Abstract
È esaminato il profilo delle parti nel processo amministrativo, alla luce della disciplina del codice del processo amministrativo, al fine di evidenziare le peculiarità – e le criticità – rispetto alla precedente disciplina, nonché in confronto al modello processual-civilistico.
Il tema delle parti, in quanto strettamente connesso al tipo di processo in cui sono destinate a operare (Migliorini, L., Parti: III) Diritto processuale amministrativo, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1990, 1 ss.), nel processo amministrativo è stato storicamente definito rispetto al modello del giudizio impugnatorio (Travi, A., Lezioni di giustizia amministrativa, XI ed., Torino, 2014, 230 ss.), caratterizzato dalla centralità della domanda costitutiva di annullamento di un atto dell'amministrazione. Ciò spiega perché in questo processo le parti necessarie siano state individuate in base al criterio oggettivo dell’atto, e abbiano finito per coincidere con i soggetti minimi – la pubblica amministrazione e il ricorrente – tra cui instaurare il rapporto processuale in presenza di una domanda diretta a contestare un atto, in cui si estrinseca il potere di cui è titolare l’amministrazione (Benvenuti, F., Parte (dir. amm.), in Enc. Dir., XXXI, Milano, 1981, 962 ss). Anche l’individuazione del terzo rispetto a quei soggetti minimi, e la sua possibile qualificazione come parte necessaria, si è giovata del criterio oggettivo dell’atto, secondo cui è parte necessaria il soggetto direttamente contemplato nell’atto o individuabile in base al vantaggio che l’atto gli attribuisce. Quando però anche nel processo amministrativo l’attenzione si è progressivamente spostata sulla concreta dinamica degli interessi, oltre la loro cristallizzazione nello schema di atto in contestazione, è stata proprio la posizione dei terzi a mostrare le più vistose crepe di tutela, e la più seria violazione del principio del contraddittorio. Il recepimento nel processo amministrativo di questo principio, con l’essenziale regola della parità delle parti che deve essere effettiva e garantita in ogni stato e grado della controversia (art. 2 c.p.a.), e il venir meno della centralità del giudizio impugnatorio, hanno perciò riproposto il problema dell’esatta identificazione delle parti, centrale in un processo che, sebbene il giudizio riguardi l’atto di un soggetto pubblico, si configura come un processo di parti in senso stretto, secondo il modello di tutela delineato dall’art. 24 Cost. (Cons. St., A.P., 27.4.2015, n. 5) a protezione di posizioni giuridiche soggettive di interesse legittimo e, nei casi di giurisdizione esclusiva, di diritto soggettivo (Romano, A., Giurisdizione amministrativa e limiti della giurisdizione ordinaria, Milano, 1975, 306 ss.; Scoca, F.G., Interessi protetti (Dir. amm.), in Enc. giur. Treccani, Roma, 1989, 1 ss.; Cannada Bartoli, E., Interesse (diritto amministrativo) in Enc. dir., XXII, Milano, 1972, 1 ss.; Romano Tassone, A., Situazioni giuridiche soggettive (diritto amministrativo), ivi, Agg., II, 966 ss.).
Rispetto alla parte sono state individuate differenti gradazioni di capacità, la capacità di esser parte e quella processuale, corrispondenti, rispettivamente, alla capacità giuridica e alla capacità di agire trasportate nel processo (Costa, S., Parti (dir. proc. civ.), in Noviss. Dig., XII, Torino, 1965, 499). La capacità di esser parte configura il cd. titolo o possibilità giuridica dell’azione ed è riconosciuta in astratto, sul presupposto che chi agisce in giudizio vi abbia anche un interesse (art. 100 c.p.c.). Nel processo amministrativo, sulla falsariga di quello civile, detta capacità è soggetta a tre condizioni fondamentali e si declina come legittimazione a ricorrere, discendente dalla speciale posizione qualificata di chi agisce in giudizio rispetto all’esercizio del potere amministrativo; come legitimatio ad causam, o legittimazione attiva/passiva, discendente dall’affermazione di colui che agisce/resiste in giudizio di essere titolare del rapporto controverso dal lato attivo o passivo, e come interesse a ricorrere, discendente dall’utilità del provvedimento richiesto «inteso come mezzo per acquisire all’interesse leso la protezione accordata dal diritto» (Cons. St., 11.4. 2015, n. 1259; TAR Puglia, Lecce, 8.4.2015, n. 1118).
La legittimazione al ricorso si definisce non secundum eventum litis, ma con riferimento alla causa petendi della domanda, cui è storicamente correlata (Sordi, B., Interesse legittimo, in Enc. dir., Annali, II, t. 2, Milano, 2008, 714) e perciò dipende dalla titolarità di una posizione giuridica soggettiva del ricorrente, di interesse legittimo o, nei casi di giurisdizione esclusiva, anche di diritto soggettivo, che serve a distinguerlo dal quisque de populo. Sono, pertanto, da considerarsi eccezionali, e poste in deroga all’art. 81 c.p.c., le ipotesi di legittimazione per la tutela di posizioni giuridiche non proprie del ricorrente, quando l’azione sia data per la tutela dell’amministrazione, dell’interesse generale alla correttezza dell’azione amministrativa, con conseguente riduzione dell’interesse che muove il ricorrente a semplice strumento di protezione dell’interesse pubblico.
È questo il caso dell’azione popolare (art. 130 c.p.a.; art. 9 d.lgs. 18.8.2000, n. 267), in cui manca una domanda in senso sostanziale, data infatti non per l’affermazione della giustizia in favore di chi agisce, ma solo di una legalità oggettiva. Fuori da queste ipotesi, il giudice – al contrario – non si limita al controllo della mera affermazione proveniente da chi agisce/resiste in giudizio di essere titolare del rapporto controverso dal lato attivo o passivo (Cons. St., 21.6.2013, n. 3404), ma si spinge sino all’accertamento di merito dell’effettiva titolarità della posizione vantata, sino a metterla in discussione, per mancanza del requisito della “personalità”, nei casi di successione a titolo particolare di un interesse c.d. pretensivo (Cons. St., 7.3.2013, n. 1403; Tar Campania, Napoli, 20.3.2013, n. 1552). La soluzione scardina la stessa irreversibile costruzione della natura sostanziale dell’interesse e determina, con la mancata applicazione dei principi di cui all’art. 111 c.p.c. (successione a titolo particolare nel diritto controverso), una vistosa distonia fra le posizioni di diritto soggettivo e di interesse legittimo rispetto al quadro costituzionale delle tutele loro assicurato (art. 24 Cost.).
Nel processo amministrativo l’interesse al ricorso è assimilato all’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. (Cons. St. n. 3404/2013; Cons. St. n. 1259/2015). Si tratta però di un parallelismo solo nominalistico. Nel processo civile, infatti, l’interesse cui fa riferimento la norma non è relativo al diritto sostanziale, ma al diverso e ulteriore bene costituito dalla tutela giurisdizionale, e perciò va inteso come bisogno di tutela che emerge dall’affermazione di fatti costitutivi o di fatti lesivi del diritto (Mandrioli, C., Le modifiche del processo civile, Torino, 1993, 50 ss.) o comunque presuppone un diritto di cui si deduca in giudizio uno stato di lesione (Attardi, A., Interesse ad agire, in Dig. civ., IX, Torino, 1993, 520; Sapone, N., Commento dell’art. 100 c.p.c., in Cendon, P., a cura di, Commentario al codice di procedura civile, Milano, 2012, 572 ss.). Nel processo amministrativo, invece, il profilo dell’interesse al ricorso appare configurabile solo se il provvedimento abbia causato una lesione immediata, concreta e attuale della sfera giuridica del ricorrente e dall’accoglimento del ricorso gliene derivi un vantaggio materiale o morale, concreto o potenziale (detto anche strumentale) (TAR Lombardia, Milano, 17.4.2012, n. 1136). In particolare, l’attualità dell’interesse attiene alla proiezione processuale della posizione sostanziale, all’emersione dell’esigenza di tutela per effetto di un atto concreto e sincronicamente apprezzabile di esercizio di potere, che renda dunque necessaria l’azione in giudizio al fine di ottenere tutela, e perciò utile, la pronuncia del giudice, intesa come mezzo per acquisire all’interesse leso la protezione accordata dal diritto (Cons. St., 3.9.2011, n. 4644; Cons. St. n. 1259/2015). Quando il ricorso manchi dell’astratta idoneità a far conseguire il vantaggio che il ricorrente si prefigge con la proposizione della domanda, manca una condizione dell’azione e il ricorso è dichiarato inammissibile anche d’ufficio (art. 35, co. 1, lett. b, c.p.a.). In questo processo, pertanto, l’interesse del ricorrente non è solo un criterio per individuare il soggetto legittimato ad agire in giudizio, ma identifica la posizione soggettiva su cui verte il giudizio (Travi, A., Lezioni, cit., 231) e finisce per sovrapporsi e confondersi con quello della stessa emersione dell’interesse legittimo nella sfera del giuridicamente rilevante (De Giorgi Cezzi, G., Processo amministrativo e giurisdizione esclusiva: profili di un diritto in trasformazione, in Dir. proc. amm., 2000, 732).
Legittimazione e interesse al ricorso si atteggiano in modo particolare quando l’azione è data per la protezione di un interesse non “a titolarità individuale”. Quando ad agire non sia il singolo cittadino, ma siano in gioco interessi “sovra individuali”, emergono infatti due ordini di problemi: quello del modo di essere parte nel processo dei soggetti che ne sono portatori, e quello del monopolio della tutela loro riservato: è questo il complesso tema della legittimazione delle associazioni di categoria e, più in generale, di un ente “collettivo”, esponenziale di una collettività stabile, titolare di un c.d. interesse collettivo e quella degli enti titolari di interessi non stabili e adespoti (c.d. interessi diffusi). La chiarificazione sui limiti della legittimazione dei primi ha consentito di stabilire, per differenza, quella dei secondi, a conferma dell’utilità, anche pratica, della distinzione (Alpa, G., Interessi diffusi, in Dig. civ., IX, Torino, 1993, 609 ss.; Ferrara, R., Interessi collettivi e diffusi (ricorso giurisdizionale amministrativo), in Dig. pubbl., VIII, Torino, 1993, 482 ss.).
L’ente esponenziale di una collettività stabile è titolare di un interesse cd. collettivo che si individua «attraverso l’appartenenza definita e persistente nel tempo di coloro che lo compongono a un medesimo territorio, ovvero a una medesima categoria produttiva» (Cons. St., 18.11.2013, n. 5451). I singoli associati non integrano pertanto una «aggregazione meramente seriale ed occasionale», ma si identificano in relazione a un vincolo che si presenta «come concreto (quanto al suo oggetto) e temporalmente persistente (quanto alla sua durata)» (Cons. St. n. 5451/2013).
Discusso il confine della legittimazione attiva delle associazioni di categoria. La stessa è stata loro riconosciuta, e in forma “originaria ed esclusiva”, quando fosse in gioco la tutela degli interessi della totalità degli associati, formula in cui si è in un primo tempo risolta la nozione di “interesse collettivo”. Alla lesione degli interessi riguardanti in astratto una categoria di soggetti è seguito pertanto il riconoscimento di una sorta di monopolio della tutela in capo all’ente esponenziale, con conseguente simmetrica privazione di legittimazione attiva in capo ai singoli associati per la tutela dei propri interessi. Conseguenza di questa impostazione era poi la necessaria adesione di questi ultimi a un’associazione per veder soddisfatte, per il suo tramite, le esigenze di tutela dei propri interessi (Cudia, C., Gli interessi plurisoggettivi tra diritto e processo amministrativo, Rimini, 2012, 12). La precisazione che l’ “interesse collettivo” è altra cosa dall’ “interesse di tutti” gli associati, in quanto interesse “superindividuale”, originario e proprio solo della “collettività indistinta” che nell’ente si soggettivizza, ha consentito di individuare nell’ente esponenziale il suo esclusivo titolare, perciò legittimato ad agire in giudizio per ottenere l’annullamento di un atto ritenuto lesivo degli interessi collettivi, anche quando lo stesso produca effetti favorevoli per una parte (o anche uno solo) degli appartenenti alla categoria stessa. La disomogeneità degli interessi dei singoli componenti il gruppo o la categoria rappresentata che, in base allo statuto, confluiscano nello stesso ente, pertanto, «non può incidere sulla legittimazione ad agire dell’associazione rappresentativa o dell’ente esponenziale a tutela dell’interesse collettivo oggettivato e tipizzato» (TAR Lazio, Roma, 13.1.2011, n. 260), in quanto finirebbe per «delimitare fortemente, sul piano generale, la libertà di associazione e, sul piano concreto della tutela sindacale, le possibili aggregazioni di lavoratori» (Cons. St. n. 5451/2013). Simmetricamente, si rompe il “monopolio del diritto di azione” e la legittimazione di tipo “selettivo” in favore degli enti esponenziali, e i singoli associati sono legittimati a ricorrere a tutela delle proprie posizioni soggettive lese.
I profili di legittimazione si pongono in termini ulteriormente differenti quando si tratti di soggetti titolari non di interessi propri, come sono quelli collettivi, ma che operano in ambiti in cui sono coinvolti «aspetti e valori costituzionalmente garantiti» (Cons. St., 9.1.2014, n. 36), per la cura di “beni o valori comuni”, e in funzione di valori imprescindibili della “forma di Stato” che integrano altrettanti interessi pubblici affidati alle loro cure in base al principio di sussidiarietà (art. 118 Cost.). In queste ipotesi l’accento si sposta dai profili di garanzia (artt. 2-18 Cost.) all’individuazione di un “versante attivo” dell’associazionismo, con l’emersione di forme di legittimazione ad agire per l’annullamento di atti e provvedimenti adottati in violazione delle norme in materia di danno ambientale alle «organizzazioni non governative che promuovono la protezione dell’ambiente» (art. 13, l. 8.7.1986, n. 349); o date a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti alle relative associazioni inserite nell’apposito elenco (art. 139, co. 1, d.lgs. 6.9.2005, n. 206). Si tratta di una «legittimazione “speciale”, attribuita in deroga all’art. 81 c.p.c.», in quanto a suo fondamento non vi è l’angusta titolarità di una posizione soggettiva, ma il differente e ampio collegamento fra un’associazione e una materia che esprime e coagula valori costituzionalmente garantiti ed è a un tempo causa del suo riconoscimento e ambito della sua azione (Cons. St. n. 36/2014; Cons. St., 16.6.2011, n. 3662). Anche in quest’ambito, tuttavia, non si riconoscono monopoli della tutela, e l’associazionismo torna a essere un modo di rappresentanza di un interesse collettivo, nel senso proprio di interesse «di tutti» gli aderenti (Cons. St. n. 36/2014). Pertanto sono legittimati a ricorrere anche i «comitati spontanei che si costituiscono al precipuo scopo di proteggere l’ambiente la salute e/o la qualità della vita delle popolazioni resistenti» su un territorio circoscritto, e perfino i semplici «sodalizi che, pur se articolati, o non possiedono strutture locali, o s’incentrino in forma non occasionale su dati settori del mercato o per argomenti o esigenze consumistiche stabili», purché «perseguano nel loro oggetto statutario ed in modo non occasionale obiettivi di tutela» delle predette esigenze (Cons. St., 13.9.2010, n. 6554; Cons. St., 23.5.2011, n. 3107; Cons. St., 8.8.2012, n. 4532). Si tratta di un ultimo, aggiornato tentativo di mediazione sulla portata di una formula (interesse diffuso) “ambigua”, e sulle stesse ragioni della sua tutela: stretta tra un modello oggettivo e un altro di attenuata soggettività (Nigro, M., Le due facce dell’interesse diffuso: ambiguità di una formula e mediazioni della giurisprudenza, in Foro it., 1987, V, 9 ss.), espressione di una forma di garanzia dai caratteri non definiti (Berti, G., Il giudizio amministrativo e l’interesse diffuso, in Jus, 1982, 71), ma che incanala una domanda di giustizia sostanziale (Lombardi, R., La tutela delle posizioni meta-individuali nel processo amministrativo, Torino, 2008), finendo per trasporre nel processo questioni che toccano la stessa legittimazione dell’amministrazione di fronte alla società (Berti, G., Interessi senza struttura (i c.d. interessi diffusi), in Studi in onore di Antonio Amorth, Milano, 1982, I, 67 ss.).
Anche nel processo amministrativo trova applicazione la distinzione fra parti necessarie ed eventuali. Parti necessarie sono il ricorrente, l’amministrazione che ha emanato il provvedimento impugnato, o posto in essere il comportamento lesivo, o destinataria della pretesa fatta valere nei casi di giurisdizione esclusiva e i controinteressati se esistenti. La mancata evocazione in giudizio delle parti necessarie rende invalida la sentenza, per violazione del principio del contraddittorio. Quest’ultimo «è integralmente costituito» a seguito della notifica dell’atto all’amministrazione e agli eventuali controinteressati ma, nel caso in cui «il giudizio è promosso solo contro alcune delle parti e non si è verificata alcuna decadenza», spetta al giudice ordinare l’integrazione del contraddittorio nei confronti delle altre entro un termine perentorio (art. 27, co. 1-2, c.p.a.). Parti eventuali sono i cointeressati, titolari di un interesse legittimo analogo a quello del ricorrente, oggi legittimati a spiegare intervento cd. litisconsortile, sempre che non siano decaduti dall’esercizio delle relative azioni (art. 28, co. 2, c.p.a.). È in ogni caso consentito loro l’intervento nel giudizio già pendente, accettando «lo stato e il grado in cui il giudizio già si trova» (art. 28, co. 2, c.p.a.). Possono spiegare intervento ad adiuvandum (per l’accoglimento del ricorso) o ad opponendum (per il suo rigetto) anche i titolari di un interesse giuridicamente rilevante, ma riflesso rispetto a quello azionato in via principale dal ricorrente e non direttamente coinvolto dall’atto da questi impugnato (Cons. St., 31.3.2015, n. 1687).
Spetta al ricorrente definire l’oggetto su cui verterà il giudizio mediante la proposizione del ricorso, cui può rinunciare (art. 84 c.p.c.), avendo la disponibilità dell’azione proposta, senza che le altre parti possano opporsi, salvo che non abbiano un interesse alla prosecuzione del giudizio (Cons. St. n. 1687/2015). Ricorrente può essere anche un soggetto pubblico che sia leso dall’atto di un’altra amministrazione, incidente nella sfera delle proprie attribuzioni o competenze, o sugli interessi della collettività di cui è ente esponenziale, o sulle prerogative di cui è titolare nei riguardi di altri soggetti pubblici, come nel caso del ricorso proposto dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca contro lo statuto di un Ateneo, o dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato contro gli atti posti in essere da altre amministrazioni pubbliche in violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato (art. 21 bis, l. 10.10.1990, n. 287). In questo caso la legittimazione riconosciuta all’AGCOM rientra nel sistema ordinario delle tutele (TAR Lazio, Roma, 6.5.2013, n. 4451; Cons. St., 30.4.2014, n. 2246), ed è espressione di un «ordinario potere d’azione» riconducibile «alla giurisdizione a tutela di situazioni giuridiche individuali qualificate e differenziate, benché soggettivamente riferite a un’autorità pubblica» (TAR Lazio, Roma, 15.3.2013, n. 2720; C. Cost., 14.2.2013, n. 20; in dottrina, De Giorgi Cezzi, G., Interessi sostanziali, parti, e giudice amministrativo, in Dir. amm., 2013, 405 ss.). Nei casi di giurisdizione esclusiva è inoltre possibile un processo a parti invertite (Mignone, C. -Vipiana, P.M., Manuale di giustizia amministrativa, II ed., Padova, 2013, 179), in cui ricorrente sia un soggetto pubblico e intimato un soggetto privato, come accade in materia di accordi fra privati e amministrazione (art. 133, co. 1, lett. a, n. 2, c.p.a.) o di contratti pubblici (art. 133, co. 1, lett. e, c.p.a.), o nei casi di opposizione a decreto ingiuntivo (art. 118 c.p.a.).
L’amministrazione è parte del giudizio in condizione di parità con le altre parti, nel senso specifico della parità delle armi (Travi, A., L’effettività della giustizia amministrativa, in Benvenuti, L.-Clarich, M., a cura di, Il diritto amministrativo alle soglie del nuovo secolo. L’opera scientifica di Fabio Merusi, Pisa, 2010, 56). Con la precisazione a opera dell’art. 27, co. 1, c.p.a. secondo cui l’atto introduttivo deve essere notificato «all’amministrazione», invece che «all’organo che ha emanato l’atto», come invece stabiliva l’art. 21, co. 1, legge Tar, il codice elimina le incertezze scaturenti da questa formulazione, comunque già risolte dalla giurisprudenza nel senso che l’organo non è parte del giudizio (TAR Sardegna, Cagliari, 29.10.2004, n. 1550).
Il codice del processo amministrativo prevede all’art. 41, co. 2, che «qualora sia proposta un’azione di annullamento il ricorso deve essere notificato, a pena di decadenza, alla pubblica amministrazione che ha emesso l’atto impugnato e ad almeno uno dei controinteressati che sia individuato nell’atto stesso». Il controinteressato pertanto, in quanto soggetto che ha interesse alla conservazione dell’atto impugnato, avendone tratto un vantaggio, si configura, al pari dell’amministrazione, come parte non solo necessaria, ma principale del giudizio, con conseguenti oneri e diritti: fra i primi, quello di proporre appello al fine di rimuovere una soccombenza che per ciò stesso è “principale”, con conseguente difetto di legittimazione ad assumere nel relativo giudizio una posizione adesiva di mero interveniente (Cons. St., 29.1.2015, n. 395); tra i secondi, il “diritto acquisito”, fatto salvo dall’art. 44, co. 3, c.p.a., di eccepire la decadenza dall’impugnazione per omessa notifica del ricorso nei suoi confronti (Cons. St., 21.1.2015, n. 219).
La formula utilizzata dal codice limita in modo consapevole al giudizio impugnatorio il problema dell’identificazione dei controinteressati, mostrando di non ignorare alcuni dei più significativi contributi della scienza giuridica sul punto. Fra questi, il chiarimento che il solo criterio identificativo del controinteressato è la natura sostanziale dell’interesse vantato e non il fatto di essere destinatario o meno della notificazione del ricorso principale (Satta, F., Giustizia amministrativa, Padova, 1986, 171), da cui si erano tratte aperture in ordine alla possibilità, anche per il controinteressato non intimato, di proporre ricorso incidentale (Sandulli, A.M., Il giudizio davanti al Consiglio di Stato e ai giudici sottordinati, Napoli, 1963, 277), pena la violazione del diritto di difesa (Cannada Bartoli, E., In tema di controinteressato pretermesso, in Giur. It., 1990, III, 1, 185), come oggi ammette l’art. 42, co. 1, c.p.a. Lo stesso codice tuttavia non accoglie un criterio di legittimatio ad causam di tipo sostanziale, non dissimile da quello del processo civile, già in passato invocato (Cannada Bartoli, E., Processo amministrativo, in Noviss. dig. it., XIII, Torino, 1966, 1083) proprio per garantire il principio del contraddittorio, che pure oggi informa il codice (art. 2 c.p.a.). Il criterio utilizzato è invece quello di tipo formale del diretto riferimento dell’atto al controinteressato, consistente nella sua espressa menzione o nella sua immediata individuabilità nell’atto impugnato dal ricorrente, da cui il primo ritrae un’utilità, il secondo una lesione (Cons. St., 5.9.2014, n. 4525; TAR Lazio, Roma, 5.2.2015, n. 2132). La formula dell’art. 41, co. 2, c.p.a., stabilendo che il controinteressato deve essere «individuato» in quell’atto, appare anzi ancor più restrittiva di quella dell’art. 21, co. 1, legge TAR e art. 36, co. 2, T.U. sul Consiglio di Stato che, parlando della notifica ai controinteressati «ai quali l’atto direttamente si riferisce», già rinviava a un criterio di tipo sostanziale per la loro individuazione (coloro che sono in posizione specularmente contrapposta a quella del ricorrente, titolari di interessi investiti in modo specifico e immediato dall’atto impugnato, da cui hanno tratto beneficio). La giurisprudenza amministrativa non dubita tuttavia che il criterio formale sia solo uno dei due elementi essenziali su cui si fonda la qualità di controinteressato, dovendosi affiancare un criterio sostanziale, consistente nell’essere titolare di un interesse giuridico qualificato al mantenimento degli effetti dell’atto impugnato e perciò «omologo e speculare» rispetto a quello del ricorrente (Cons. St, 27.1.2015, n. 360). Il legame fra i due criteri è dato dalla necessità che l’atto impugnato si debba riferire direttamente e immediatamente a soggetti singolarmente individuabili che abbiano perciò già acquisito grazie all’atto una posizione di vantaggio diretto e immediato, con conseguente ampliamento della propria sfera giuridica: non sono pertanto configurabili controinteressati rispetto a un atto generale (Cons. St., 15.12.2014, n. 6153; TAR Lombardia, Milano, 27.2.2015, n. 576 in tema di impugnazione dello strumento urbanistico generale); a un procedimento concorsuale o a una gara pubblica, quando l’impugnazione contro l’esclusione sia proposta prima dell’approvazione della graduatoria finale (Cons. St., 26.1.2015, n. 322) o dell’aggiudicazione (TAR Lazio, Roma, 5.3.2014, n. 2550); o rispetto all’impugnazione del diniego di un permesso di costruire (Cons. St., 12.12.2014, n. 6138).
L’apertura di C. Cost. 17.5.1995 n. 177 al rimedio dell’opposizione di terzo, oggi prevista dagli articoli 108 e 109, co. 2 c.p.a., ha portato la giurisprudenza amministrativa (Cons. St., A.P., 11.1.2007, n. 2) a successive precisazioni in ordine alla figura del controinteressato, in margine al riconoscimento della sua legittimazione a esperire il rimedio. Ne è così scaturita la distinzione fra i controinteressati pretermessi, destinatari in senso formale della sentenza pronunciata in un giudizio in cui, a causa della mancata notificazione del ricorso, non abbiano potuto far valere le proprie ragioni; i controinteressati sopravvenuti, identificati con i beneficiari dell’atto consequenziale, quando una sentenza abbia annullato un atto presupposto all’esito di un giudizio cui siano rimasti estranei e, più in generale, con coloro che abbiano conseguito un titolo abilitativo, un beneficio o uno status da un provvedimento ulteriore conseguente alla conclusione di un procedimento autonomo rispetto a quello presupposto già impugnato (Cons. St., 11.2.2014, n. 652); i cd. controinteressati occulti, soggetti di difficile identificazione in base alla lettura dell’atto impugnato; infine i terzi, soggetti del tutto estranei all’atto impugnato. Ne deriva che solo il controinteressato pretermesso assume la qualità di litisconsorte necessario, invece non riferibile né al successivo, né all’occulto né, a maggior ragione, al terzo: l’opposizione di terzo è perciò esperibile da questi ultimi solo se titolari di una posizione giuridica sostanziale differenziata, autonoma e incompatibile rispetto a quella riferibile alla parte risultata vittoriosa per effetto della sentenza oggetto di opposizione, con simmetrico difetto di legittimazione al rimedio dei soggetti titolari di una situazione giuridica derivata, ovvero dei soggetti interessati solo di riflesso, come quelli legati da rapporti contrattuali con i legittimati all’impugnazione (Cons. St., 29.1.2008, n. 230; Cons. St., 18.11.2013, n. 5451; Cons. St. n. 652/2014). La soluzione assimila la posizione dei cd. controinteressati occulti a quella dei soggetti titolari di posizione giuridiche insorte dopo la proposizione del giudizio, alla quale soltanto, a ben vedere, si può riferire la specificità del processo amministrativo rispetto a quello civile legata ai caratteri dell’azione amministrativa, capace di interferire, anche nel tempo, con gli interessi di molteplici soggetti i quali “non dovevano o, in alcuni casi, addirittura non potevano partecipare al processo e dunque diversi dai destinatari in senso formale della sentenza medesima” (C. Cost. n. 177/95). Non così nel caso dei c.d. controinteressati occulti, in cui la funzione dell’istituto torna a essere quella di assicurare la pienezza del contraddittorio, attenuando le conseguenze della rigorosa adozione del criterio formale di individuazione dei controinteressati. In questo senso milita l’art. 102, comma 1, c.p.a. che, nel consentire l’appello alle “parti fra le quali è stata pronunciata la sentenza di primo grado”, ha inteso riferirsi alle parti sostanziali secondo un criterio sostanziale (Cons. St., 25.3.2013, n. 1656), o l’art. 49, c.p.a, secondo cui «quando il ricorso sia stato proposto solo contro taluno dei controinteressati» (co. 1) lo stesso deve essere notificato (a pena di improcedibilità, art. 35, co. 1, lett. c, c.p.a), alle parti «indicate» nell’ordinanza presidenziale o collegiale (co. 3): a tutela di esigenze di integrità del contraddittorio che recedono, in favore di ragioni di economia dei mezzi processuali, quando non vi siano esigenze di difesa in quanto il ricorso è «manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondato» (co. 2).
Prevede l’art. 41, co. 2, c.p.a. seconda parte, che «qualora sia proposta azione di condanna, anche in via autonoma, il ricorso è notificato altresì agli eventuali beneficiari dell’atto illegittimo, ai sensi dell’art. 102 del codice di procedura civile, altrimenti il giudice provvede ai sensi dell’art. 49». Il codice recepisce, e in modo espresso, i principi del codice di rito che la scienza giuridica e la giurisprudenza avevano già ritenuto applicabili nell’ambito della giurisdizione esclusiva, quando la domanda non sia diretta all’annullamento dell’atto, ma all’accertamento di un rapporto o di diritti soggettivi (Picozza, E., Processo amministrativo (normativa), in Enc. dir., XXXVI, Milano, 1987, 487), anche di «origine pubblicistica», scaturenti da una convenzione di lottizzazione (Tar Sardegna, Cagliari, 4.8.2011, n. 880) o da una istanza di accesso ai documento amministrativi (TAR Trentino Alto Adige, Trento, 5.1.2009, n. 249) o dall’occupazione di beni di cui si chieda la restituzione e conseguente risarcimento dei danni (TAR Friuli-Venezia Giulia, Trieste, 3.12.2014, n. 609; TAR Toscana, Firenze, 28.1.2013, n. 134). In queste ipotesi il processo abbandona le regole del giudizio impugnatorio e si svolge secondo i principi del codice di rito: nel caso di omessa notifica, pertanto, il ricorso non può essere dichiarato inammissibile e nello stesso si applicano le ordinarie regole di integrazione del contraddittorio di cui all’art. 102, co. 2, c.p.c. (TAR Abruzzo, Pescara, 8.7.2014, n. 328). Con la previsione si registra un caso in cui il legislatore ha dato piena attuazione all’esigenza di superare lo «squilibrio fra la materia della sua giurisdizione e il relativo processo», derivante dal mancato adeguamento delle regole procedurali del 1907 restate ferme anche dopo l’introduzione nel 1923 di casi di giurisdizione esclusiva (Cannada Bartoli, E., Processo amministrativo, cit., 1077).
Artt. 2, 18, 24, 118 Costituzione; artt. 2, 27, 28, 35, 41, 42, 44, 49, 102, 108, 109, 118, 130, 133, d.lgs. 2.7.2010, n. 104 (Codice del processo amministrativo); artt. 81, 84, 100, 102, 111 c.p.c.; art. 13, l. 8.7.1986, n. 349; art. 9, d.lgs. 18.8.2000, n. 267; art. 139, d.lgs. 6.9.2005, n. 206.
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