parti del discorso
Di fronte a quella che appare come una caratteristica strutturale del ➔ lessico delle lingue, l’essere cioè costituito da una massa di parole sterminata e incontrollabile, è naturale chiedersi: è possibile mettere ordine tra gli elementi lessicali? Se è vero infatti che è «un’essenziale proprietà semiotica quella per cui non esistono lingue composte da elementi che siano completamente diversi l’uno dall’altro e si comportino ciascuno a modo suo» (Simone 200819: 282-283), allora è vero anche che ci devono essere somiglianze fra i diversi elementi e delle regolarità nel loro funzionamento. Il passo ulteriore è chiedersi se sia possibile individuare in modo preciso tali somiglianze e regolarità – che possono riguardare la forma, il significato, la posizione nella catena parlata, la funzione – in modo da arrivare, per questa via, a individuare delle classi diverse di parole, vale a dire raggruppamenti di elementi dotati di proprietà comuni, ed eventualmente anche delle sottoclassi.
A questa domanda, che gli uomini si fanno da sempre, tentarono di rispondere già nell’antichità i filosofi e i grammatici: Simone (200819: 284) ricorda che «in Platone e in Aristotele si trovano tentativi tutt’altro che approssimativi di isolare categorie di parole», tradizionalmente designate col nome di partes orationis, o parti del discorso, oggi più spesso chiamate classi di parole o categorie lessicali. Anward (2000: 10-12) riporta in dettaglio la lista delle categorie messa a punto da Dionisio Trace (circa 100 a.C.) per il greco classico e, derivata da questa, quelle redatta da Apollonio Discolo (II sec. d.C.) e Prisciano (V sec. d.C.) per il latino, entrambe fondate sulle proprietà morfologiche delle parole. Assunta dai grammatici medievali, la partizione tradizionale è stata nei secoli più volte rimaneggiata, con cancellazioni (il participio) e aggiunte di categorie. Ad es., l’aggettivo è riconosciuto come classe autonoma solo a partire dal medioevo, essendo stato accorpato nella stessa classe del verbo da Platone e Aristotele, nella classe del nome dagli alessandrini e dai loro successori (Lyons 1971: 424 segg.; Scarano 1999).
Tradizionalmente si distinguono nove classi lessicali, vale a dire: ➔ nomi (detti anche sostantivi), ➔ verbi, ➔ pronomi, ➔ articoli, ➔ aggettivi, ➔ avverbi, ➔ preposizioni, ➔ congiunzioni, interiezioni (➔ interiezione; ➔ esclamative, formule). È un inventario consolidato, sul quale si è accumulata una tradizione imponente, assunta in modo pedantesco dalla scuola italiana (e di altri paesi), che ha fatto dell’esercizio di riconoscimento delle categorie lessicali, noto col nome di ➔ analisi grammaticale, uno dei cardini della riflessione grammaticale scolastica. Tuttavia in questi ultimi decenni molte critiche si sono levate contro le partizioni e le definizioni tradizionali, sicché questa classificazione non è più del tutto condivisa dagli studiosi, che a più riprese hanno sottoposto ad attenta verifica lo statuto di alcune classi. Lo ha fatto, ad es., Graffi (1994: 41-73), che ha discusso con molta puntigliosità lo statuto degli articoli (che accorpa nella classe dei determinanti con altri elementi tradizionalmente rientranti nella classe degli aggettivi), dei nomi, dei verbi, dei pronomi, delle preposizioni, degli avverbi (definiti, questi ultimi, «una ‘categoria ripostiglio’ in cui mettere tutte le parole a cui non si sa trovare una collocazione migliore»; ibid.: 46).
Si è anche discusso sulla pretesa universalità delle parti del discorso; Casadei (2003: 120) ricorda che «la grammatica moderna assume che non tutte le categorie siano universali, cioè che siano presenti in tutte le lingue, dunque l’inventario può variare da lingua a lingua», anche se alcune categorie sembrano in effetti «presenti in ogni classificazione». Fra queste, in primis, le categorie «di nome e verbo, che rientrano, insieme a quelle di aggettivo e preposizione, tra le cosiddette categorie maggiori, che si ritiene esistano in gran parte delle lingue». Tutte le altre sarebbero categorie minori perché «più facilmente possono mancare nelle lingue»: fra queste fa l’esempio dell’articolo (che infatti non esiste in latino e in varie lingue slave, come il russo).
Soprattutto la classe dei nomi e quella dei verbi vengono considerate basiche, forse universali (poche e discusse le eccezioni), e ciò (ricorda Simone 200819: 305) ha una giustificazione nelle basi ontologiche del linguaggio verbale: per parlare di alcunché, infatti, abbiamo bisogno in prima istanza di strumenti utili a designare, o denominare, gli oggetti e le entità del mondo. Tali strumenti sono i nomi. Ma poiché
il puro e semplice “chiamare le cose” non è sufficiente a creare comunicazione, è necessario disporre anche di altri artefatti, che permettano di riferirsi alle relazioni che si osservano (o che possono essere postulate) tra gli oggetti, le quali possono essere di diversa natura. La funzione dei verbi sembrerebbe essere proprio questa.
La supposta basicità di queste due categorie si riflette anche nella quantità di nomi e verbi presenti nelle lingue. Uno studio condotto sul Vocabolario di base dell’italiano (De Mauro 200312) mostra, ad es., che delle 7000 parole riportate nel Vocabolario, il 60,6% sono nomi, il 19,6% sono verbi, il 14,9% sono aggettivi, il 2% sono avverbi; tutte le altre classi (pronomi, congiunzioni, ecc.) sono sotto l’1% (Iacobini & Thornton 1994: 278) (➔ lessico).
Comunque lo si voglia giudicare, e restringendo il punto di osservazione alla lingua e alla tradizione grammaticale e scolastica italiana, quest’inventario ha retto per almeno due millenni. Vale dunque la pena di chiedersi: sulla base di quale criterio sono state fatte queste partizioni? La risposta non è semplice, perché nel tempo sono stati individuati vari criteri, i quali hanno avuto più o meno fortuna nelle diverse epoche.
Un primo criterio, sempre valido almeno per lingue come il latino o l’italiano, è quello morfologico, che in prima approssimazione prende in considerazione la variabilità o invariabilità della parte terminale di parola: in italiano ci sono parole variabili (matita / matite, andavo / andavi / andava, rosso / rossa / rossi / rosse, il / i / gli, lui / lei) e parole invariabili (per, ieri, perché, boh!), e tanto basta per parlare di classi variabili (nomi, aggettivi, verbi, articoli, pronomi) e classi invariabili (avverbi, preposizioni, congiunzioni, interiezioni). Ma ovviamente le parole che variano non variano tutte nello stesso modo. È, questo, un tipo di riflessione molto antica. Come scrive Jezek (2005: 101):
la dimensione morfologica è stata la prima ad essere osservata in modo sistematico, almeno nella tradizione di studi occidentali, basata perlopiù sull’analisi delle lingue classiche, come ad esempio il latino. Il latino mostrava molto bene come le parole si caratterizzano in quanto si prestano a tipi diversi di modificazione morfologica. Ad esempio, in presenza di un sistema di casi, come appunto in latino, soltanto alcune parole (come lupus), e non altre (come vidēre), sono flesse per il caso (nominativo, accusativo ecc.). Viceversa, soltanto parole come vidēre, e non parole come lupus, sono flesse per il tempo (presente, passato ecc.).
Quindi sulla base della modalità della variazione e delle diverse funzioni delle terminazioni si può procedere a una serie di distinzioni: così, ad es., in italiano i nomi possono flettersi in base ai tratti di ➔ genere e ➔ numero; anche gli articoli e gli aggettivi possono flettersi per genere e numero, ma non hanno, a differenza del nome, genere proprio, e assumono sempre il genere e il numero del nome a cui necessariamente si riferiscono; i pronomi si flettono per genere e numero, ma i pronomi personali anche per caso; i verbi possono flettersi in base al modo, tempo, aspetto e persona. Dunque la considerazione del comportamento morfologico dà una serie di indicazioni utili a discriminare alcune categorie, ma non basta: che fare, ad es., delle parole invariabili? Diremo che appartengono tutte a una stessa categoria? E per lingue con poca morfologia, diremo che non hanno classi di parole?
Un secondo criterio per l’individuazione delle parti del discorso, molto utilizzato nell’insegnamento scolastico, è quello semantico-concettuale o nozionale, che si sforza di trovare un contenuto semantico comune a tutte le parole appartenenti a una stessa categoria. Secondo questo criterio, ad es., i nomi designano entità (persone, animali, cose) o sostanze (da cui il termine sinonimo sostantivi); i verbi si riferiscono ad azioni o a processi; gli aggettivi a qualità, e così via. Si vedano in proposito le perplessità di Graffi (1994: 38):
un criterio di tipo semantico [...] è contraddetto da una molteplicità di osservazioni: parole come partenza, descrizione, nascita, non designano certamente oggetti, bensì processi o azioni, e tuttavia sappiamo benissimo che si tratta di nomi, e non di verbi. Viceversa appare controintuitivo dire che verbi come sapere, conoscere, o credere designano dei processi, o delle azioni: essi designano piuttosto uno stato, e infatti è stata coniata, per essi, la definizione di “verbi stativi”; ma sono molti anche i nomi che esprimono uno stato: si pensi a calma, angoscia, stabilità, ecc. Questo tipo di criterio semantico non permette quindi di distinguere in modo univoco i nomi dai verbi, categorie che, invece, la nostra intuizione di parlanti dell’italiano contrappone nettamente: anch’esso si rivela perciò insoddisfacente, come il criterio morfologico.
Questa riflessione, del resto, era già presente in Lyons (1977) che, ragionando sulle basi ontologiche delle categorie lessicali, aveva notato questa doppia o tripla possibilità del nome: di riferirsi in prima istanza a quelle che chiama «entità di primo ordine», vale a dire persone, animali e cose, oggetti fisici più o meno discreti che hanno la caratteristica di poter essere osservati e cui possiamo riferirci direttamente tramite il linguaggio (ibid.: 442-443), e il cui «statuto ontologico è relativamente pacifico» (ibid.: 445). Ma, appunto, esistono anche nomi che si riferiscono a eventi che accadono nel tempo (vittoria, tramonto, nomina, pranzo ...), e nomi che designano stati (conoscenza, pace, stanchezza, bellezza ...), i primi spesso (non sempre) morfologicamente correlati a verbi, i secondi spesso (non sempre) morfologicamente correlati a verbi o ad aggettivi.
Un terzo criterio per la delimitazione delle categorie consiste nell’osservazione della posizione che un certo elemento può occupare nella catena parlata: si tratta in questo caso di andare oltre il singolo elemento per stabilire
quali sono le parole che possono ricorrere (o non possono ricorrere) assieme ad altre, le posizioni di tali occorrenze dei vari tipi di parole, e così via: i criteri di questo tipo sono detti, nella linguistica moderna, distribuzionali, perché si fondano, appunto, sul modo in cui le parole si distribuiscono all’interno della frase secondo la classe a cui appartengono (Graffi 1994: 39)
In proposito è sempre valida la prova della commutazione, così come utilizzata dagli strutturalisti americani: se in una certa posizione possono occorrere più elementi aventi la medesima funzione, questi elementi appartengono alla stessa categoria. Così in il cane, un cane, i cani, dei cani gli elementi il, un, i, dei precedono un nome e danno informazioni relative al numero (singolare / plurale) e alla notorietà e determinatezza del referente. Possiamo dunque a ragione considerarli tutti appartenenti alla medesima classe, quella degli articoli, che potremo poi, se necessario, ulteriormente suddividere in sottocategorie (determinativi, indeterminativi, partitivi).
Il criterio distribuzionale è anche un criterio sintattico, dal momento che consente di discriminare le parole e suddividerle in gruppi diversi a seconda della posizione che possono occupare, e quindi della funzione sintattica che possono svolgere all’interno della frase. Questo criterio consente, più agevolmente, ad es., del criterio morfologico, di ragionare su lingue diverse, o anche molto diverse fra loro, perché, come scrive Jezek (2005: 140),
non vi è dubbio [...] che tutte le lingue abbiano una sia pur minima organizzazione sintattica, e che questa organizzazione rispecchi, a seconda delle teorie, principi di carattere innato o funzioni di carattere pragmatico come la funzione referenziale (cioè di presentare dei referenti), la funzione predicativa (cioè di asserire qualcosa a proposito di questi referenti) e la funzione della modificazione (cioè di introdurre delle modifiche dei referenti)
A queste tre funzioni corrispondono prioritariamente le classi dei nomi e dei pronomi (funzione referenziale), la classe dei verbi (funzione predicativa), le classi degli aggettivi e degli avverbi (funzione di modificazione). Ma è davvero sempre così? Se in Maria è arrivata, Maria svolge effettivamente una funzione referenziale, e tanto basta per inserire Maria nella classe dei nomi, in mia sorella si chiama Maria lo stesso elemento svolge, in unione col verbo, una indubbia funzione predicativa: dobbiamo concludere che Maria può essere anche verbo?
La verità è che ciascuno dei criteri solitamente utilizzati per discriminare le parti del discorso presenta limiti e difetti, e si rivela perlopiù insufficiente, da solo, a definire adeguatamente le diverse categorie. Se volessimo, ad es., provare a definire il nome, dovremmo ricorrere contemporaneamente a più criteri e dire che: è perlopiù flesso per genere e numero (criterio morfologico); designa perlopiù entità (criterio semantico); può essere preceduto da articoli e modificato da aggettivi (criterio distribuzionale); può comparire come testa in sintagmi con funzione referenziale (criterio sintattico).
Concludiamo su questo punto citando Prandi (2006: 274) che scrive:
tra proprietà grammaticali, funzioni e contenuti concettuali delle classi di parole non c’è armonia, ma sfasatura. Questa sfasatura non è un difetto delle grammatiche, ma una proprietà qualificante del dispositivo linguistico che gli permette di funzionare al meglio [...]: ogni classe è attrezzata per esprimere al meglio un certo tipo di concetti e per adempiere al meglio a una funzione qualificante. Al tempo stesso, le classi principali sono in grado di esprimere tipi di concetti diversi e di adempiere a funzioni diverse, caratteristiche di altre classi, naturalmente in modo non specializzato, e quindi meno preciso [...]. Questo modo di funzionare rende la lingua uno strumento al tempo stesso preciso e versatile, ma complica l’analisi delle parti del discorso.
Emerge da queste parole una visione delle categorie come insiemi dai confini sfumati, aventi al centro gli elementi prototipici, ai margini le forme periferiche, più problematiche. Questa visione è condivisa da molti studiosi di area tipologica e funzionalista, che hanno ragionato sulle categorie lessicali in termini di insiemi di tratti. Ad es., Ramat (1999) riserva il termine categoria alla classe lessicale; ogni categoria si realizza poi in una serie di tratti (ad es., il verbo presenta generalmente un tempo, un modo, una persona, un aspetto, un numero, una diatesi); ogni tratto può avere più opzioni (ad es., il modo si realizza come indicativo, congiuntivo, condizionale, ecc.). Esistono tratti comuni a più categorie (ad es., il genere e il numero caratterizzano sia il nome che il verbo) e questa possibilità, oltre a rendere più opachi gli elementi linguistici coinvolti, facilita «i processi di transcategorizzazione, come ben si vede nei participi divenuti sostantivi (ital. cantante, calmante, commerciante, stampante)» (Giacalone Ramat 2005: 205; ➔ sostantivato, aggettivo; ➔ sostantivato, infinito; ➔ nominalizzazioni).
Come abbiamo appena visto, una caratteristica abbastanza comune delle lingue è il fenomeno della transcategorizzazione (o ricategorizzazione), oggi più spesso chiamata ➔ conversione. Se è vero che ogni parola, sulla base delle sue proprietà morfologiche, semantiche, distribuzionali e sintattiche, può essere attribuita a una classe lessicale, è anche vero che spesso le parole possono appartenere a più classi, e che nelle lingue con poca morfologia questa eventualità è tutt’altro che rara. La conversione «costituisce addirittura la norma nelle lingue isolanti, che non hanno morfologia o ne hanno pochissima, come il cinese, dove ad esempio bing significa “ammalarsi” ma anche “malattia”» (Jezek 2005: 52).
Tuttavia anche una lingua con ricca morfologia, come l’italiano, presenta il fenomeno della conversione. Si vedano gli esempi che seguono:
(1) a. un bambino italiano [aggettivo, sostituibile con francese, felice, capriccioso ...]
b. un italiano è stato arrestato [nome, sostituibile con uomo, operaio, ladro ...]
(2) a. vengo dopo [avverbio, sostituibile con presto, ora, domani ...]
b. partirò dopo la mezzanotte [preposizione, sostituibile con a, verso ...]
(3) a. perché studi l’inglese? [avverbio, sostituibile con quando, dove ...]
b. mi hanno licenziato perché non c’è lavoro [congiunzione, sostituibile con dal momento che, infatti ...]
c. non riesco a rispondere ai perché di mio figlio [nome, sostituibile con dubbi, quesiti, interrogativi ...]
In qualche caso i passaggi di categoria sono regolari e determinati da caratteristiche strutturali delle lingue. Ad es., nel caso dell’italiano (ma anche di altre lingue) molte forme nominali del verbo (infiniti, participi, gerundi) sono diventate nomi, al punto che i dizionari li registrano come entrate autonome e che la loro origine verbale non è più avvertita dai parlanti: si vedano casi come il potere, i saperi, l’insegnante, i pentiti, un crescendo, i laureandi che, da forme del paradigma verbale, sono diventati nomi, con un processo talvolta chiamato di ➔ lessicalizzazione. Diverso, e opposto, il caso della ➔ grammaticalizzazione, che si ha quando elementi appartenenti a una classe aperta diventano elementi funzionali o grammaticali, indisponibili alla flessione: l’esempio classico è durante, che da participio presente di un verbo è diventato preposizione «attraverso la rianalisi di quello che era originariamente il soggetto del participio come complemento della preposizione» (Giacalone Ramat 2005: 206).
Nelle classi di parola rientrano anche le cosiddette ➔ locuzioni (➔ polirematiche, parole; Simone 1997; Voghera 2004). Si tratta di «combinazioni di parole che sono sentite dai parlanti come un’unica unità lessicale […] e che presentano una coesione interna maggiore di quella prevedibile sulla base della loro struttura sintattica» (Voghera 2004: 56). Dunque macchina da scrivere e anima gemella sono da ascrivere alla classe dei nomi; mettere giù e venire meno sono da ascrivere alla classe dei verbi; acqua e sapone e alla mano sono a tutti gli effetti degli aggettivi. Voghera elenca anche polirematiche pronominali (noi altri, chissà chi), avverbiali (a caldo, in linea di massima), preposizionali (a carico di, riguardo a), congiunzionali (dopo che, fermo restando che), interiettive (porca miseria, alla faccia) (ibid.: 65-69). Dunque, ad eccezione degli articoli, tutte le parti del discorso presentano esempi di locuzioni costituite da più parole.
Quanto alla loro formazione, Jezek (2005: 185-187) ipotizza che il passaggio dalla combinazione di parole a parola sintagmatica trovi una spiegazione «nella tendenza delle parole che frequentemente co-occorrono nella catena sintagmatica a formare delle sorte di “aggregazioni” lessicali» che, rianalizzate come parole singole, perdono gradualmente i confini interni di parola. Nella fase finale gli elementi della sequenza tendono a unirsi anche graficamente (➔ univerbazione), non prima però di aver attraversato una fase più o meno lunga di oscillazioni, puntualmente registrate dai dizionari. Così, ad es., il Sabatini-Coletti (2007) registra alcuni lemmi nella doppia forma: nontiscordardimé o non ti scordar di me, non violenza o nonviolenza (entrambi ascritti alla classe dei nomi), nord-occidentale o nordoccidentale (aggettivo), nondimeno o non di meno (congiunzione).
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