipazione basata sul dissenso; 3) sistemi monopartitici pragmatici: dove l'assenza di ideologia favorisce forme di partecipazione basata su interessi di natura non-politica e tali comunque da non mettere in discussione il monopolio del potere a favore dell'oligarchia esistente; 4) sistemi a partito egemone di tipo ideologico: dove la competizione puramente formale, che vi si svolge, non consente che azioni partecipative debolmente e subordinatamente ‛fiancheggiatrici' rispetto al gruppo ideologico egemone; 5) sistemi a partito egemone di tipo pragmatico: dove, rispetto al caso precedente, c'è la possibilità di forme partecipative più libere, a patto però che avvengano sul solo terreno degli interessi economici e, comunque, non in grado di minacciare l'assetto partitico esistente; 6) sistemi a partito predominante: dove l'esistenza di una ‛competizione di diritto e di fatto' allarga considerevolmente le opportunità formali di partecipazione (ad es. elettorale), anche se offre basse prospettive di remunerazione - visto l'alto scarto di seggi esistente in parlamento tra un partito e gli altri - e perciò scarsi incentivi all'impegno diretto del cittadino in politica; 7) sistemi bipartitici: nei quali l'esito per lo più assai incerto della competizione spinge maggiormente a partecipare, e in forme che sono tanto più intense quanto più ampio è il numero degli incerti (in questi sistemi la partecipazione assume forme largamente pragmatiche e la sua maggiore o minore intensità varia soprattutto con la difesa di qualche specifico interesse di gruppo piuttosto che con il perseguimento di obiettivi di natura ideologica); 8) sistemi multipartitici moderati: dove la competizione, che si svolge prevalentemente ‛al centro' dello schieramento partitico, induce in genere a forme partecipative assai simili al caso precedente, con la particolarità di contemplare (e registrare) manifestazioni particolaristiche di gruppi e sottogruppi, che si differenziano comunque dai maggiori partiti in base a questioni a scarsa valenza ideologica; 9) sistemi multipartitici polarizzati: dove invece la forte radicalizzazione (o distanza) ideologica, che caratterizza la competizione semiconflittuale tra i maggiori partiti, favorisce forme partecipative di tipo ‛subculturale', tali da configurarsi più come partecipazione ‛al gruppo' che non alla vita della comunità; 10) sistemi a pluralismo atomizzato: nei quali la partecipazione di tipo politico è pressoché assente e si risolve unicamente nelle manifestazioni intermittenti di una pletora di microgruppi sociali.
8. La convenienza a partecipare
La decisione di prendere parte a qualche processo decisionale è in ultima analisi configurabile come il risultato di un particolare tipo di calcolo ‛costi-benefici', nel quale vanno contabilizzati almeno tre grandi gruppi di fattori: istituzionali, dipendenti dalla risorsa-tempo, legati a qualche ricompensa percepita come prevedibile.
Del fattore istituzionale si è in gran parte già detto. Esso consiste nell'insieme di vincoli e di opportunità, essenzialmente di carattere giuridico-formale, di fronte a cui si viene concretamente a trovare ogni soggetto all'interno di un determinato sistema politico. Questi vincoli possono avere finalità assai diverse: escludere dalla partecipazione, limitarne la portata, renderla più difficile o più scomoda (si pensi a quelle norme elettorali che in vari paesi comportano a ogni votazione l'obbligo della registrazione o la dimostrazione di trovarsi in possesso di risorse economiche in grado di garantire l'autonomia finanziaria del potenziale elettore) o - più semplicemente - quello di disciplinarne le modalità al solo fine di chiarirne l'estensione, le condizioni di validità, le responsabilità che essa comporta e i vari doveri associati al diritto di partecipare. Sotto quest'ultimo profilo, va anzi detto che quanto più istituzionalizzato (formalizzato) è un processo partecipativo, tanto minori diventano i costi a prendervi parte e viceversa; l'istituzionalizzazione di un processo diventa quindi un meccanismo di progressivo abbattimento degli incentivi all'apatia e, di qui, una strada per incrementare le opportunità partecipative.
Tra questi costi partecipativi, come abbiamo già in parte visto, il tempo occupa certamente un ruolo preponderante. E non si dice nulla di esagerato affermando che la gran parte degli attori politici decide di partecipare o no, oppure decide di farlo in un modo o nell'altro, proprio sulla base di una valutazione prioritaria: attraverso quale comportamento sia possibile ottimizzare l'uso della risorsatempo (nell'acquisire informazioni, nel discutere con altri, nell'assumere atteggiamenti più o meno meditati).
Quanto poi alle possibili ricompense, vanno tenute innanzitutto presenti le considerazioni già avanzate a proposito delle motivazioni a partecipare. Queste possono essere distinte in almeno due famiglie fondamentali: motivazioni meramente ‛espressive' e motivazioni ‛acquisitive'. Nel primo caso le ricompense attese sono soprattutto di carattere psicologico: si partecipa per il solo gusto di esprimere un'opinione, per manifestare una determinata posizione rispetto a qualche problema d'ordine collettivo; null'altro. Nel secondo caso le ricompense consistono invece nel raggiungimento di qualche obiettivo non meramente simbolico: si partecipa per acquisire un bene, un risultato oggettivo, altrimenti improbabile da ottenere. Mentre nel primo caso la partecipazione si esaurisce in se stessa e la convenienza a partecipare è misurata solo in base ai costi partecipativi, nel secondo caso chi partecipa è più o meno soddisfatto (e decide quindi di partecipare nuovamente) soltanto se ‛ha combinato qualcosa', se la partecipazione gli è apparsa utile in qualche misura a conseguire un determinato risultato.
L'incidenza e la diffusione della partecipazione volta a privilegiare motivazioni acquisitive riveste considerevole importanza all'interno di un sistema politico, nel senso che finisce per assegnare un ruolo cruciale alla relazione tra gli effettivi poteri incorporati nei vari processi decisionali e i conseguenti tassi di partecipazione. Infatti, dove gli orientamenti acquisitivi sono maggiormente diffusi e sentiti, solo i processi decisionali provvisti di poteri realmente esercitabili e dotati di qualche rilevanza vengono percepiti come convenienti a sopportare i relativi costi di partecipazione; mentre invece risultano prima o poi deludenti, e perciò disertati dai più, laddove quei poteri appaiono come evanescenti, confusi (e tali da richiedere alti investimenti di risorse per una loro puntuale definizione) o d'incerta applicabilità. Come a dire che, ancora una volta, un'adeguata istituzionalizzazione formale dei processi decisionali può contribuire al loro successo sia partecipativo sia funzionale; e, viceversa, senza precise ‛regole del gioco' le migliori intenzioni possono sortire effetti radicalmente controproducenti.
La considerazione che ciascun soggetto politico è portatore di molteplici motivazioni o utilità che cerca di massimizzare, induce a porre poi l'attenzione su almeno due quesiti: a) in base a quale procedimento, e a quali criteri, un attore decide di non partecipare, pur venendosi a trovare nella condizione di chi finisce con ciò per rinunciare a soddisfare il proprio desiderio; b) in base a quali elementi si decide di spendere il proprio tempo (scarso) a favore di alcuni obiettivi piuttosto che a favore di altri (pur egualmente desiderati).
Su entrambi i punti getta qualche spiraglio di luce - almeno per i suggerimenti offerti alla ricerca empirica - la cosiddetta ‛teoria della sostituibilità'. Secondo questa, ogni cittadino sceglie il proprio comportamento in base all'‛intensità comparata' con la quale desidera soddisfare varie sue preferenze e in base ai ‛costi-benefici comparati' che deve sopportare per soddisfarle. Il punto di partenza della teoria è dato dall'assunzione che la gran parte dei potenziali partecipanti è portatrice di domande più o meno elastiche, che al variare dei prezzi-costi da sopportare tenderanno a diminuire o aumentare. Ebbene, l'evidenza empirica suggerisce innanzitutto che in un sistema politico agiscono sia cittadini portatori di domande elastiche che cittadini portatori di domande anelastiche: questi ultimi saranno individuabili proprio attraverso l'accertamento della loro propensione a sostituire o no determinati loro comportamenti (il che è ottenibile mediante varie tecniche di indagine). Inoltre, tra i cittadini portatori di domande elastiche è possibile individuare la scala delle preferenze e le relative ‛distanze' attraverso un analogo procedimento: accertando - anche qui - la loro propensione a sostituire, al variare dei costi, sia una data richiesta (e il relativo obiettivo) con altre richieste, sia la decisione di impegnarsi in un'azione di tipo collettivo con quella di astenersi dal farlo (ripiegando su azioni di tipo privato e individuale, ritenute però ‛equivalenti' quanto al grado di soddisfazione prodotta).
Da ultimo va sottolineato che la convenienza a partecipare è in larga misura condizionata dalla consapevolezza che si ha dell'importanza della propria presenza. Per prendere parte occorre avere la sensazione che il proprio atto conti qualcosa; e più cospicua sarà tale ‛posta' - o questa sensazione - maggiore risulterà la spinta a partecipare. Ove, invece, tale sensazione manchi (o decresca considerevolmente) si vengono inevitabilmente a creare le condizioni ideali per l'apatia e la passività dei cittadini, nelle ipotesi più favorevoli, o per la sudditanza e l'alienazione politica, in quelle più preoccupanti. Tipico, in questo senso, è il cosiddetto comportamento del ‛passeggero che non paga' (o free rider): consistente nella tentazione per ogni cittadino a non prendere parte alla produzione di qualche bene collettivo (come sono quelli prodotti da un buon funzionamento del sistema politico) ogni qual volta egli abbia la sensazione di poter godere dei vantaggi di tale bene senza sopportare alcuno dei costi relativi (un esempio: quello del passeggero che usa un mezzo pubblico di trasporto senza comprare il relativo biglietto). Nel caso della partecipazione, ciò comporta un rischio carico di elementi disfunzionali: come evitare che l'iniqua distribuzione dei costi tra utenti paganti e ‛portoghesi' non si traduca sul terreno politico in una situazione di progressiva conflittualità?
9. Gli effetti delle varie forme partecipative sul funzionamento dei sistemi politici
La partecipazione non è quindi un fenomeno unidimensionale; essa assume molteplici aspetti, comporta vari e cospicui costi, dà luogo a forme di comportamento individuale e collettivo estremamente diversificate. La partecipazione è anche, certamente, un requisito essenziale al funzionamento politico di una democrazia moderna; ma - nelle condizioni che abbiamo potuto finora esaminare - sostenere una proposizione così generica rischia di farci confondere tra regimi partecipativi che hanno ben poco in comune. E invece opportuno interrogarci sugli effetti politici che discendono dalle varie forme di partecipazione, al fine di individuare di volta in volta gli strumenti più vantaggiosi, razionali ed efficaci per affrontare i problemi d'ordine collettivo delle varie comunità sociali.
È stato probabilmente Tocqueville ad accorgersi per primo di una verità troppo spesso sottovalutata: un'astratta equiparazione formale delle possibilità partecipative dei cittadini ai processi decisionali governativi, lungi dal realizzare l'ideale democratico del diretto coinvolgimento potestativo del singolo individuo, finisce col creare inevitabilmente le premesse di un regime non democratico di massa, nel quale l'incidenza del cittadino sulle decisioni governative è ridotta a una frazione infinitesimale e il potere effettivo è confinato nelle mani di oligarchie che sanno come controllare (manipolare) le masse. La storia contemporanea fornisce in proposito più di un triste esempio probante. E la realtà insegna che la democrazia fondata sul principio partecipativo ‛un cittadino, un voto' richiede il rispetto politico di un altro fondamentale principio, se non vuole creare una comunità di individui sproporzionatamente deboli di fronte allo Stato-Moloch: questo principio dice che occorre limitare i poteri centrali dello Stato nei confronti del singolo attore politico, affiancando ad essi una rete di poteri intermedi tra individuo e Stato, in grado di incrementare le effettive opportunità potestative e autogestionali di ciascuno (mediante molteplici meccanismi decisionali).
Ciò che vale per il rapporto individuo-Stato è del resto osservabile, più in piccolo, nel rapporto individuo-collettività che si instaura all'interno di una qualsiasi assemblea nella quale non siano sufficientemente chiare e rispettate le regole di svolgimento, nella quale non siano sufficientemente tutelati i diritti delle minoranze, alla quale si faccia ricorso troppo frequentemente. Infatti, che cosa puntualmente accade in assemblee di questo tipo? Che si stabilisce una netta distinzione tra coloro che partecipano in modo più attivo e coloro che lo fanno in modo prevalentemente passivo; che non tutti riescono a dedicare lo stesso tempo alla partecipazione; che, infine, non tutti possono far ricorso a equivalenti attitudini tribunizie o ad analoghe abilità nei contatti di corridoio: ciò che ne risulta è l'inevitabile formarsi di una oligarchia assembleare che conduce a qualche forma di gestione burocratica dell'assemblea, tale da svuotarla prima o poi di qualsiasi connotazione realmente democratica.
Il funzionamento dei sistemi politici non è quindi indifferente alle forme (e alle rispettive regole) attraverso le quali i cittadini prendono concretamente parte alla vita pubblica. Da quanto abbiamo potuto finora vedere, risulta abbastanza chiaro che non esiste alcuna forma ottimale di partecipazione, ad esempio, per il buon funzionamento di un regime democratico: un eccesso di coinvolgimento diretto della gente può essere tanto nocivo (poiché paralizzante e foriero di atteggiamenti demagogici) quanto può esserlo un eccesso di apatia (sia pure per motivi opposti); così come un peso eccessivo dato ai partiti o ai gruppi di interesse come strumento di partecipazione può risultare tanto disfunzionale (perché suscettibile di deformazioni operate dalle rispettive oligarchie) quanto una partecipazione atomizzata di individui privi di qualsiasi forma aggregativa. E gli esempi potrebbero essere moltiplicati, via via che si considerino i tanti e possibili ‛eccessi di prevalenza' di una qualsiasi forma partecipativa: elitaria o di massa, informata o disinformata, diretta o indiretta, consensuale o conflittuale, responsabile o irresponsabile, pragmatica o ideologica, istituzionalizzata o spontaneistica, ecc.
In ultima analisi, ciò induce a dire che un sistema politico che intenda esaltare la partecipazione intesa come strumento di espressione potestativa del demos, della generalità dei cittadini, si trova di fronte un compito assai complesso e delicato, in ordine al quale il pensiero ideologico con le sue fughe nell'utopia ha ben poco da suggerire. Tanto per fare un esempio-limite, la stessa ipotesi di una democrazia nella quale i cittadini si autogovernino attraverso una pluralità di consigli a partecipazione diretta minaccia di produrre esiti radicalmente contrapposti a quelli auspicati, basata com'è sul ricorso generalizzato ad assemblee scarsamente istituzionalizzate e, con ciò stesso, alla logica decisionale appena considerata. Quindi, è solo una rigorosa analisi delle esperienze politiche compiute nei più diversi ambiti che può progressivamente fornire qualche lume sulle istituzioni in grado di ottimizzare una partecipazione realmente significativa, e perciò funzionale agli ideali democratici. Un tema, questo, sul quale dobbiamo prendere atto di saperne ancora troppo poco, almeno rispetto alle ambizioni e alle aspettative del nostro tempo.
Ciò che sappiamo è comunque più che sufficiente, come abbiamo visto, per non commettere macroscopici errori di prospettiva. Una democrazia ‛intelligente' può oggi non confondere tra forme di partecipazione radicalmente diverse e può, invece, combinare le varie forme e i vari canali partecipativi con altri meccanismi disponibili, rispettandone la logica strutturale e funzionale, così da esaltarne le potenzialità senza stravolgerne la natura. Esempi di questi meccanismi: la ‛rappresentanza', come strumento politico capace di ‛allungare' il raggio di rilevanza (la portata) della partecipazione, attraverso una catena di intermediazioni controllabili da parte degli stessi cittadini; ma anche il ‛decentramento', inteso come strumento in grado di incrementare le occasioni partecipative, attraverso un'operazione che - restringendo gli ambiti decisionali centrali e rimoltiplicandoli a livelli decentrati - finisce per ridurre anche il numero dei soggetti interessati a ciascuna decisione, così da consentire forme di partecipazione meno indiretta.
Resta naturalmente da vedere in qual modo sia concretamente possibile minimizzare le condizioni in cui si alimentano l'autoesclusione, l'alienazione e l'apatia politica dei cittadini che ‛possono' formalmente partecipare; ma anche in proposito le nostre conoscenze - come abbiamo visto - sono molto meno scarse di quanto comunemente si creda. Semmai c'è da sottolineare che non si tratta purtroppo di conoscenze sempre o granché applicate.
10. Le prospettive della partecipazione
La previsione più facile in tema di partecipazione è che si tratti di un fenomeno destinato, se non altro in termini quantitativi, ad espandersi ulteriormente negli anni che ci attendono. Molto meno facile è invece prevedere quale tipo di partecipazione prevarrà. Ad alimentare questi diversi gradi di prevedibilità stanno due processi storici difficilmente reversibili: la crescente mobilitazione sociale, accompagnata da una più ampia esposizione ai grandi mezzi di comunicazione di massa, da un lato; l'altrettanto crescente complessità dei sistemi politici contemporanei, alla quale è legata una progressiva difficoltà delle decisioni all'ordine del giorno, dall'altro. Infatti, mentre il primo processo lascia intravvedere una sempre maggiore domanda di partecipazione (e di partecipazione ‛diretta', quel che più conta), il secondo processo dice che il ‛prender parte' diverrà sempre più difficile e costoso.
Se poi prendiamo in considerazione un'ulteriore tendenza storica - quella che sembra manifestarsi in forma di crescente differenziazione sociale e di conseguente frammentazione delle grandi aggregazioni tradizionali (Stato-nazione, classi, caste, grandi complessi produttivi), abbiamo l'intero quadro delle più probabili prospettive. E, con esse, abbiamo allora molto chiara anche la percezione dei rischi che comporta la probabile espansione partecipativa: a) di risolversi in forme largamente simboliche e ritualistiche (più come strumento di ‛controllo dell'uniformità sociale' che altro); b) di dar comunque vita a comportamenti individuali e di gruppo incapaci di ‛fare sistema' tra loro, e incapaci con ciò di rispondere adeguatamente ai tanti problemi - vecchi e nuovi - d'ordine collettivo.
Quando da parte di molti osservatori si segnala nelle società di più avanzata industrializzazione la tendenza a un risorgente ‛corporativismo sociale' (verso un ‟Medioevo prossimo venturo", com'è stato anche definito), si usa un'espressione forse non molto corretta per designare però un fenomeno ben presente e molto diffuso in vari paesi. La parola è probabilmente fuorviante in quanto confonde una tendenza (la frammentazione sociale) con una delle sue possibili conclusioni (il corporativismo come meccanismo istituzionale, assunto dai gruppi sociali per prendere ‛assieme' decisioni d'ordine collettivo). Ma, al di là dei distinguo terminologici, val davvero la pena di chiedersi a quali esiti complessivi potrebbe portare una più estesa partecipazione di tipo prevalentemente simbolico e tendenzialmente atomizzato: un assetto neocorporativo; la definitiva sparizione dei ‛grandi sistemi' (ma come potremmo affrontare, in tal caso, le questioni di rilevanza planetaria?); o una riscoperta del ‛contratto sociale' (e del costituzionalismo come sua incarnazione politica)? Attorno a questi interrogativi si sta svolgendo da tempo un dibattito tanto appassionante quanto impervio: la risposta dipende infatti da molteplici variabili, spesso di assai difficile individuazione; ma è certo che, tra le influenze da mettere nel conto, un posto importante verrà occupato proprio dalla partecipazione, considerata sia come manifestazione delle culture politiche prevalenti sia come visione dei meccanismi decisionali che sapremo creare e adottare.
Qualsiasi futuribile sulla partecipazione deve poi prendere in esame l'affascinante prospettiva offerta dai progressi della microelettronica. Problemi di costo economico a parte, questa potrebbe infatti mettere a nostra disposizione strumenti (videoterminali collegati a una pressoché sconfinata molteplicità di interlocutori) tali da rimuovere alcuni dei limiti oggettivi che attualmente condizionano le opportunità partecipative dei cittadini al governo della cosa pubblica. Secondo un noto scenario, tra qualche quinquennio gli elettori potrebbero essere ripetutamente chiamati a votare nelle rispettive case, dando così vita a un gigantesco processo decisionale collettivo al quale tutti i cittadini prenderebbero simultaneamente parte, con costi temporali ridotti al minimo indispensabile. Occorrerebbe naturalmente pensare a sistemi elettorali adeguati allo strumento tecnico utilizzabile (ad esempio, attraverso il ricorso a molteplici referendum su problemi molto circostanziati e in grado di consentire una loro efficace soluzione attraverso risposte del tipo ‛si-no'). Ma, a questo proposito, la fantasia avrebbe davvero di che sbizzarrirsi. Perché, secondo una scuola politologica, approfittando di una simile rivoluzione strumentana si potrebbe addirittura sperimentare su vasta scala un sistema elettorale in grado di tenere finalmente conto anche dell'‛intensità' delle preferenze dei votanti, in luogo dei sistemi tradizionali che danno oggi lo stesso ‛peso' alle scelte degli attori fortemente interessati e a quelle dei quasi-indifferenti: un nuovo sistema in grado quindi di rivelare la molteplicità delle preferenze di ciascun elettore e il relativo ordine di priorità, attraverso una loro rilevazione effettuata con l'ausilio del calcolatore e di un particolare meccanismo di internalizzazione dei costi decisionali.
Ma, futuribili ottimistici a parte (che non muterebbero comunque la ratio implicita nel grosso dei fenomeni partecipativi), conviene ricordare in ultima istanza che i rischi di cui prima si parlava saranno tanto minori e meno acuti quanto più i sistemi politici sapranno incrementare un mix composto dalle forme di partecipazione più responsabile, dall'ampliamento dei canali effettivamente partecipabili, dall'uso della partecipazione come strumento di controllo delle élites, dal ricorso al decentramento e alla rappresentanza come meccanismi controbilancianti; e, in breve, sapranno dar vita a un processo di formazione delle decisioni pubbliche basato su un ‛sistema di comitati' tanto più ampio e coordinato, quanto aperto e controllabile. Per contro, ogni alternativa a tale complessa e delicata costruzione minaccia di svuotare la partecipazione potestativa del cittadino (il suo stesso kratos) di ogni ragione d'essere.
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